Sentenza n. 167 del 1971
 CONSULTA ONLINE 

SENTENZA N. 167

ANNO 1971

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE 

composta dai signori giudici:

Prof. Giuseppe BRANCA, Presidente

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Prof. Giuseppe CHIARELLI

Dott. Giuseppe VERZÌ

Dott. Giovanni Battista BENEDETTI

Prof. Francesco Paolo BONIFACIO

Dott. Luigi OGGIONI

Dott. Angelo DE MARCO

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI

Prof. Vezio CRISAFULLI

Dott. Nicola REALE

Prof. Paolo ROSSI,

ha pronunciato la seguente  

SENTENZA 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 1 della legge 3 gennaio 1951, n. 27 (modificazioni alla legge 17 luglio 1942, n. 907, sul monopolio dei sali e dei tabacchi), dell'art. 33, ultimo comma, del r.d.l. 9 gennaio 1940, n. 2 (istituzione dell'i.g.e.), e dell'art. 27 del codice penale, promosso con ordinanza emessa il 5 ottobre 1970 dal tribunale di Pisa nel procedimento penale a carico di Carnevali Elio ed altri, iscritta al n. 350 del registro ordinanze 1970 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 324 del 23 dicembre 1970.

Visto l'atto d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 16 giugno 1971 il Giudice relatore Luigi Oggioni;

udito il sostituto avvocato generale dello Stato Raffaello Bronzini, per il Presidente del Consiglio dei ministri.  

Ritenuto in fatto 

Nel corso di un procedimento penale a carico di Carnevali Elio ed altri, imputati del reato di contrabbando di Kg. 2.404 di tabacco lavorato estero, ai sensi degli artt. 148 della legge 25 settembre 1940, n. 1424; 73, 80 e 81 della legge 17 luglio 1942, n. 907, modificati dagli artt. 1, 4 e 6 della legge 3 gennaio 1951, n. 27; nonché dei reati di evasione dell'I.G.E. e del diritto compensativo sulla importazione relativamente al quantitativo di tabacchi suddetti ai sensi degli artt. 17 e 33 del r.d.l. 9 gennaio 1940, n. 2, e 44 della legge 31 luglio 1954, n. 570, il tribunale di Pisa con ordinanza 5 ottobre 1970 ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 1 della legge 3 gennaio 1951, n. 27, sul monopolio dei sali e tabacchi, in quanto prevede una pena pecuniaria proporzionale alla quantità di tabacco oggetto di contrabbando e non fissa un limite massimo, e dell'art. 27 del codice penale nella parte in cui prevede che le pene pecuniarie proporzionali non hanno limite massimo.

Con la stessa ordinanza il tribunale ha altresì sollevato questione di legittimità dell'art. 33, ultimo comma, del r.d.l. 9 gennaio 1940, n. 2, sulla istituzione dell'imposta generale sull'entrata, in quanto fa dipendere il carattere delittuoso delle violazioni ivi previste dalla connessione con altro delitto preveduto dalla legge doganale.

Il tribunale osserva che la commisurazione della sanzione alla quantità del tabacco oggetto del contrabbando costituirebbe un meccanismo repressivo proporzionato ad un dato meramente quantitativo, ed escluderebbe così la valutazione di ogni altro elemento e specialmente della capacità criminale del reo, in violazione dei principi della personalità e della umanità della pena, e comunque consentirebbe che la misura della sanzione attinga valori iperbolici tali da contraddire al fine rieducativo della pena oltre che alla umanità della stessa, ponendosi in tal modo in contrasto con l'art. 27, primo e terzo comma, della Costituzione. Queste ultime censure investirebbero anche l'art. 27 del codice penale.

Inoltre, l'art. 33 impugnato, disponendo che le violazioni dei precetti contenuti in quel provvedimento legislativo sono da considerarsi delitti "quando sono connesse ad una corrispondente violazione di legge doganale avente carattere di delitto" si porrebbe, per l'ampiezza del concetto di connessione cui farebbe riferimento, in contrasto con i criteri della tassatività della legge penale e della certezza del diritto, eludendo l'esigenza di una rigida prefigurazione della fattispecie criminosa, in violazione dell'art. 25, secondo comma, della Costituzione e giungendo a dare rilievo anche ad una mera connessione soggettiva ed occasionale, senza escludere nemmeno l'ipotesi in cui il reato doganale sia, ad esempio, successivo alla violazione finanziaria, e attribuisca così ex post alla medesima natura di delitto.

La genericità e l'ampiezza del riferimento finirebbero poi col comprendere anche il caso della connessione con reati doganali commessi da un terzo, per cui l'imputato diverrebbe passibile di sanzione penale per fatto altrui, il che urterebbe contro il principio della personalità della pena, di cui all'articolo 27, primo comma, della Costituzione.

L'Avvocatura dello Stato, costituitasi in rappresentanza e difesa del Presidente del Consiglio e del Ministro delle finanze, obbietta anzitutto che, secondo la giurisprudenza della Corte, l'art. 27, primo comma, della Costituzione affermerebbe esclusivamente il principio che ciascuno deve portare la pena solo delle proprie colpe, e non imporrebbe quindi al legislatore di determinare la pena fra un massimo e un minimo.

Anche il principio della rieducatività ed umanità della pena di cui all'art. 27, terzo comma, della Costituzione, sarebbe nella specie ininfluente, poiché esso atterrebbe ai modi di esecuzione della pena e non già ai criteri di determinazione, in astratto e in concreto, della sanzione.

Circa l'interpretazione dell'art. 33 impugnato prospettata dal giudice a quo l'Avvocatura osserva poi che essa rifletterebbe una troppo lata accezione del concetto di connessione ivi contemplato, ed afferma che la sua applicabilità va circoscritta solo alle ipotesi in cui tra la violazione delle leggi sull'i.g.e. e la corrispondente violazione della legge doganale sussistano sia un rapporto di causalità materiale sia un rapporto di causalità psichica, così che si evidenzierebbe un adeguato coefficiente di colpevolezza del trasgressore al riguardo, in armonia con i principi della tassatività e della personalità della legge penale.

Chiede pertanto dichiararsi la questione manifestamente infondata.  

Considerato in diritto 

1. - La prima questione sottoposta alla Corte riguarda la pena pecuniaria proporzionale alla quantità di tabacco oggetto del contrabbando, prevista dall'art. 1 della legge 3 gennaio 1951, n. 27, che, per la sua rigidezza e per la mancanza di un limite massimo, contrasterebbe con i principi della personalità, della umanità e della rieducatività della pena sanciti dall'art. 27, commi primo e terzo, della Costituzione.

Si deve, anzitutto, rilevare, al riguardo, che la norma impugnata prevede l'irrogazione della multa da lire 30.000 a lire 90.000 per ogni Kg. di tabacco lavorato e da lire 25.000 a lire 80.000 per Kg. di tabacco greggio, il che consente indubbiamente al giudice un certo adeguamento della pena alle circostanze oggettive e soggettive del reato. Ond'é che la censura appare riferita ad elementi in parte inesatti.

Comunque, questa Corte ha già riconosciuto che la pena pecuniaria commisurata al valore del bene oggetto della tutela penale vuole rapportare la sanzione alla gravità del reato ed é compatibile con il principio di legalità, senza che a tale sistema Si oppongano precetti costituzionali (sent. 15 del 1962): e, più specificamente, che il primo comma dell'art. 27 della Costituzione sancisce il divieto di fare valere la responsabilità penale per fatto altrui, ma non impone al legislatore di determinare la pena fra un massimo ed un minimo, mentre l'emenda del reo non può riuscire compromessa per la sola circostanza del carattere di rigidezza della pena (sent. 67 del 1963): la misura della quale é rimessa, comunque, alla valutazione discrezionale del legislatore, per cui, sotto questo profilo, sfugge al controllo di legittimità l'indagine sulla sua efficacia rieducativa (sent. 22 del 1971).

Poiché non sussistono ragioni per adottare soluzioni diverse, sono da dichiararsi infondate le questioni in esame, anche per quanto riguarda, in particolare, il profilo della lamentata violazione del principio della umanità della pena che deriverebbe, secondo il giudice a quo, dalla misura cui potrebbe in ipotesi giungere la sanzione in base al descritto meccanismo, il quale, in definitiva, si riferisce ad una pena che resta nell'ambito di quelle generalmente previste dall'ordinamento, indubbiamente compatibili, come tali, con l'esigenza di umanità affermata dalla Carta costituzionale.

Le considerazioni sopra esposte valgono anche in relazione alle questioni sollevate contro l'art. 27 del codice penale, che vanno perciò parimenti dichiarate infondate.

2. - L'altra questione sollevata nell'ordinanza di rinvio nei confronti dell'art. 33, ultimo comma, del r.d.l. 9 gennaio 1940, n. 2, poggia sostanzialmente sulla interpretazione di tale disposizione fornita dal giudice a quo, secondo cui la connessione con reati doganali, per effetto della quale, le violazioni alla legge istitutiva dell'i.g.e. sono da considerarsi delitti, si estenderebbe anche ai casi di mera connessione soggettiva od occasionale.

Ritiene tuttavia la Corte che questa opinione sia da respingere. Ed invero la norma impugnata dispone che le violazioni del decreto istitutivo dell'i.g.e. sono considerate delitto quando sono connesse con "corrispondenti" violazioni della legge doganale aventi carattere di delitto. Il termine "corrispondenti", che il legislatore ha usato per delineare la fattispecie legale presa in considerazione, presuppone l'esistenza di un nesso obbiettivo, di un legame intrinseco fra i reati; si riferisce, cioè, ai casi di connessione che si verificano quando é riscontrabile fra i reati una relazione che emana dalla stessa condotta del reo e si traduce in un vincolo, più o meno intimo, che li unisce sul piano sostanziale, e non meramente formale.

Questa interpretazione é suffragata dalla "ratio" della norma la quale, poiché mira ad apprestare una più efficace tutela penale contro determinate ipotesi di illecito, evidentemente le considera provviste di un maggiore grado di pericolosità, attribuzione questa che mal si adatterebbe ad ipotesi di reati connessi solo esteriormente.

Pertanto, in applicazione della norma impugnata, il reo viene punito in relazione ad una condotta illecita che é, indubbiamente, a lui direttamente riferibile.

La norma impugnata, in conclusione, lungi dall'eludere la rigida prefigurazione della fattispecie criminosa, statuisce una disciplina punitiva in vista di comportamenti sufficientemente determinati e direttamente riferibili al reo, e non si pone quindi in contrasto né con il principio di legalità in materia penale, il quale tende appunto a garantire il fondamento legale della potestà punitiva del giudice, né col principio della personalità della pena, secondo cui nessuno deve subire la pena per fatti non propri.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE 

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 della legge 3 gennaio 1951, n. 27, sul monopolio dei sali e dei tabacchi, e 27 del codice penale, sollevata, in riferimento all'art. 27, commi primo e terzo, della Costituzione, con ordinanza del tribunale di Pisa del 5 ottobre 1970;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 33, ultimo comma, del r.d.l. 9 gennaio 1940, n. 2, sulla istituzione della imposta generale sull'entrata, sollevata con la predetta ordinanza in riferimento agli artt. 25, comma secondo, e 27, comma primo, della Costituzione.  

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 luglio 1971.

Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ - Giovanni Battista BENEDETTI - Francesco Paolo BONIFACIO - Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo Michele TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI - Nicola REALE - Paolo ROSSI

 

Depositata in cancelleria l'8 luglio 1971.