Sentenza n. 177 del 1971
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SENTENZA N. 177

ANNO 1971

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE 

composta dai signori giudici:

Prof. Michele FRAGALI, Presidente

Prof. Costantino MORTATI

Prof. Giuseppe CHIARELLI

Dott. Giuseppe VERZÌ

Dott. Giovanni Battista BENEDETTI

Prof. Francesco Paolo BONIFACIO

Dott. Luigi OGGIONI

Dott. Angelo DE MARCO

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI

Prof. Vezio CRISAFULLI

Dott. Nicola REALE

Prof. Paolo ROSSI,

ha pronunciato la seguente   

SENTENZA 

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 515, ultimo comma, del codice di procedura penale, promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanze emesse il 28 gennaio 1970 ed il 13 novembre 1970 dalla Corte d'appello di Genova nei procedimenti penali rispettivamente a carico di Burnengo Giuseppe ed altri e di Romeo Arturo e Marco, iscritte ai nn. 65 e 366 del registro ordinanze 1970 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 82 del 1 aprile 1970 e n. 35 del 10 febbraio 1971;

2) ordinanze emesse il 25 febbraio 1970 e l'11 marzo 1970 dal tribunale di Lecce nei procedimenti penali rispettivamente a carico di Ventura Francesco ed altri e di De Vergori Alessandro ed altri, iscritte ai nn. 147 e 159 del registro ordinanze 1970 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 136 del 3 giugno 1970 e n. 143 del 10 giugno 1970;

3) ordinanza emessa il 24 aprile 1970 dal tribunale di Venezia nel procedimento penale a carico di Casarin Dante, iscritta al n. 255 del registro ordinanze 1970 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 254 del 7 ottobre 1970.

Visti gli atti di costituzione di Romeo Marco e Casarin Dante;

udito nell'udienza pubblica del 13 ottobre 1971 il Giudice relatore Enzo Capalozza;

udito l'avv. Gian Domenico Pisapia, per il Romeo.  

Ritenuto in fatto 

1. - Nel corso di un procedimento penale a carico di Giuseppe Burnengo ed altri, la Corte d'appello di Genova, con ordinanza del 28 gennaio 1970, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 515, ultimo comma, del codice di procedura penale, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, adducendo, principalmente, gli argomenti appresso riassunti.

La disposizione denunziata, che consente al pubblico ministero presso il giudice d'appello di proporre gravame incidentale, quando quello principale sia stato proposto dal solo imputato, darebbe luogo, anzitutto, ad una disparità di trattamento fra pubblico ministero e imputato. Quest'ultimo, infatti, oltre a non avere un eguale diritto, sarebbe anche privato della facoltà di determinare, con la sua rinunzia al gravame, il passaggio in giudicato della sentenza da lui impugnata; invece, il pubblico ministero, con l'appello incidentale, avrebbe a disposizione un mezzo anomalo di rimessione in termini, senza alcun controllo giurisdizionale del suo operato.

Risulterebbe, inoltre, una disparità di trattamento tra gli stessi coimputati, perché l'appello incidentale ha effetto solo contro chi ha proposto gravame e non contro il non appellante che non partecipi al giudizio di secondo grado, mentre questi si giova, in taluni casi, degli effetti estensivi dell'impugnazione dell'imputato appellante: art. 203 cod. proc. pen.

Si avrebbe, infine, una menomazione del diritto della difesa, in violazione dell'art. 24 della Costituzione, per l'imputato appellante, il quale, per il fatto stesso di aver impugnato una sentenza ritenuta pregiudizievole, si troverebbe esposto a subire conseguenze di tipo sanzionatorio, più che di giustizia sostanziale.

2. - La medesima questione é stata sollevata, in termini sostanzialmente identici, dalla stessa Corte d'appello di Genova, nel corso di un procedimento penale a carico di Arturo Romeo e Marco Romeo, con ordinanza del 13 novembre 1970.

3. - In un procedimento penale a carico di Dante Casarin, il tribunale di Venezia, con ordinanza del 24 aprile 1970, ha prospettato la medesima questione, in riferimento agli artt. 24 e 112 della Costituzione.

A giudizio del tribunale, la norma censurata, sia in quanto consente ad una sola delle parti una duplicità di rimedi ed una franchigia dal rispetto dei termini, sia, specialmente, per il carattere di ritorsione in danno dell'imputato che eserciti legittimamente il suo diritto, sarebbe di gravissimo pregiudizio alla garanzia fondamentale della difesa e violerebbe, altresì, il principio dell'obbligatorietà dell'azione penale, per il fatto di consentire al titolare della potestà di impugnazione una contraddittorietà di comportamento (lasciar decorrere i termini per l'appello e proporre, poi, il gravame).

Quanto alla rilevanza della questione, il tribunale ha osservato che, sebbene l'appello incidentale fosse stato preceduto da quello in via principale del pubblico ministero presso il giudice di primo grado, quest'ultimo gravame, non essendo stato seguito dalla presentazione dei motivi ed essendo, perciò, inammissibile, non precluderebbe la proposizione del successivo appello incidentale.

4. - Con due ordinanze di identico contenuto, emesse il 25 febbraio e l'11 marzo 1970, nel corso di due distinti procedimenti penali, rispettivamente contro Francesco Ventura ed altri e Alessandro De Vergori ed altri, il tribunale di Lecce, nel sollevare questione di legittimità costituzionale dell'ultimo comma dell'art. 515 cod. proc. pen., ha osservato che l'appello incidentale, essendo consentito solo al pubblico ministero e non anche alle altre parti del processo, senza essere giustificato da una sostanziale disparità di situazioni processuali, violerebbe il precetto dell'art. 3 della Costituzione.

5. - Tutte le ordinanze, dopo le notificazioni e comunicazioni di rito, sono state pubblicate nella Gazzetta Ufficiale.

Nei giudizi dinanzi a questa Corte non ha spiegato intervento il Presidente del Consiglio dei ministri; delle parti private si sono costituiti solo Dante Casarin e Marco Romeo.

La difesa del Romeo, nel richiamarsi alle argomentazioni delle ordinanze della Corte d'appello di Genova, rileva che la norma denunziata, introdotta nel vigente codice di rito penale con l'intento di porre uno sbarramento ad eventuali impugnazioni infondate, aggrava lo squilibrio di trattamento tra imputato e pubblico ministero.

Né tale squilibrio, ad avviso della difesa, potrebbe correggersi consentendo anche all'imputato l'appello incidentale, dato che il pubblico ministero, in caso di rigetto del proprio appello incidentale, non va incontro, a differenza dell'imputato, a nessuna conseguenza di tipo sanzionatorio (lato sensu). Il che confermerebbe il carattere vessatorio della norma denunziata, reso ancor più grave dal fatto che l'appello incidentale del pubblico ministero resterebbe in vita ed avrebbe corso anche se vi sia stata successiva rinunzia dell'imputato alla propria impugnazione, cioè se l'impugnazione di questo non sia più operante.

Non potrebbe ravvisarsi una giustificazione neppure nella peculiare posizione istituzionale del pubblico ministero (cui é già consentito un termine per l'impugnazione notevolmente superiore a quello di cui dispone l'imputato: art. 199 cod. proc. pen.); in quanto, secondo la giurisprudenza di questa Corte, la parità di posizione delle parti nel processo penale sarebbe anch'essa un aspetto fondamentale del diritto di difesa, al pari dell'autodifesa e della difesa tecnica.

Sulla disparità di trattamento tra gli stessi coimputati viene, infine, osservato che, mentre per alcuni di essi resterebbe ferma la decisione del primo giudice, potrebbe, invece, ulteriormente aggravarsi la posizione dell'imputato appellante, dappoiché l'appello incidentale del pubblico ministero, entro i capi impugnati dalla sentenza, può estendersi a punti della decisione diversi da quelli cui si riferiscono i motivi dedotti dall'imputato, con una conseguente maggiore possibilità di reformatio in pejus.

Anche la difesa del Casarin, rifacendosi agli argomenti addotti dal giudice a quo, sostiene che la norma denunziata é da dichiarare illegittima, indipendentemente dalla sua controversa interpretazione da parte della giurisprudenza.  

Considerato in diritto 

1. - Le ordinanze di rimessione hanno lo stesso oggetto e i relativi giudizi possono, pertanto, essere riuniti e decisi con unica sentenza.

2. - Dette ordinanze sottopongono a questa Corte la questione di legittimità dell'art. 515, quarto comma, del codice di procedura penale, che regola l'istituto dell'appello incidentale del pubblico ministero, prospettandone il contrasto con gli artt. 3 e 24 della Costituzione (Corte d'appello di Genova, 28 gennaio e 13 novembre 1970); con l'art. 3 (tribunale di Lecce, 25 febbraio e 11 marzo 1970); con gli artt. 3, 24 e 112, tribunale di Venezia, 24 aprile 1970).

3. - Ad avviso di questa Corte, le censure mosse dalle ordinanze di rimessione sotto il profilo della disparità di trattamento nell'esercizio del diritto di difesa (artt. 3 e 24, secondo comma, Cost.) - che se isolatamente considerate potrebbero dar luogo a perplessità sulla loro fondatezza - prese nel loro complesso giustificano la dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma denunziata. E, invero, l'appello incidentale, essendo consentito ad una sola delle parti nel processo, turba l'equilibrio del contraddittorio, che si polarizza nell'imputato (e nel suo difensore), da un lato, e, dall'altro, nel pubblico ministero, portatori di interessi solitamente contrapposti (vedi sentenza n. 190 del 1970).

E la fondatezza delle censure é avvalorata dall'inciso, contenuto nello stesso art. 515, quarto comma, cod. proc. pen., relativo all'inefficacia, ai fini del prosieguo del giudizio di secondo grado, della rinuncia dell'imputato al proprio appello; e dall'ultima parte di detto articolo, relativa al coimputato non appellante.

4. - É, comunque, assorbente il profilo della violazione dell'art. 112 della Costituzione, dato che il potere di impugnazione - come é stato posto in rilievo dal tribunale di Venezia (ordinanza 24 aprile 1970) - é un'estrinsecazione ed un aspetto dell'azione penale, un atto conseguente - obbligatorio e non discrezionale - al promovimento dell'azione penale (beninteso, con gli stessi limiti di comportamento che il pubblico ministero ha rispetto alla notitia criminis, dopo la quale può convincersi a proporre al giudice istruttore il decreto di non promovimento, oppure, in istruttoria o in udienza, l'assoluzione o una pronuncia più favorevole a fronte della contestazione dell'accusa): vale a dire un atto dovuto, che si concreta nella richiesta al giudice superiore di emettere una diversa decisione, più conforme alla pretesa punitiva, e di rimuovere il pregiudizio che, a criterio dell'organo dell'accusa, la precedente statuizione abbia arrecato alla realizzazione di essa. Un carattere tale da non consentire che il pubblico ministero (quale istituto), titolare di questo potere-dovere, tenga un comportamento contraddittorio: quello di lasciar scadere i termini per l'impugnazione, manifestando implicitamente il convincimento che l'esercizio dell'azione penale non debba esprimersi anche nella proposizione dell'appello; e di esperire successivamente il gravame, fuori dei termini ordinari stabiliti dal codice per il suo appello principale: e ciò allo scopo pratico di contenere l'iniziativa dell'imputato (Lav. Prep., vol. VII, pag. 74), che é quanto dire di ostacolarne l'esplicazione del diritto di tutela giurisdizionale e di difesa giudiziaria (ex art. 24, primo e secondo comma, Cost.).  

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE 

dichiara la illegittimità costituzionale dell'art. 515, quarto comma, del codice di procedura penale.  

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 novembre 1971.

Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ - Giovanni Battista BENEDETTI - Francesco Paolo BONIFACIO - Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo Michele TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI - Nicola REALE - Paolo ROSSI

 

Depositata in cancelleria il 17 novembre 1971.