Sentenza n. 190 del 1971
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SENTENZA N. 190

ANNO 1971

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE 

composta dai signori giudici:

Prof. Michele FRAGALI, Presidente

Prof. Costantino MORTATI

Prof. Giuseppe CHIARELLI

Dott. Giuseppe VERZÌ

Dott. Giovanni Battista BENEDETTI

Prof. Francesco Paolo BONIFACIO

Dott. Luigi OGGIONI

Dott. Angelo DE MARCO

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI

Prof. Vezio CRISAFULLI

Dott. Nicola REALE

Prof. Paolo ROSSI,

ha pronunciato la seguente   

SENTENZA 

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale degli artt. 106, 350, secondo comma, 408, secondo comma, 447, 448 e 449 del codice di procedura penale, promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 9 dicembre 1969 dal pretore di Iseo nel procedimento penale a carico di Dalola Guido, iscritta al n. 21 del registro ordinanze 1970 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 37 dell'11 febbraio 1970;

2) ordinanza emessa il 4 dicembre 1970 dal tribunale di Bergamo nel procedimento penale a carico di Rota Adelino ed altro, iscritta al n. 57 del registro ordinanze 1971 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 87 del 7 aprile 1971.

Visto l'atto d'intervento del Presidente del consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 27 ottobre 1971 il Giudice relatore Nicola Reale;

udito il sostituto avvocato generale dello Stato Franco Chiarotti, per il Presidente del Consiglio dei ministri.  

Ritenuto in fatto 

Nel corso del procedimento penale a carico di Dalola Guido il pretore di Iseo ha sollevato, in riferimento agli articoli 3 e 24, secondo comma, della Costituzione, la questione di legittimità degli artt. 106, 350, secondo comma, 408, secondo comma, 447, 448 e 449 del codice di procedura penale, nelle parti in cui prevedono l'obbligo della testimonianza a carico della persona offesa dal reato, che nello stesso giudizio penale siasi costituita parte civile per la tutela del diritto alle restituzioni od al risarcimento del danno.

E ciò in quanto, si rileva nell'ordinanza, tale normativa, dal punto di vista dell'imputato, lederebbe il principio di uguaglianza, perché fra attore (parte civile) e convenuto (imputato) solo il primo può porre se stesso come fonte di prova, con la propria testimonianza; e lederebbe altresì il diritto di difesa, perché, essendo la testimonianza una prova, tale prova sarebbe accessibile solo ad una delle due parti. Lo stesso sistema, d'altronde, esaminato dal punto di vista della parte civile, contrasterebbe col principio di uguaglianza e col diritto di difesa, in quanto l'attore sarebbe costretto a dire la verità (al che lo obbligherebbe il giuramento) ed a testimoniare anche contra se, mentre non può pretendere altrettanto dall'imputato.

Costituitasi in rappresentanza del Presidente del Consiglio dei ministri, l'Avvocatura generale dello Stato, a sostegno della non fondatezza della questione in esame, ha osservato che la disciplina della posizione della parte civile nel processo penale risente della necessaria subordinazione dell'interesse privatistico rispetto all'accertamento del reato, che costituisce l'oggetto principale del processo penale.

Nella specie non si profilerebbe comunque un contrasto col principio di uguaglianza. L'asserita disparità di trattamento fra le parti del giudizio di danno, a detrimento della parte civile, pur realizzando una deroga al principio di diritto processuale civile nemo tenetur edere contra se, sarebbe giustificato (secondo l'indirizzo interpretativo segnato in merito all'art. 3 Cost. dalla giurisprudenza costituzionale) dal fatto che l'azione civile di risarcimento é intentata davanti al giudice penale soltanto in ragione della connessione con i fatti aventi prevalente rilevanza per l'accertamento del reato.

E questa stessa peculiare connessione della materia civile con l'accertamento in sede penale escluderebbe altresì la violazione del diritto di difesa, la cui esplicazione deve essere armonizzata con l'interesse pubblico che domina la disciplina del processo penale ed esige che la stessa parte civile collabori in modo veritiero alla prova.

Contro l'osservazione del giudice a quo, per cui vi sarebbe lesione del diritto di difesa per il fatto che la sola deposizione della parte civile costituirebbe fonte di prova, l'Avvocatura contesta che ciò risulti da alcuna disposizione legislativa, ed obietta, anzi che contrasterebbe col principio del libero convincimento del giudice penale, al quale é data potestà di apprezzare, ai fini della prova, anche le dichiarazioni rese dall'imputato nell'esercizio della difesa.

Analoga questione, in relazione al solo art. 3 della Costituzione, é stata sollevata, circa la legittimità dell'art. 106 cod. proc. pen., anche dal tribunale di Bergamo il quale ha motivato che l'obbligo della testimonianza, imposto alla parte civile, altererebbe l'equilibrio processuale dei soggetti aventi interesse al giudizio per il risarcimento del danno.  

Considerato in diritto 

1. - Secondo l'assunto del pretore di Iseo, cui con ordinanza di meno ampio contenuto aderisce il tribunale di Bergamo, l'art. 106 cod. proc. pen., recante l'obbligo della testimonianza a carico della parte civile, e gli artt. 350, secondo comma, 408, secondo comma, 447, 448 e 449 dello stesso codice nelle parti volte a disciplinare l'assolvimento del detto obbligo, lederebbero il principio di uguaglianza (art. 3 Cost.) e quello dell'inviolabilità del diritto di difesa (art. 24, secondo comma, Cost.), così riguardo all'imputato come riguardo alla parte civile. Nei confronti del primo risulterebbero violati il principio di uguaglianza, perché soltanto alla parte civile é concesso di rendere la testimonianza, ponendo se stessa quale fonte di prova, ed il diritto di difesa perché, essendo la testimonianza una prova, questa é resa accessibile soltanto ad una delle parti.

Lo stesso sistema, esaminato poi dal punto di vista della parte civile, lederebbe parimenti tanto il principio di uguaglianza quanto il diritto di difesa, giacché l'attore (parte civile) sarebbe costretto a testimoniare secondo verità ed anche contra se, mentre non può pretendere analogo comportamento dall'imputato.

2. - Le questioni non sono fondate.

É indubbio che l'esercizio dell'azione civile per le restituzioni e per il risarcimento dei danni da reato é, nel processo penale, regolato dal legislatore, nei limiti della sua discrezionalità e per fini di utilità generale, diversamente dall'esercizio dell'azione medesima davanti al giudice civile. E non é meno indubbio che nei due sistemi risulta diversamente disciplinata la testimonianza.

Tali differenze normative sono, però, inevitabili effetti dell'applicazione del principio della preminenza della giurisdizione penale su quella civile, quale, in dipendenza di una scelta legislativa non irrazionale, é riconosciuta nel nostro ordinamento a corollario della prevalenza dell'interesse pubblico all'accertamento dei reati rispetto all'interesse collegato alla risoluzione delle liti civili. Si tratta dello stesso pubblico interesse che informa l'obbligatorietà dell'azione penale (articolo 112 Cost.) e da cui promana il principio, fondamentale nel processo penale, dell'assenza di limiti legali alla libera ricerca e alla valutazione delle prove da parte del giudice; limiti che invece non mancano nella disciplina del processo civile.

Lo stesso criterio di preminenza della giurisdizione penale trova, invero, significativa espressione legislativa, allorché lo stesso fatto sia configurabile, nel contempo, come illecito penale e come illecito civile e si prospetti, quindi, in ordine ad esso l'opportunità che siano evitati contrasti di giudicati. Dal che deriva razionalmente la subordinazione dei giudizi civili, amministrativi e disciplinari (salve le eccezioni di cui agli artt. 19 e 20 c.p.p.) a quello penale, e la conseguente autorità del giudicato in questo formatosi, in particolare rispetto al giudizio per le restituzioni e per il risarcimento del danno (art. 27 c.p.p.) o ad altri giudizi civili e amministrativi (art. 28 c.p.p.), come é stato affermato nelle recenti sentenze nn. 108/1970 e 55/1971.

3. - Ciò premesso la Corte non ritiene che la normativa impugnata, per quanto riguarda la parte civile, sia illegittima sotto i due aspetti sopra indicati.

Secondo la ormai costante sua giurisprudenza, il principio di uguaglianza assicura ad ognuno parità di trattamento in situazioni non differenziate. Le modalità di esercizio del diritto di difesa, pertanto, possono essere legittimamente disciplinate in modo diverso, purché rispondenti alle caratteristiche di ciascun procedimento, con l'ovvio limite che non rimanga vanificato o reso estremamente difficoltoso l'esercizio del diritto stesso.

Ora, dall'accennata subordinazione della disciplina della costituzione di parte civile a quella propria del giudizio penale, ai cui fini é preordinato l'obbligo dell'offeso dal reato (anche se agisca in tale sede per il perseguimento della pretesa riparatoria) di rendere la testimonianza, nei casi di legge anche sotto vincolo di giuramento, quando sia informato dei fatti per i quali si procede, discende il dovere imposto al soggetto stesso, sanzionato penalmente nell'art. 372 del codice penale, di dire tutta la verità e null'altro che la verità. Ciò eventualmente anche in merito a circostanze di fatto che possano influire in senso sfavorevole sulla decisione circa la pretesa riparatoria. E, considerandosi che il soggetto costituitosi parte civile é indicato talvolta come il principale e finanche come l'unico testimone per la ricostruzione storica dei fatti dedotti nell'imputazione, non si vede come i principi costituzionali di uguaglianza e di difesa, invocati dalle ordinanze, possano giustificarne il diniego da parte di lui di cooperare all'accertamento dei fatti predetti, ponendosi su piano diverso da quello di altri soggetti sui quali grava il dovere della testimonianza, secondo le norme dettate al riguardo dal codice di procedura penale.

Del resto anche per quanto concerne il processo civile, nel cui ambito, si sostiene nelle ordinanze, sarebbe consentito alle parti di esimersi dall'enunciazione di circostanze contrastanti con propri assunti difensivi, é opportuno ricordare essere previsto dal codice di procedura civile il dovere per le parti di comportarsi in giudizio con lealtà e probità; dovere dalla cui inosservanza discendono anche peculiari responsabilità.

Né con il precetto dell'uguaglianza contrasta la diversa funzione riconosciuta dall'ordinamento processuale penale all'esame testimoniale della parte civile rispetto all'interrogatorio dell'imputato.

La prova offerta dall'esame suddetto é direttamente soggetta alla valutazione critica del giudice, onde egli possa basare su di essa la decisione della causa o debba disattenderla come non veridica.

D'altro canto le dichiarazioni dell'imputato, mentre non sfuggono anch'esse ad un controllo di veridicità, particolarmente quando vengono richiamati ulteriori fatti e circostanze il cui accertamento possa condurre alla giusta decisione, tuttavia costituiscono essenzialmente mezzo di difesa correlato alla contestazione dell'accusa. Come é noto l'interrogatorio dell'imputato é volto anzitutto a consentirne la difesa ed é dominato, quindi, in riferimento all'oggetto della decisione penale, dal principio costituzionale che garantisce in ogni stato e grado del giudizio l'esercizio della difesa medesima.

Se, però, all'imputato non é imposto l'obbligo di dire la verità, che vige per altri soggetti, tuttavia non può disconoscersi che su di lui, e nel suo stesso interesse, ricade quanto meno l'onere di dichiarazioni, cui il giudice possa riconoscere valore di attendibile fonte di prova, non diretta semplicemente alla tutela di situazioni di natura patrimoniale, quali sono quelle che caratterizzano invece l'istituto della parte civile.

4. - Alla stregua delle precedenti considerazioni esula anche l'asserita violazione degli artt. 3 e 24 della Costituzione in danno dell'imputato, sul presupposto che la parte civile, rendendo la testimonianza, possa, a differenza dell'imputato stesso, porsi quale fonte di prova. Basti osservare in contrario che il rilievo, svolto dall'ordinanza del tribunale di Bergamo, ha scarsa importanza nel sistema positivo, dominato, come si é già detto, dal principio della libera valutazione delle prove nel processo penale. Non é escluso, infatti, che il giudice, argomentando per un verso dalle dichiarazioni dell'imputato, ed in genere dal suo contegno, e dalle prove da lui dedotte e per altro verso dall'interesse che al trionfo dell'accusa possa avere la parte civile, ne valuti la testimonianza in senso ad essa sfavorevole.  

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE 

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 106, 350, secondo comma, 408, secondo comma, 447, 448 e 449 del codice di procedura penale, sollevate con le ordinanze di cui in epigrafe, dal pretore di Iseo e dal tribunale di Bergamo, in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione.  

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 novembre 1971.

Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ - Giovanni Battista BENEDETTI - Francesco Paolo BONIFACIO - Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo Michele TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI - Nicola REALE - Paolo ROSSI

 

Depositata in cancelleria il 30 novembre 1971.