Sentenza n. 146 del 1969
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SENTENZA N. 146

ANNO 1969

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Prof. Giuseppe BRANCA, Presidente

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Prof. Giuseppe CHIARELLI

Dott. Giuseppe VERZÌ

Dott. Giovanni BATTISTA BENEDETTI

Prof. Francesco PAOLO BONIFACIO

Dott. Luigi OGGIONI

Dott. Angelo DE MARCO

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo MICHELE TRIMARCHI

Prof. Vezio CRISAFULLI

Dott. Nicola REALE

Prof. Paolo ROSSI

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale degli artt. 21, terzo comma, della legge 8 febbraio 1948, n. 47, contenente disposizioni sulla stampa, e 502, primo e secondo comma, del Codice di procedura penale, promossi con le seguenti ordinanza:

1) ordinanza emessa il 15 ottobre 1968 dal tribunale di Milano nel procedimento penale a carico di Russo Alfio, iscritta al n. 266 del Registro ordinanze 1968 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 25 del 29 gennaio 1969;

2) ordinanza emessa il 15 gennaio 1969 dal tribunale di Palermo nel procedimento penale a carico di Maggio Giuseppe e Vito, e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 85 del 2 aprile 1969;

3) ordinanza emessa il 12 marzo 1969 dal tribunale di Napoli nei procedimenti penali riuniti a carico di Amato Olimpia ed altri, iscritta al n. 205 del Registro ordinanze 1969 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 152 del 18 giugno 1969.

Visti gli atti d'intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

udito nell'udienza pubblica del 15 ottobre 1969 il Giudice relatore Nicola Reale;

udito il sostituto avvocato generale dello Stato Franco Chiarotti, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

Nel corso del giudizio penale promosso col rito direttissimo dal Procuratore della Repubblica di Milano, il tribunale, accogliendo l'eccezione proposta dal difensore dell'imputato contumace, con ordinanza del 15 ottobre 1968, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale degli artt. 21, terzo comma, della legge 8 febbraio 1948, n. 47, e 502, primo e secondo comma, del Codice di procedura penale, in riferimento agli artt. 24, secondo comma, e 25, primo comma, della Costituzione.

Il tribunale ha osservato che lo speciale procedimento direttissimo per i reati commessi col mezzo della stampa segue la disciplina dettata in generale dall'art. 502 del Codice di procedura penale, per quanto in particolare riguarda la scelta dell'organo giudicante da parte del P.M., con la sola deroga che alla traduzione dell'imputato é sostituita la di lui citazione, non richiedendosene necessariamente lo stato di detenzione.

Al P.M. é data potestà di richiedere il giudizio davanti a qualsiasi delle sezioni del tribunale, nella udienza che egli stesso può determinare nei termini stabiliti dalle disposizioni impugnate. Pertanto, in considerazione dell'avvicendamento dei magistrati nei collegi e del numero delle sezioni in cui il tribunale possa risultare diviso, la discrezionalità accordata al P.M. risulterebbe cosi ampia da apparire non compatibile con i principi costituzionali della inviolabilità della difesa e del giudice naturale. Principi i quali non consentirebbero che alcuna delle parti possa, in concreto, interferire sulla designazione dell'organo giudicante, con grave turbamento dell'equilibrio del contraddittorio e con l'effetto che l'imputato sia distolto dal giudice precostituito in base alla legge processuale ed in armonia con l'ordinamento giudiziario.

Anche nel diritto processuale penale, infatti, deve ritenersi valido il principio di ordine generale (cui si riferiscono del resto gli artt. 19 e 20 del regolamento per l'esecuzione del codice di procedura penale approvato con R.D. 28 maggio 1931, n. 603) che attribuisce la formazione dei ruoli delle udienze delle sezioni al Presidente del tribunale. Soltanto nei giudizi direttissimi la garanzia di imparzialità di detto organo verrebbe elusa, sostituendosi ad esso la iniziativa del P.M.

In rappresentanza del Presidente del Consiglio dei Ministri, l'Avvocatura generale dello Stato, con atto di intervento del 16 gennaio 1969 ha dedotto che la disciplina del giudizio direttissimo, per la persecuzione dei reati commessi col mezzo della stampa, configurato dalla dottrina come atipica, rispetto alle linee del procedimento preveduto dagli articoli 502 e seguenti del Codice di procedura penale, specialmente in relazione alla modalità della citazione dell'imputato non detenuto, non sarebbe in contrasto col diritto di difesa garantito dall'art. 24 della Costituzione. Diritto il cui esercizio non trova ostacolo nel rito direttissimo, non influendo su di esso l'assenza della fase istruttoria e la sostituzione, alla formale contestazione del reato, del sommario interrogatorio dell'imputato prima del giudizio.

Né sussiste contrasto, deduce la difesa del Presidente del Consiglio, fra la normativa impugnata e l'art. 25 della Costituzione.

Il problema, per quanto riguarda la pretesa scelta della sezione, si presenta invero solo per i tribunali ripartiti in più sezioni, ma anche per questi solo formalmente, dato che per prassi osservata negli uffici giudiziari, sarebbe sempre una stessa sezione ad occuparsi dei reati di stampa.

Circa poi la scelta dei giudici, l'Avvocatura rileva che la potestà conferita al P.M. dall'art. 502 del Codice di procedura penale, non importa alcuna interferenza di detto organo nella assegnazione dei magistrati ad una sezione o collegio giudicante, la quale resta invece di esclusiva competenza del Presidente.

D'altro lato la distribuzione dei processi tra le diverse sezioni da parte del Presidente non costituisce esercizio dei poteri di giurisdizione, ma solo espressione di organizzazione, amministrativa e regolamentare, e non é quindi illegittimo che vi provveda eccezionalmente, ed in misura ben più limitata il P.M., le cui possibilità di scelta, nella pratica, si ridurrebbero a ben poco. Questi non é in grado di influire, invero, sulla nomina del giudice, né sulla destinazione alla sezione cui, di regola, i processi di stampa affluiscono, né, se non di riflesso, sulla composizione della sezione che deve giudicare.

L'Avvocatura ha concluso quindi perché la questione sia dichiarata infondata sotto entrambi i profili prospettati dal tribunale di Milano.

2. - Con altra ordinanza pronunziata il 15 gennaio 1969, nel procedimento direttissimo a carico dei signori Giuseppe e Vito Maggio, imputati del reato di diffamazione aggravata a mezzo della stampa (art. 595, terzo comma, del Cod. pen. e art. 13 legge 8 febbraio 1948, n. 47) il tribunale di Palermo ha sollevato analoga questione di legittimità costituzionale dell'art. 502 del Codice di procedura penale.

Se, ha osservato il tribunale di Palermo, ogni sezione costituisce potenzialmente giudice naturale rispetto ai reati commessi nell'ambito della circoscrizione giudiziaria, nei limiti della competenza funzionale, spetta tuttavia al Presidente del tribunale e non al P.M. designare quella delle sezioni, egualmente competenti, che deve in concreto giudicare.

In questo giudizio non si é costituita alcuna delle parti private, né é intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri.

3. - La stessa questione é stata, infine, sollevata con ordinanza 12 marzo 1969 del tribunale di Napoli, nel corso del giudizio penale a carico di varie persone imputate della contravvenzione prevista dall'art. 725 del Codice penale, in relazione all'art. 21 della legge sulla stampa, per aver posto in vendita pubblicazioni contrarie alla decenza.

Premesso che la nozione del giudice naturale precostituito per legge non può identificarsi con l'organo giudiziario competente, con astrazione delle persone dei giudici che lo compongono, questo ultimo tribunale, dal principio, enunciato nella sentenza n. 156 del 1963 della Corte costituzionale, per il quale, in omaggio alla garanzia del giudice naturale, non può provvedersi alla composizione dell'ufficio giudicante in alcun caso in vista del singolo processo, ha tratto la conclusione che il precetto costituzionale é violato anche nel caso in cui sia data facoltà di scegliere, in relazione ad una "regiudicanda" già insorta, uno fra più collegi costituiti ed astrattamente competenti.

Il che si verificherebbe nell'ipotesi in esame, in applicazione dell'art. 502 del Codice di procedura penale.

Né, ha osservato il tribunale, la violazione dell'art. 25 della Costituzione verrebbe meno, se la scelta della sezione o del collegio giudicante, fosse attribuita al Presidente del tribunale, secondo quanto dispone, per i giudizi diversi dai direttissimi, l'art. 20 del citato regolamento per l'esecuzione del codice di procedura penale, giacché anche in questo caso la mancanza dei criteri obiettivi potrebbe indurre "a scelte ispirate da esigenze e finalità diverse da quelle di giustizia".

Nel giudizio di costituzionalità é intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri, nel cui interesse l'Avvocatura generale dello Stato ha depositato, il 13 maggio 1969, deduzioni e conclusioni analoghe a quelle di cui alla prima delle riferite ordinanze.

 

Considerato in diritto

 

1. - Le tre ordinanze possono essere riunite e decise con unica sentenza.

Tutte infatti sollevano la questione se l'art. 502 del Codice di procedura penale - applicabile al procedimento direttissimo per reati commessi a mezzo della stampa (art. 21, terzo comma, legge 8 febbraio 1948, n. 47) - sia in contrasto col principio del giudice naturale affermato nell'art. 25, primo comma, della Costituzione, nelle parti in cui consente che il pubblico ministero, nei tribunali divisi in più sezioni, determini la sezione e l'udienza nella quale presentare o far comparire l'imputato per il giudizio dibattimentale.

L'ordinanza del tribunale di Milano estende la censura di illegittimità anche al citato art. 21, terzo comma, della legge sulla stampa, nonché al secondo comma dell'art. 502.

Il tribunale di Milano e quello di Palermo assumono che la garanzia della precostituzione del giudice, derivante in concreto dal fatto che alla designazione della sezione o del collegio provvede, di norma, un organo imparziale qual é il Presidente del tribunale, sarebbe elusa nei procedimenti direttissimi, dato che, in questi, la designazione stessa avverrebbe per discrezionale iniziativa del pubblico ministero e cioè di una delle parti della causa.

Il tribunale di Napoli, invece ha argomentato la non manifesta infondatezza della questione dal fatto che la designazione del giudice per la cognizione di reati col rito direttissimo, non trova nella legge alcun limite legale o direttiva che ne assicuri l'obiettività ed imparzialità: ciò tanto nell'art. 502 del Codice di procedura penale, che attribuisce tale designazione al Procuratore della Repubblica, cui spetta l'iniziativa dell'azione penale, quanto nell'ipotesi che fosse chiamato a provvedervi il Presidente del tribunale, nell'esercizio dei suoi poteri di direzione ed organizzazione del servizio giudiziario.

Nell'ordinanza del tribunale di Milano la legittimità dell'art. 502, primo e secondo comma, del Codice di procedura penale, é posta in dubbio, anche in relazione al principio della inviolabilità della difesa (art. 24, secondo comma, Cost.), sotto il profilo, complementare al precedente, che la censurata facoltà di scelta dell'organo giudicante, attribuita al pubblico ministero, leda l'equilibrio del contraddittorio fra le parti del processo penale, rendendo deteriore la posizione dell'imputato.

2. - Le questioni non sono fondate.

Il procedimento direttissimo, disciplinato dagli artt. 502-505 del Codice di procedura penale, nel caso dei giudizi speciali, é informato a criteri di rapidità e immediatezza, preordinati alla esigenza di esemplarità del giudizio. Esso é introdotto dal pubblico ministero, con richiesta di dibattimento contestuale alla presentazione dell'imputato, nelle ipotesi (soggette a verifica da parte del giudice) che l'imputato sia stato arrestato in flagranza di reato o che il reato stesso sia stato commesso durante lo stato di detenzione o di internamento per misura di sicurezza e che, inoltre, la prova risulti agevole, senza cioè che occorra procedere a speciali indagini. É richiesto senza indugio, se il tribunale siede in udienza penale, ovvero, esclusa tale possibilità, nel termine perentorio di cinque giorni dall'arresto.

Da tali requisiti si discosta l'istituto nei casi preveduti in varie leggi speciali come quella sulla stampa, le quali prescrivono che per determinate categorie di reati si procede sempre, e non a discrezione del pubblico ministero, col rito direttissimo, ed anche se l'imputato non sia detenuto. In questa ultima ipotesi la di lui citazione a giudizio é disposta dal Procuratore della Repubblica.

La possibilità prospettata nelle tre ordinanze che il pubblico ministero presenti l'imputato, in stato di costrizione fisica o a seguito di suo decreto di citazione, davanti a quella delle sezioni del tribunale che egli ritenga disponibile, in considerazione delle esigenze del servizio, per lo svolgimento del dibattimento, non é espressamente disciplinata dalle norme impugnate. Essa é, tuttavia, praticamente configurabile soltanto in quei tribunali il cui organico prevede una pluralità di sezioni o comunque l'assegnazione di magistrati in numero superiore a quello richiesto per la composizione del collegio o dei collegi giudicanti, in guisa da consentire l'avvicendarsi di detti magistrati nello svolgimento dei compiti istituzionali.

In riferimento a tale possibilità é appunto denunziata la lesione del principio del giudice naturale. Tale principio esige anzitutto, secondo la giurisprudenza di questa Corte, che il giudice sia istituito in base a criteri generali fissati in anticipo (sent. 29 del 1958, 1 del 1965) e non in vista di determinate controversie; con riferimento cioé a fattispecie astratte e non già a posteriori, in relazione ad una regiudicanda già insorta (sent. 88 del 1962, 130 del 1963, 156 del 1963).

Esso esclude che sia lo stesso giudice a creare discrezionalmente ipotesi di spostamento della competenza (sent. 122 del 1963) e che l'accertamento dei presupposti legali relativi dipenda da valutazioni non suscettibili di sindacato ad iniziativa ed a tutela delle parti (sent. 130 del 1963).

Orbene va ricordato che nel sistema positivo, a salvaguardia del detto principio, anche per gli uffici giudiziari con pluralità di sezioni e di magistrati addetti, esiste un complesso di norme volte a contemperare l'obiettività ed imparzialità dei giudizi con le esigenze della continuità e prontezza delle funzioni giurisdizionali, pur nei casi di mutamenti, di vacanze e di impedimenti.

In particolare, quando il tribunale é costituito in più sezioni, sono annualmente designate (con apposite tabelle) le sezioni alle quali vengono devoluti promiscuamente o separatamente i diversi affari contenziosi civili e penali e si effettua la destinazione a ciascuna sezione dei vari magistrati, nel numero richiesto dalle esigenze del servizio.

Altre norme (delle quali é stata esclusa la illegittimità con la già menzionata sentenza n. 156 del 1963) prescrivono come si debba procedere a colmare i vuoti permanenti o temporanei che, per cause svariate, possono determinarsi negli uffici giudiziari, mediante provvedimenti a loro volta di carattere permanente (assegnazione di nuovi magistrati) o contingente e temporaneo (supplenze, sostituzioni, applicazioni).

Sono, poi, normalmente prestabiliti i giorni in cui ciascuna sezione terrà udienza nel corso dell'anno e turni di servizio dei giudici addetti a ciascun ufficio.

Tanto premesso sembra evidente che le norme impugnate, in quanto abilitano in casi eccezionali il pubblico ministero a disporre direttamente la presentazione o la citazione dell'imputato a giudizio davanti al tribunale e implicitamente consentono che lo stesso pubblico ministero diriga, discrezionalmente, la richiesta del giudizio dibattimentale ad una delle sezioni ed eventualmente ad uno dei collegi in cui la sezione dell'ufficio giudiziario sia articolata, non contrastano con la garanzia del giudice naturale, quale giudice imparziale precostituito.

Pervero, atteso che la composizione di ogni sezione e di ogni collegio risulta fatta secondo l'ordinamento e non appositamente per la decisione su ogni reato già commesso, non manca, anche nell'ipotesi dell'art. 502, l'elemento della preventiva individuazione del giudice, che deve postularsi legata a criteri di obiettività e imparzialità, quale che sia la composizione del collegio chiamato alla decisione ed esclusa qualsiasi incidenza su di questa della scelta operata dal pubblico ministero. Essa é fatta nell'esercizio di un potere che, a parte la sua natura, é ben più limitato di quello spettante al Presidente del tribunale, a norma dell'art. 20 del regolamento per l'esecuzione del Codice di procedura penale, o esercitato dai presidenti delle singole sezioni, circa la formazione dei ruoli e l'assegnazione dei procedimenti ai collegi: attribuzioni queste ultime di natura meramente ordinatoria, la cui discrezionalità risulta necessaria ad assicurare l'efficienza della funzione giurisdizionale.

Né ai fini del decidere può avere rilevanza il distinguere fra l'ipotesi di presentazione dell'imputato detenuto all'udienza della sezione del tribunale e l'ipotesi di citazione dell'imputato libero, trattandosi di manifestazioni diverse dello stesso potere attribuito al pubblico ministero dall'art. 502 del Codice di procedura penale, cioé di modalità diverse dell'esercizio dell'azione penale, quale é configurato nell'ambito del rito direttissimo.

Gli argomenti sopra esposti invalidano nella specie l'affermazione che la scelta del pubblico ministero manchi di obiettività, in quanto si assume provenga da una delle parti in causa.

Va rilevato, infine, che se in dipendenza della scelta compiuta dal pubblico ministero si profilasse per l'imputato il pericolo di un giudizio non imparziale, varrebbero ad eliminarlo, ricorrendo le ipotesi di legge, i rimedi previsti dall'ordinamento. Essi sono uguali, del resto, a quelli che potrebbero essere resi necessari da scelte del presidente e risultano invocabili fra l'altro nei casi di incompatibilità, come pure in quelli che impongono la remissione del procedimento o la astenzione o la ricusazione del giudice.

3. - Per i motivi suesposti deve escludersi la illegittimità sia dell'art. 502, primo comma (e ovviamente, per analogia di ragioni, anche del secondo comma) del Codice di procedura penale sia dell'art. 21, comma terzo, della legge 8 febbraio 1948, n. 47, in riferimento all'art. 25, primo comma, della Costituzione.

Gli stessi motivi portano a ritenere che la potestà spettante al pubblico ministero non può essere intesa nemmeno come antagonista al diritto di difesa e incidente negativamente sullo equilibrio del contraddittorio penale. Ne consegue la infondatezza anche dell'analoga questione sollevata, in rapporto all'art. 24, secondo comma, della Costituzione, dalla ordinanza del tribunale di Milano.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 502, primo e secondo comma, del Codice di procedura penale e dell'art. 21, terzo comma, della legge 8 febbraio 1948, n. 47, contenente disposizioni sulla stampa, sollevate dalle ordinanze indicate in epigrafe, in riferimento agli artt. 24, secondo comma, e 25, primo comma, della Costituzione.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 27 novembre 1969.

Giuseppe BRANCA  -  Michele FRAGALI  -  Costantino MORTATI  -  Giuseppe CHIARELLI  -  Giuseppe VERZÌ  -  Giovanni BATTISTA BENEDETTI  -  Francesco PAOLO BONIFACIO  -  Luigi OGGIONI  -  Angelo DE MARCO  -  Ercole ROCCHETTI  -  Enzo CAPALOZZA  -  Vincenzo MICHELE TRIMARCHI  -  Vezio CRISAFULLI  -  Nicola REALE  -  Paolo ROSSI

Depositata in cancelleria il 3 dicembre 1969.