Sentenza n. 117 del 1968
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SENTENZA N. 117

ANNO 1968

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Prof. Aldo SANDULLI, Presidente

Prof. Giuseppe BRANCA         

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Prof. Giuseppe CHIARELLI

Dott. Giuseppe VERZÌ

Dott. Giovanni Battista BENEDETTI

Prof. Francesco Paolo BONIFACIO

Dott. Luigi OGGIONI

Dott. Angelo DE MARCO

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI

Prof. Vezio CRISAFULLI

Dott. Nicola REALE, 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 389, terzo comma, del Codice di procedura penale, promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 4 marzo 1967 dal Tribunale di Palermo nel procedimento penale a carico di Rizzo Giuseppe ed altri, iscritta al n. 83 del Registro ordinanze 1967 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 144 del 10 giugno 1967;

2) ordinanza emessa il 23 settembre 1967 dal Tribunale di Napoli nel procedimento penale a carico di Iannaccone Luciano e Fierro Italia, iscritta al n. 231 del Registro ordinanze 1967 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 295 del 25 novembre 1967.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

udita nell'udienza pubblica del 9 ottobre 1968 la relazione del Giudice Ercole Rocchetti;

udito il sostituto avvocato generale dello Stato Franco Chiarotti, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

1. - Nel corso del procedimento penale a carico di Rizzo Giuseppe, Cardile Teresa, Vecchio Camillo, Ferlito Angela e Bonura Maria Camilla, il Tribunale di Palermo, con ordinanza 4 marzo 1967, ha proposto, ritenendola rilevante e non manifestamente infondata, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 389, terzo comma, del Codice di procedura penale, in relazione all'art. 25, primo comma, della Costituzione.

Osserva il giudice a quo che, per i delitti di competenza del Tribunale, si procede sempre con istruttoria formale, ai sensi degli artt. 295 e 296 del Codice di procedura penale, salvo i casi previsti dall'art. 389 dello stesso Codice di procedura penale, il quale stabilisce che il P.M. deve invece procedere con istruzione sommaria: 1) "quando l'imputato é stato sorpreso in flagranza"; 2) "quando ha commesso il reato mentre era arrestato o internato per misure di sicurezza"; 3) "quando ha confessato e non appaiono necessari ulteriori atti di istruzione"; 4) "in ogni caso in cui la prova appare evidente".

Secondo il Tribunale di Palermo, mentre le prime tre ipotesi "si sottraggono per la loro tassatività a qualsiasi apprezzamento da parte del P. M." nel quarto caso invece la legge rimette alla insindacabile discrezionalità del P. M. la scelta del rito da seguire e, di conseguenza, dell'organo (pubblico ministero o giudice istruttore) che deve espletare l'istruttoria.

Questa ampia facoltà, accordata dalla legge al pubblico ministero, sembra in contrasto, a giudizio del Tribunale di Palermo, con l'art. 25 della Costituzione, secondo cui "nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge".

La garanzia costituzionale, esso aggiunge, trova applicazione non solo nel giudizio di cognizione, ma anche nella fase istruttoria e si riferisce a tutti gli organi giurisdizionali chiamati dalla legge a giudicare e ad istruire.

L'ordinanza, regolarmente notificata e comunicata come per legge, é stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 144 del 10 giugno 1967.

Si é costituito in giudizio, a mezzo dell'Avvocatura generale dello Stato, il Presidente del Consiglio dei Ministri, il quale, con deduzioni del 2 maggio 1967, contesta la esattezza dei rilievi prospettati nell'ordinanza, e chiede che la questione di illegittimità costituzionale sia dichiarata infondata.

Osserva preliminarmente l'Avvocatura che la distinzione effettuata dal Tribunale di Palermo tra i casi previsti dall'articolo 389 del Codice di procedura penale non é esatta; una valutazione discrezionale del P. M. non sussiste solo nella ipotesi denunciata, ma anche in quella di confessione da parte dell'imputato nell'interrogatorio (art. 389, secondo comma) poiché, spetta pur sempre al P. M. (o al G. I., se é gia in corso l'istruzione formale) valutare se occorrano o non ulteriori atti di istruzione, con la conseguenza che anche questo caso sarebbe in contrasto con il principio sancito dall'art. 25, primo comma, della Costituzione.

Secondo l'Avvocatura, il Tribunale di Palermo parte dall'errato presupposto che giudice naturale nella istruttoria sia il giudice istruttore e ne trae logicamente la conseguenza che ove il P. M. ritenga evidente la prova del commesso reato, il processo sarebbe sottratto al giudice istruttore.

In contrario osserva l'Avvocatura che il legislatore é libero di determinare e regolare la fase istruttoria come crede, purché sia assicurata la inviolabilità del diritto di difesa; ne deriva che "nei casi di reati per i quali la prova sia evidente" l'istruttoria naturale é, secondo la legge, quella sommaria, così come, se la prova evidente non sia (e salvi gli altri casi di istruzione sommaria), istruzione naturale é quella formale.

La garanzia costituzionale stabilita dall'art. 25 della Costituzione, non sarebbe quindi violata dalla facoltà attribuita al P. M. dall'art. 389 del Codice di procedura penale; piuttosto la violazione potrebbe sussistere nel caso in cui di questa norma venisse fatto un uso patologico, e cioè nel caso in cui il P. M. ritenga evidente la prova quando tale non é.

Ma, secondo l'Avvocatura dello Stato, non é necessario eliminare una norma solo perché essa é suscettibile di essere male applicata, in quanto l'ordinamento giuridico appresta all'operatore del diritto altri e diversi strumenti di ortopedia.

2. - Nel corso del procedimento penale a carico di Iannaccone Luciano e Fierro Italia, il Tribunale di Napoli, con ordinanza 23 settembre 1967, ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata l'eccezione di incostituzionalità, prospettata dalla difesa dello Iannaccone, dell'art. 389, terzo comma, del Codice di procedura penale, in relazione all'art. 25, primo comma, della Costituzione.

Anche il Tribunale di Napoli rileva che mentre i due primi commi dell'art. 389 del Codice di procedura penale "individuano chiaramente, in base a criteri generali già fissati in anticipo e non in vista di determinate controversie", il giudice naturale, il terzo comma non segue eguale criterio, in quanto affida la determinazione del giudice alla discrezione insindacabile dei P. M., il quale é arbitro di stabilire se la prova é evidente o meno.

Dopo avere affermato che il principio, sancito nell'art. 25, primo comma, della Costituzione, trova applicazione anche per la fase istruttoria, il Tribunale afferma che il potere insindacabile attribuito al P. M. dalla legge, in ordine alla scelta del rito da seguire e quindi dell'organo cui deve essere affidata l'istruttoria, é in contrasto con le esigenze di certezza tutelate dalla norma costituzionale.

Anche questa ordinanza é stata regolarmente comunicata come per legge ed é stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 295 del 25 novembre 1967. Nessuna delle parti si é costituita in questo giudizio.

 

Considerato in diritto

 

1. - Le due ordinanze di rimessione, indicate in epigrafe, prospettano alla Corte la medesima questione di legittimità costituzionale. Esse, pertanto, sono state congiuntamente discusse e possono essere decise con unica sentenza.

2. - Il vigente Codice di procedura penale configura, come é noto, per i delitti di competenza della Corte di assise e del Tribunale, due tipi di istruttoria: quella formale, affidata al giudice istruttore, e quella sommaria, di competenza dello stesso organo dell'accusa, e cioè del pubblico ministero.

La scelta del tipo di istruttoria é, per ciascun processo, riservata allo stesso pubblico ministero che, come titolare dell'azione penale, vi provvede quando viene in possesso, con la notitia criminis, degli elementi acquisiti nella così detta istruzione preliminare. Tale scelta é dal pubblico ministero operata in base a criteri fissati dalla legge, in quanto egli é, di norma, tenuto a rimettere gli atti al giudice istruttore (articoli 295 e 296) eccetto che nei quattro casi espressamente previsti dall'art. 389. In questi ultimi egli "deve" invece trattenere gli atti e procedere con istruttoria sommaria (reato scoperto in flagranza, reato commesso in stato di detenzione, confessione dell'imputato, evidenza della prova).

Non esistendo nel Codice norme che sottopongano a un qualche controllo la scelta operata dal pubblico ministero in ordine al tipo di istruttoria, né essendo prevista alcuna nullità specifica nelle ipotesi che egli, superando i termini previsti dall'art. 389, trattenga, per istruirli, processi che apparterrebbero alla generale competenza del giudice istruttore, la magistratura ordinaria, con un'interpretazione consolidata da molti anni, dopo di aver escluso che il caso possa inquadrarsi fra quelli determinanti una delle nullità d'ordine generale previste dall'art. 185, ha ritenuto che la scelta operata dal pubblico ministero debba considerarsi come discrezionale e insindacabile.

Contro tale situazione normativa si appuntano le censure di incostituzionalità delle due ordinanze dei Tribunali di Palermo e di Napoli, le quali, con riferimento al comma terzo dell'art. 389, osservano che, se il giudizio del pubblico ministero, nello stabilire se e quando la prova appare evidente, rimane affidato esclusivamente alla sua insindacabile discrezionalità, é la scelta stessa del tipo di istruttoria che diventa discrezionale, con la conseguenza che l'imputato viene ad essere distolto dal suo giudice naturale, e cioè dal giudice istruttore, tutte le volte che, pur non ricorrendo le ipotesi previste dall'art. 389, l'istruttoria non é affidata a lui ma viene invece trattenuta dal pubblico ministero. Con la conseguenza che l'impugnata disposizione renderebbe così possibile una violazione dell'art. 25, comma primo, della Costituzione.

Le censure, così formulate, devono ritenersi fondate.

In proposito va, innanzi tutto, precisato che il principio della non derogabilità del giudice naturale (come questa Corte ha già ritenuto nella sentenza n. 110 del 1963) trova applicazione anche nella fase istruttoria del processo penale, allorché é dalla legge prescritto che si proceda con istruttoria formale, avendo questa attività processuale non dubbia natura giurisdizionale, sia perché é svolta da un giudice e sia perché termina con un atto che ha non solo forma, ma anche contenuto di sentenza, specie quando, prosciogliendo l'imputato, conclude il giudizio nel merito, ed é soggetto a gravame (art. 387).

Ora il potere di questo, come di ogni altro giudice, cioè la sua competenza, deve essere determinata direttamente dalla legge, in base a criteri obiettivi che valgano ad individuarlo preventivamente, e cioè a precostituirle al verificarsi delle fattispecie che devono essergli sottoposte per l'esame e la decisione.

Accade invece, nel sistema già descritto, il quale discende dal combinato disposto degli artt. 295 e 389, che dal pubblico ministero viene fatta dipendere la competenza del giudice istruttore in base a criteri che, almeno nel caso dell'evidenza della prova (art. 389, comma terzo), sul quale la Corte é stata chiamata a pronunciarsi, non sfuggono ad apprezzamenti e a valutazioni non ancorati a rigorosi criteri oggettivi.

Ciò potrebbe essere tuttavia non incompatibile con il principio della precostituzione del giudice, quando sulla scelta della forma dell'istruttoria operata dal pubblico ministero fosse consentito un controllo giurisdizionale nell'ulteriore corso del processo. Mentre certamente inconciliabile con quel principio é la ritenuta incensurabilità della scelta adottata dal pubblico ministero perché essa comporta il rischio di scelte illimitate.

Ovvia appare dunque la conseguenza che il giudice istruttore, cui spetta per legge una competenza generale e normale, di fronte a quella, se non eccezionale, almeno particolare e circoscritta, del pubblico ministero, in realtà ne possiede soltanto una comprimibile ed incerta.

Ogni volta, infatti, che il potere del pubblico ministero si dilata oltre i limiti previsti dalla legge, quello del giudice istruttore si restringe al disotto dei limiti stessi. Dal che discende una non dubbia violazione del principio della inderogabilità del giudice naturale precostituito per legge.

A nulla poi varrebbe osservare che quanto di fatto in contrario avviene rappresenta soltanto un aspetto patologico di un sistema che può non intaccarne la legittimità. É evidente infatti che é il sistema stesso a creare quelle lamentate anomalie, dal momento che non conosce, relativamente alla decisione adottata dal pubblico ministero, e secondo si é già detto, nessuna forma di controllo e di riesame. E in mancanza di questi ultimi l'esercizio di ogni potere rischia di tradursi in abuso e la discrezionalità in arbitrio.

Va da ultimo considerato che l'attenuazione delle differenze tra le due forme di istruttoria penale, intervenuta a seguito della sentenza di questa Corte n. 52 del 1965, la quale ha determinato l'applicazione alla sommaria delle garanzie degli artt. 304 bis, ter e quater, non rileva ai fini della denunziata violazione della disposizione dell'art. 25, comma primo, della Costituzione. A parte, invero, che le norme di competenza non possono subire discrezionali modificazioni in nessun caso, sta in fatto che le due istruttorie, anche se meno differenziate di quanto prima non fossero, non possono identificarsi né sul piano teorico né su quello pratico. La presenza di un giudice che la dirige e la maggior ampiezza che essa conferisce alla dialettica processuale, pongono di per sé l'istruttoria formale in una posizione ben diversa da quella sommaria, ai fini dell'obiettivo accertamento della verità e delle garanzie per l'imputato.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 389, terzo comma, del Codice di procedura penale nei limiti in cui esclude la sindacabilità, nel corso del processo, della valutazione compiuta dal pubblico ministero sulla evidenza della prova.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 novembre 1968.

 

 

Aldo SANDULLI - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI -  Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ - Giovanni Battista BENEDETTI - Francesco Paolo BONIFACIO - Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo Michele TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI - Nicola REALE 

 

 

Depositata in cancelleria il 28 novembre 1968.