Sentenza n. 109 del 1968
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SENTENZA N. 109

ANNO 1968

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Prof. Aldo SANDULLI, Presidente

Dott. Antonio MANCA

Prof. Giuseppe BRANCA

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Prof. Giuseppe CHIARELLI

Dott. Giuseppe VERZÌ

Dott. Giovanni Battista BENEDETTI

Prof. Francesco Paolo BONIFACIO

Dott. Luigi OGGIONI

Dott. Angelo DE MARCO

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI 

Prof. Vezio CRISAFULLI,

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 341 del Codice penale, promossi con ordinanze emesse il 28 novembre 1966 dal pretore di Francavilla al Mare in due procedimenti penali a carico, rispettivamente, di Baldini Renzo e di Maiomascio Franco, iscritte ai nn. 30 e 31 del Registro ordinanze 1967 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 77 del 25 marzo 1967.

Visto l'atto d'intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

udita nell'udienza pubblica del 20 giugno 1968 la relazione del Giudice Costantino Mortati;

udito il sostituto avvocato generale dello Stato Franco Casamassima, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

Nel corso di due distinti procedimenti penali pendenti avanti la pretura di Francavilla al Mare contro Baldini Renzo e contro Maiomascio Franco, imputati del reato di cui all'art. 341, primo e quarto comma, del Codice penale, per avere offeso l'onore ed il prestigio di un pubblico ufficiale a causa e nell'esercizio delle sue funzioni (precisamente, di un sottufficiale dei vigili urbani, il primo, e di un sottufficiale dei carabinieri, il secondo), il difensore dell'imputato sollevava questione di legittimità costituzionale dell'art. 341 del Codice penale, in riferimento agli artt. 1 e 3 della Costituzione, ed il pretore, ravvisatane la rilevanza e la non manifesta infondatezza, la sottoponeva alla Corte con due ordinanze identiche pronunciate in data 28 novembre 1966. Nel provvedimento si osserva che il fatto costitutivo del delitto di oltraggio a pubblico ufficiale consiste in azioni lesive del decoro e della libertà morale della persona offesa le quali, ove non fossero rivolte contro un soggetto così qualificato, realizzerebbero i reati puniti con pene molto più lievi dagli artt. 594 e 612 del Codice penale. Ora la disparità di trattamento praticata dal legislatore nei confronti di chi offende l'onore e il prestigio di un pubblico ufficiale rispetto a chi offende l'onore o il prestigio di qualunque persona che non rivesta tale qualità, appare al pretore sproporzionata, pur tenuto conto dell'esigenza di difendere il bene costituito dal prestigio e dall'efficienza della pubblica Amministrazione, esigenza che di tale disparità dovrebbe costituire la giustificazione razionale.

Specialmente ove si tenga conto dell'estendersi della qualifica di pubblico ufficiale a categorie sempre più ampie di soggetti, in conseguenza dell'assunzione da parte dello Stato di sempre più estese e multiformi attività in ogni campo della vita nazionale, risulta maggiormente evidente come tale forte disparità di sanzioni privi di ragionevolezza la disciplina vigente, e pertanto concreti una violazione del principio di eguaglianza espresso nell'art. 3, primo comma, della Costituzione. Il pretore lamenta infine che l'unicità della sanzione prevista dalla norma penale renda impossibile distinguere la parte della pena riguardante la difesa della dignità della parte offesa da quella relativa alla tutela della pubblica Amministrazione.

Dopo che le ordinanze sono state regolarmente notificate, comunicate e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale n. 77 del 25 marzo 1967, é intervenuto in entrambi i giudizi il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato come per legge dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale ha concluso per la dichiarazione di infondatezza della questione, sottolineando come l'ipotesi criminosa di cui all'art. 341 del Codice penale, rientri nella categoria dei reati contro la Pubblica Amministrazione e sia diretta innanzi tutto alla difesa di quest'ultima. Sussiste perciò una diversità delle sanzioni stabilite per questo reato rispetto a quelle irrogate per il delitto di ingiurie.

A sostegno di questo assunto, l'Avvocatura osserva che alla maggior tutela penale di cui i soggetti rivestiti della qualità di pubblico ufficiale vengono a beneficiare per effetto di norme come quella in esame, corrisponde un proporzionato aggravamento della responsabilità penale per i casi di delitti eventualmente commessi da questi stessi soggetti, e che, se dovesse accogliersi l'argomentazione del pretore, dovrebbero essere aboliti tutti i c.d. "reati propri", nei quali la qualità di pubblico ufficiale é elemento costitutivo e rispetto ai quali sussiste una disparità di trattamento in senso inverso. Esclusa quindi ogni violazione dell'art. 3 della Costituzione (come pure dell'art. 1), l'Avvocatura osserva che le ulteriori argomentazioni contenute nell'ordinanza si risolvono in considerazione estrinseche e di mero fatto.

 

Considerato in diritto

 

1. - Le due cause, attinendo allo stesso oggetto, vanno riunite e decise con unica sentenza.

2. - La censura di incostituzionalità dell'art. 341 del Codice penale, che l'ordinanza fa derivare dalla violazione dell'art. 1 della Costituzione, non é fondata, dato che questo, se riconosce al popolo l'appartenenza della sovranità, ne consente poi l'esercizio solo "nelle forme e nei limiti della Costituzione", e pertanto nulla da esso può desumersi in ordine alla concreta disciplina delle situazioni giuridiche a favore o a carico dei singoli soggetti.

Ugualmente infondata la questione sollevata si palesa se considerata con riferimento all'art. 3. Infatti la diversità delle sanzioni disposte nei casi di offesa all'onore e al decoro di una persona, nelle due ipotesi previste rispettivamente dagli artt. 341 e 594 del Codice penale, trova un'ovvia giustificazione nella eterogeneità delle fattispecie criminose in essi considerate: una riguardante l'offesa recata ai privati cittadini, l'altra, invece, rivolta contro chi riveste la qualifica di pubblico ufficiale, e nell'atto dell'esercizio dei poteri a lui conferiti. É chiaro che in questo secondo caso la tutela penale dell'onore della persona fisica titolare del pubblico ufficio, é assorbita in quella del prestigio della pubblica Amministrazione che in essa si incarna, che viene colpito nel momento stesso in cui la sua autorità si fa concretamente valere, e pertanto dà luogo ad una nuova e diversa fattispecie legale. Così essendo, non sorge il problema prospettato nell'ordinanza della difficoltà di discriminare fra parte e parte della sanzione prevista dall'art. 341, allo scopo di stabilire quanto della medesima riguardi l'interesse del singolo e quanto quello della pubblica Amministrazione.

Né può dirsi che il differente trattamento dell'oltraggio rispetto all'altro proprio dell'ingiuria divenga irrazionale per effetto dell'eccessiva sproporzione dell'entità delle sanzioni irrogabili nei due casi, distintamente considerati, poiché la valutazione della congruenza fra reato e pena appartiene alla politica legislativa, e su di essa nessun sindacato si rende possibile in questa sede, all'infuori dell'eventualità, non verificantesi nella specie, che la sperequazione assuma dimensioni tali da non riuscire sorretta da ogni, benché minima, giustificazione.

Manca pertanto di ogni fondamento l'affermazione del pretore, secondo cui la rilevata sproporzione delle sanzioni nei due casi darebbe vita ad una categoria di cittadini fruenti di una dignità sociale qualificata, superiore a quella della restante parte della popolazione. Infatti si é qui in presenza del conferimento ai pubblici funzionari di uno speciale status, in considerazione delle attribuzioni ad essi affidata, che, se da un lato, dà titolo ad una maggiore protezione penale, é poi fonte, dall'altro di un aggravamento di responsabilità, come nei casi in cui la qualità di pubblico ufficiale viene assunta ad elemento costitutivo o a circostanza aggravante dei reati commessi giovandosi della qualità stessa.

Nessuna influenza poi sulla questione può evidentemente esercitare la circostanza dell'ampliamento del numero degli investiti di pubbliche funzioni, verificatosi in conseguenza del progressivo estendersi del campo di azione dei pubblici poteri. Questa circostanza assume senza dubbio notevole rilevanza, ma solo in base a considerazioni affidate alle valutazioni del legislatore. É noto come la norma impugnata sia espressione della concezione autoritaria, che sta alla base del Codice vigente, e si differenzi da quelle del Codice penale del 1889, sia per l'aggravamento delle pene, e sia per la eliminazione, oltre che della norma che faceva venir meno la punibilità dell'offensore allorché il pubblico ufficiale avesse ecceduto i limiti delle proprie attribuzioni, anche dell'altra dell'art. 194 che colpiva con pene minori che non nei restanti casi l'oltraggio diretto contro un agente della forza pubblica.

La commissione ministeriale, nominata nel 1945, per la riforma del Codice penale, aveva proposto di fare rivivere la norma per ultimo ricordata. La seconda Commissione ministeriale, nominata nel 1956, lasciò cadere siffatta proposta, ma invece ne avanzò un'altra che, più opportunamente, prevedeva, oltre all'eliminazione del minimo della pena edittale, anche l'introduzione di una figura attenuata di reato qualora il fatto oltraggioso risulti di lieve entità, così da richiedere solo una pena pecuniaria. Norma questa che, ampliando il potere discrezionale del giudice, renderebbe superflua ogni più particolare statuizione legislativa perché consentirebbe all'organo decidente di adeguare, di volta in volta, la sanzione alla grande varietà dei casi che ad esso si presentano e lo sottrarrebbero così all'imbarazzo, assai spesso determinato dalla rigidezza delle attuali disposizioni.

Compete al legislatore decidere se non corrisponda all'attuale stato della coscienza sociale ed allo spirito informatore della Costituzione repubblicana l'esigenza di modificare nei sensi proposti una disciplina legislativa, come quella in esame, che troppo risente dell'ideologia del regime dal quale ebbe origine.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 341 del Codice penale, in riferimento agli artt. 1 e 3 della Costituzione, sollevata con le ordinanze dal pretore di Francavilla al Mare del 28 novembre 1966.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 2 luglio 1968.

 

Aldo SANDULLI - Antonio MANCA - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ - Giovanni Battista BENEDETTI - Francesco Paolo BONIFACIO - Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo Michele TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI

 

 

Depositata in cancelleria il 19 luglio 1968.