Sentenza n. 129 del 1970
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SENTENZA N. 129

ANNO 1970

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Prof. Giuseppe BRANCA, Presidente

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Prof. Giuseppe CHIARELLI

Dott. Giuseppe VERZI'

Dott. Giovanni BATTISTA BENEDETTI

Prof. Francesco PAOLO BONIFACIO

Dott. Luigi OGGIONI

Dott. Angelo DE MARCO

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vezio CRISAFULLI

Dott. Nicola REALE

Prof. Paolo ROSSI

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 663 del codice penale; degli artt. 2 e 4 della legge 23 gennaio 1941, n.166 (norme integrative della disciplina delle pubbliche affissioni); dell'art. 9 del D.L.C.P.S. 8 novembre 1947, n. 1417 (disciplina delle pubbliche affissioni e della pubblicità affine); dell'articolo 113 del testo unico delle leggi di P.S. approvato con R.D. 18 giugno 1931, n. 773; e dell'art. 398 del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 3 dicembre 1968 dal pretore di Ronciglione nel procedimento penale a carico di Mattei Arcangelo, iscritta al n. 23 del registro ordinanze 1969 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 66 del 12 marzo 1969.

Visto l'atto d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 3 giugno 1970 il Giudice relatore Paolo Rossi;

udito il sostituto avvocato generale dello Stato Franco Chiarotti, per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

Nel corso di un procedimento penale a carico di tale Mattei Arcangelo, imputato della contravvenzione di cui all'art. 663 del codice penale in relazione agli artt. 2 e 4 della legge 23 gennaio 1941, n. 166, 9 del D.L.C.P.S. 8 novembre 1947, n. 1417, 113, quinto comma, del testo unico delle leggi di P.S. 18 giugno 1931, n. 773, per aver affisso un manifesto manoscritto fuori degli spazi a ciò destinati, il pretore ha sollevato d'ufficio questione di legittimità costituzionale di tutte le norme ora citate, in riferimento all'art. 21 della Costituzione, ed altresì dell'art. 398 del codice di procedura penale, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione.

In particolare, nell'ordinanza di rimessione si rileva che l'attuale formulazione dell'art. 398 del codice di procedura penale, consentendo al pretore di citare a giudizio l'imputato senza averlo previamente interrogato, pur nell'ipotesi in cui l'autorità di polizia giudiziaria abbia elevato un verbale di contravvenzione, contrasterebbe con gli artt. 3 e 24 della Costituzione, sul presupposto che l'atto di polizia dia sempre origine ad una fase processuale nell'ambito della quale potrebbe essere precluso all'imputato l'esercizio del diritto di difesa.

In secondo luogo, il giudice a quo osserva che la discrezionalità attribuita dalle impugnate norme alla pubblica Amministrazione nella scelta degli spazi da destinare alle affissioni, essendo praticamente illimitata ed insindacabile, consentirebbe di impedire il diritto di esprimere liberamente il proprio pensiero, garantito dall'art. 21 della Costituzione, specialmente se l'autorità non abbia adottato in proposito determinazione alcuna.

Si é costituita in giudizio la Presidenza del Consiglio dei ministri, rappresentata e difesa dall'Avvocatura generale dello Stato con atto depositato l'11 febbraio 1969, chiedendo dichiararsi l'infondatezza di entrambe le questioni sollevate

Alla prima eccezione la difesa dello Stato ha obiettato che la questione é priva di consistenza, giacché o gli atti compiuti dalla polizia costituiscono sostanzialmente atti istruttori direttamente utilizzabili nel processo, e allora il pretore deve necessariamente, in base alla normativa vigente in proposito a seguito delle sentenze della Corte costituzionale n. 33 del 1966 e n. 86 del 1968, procedere all'interrogatorio dell'imputato e alla contestazione del fatto; oppure gli atti compiuti non sono del genere ora menzionato, ed allora non si verte in una fase autonoma del procedimento, nella quale debba essere assicurato il diritto di difesa, con la conseguenza che il suo esercizio é legittimamente rimesso alla fase dibattimentale.

In ordine alla seconda questione l'Avvocatura premette che la legge 5 luglio 1961, n. 641, e il decreto 8 novembre 1947, n. 1417, impongono all'autorità comunale di determinare, d'intesa con i proprietari e sentita la commissione edilizia, gli spazi da destinare ad affissioni; qualora tale procedura non sia stata applicata é previsto l'intervento sostitutivo del Prefetto: ciò al fine di contemperare varie esigenze pubbliche, a volte contrastanti, quali, da un lato quella della tutela della estetica e del decoro cittadini e della sicurezza del traffico, e d'altro canto, quella di assicurare spazi sufficienti ed adeguati per consentire l'affissione di manifesti ed avvisi. Pertanto il potere spettante in proposito all'amministrazione comunale, attribuito per esigenze pubbliche degne di particolare tutela, non può realizzare un mezzo di limitazione del diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero.

La difesa dello Stato, ricorda, infine, che la Corte costituzionale ebbe a riconoscere, nella prima sua sentenza, la legittimità del quinto comma dell'art. 113 del T.U. delle leggi di p.s. a suo tempo denunciato per gli stessi motivi ora riproposti.

 

Considerato in diritto

 

La Corte costituzionale é chiamata a decidere le seguenti questioni:

1) se non contrasti con gli artt.3 e 24 della Costituzione, l'art. 398 del codice di procedura penale, secondo cui il pretore, qualora non siano stati compiuti atti istruttori, può citare direttamente a giudizio l'imputato senza averlo previamente interrogato sul fatto addebitatogli;

2) se gli artt. 2 e 4 della legge 23 gennaio 1941, n. 166, 9 D.L.C.P.S. 8 novembre 1947, n. 1417, 113 T.U. leggi di P.S. 18 giugno 1931, n. 773, e 663 del codice penale - nella parte in cui contemplano come contravvenzione l'affissione di stampati o manoscritti fuori degli spazi a ciò destinati dall'autorità - non contrastino con il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero (art. 21 Cost.), sul presupposto che il potere dell'autorità in ordine alla determinazione o meno degli spazi stessi sia illimitato ed insindacabile.

1. - La prima questione é già stata decisa negativamente dalla Corte (sentenze n. 16 del 1970, n. 4 del 1970, n. 46 del 1967, ordinanza n. 4 del 1968 e n. 102 del 1970), né sono dedotti motivi che inducano a diverso avviso.

2. - Nemmeno la seconda questione può trovare accoglimento.

L'assunto del giudice a quo in ordine alla insindacabilità del potere dell'autorità comunale di determinare gli spazi destinati alle affissioni é infondato. L'impugnato art. 9 del D.L.C.P.S. 8 novembre 1947, n. 1417, stabilisce l'obbligo dell'autorità locale di provvedere, sentita la commissione edilizia e previo consenso dei proprietari interessati, alla oculata scelta degli spazi da destinare ad affissione; prevede che qualora non sia possibile tale determinazione per mancato accordo dei soggetti interessati deve disporre in via sostitutiva il prefetto, con decreto definitivo, sentiti l'ufficio del genio civile e la sovraintendenza ai monumenti.

Risulta, quindi, evidente che le norme impugnate non solo consentono alle autorità locali di disciplinare concretamente il servizio delle affissioni pubbliche, ma impongono la determinazione degli spazi da destinare alle esigenze della generalità, ed ogni cittadino può sempre, in caso di ritardi od irregolarità, sollecitare il prefetto ad intervenire autoritativamente. É appena il caso di ricordare, infine, che esistono comunque apposite norme del codice penale che garantiscono l'osservanza dei doveri d'ufficio da parte dei pubblici ufficiali (artt. 328 e 323 c.p.).

Dimostrata pertanto l'infondatezza dell'assunto presupposto nell'ordinanza di rimessione, occorre esaminare se il potere-dovere di determinazione degli spazi di cui trattasi, conferito dalle impugnate norme, non costituisca una illegittima limitazione al diritto di manifestare il proprio pensiero, garantito dall'art. 21, primo comma, della Costituzione.

Le ragioni che hanno indotto il legislatore a consentire l'affissione di manoscritti e stampati - e non solo ai privati ma anche alle amministrazioni statali e pubbliche solo negli appositi spazi (art. 2 legge 23 gennaio 1941, n. 166) risultano chiaramente dalla normativa vigente in proposito. Emerge in particolare l'esigenza di valutare altri interessi pubblici degni di primaria considerazione, come la sicurezza della viabilità, e la tutela dei monumenti, dell'estetica cittadina, del paesaggio. É noto infatti, che secondo la costante giurisprudenza di questa Corte "il concetto di limite é insito nel concetto di diritto e nell'ambito dell'ordinamento le varie sfere giuridiche devono di necessità limitarsi reciprocamente, perché possano coesistere nell'ordinata convivenza civile" (sentenza n. 1 del 1956).

In un caso analogo, esaminando il divieto, penalmente sanzionato, di affissione dei manifesti di propaganda elettorale fuori degli spazi stabiliti, denunciato sempre in riferimento all'art. 21 della Costituzione, questa Corte ebbe ad enunciare taluni principi che possono essere utilmente richiamati nella fattispecie in esame. Invero venne allora affermato che norme siffatte, in quanto si limitano a disciplinare l'esercizio di un diritto, "appaiono estrinsecazione di un potere del legislatore ordinario del quale la Corte, in riferimento a varie fattispecie e con ripetute e costanti pronunzie, ha riconosciuto la piena legittimità, sempre che il diritto attribuito dalla Costituzione non venga ad essere snaturato". E va ricordato che, proprio in applicazione di questo principio allora per la prima volta affermato, la Corte nella citata sentenza del 1956 (n. 1) ritenne che non fosse in contrasto con l'art. 21 della Costituzione il quinto comma dell'art. 113 del T.U. delle leggi di p.s., nel quale é disposto che "le affissioni non possono farsi fuori dei luoghi destinati dall'autorità competente" (sentenza n. 48 del 1964; cfr. pure sentenza n. 49 del 1965 e ordinanza n. 97 del 1965).

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 398 del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dal pretore di Ronciglione con ordinanza del 3 dicembre 1968;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 2 e 4 della legge 23 gennaio 1941, n. 166, 9 del D.L.C.P.S. 8 novembre 1947, n. 1417, 113 del testo unico delle leggi di P.S. 18 giugno 1931, n. 773, e 663 del codice penale, sollevata, in riferimento all'art. 21 della Costituzione, con la medesima ordinanza sopraindicata.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 giugno 1970.

Giuseppe BRANCA  -  Michele FRAGALI  -  Costantino MORTATI  -  Giuseppe CHIARELLI  -  Giuseppe VERZÌ  -  Giovanni BATTISTA BENEDETTI  -  Francesco PAOLO BONIFACIO  -  Luigi OGGIONI  -  Angelo DE MARCO  -  Ercole ROCCHETTI  -  Enzo CAPALOZZA  -  Vezio CRISAFULLI  -  Nicola REALE  -  Paolo ROSSI

 

Depositata in cancelleria il 13 luglio 1970.