Sentenza n. 11 del 1971
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SENTENZA N. 11

ANNO 1971

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE 

composta dai signori giudici:

Prof. Giuseppe BRANCA, Presidente

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Prof. Giuseppe CHIARELLI

Dott. Giuseppe VERZÌ

Dott. Giovanni Battista BENEDETTI

Prof. Francesco Paolo BONIFACIO

Dott. Luigi OGGIONI

Dott. Angelo DE MARCO

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI

Prof. Vezio CRISAFULLI

Dott. Nicola REALE

Prof. Paolo ROSSI,

ha pronunciato la seguente   

SENTENZA 

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 445 e 446 del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 18 gennaio 1969 dalla Corte d'appello di Venezia nel procedimento penale a carico di Patrignani Leonida e Fusetti Teseo, iscritta al n. 279 del registro ordinanze 1969 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 200 del 6 agosto 1969.

Udito nella camera di consiglio del 9 dicembre 1970 il Giudice relatore Nicola Reale.  

Ritenuto in fatto 

A seguito di istruzione formale, Patrignani Leonida e Fusetti Teseo, con sentenza del giudice istruttore di Padova in data 23 marzo 1966, venivano rinviati a giudizio davanti al tribunale della stessa città, per rispondere di vari delitti di truffa aggravata commessi, in concorso fra loro, ai danni dei fratelli Baggio; il Fusetti, inoltre, per rispondere anche del delitto di calunnia in danno del correo Patrignani, a norma dell'art. 368, primo comma, del codice penale, con l'aggravante della recidiva semplice (art. 99 c.p.).

Nel corso del dibattimento, nella pubblica udienza del 16 dicembre 1967, su richiesta del pubblico ministero, ai sensi dell'art. 445 c.p.p., al Fusetti veniva contestato altro reato di truffa commesso in danno del Patrignani e i cui elementi di fatto già risultavano dagli atti istruttori.

Con sentenza del 15 gennaio 1968, il predetto tribunale condannava il Fusetti per quest'ultimo delitto (con la concessione delle attenuanti generiche e con l'aggravante della recidiva), e lo assolveva invece dagli altri reati, indicati nel decreto di citazione a giudizio, in ordine ai quali affermava la responsabilità del solo Patrignani.

Avverso questa sentenza proponevano impugnazione entrambi gli imputati davanti alla Corte d'appello di Venezia.

All'udienza del 18 gennaio 1969 il difensore del Fusetti eccepiva la incostituzionalità degli artt. 445 e 446 c.p.p. in riferimento agli artt. 2 e 24 della Costituzione, e la Corte di appello, con ordinanza in pari data, ordinava la trasmissione degli atti a questa Corte per la soluzione delle questioni di costituzionalità delle norme predette.

La Corte ha osservato che l'art. 445, nella parte in cui disciplina la possibilità che all'imputato sia contestato neI corso del dibattimento un reato concorrente (così come una circostanza aggravante o la continuazione) risultante dagli atti istruttori o dibattimentali e non menzionato nella sentenza di rinvio a giudizio, nella richiesta o nel decreto di citazione, lederebbe i diritti inviolabili del cittadino (art. 2 Cost.), con particolare riferimento alla garanzia di difesa in giudizio (art. 24, primo comma).

E con gli stessi principi, ha aggiunto la Corte d'appello, sarebbe d'altra parte incompatibile anche l'art. 446 del c.p.p., in quanto, per la ipotesi disciplinata dalla precedente disposizione, prevede la concessione di un termine in ogni caso non maggiore di cinque giorni, insufficiente cioè per la preparazione della difesa dell'imputato.

Davanti a questa Corte non si é costituita alcuna delle parti, né ha spiegato intervento l'Avvocatura generale dello Stato nell'interesse del Presidente del Consiglio dei ministri.  

Considerato in diritto 

1. - La Corte d'appello di Venezia ha prospettato il dubbio che gli artt. 445 e 446 del codice di procedura penale siano incompatibili con la tutela costituzionale del diritto di difesa (art. 24, secondo comma), quale espressione del riconoscimento e della garanzia dei diritti inviolabili dell'uomo (art. 2 Costituzione).

Con la prima questione si censura testualmente l'art. 445, perché pregiudicherebbe il diritto dell'imputato alla difesa, consentendo che nel corso del dibattimento sia oggetto di ulteriore contestazione un reato concorrente o una circostanza aggravante o la continuazione, qualora ne risultino gli elementi costitutivi dagli atti istruttori o nel dibattimento.

La seconda questione investe, poi, l'art. 446, il quale violerebbe i ricordati precetti costituzionali in quanto, nel caso si proceda nei modi preveduti dalla precedente disposizione, stabilisce che all'imputato sia concesso un termine non maggiore di cinque giorni, insufficiente alla preparazione di una adeguata difesa.

2. - La prima questione sulla costituzionalità dell'art. 445 non é fondata.

L'istituto della contestazione suppletiva, come é noto, apporta un temperamento al principio della immutabilità del fatto dedotto nell'atto di imputazione, nei termini formalmente contestati a conclusione del procedimento istruttorio.

Esso é volto ad armonizzare il diritto dell'imputato ad esercitare la difesa, nel rispetto del principio del contraddittorio, con le obiettive esigenze della giustizia penale.

La contestazione in corso di dibattimento risponde, infatti, a finalità di ordine processuale ispirate al criterio dell'economia dei giudizi (pur fondamentale nel sistema, come affermato da questa Corte con la sentenza n. 11 del 1965), nelle ipotesi in cui la connessione delle imputazioni induca a ravvisare, fra i diversi fatti contestati, una complementarità di indagini e di accertamenti di merito, al fine della unità e coerenza della decisione.

Tale disciplina, in particolare, consente al giudice una più completa valutazione della fattispecie e, nel caso debba affermarsi la colpevolezza dell'imputato, un più probante giudizio della di lui capacità a delinquere, ai fini della irrogazione concreta della pena e delle eventuali altre misure.

Va precisato che, nell'attuazione di questi principi, l'articolo 445 pone espressamente limiti ben rigorosi. Per vero la nuova contestazione di imputazioni, ammessa nel corso del dibattimento di primo grado, é subordinata sia alla presenza dell'imputato all'udienza (o del suo difensore, nei soli casi in cui é a questi consentito di rappresentarlo con mandato speciale, ai sensi dell'art. 125 c.p.p.), sia al fatto che la competenza per materia in ordine ai nuovi reati, o comunque ai nuovi fatti, non appartenga ad un "giudice superiore o speciale". É ammessa pertanto solo la possibilità che, per effetto della connessione delle imputazioni, si verifichi attrazione, nella competenza del giudice procedente, della cognizione di reati altrimenti spettante a giudici aventi competenza inferiore. E ciò secondo un criterio che questa Corte, con riguardo alla disciplina della competenza per connessione di cui agli articoli 45 e 46 c.p.p. (sentenza n. 130 del 1963), ha affermato non contrastante con la garanzia del giudice naturale.

Inoltre, come si é già ricordato, gli estremi di fatto del reato concorrente, della circostanza aggravante o delle ulteriori violazioni della legge penale configurabili nello schema della continuazione (art. 81, secondo comma, c.p.), debbono emergere dagli atti istruttori o dalle indagini dibattimentali. Il che ha rilievo notevole ai fini dell'esercizio della difesa.

Né vanno, infine, trascurati i limiti che, in ordine alla contestazione di reati concorrenti, sono stati precisati dalla giurisprudenza prevalente.

Questa (a parte l'ipotesi assunta dalla dottrina nella figura del concorso formale di reati) inquadrando nel sistema la normativa in esame e in considerazione appunto, come si é accennato, delle esigenze del contraddittorio, ha affermato che, ai fini della contestazione dibattimentale, la nozione del reato concorrente comprende soltanto le fattispecie caratterizzate dalla connessione obiettiva, quale é indicata nell'articolo 45 n. 2 del codice di procedura penale.

In tali sensi l'ambito di simili contestazioni resta circoscritto così alle ipotesi di connessione teleologica o conseguenziale (in riferimento alle quali ha particolare rilievo anche l'applicazione dell'aggravante di cui all'art. 61 n. 2 c.p.), come a quelle in cui sussista, tra le fattispecie oggetto dell'accusa, un nesso di occasionalità. In virtù di questo si richiede un rapporto obiettivo di carattere temporale e spaziale, per effetto del quale possa dirsi che l'un reato abbia dato pretesto ed opportunità o costituisca circostanza di impulso e di agevolazione dell'altro. Donde la convenienza della contestualità del procedimento e della unitaria ricostruzione critica delle prove.

Dalle accennate nozioni rimane, conseguentemente, esclusa la connessione meramente soggettiva, preveduta nei numeri 1 e 3 e quella di cui al n. 4 dell'art. 45 del codice di procedura penale.

3. - In vista di tale suo contenuto la disposizione denunziata non può non ritenersi compatibile con la garanzia costituzionale del diritto di difesa. Anche nella specie, infatti, deve affermarsi, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, che il diritto in questione deve armonizzarsi con le particolari esigenze della giustizia penale, cui sono adattati i vari tipi di procedimento, i quali escludono talora pur la necessità di una contestazione dell'imputazione in fase istruttoria. E ciò in quanto dall'applicazione della norma stessa non può derivare effettiva menomazione o sacrificio all'esercizio della difesa.

4. - A giudizio di fondatezza conduce, invece, l'esame della seconda questione sollevata dalla Corte d'appello di Venezia, in merito all'art. 446 del Codice di procedura penale, concernente appunto le modalità di esercizio della difesa nell'ipotesi superiormente considerata.

Questa norma stabilisce che, verificandosi la contestazione in oggetto, eccetto il caso che essa riguardi la recidiva, il presidente del tribunale o il pretore avverte l'imputato che, per preparare la difesa, può chiedere un termine non maggiore di cinque giorni e non prorogabile. Se vi é richiesta, il giudice é tenuto a concedere detto termine, in misura che la giurisprudenza ammette sia fissata discrezionalmente, ed a sospendere in conseguenza il dibattimento.

Orbene nella fattispecie in esame il termine predetto, per quanto riguarda la misura massima consentita, non trova giustificazione né nella immediatezza degli elementi probatori, che questa Corte ha ritenuto legittimare l'esclusione di un termine a difesa per i reati commessi in udienza (ai sensi dell'art. 435 c.p.p. - sent. n. 92/1967), e nemmeno nella semplicità e speditezza delle prove riguardanti reati perseguibili mediante procedimento direttissimo e per i quali é stata parimenti ritenuta legittima la facoltatività della concessione del termine ai sensi dell'art. 503, terzo comma, c.p.p. (sentenza sopra citata). Nel conferire, per contro, al giudice una così limitata discrezionalità circa la misura massima del termine predetto, per di più non prorogabile, la norma denunziata può risultare lesiva del diritto dell'imputato ad una difesa, il cui svolgimento sia congruamente adeguato alle effettive, essenziali finalità di giustizia.

E ciò in quanto l'art. 446, mentre dà al giudice la facoltà di tener conto della lieve entità delle nuove contestazioni, consentendo, non senza razionale fondamento, che sia disposto il rinvio anche "ad horas" del dibattimento, non permette, invece, che costituiscano oggetto di conveniente valutazione le esigenze della difesa, allorché per la gravità delle imputazioni o per altre circostanze, si rendano necessarie più complesse e lunghe indagini per la ricerca delle prove o per lo studio e prospettazione delle questioni.

Per le esposte considerazioni l'art. 446, primo comma, del codice di procedura penale deve dichiararsi in contrasto con l'art. 24, secondo comma, della Costituzione, nella parte in cui determina in cinque giorni la misura massima del termine a difesa, precludendo al giudice di fissarlo eventualmente in misura maggiore.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE 

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 446 del codice di procedura penale, limitatamente alla parte in cui esclude che l'imputato possa chiedere e il giudice possa concedere un termine maggiore di cinque giorni per preparare la difesa;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 445 del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 2 e 24, secondo comma, della Costituzione, con l'ordinanza indicata in epigrafe.  

Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 29 gennaio 1971.

Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ - Giovanni Battista BENEDETTI - Francesco Paolo BONIFACIO - Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo Michele TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI - Nicola REALE - Paolo ROSSI

 

Depositata in cancelleria il 2 febbraio 1971.