Sentenza n. 78 del 1967
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SENTENZA N. 78

ANNO 1967

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Prof. Gaspare AMBROSINI, Presidente

Prof. Antonino PAPALDO

Prof. Nicola JAEGER

Prof. Giovanni CASSANDRO

Prof. Biagio PETROCELLI

Dott. Antonio MANCA

Prof. Aldo SANDULLI

Prof. Giuseppe BRANCA

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Giuseppe CHIARELLI

Dott. Giuseppe VERZÌ

Dott. Giovanni Battista BENEDETTI

Prof. Francesco Paolo BONIFACIO

Dott. Luigi OGGIONI, 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale degli artt. 54, n. 4, e 183, lett. b, c, d, del testo unico delle leggi sulle pensioni civili e militari approvato con R.D. 21 febbraio 1895, n. 70, dell'art. 1 del decreto - legge 3 giugno 1938, n. 1032, e dell'art. 28, primo comma, n. 2, del Codice penale militare di pace approvato con R.D. 20 febbraio 1941, n. 303, promossi con cinque distinte ordinanze emesse il 31 gennaio, il 7 e 23 febbraio, e il 5 marzo 1966 dalla Corte dei conti - quarta Sezione giurisdizionale - sui ricorsi di Capponi Oviglio, Capelli Romildo, Moccia Alfonso, Annibaldi Duilio e Azzi Paolo, iscritte ai nn. 148, 149, 150, 151 e 152 del Registro ordinanze 1966 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 226 del 10 settembre 1966 e n. 239 del 24 settembre 1966.

Visti gli atti di costituzione di Capponi Oviglio e di Capelli Romildo;

udita nell'udienza pubblica del 31 maggio 1967 la relazione del Giudice Aldo Sandulli;

uditi gli avvocati Carlo Fornario, per il Capponi, e Francesco Messina, per il Capelli.

 

Ritenuto in fatto

 

1. - La Corte dei conti - quarta Sezione giurisdizionale - ha rimesso a questa Corte, con cinque distinte ordinanze, talune questioni di legittimità costituzionale di contenuto affine, tutte ritenute rilevanti ai fini del decidere, riguardanti la perdita del diritto al trattamento di quiescenza da parte di dipendenti statali i quali abbiano subito certe condanne penali o la destinazione, ovvero la non computabilità, ai fini del trattamento di quiescenza, nei confronti degli stessi, in conseguenza di condanne penali, di certi periodi di servizio da essi prestati.

Una delle ordinanze investe l'art. 54, n. 4, del T.U. delle pensioni approvato con R.D. 21 febbraio 1895, n. 70, ed é stata emessa il 31 gennaio 1966 nel giudizio su ricorso di Capelli Romildo.

Le altre quattro ordinanze investono l'art. 183 dello stesso T.U., modificato dal D. L. 3 giugno 1938, n. 1032, e precisamente si appuntano una contro la lett. b dell'articolo (l'ordinanza emessa il 23 febbraio 1966 nel giudizio su ricorso di Annibaldi Duilio), due contro la lett. c (le ordinanze emesse, rispettivamente, il 7 febbraio 1966 nel giudizio su ricorso di Moccia Alfonso, e il 5 marzo 1966 nel giudizio su ricorso di Azzi Paolo, la seconda delle quali denuncia altresì l'art. 28, n. 2, del Codice penale militare di pace), una contro la lett. d (l'ordinanza emessa il 31 gennaio 1966 nel giudizio su ricorso di Capponi Oviglio, la quale denuncia anche l'art. 1 del D. L. 1032 del 1938).

Tutte le ordinanze sono state notificate ai difensori dei ricorrenti, al Procuratore generale della Corte dei conti e al Presidente del Consiglio dei Ministri; sono state comunicate ai Presidenti dei due rami del Parlamento; sono state successivamente pubblicate nella Gazzetta Ufficiale, rispettivamente, il 10 e il 24 settembre 1966.

Davanti a questa Corte si sono costituite soltanto le parti private nei giudizi promossi con le due ordinanze del 31 gennaio 1966 (riguardanti rispettivamente l'art. 54, n. 4, e l'art. 183, lett. d), e cioé i signori Capelli Romildo e Capponi Oviglio (con atti di costituzione depositati rispettivamente il 3 giugno 1966 e il 13 maggio 1966). Negli altri tre giudizi non si é costituito nessuno.

2. - L'ordinanza intervenuta nel giudizio promosso col ricorso di Capelli Romildo denuncia il contrasto dell'art. 54, n. 4, del T.U. del 1895 con gli artt. 3, 27 e 36 della Costituzione. La disposizione impugnata esclude dal computo del servizio utile ai fini del conseguimento della pensione o dell'assegno previsti del T.U., oltre al "tempo di pena", altresì quello "passato in aspettazione di giudizio seguito da condanna". Siccome rimane così escluso dal computo anche il tempo trascorso in servizio da chi sia in attesa del giudizio, l'ordinanza rileva che la disposizione, limitatamente a questa sua parte, viene a violare il diritto alla retribuzione garantito dall'art. 36 della Costituzione. Inoltre, col far discendere l'anzidetto effetto dalla condanna, la disposizione stessa, "lungi dall'attuare il principio della natura rieducativa della pena", verrebbe, in contrasto con l'art. 27, terzo comma, della Costituzione, a rendere "più difficile il reinserimento del condannato nella vita sociale". Infine, creando una disparità di trattamento tra chi lavora alle dipendenze della Amministrazione statale e gli altri lavoratori, essa violerebbe il principio di eguaglianza enunciato nell'art. 3 della Costituzione.

Analoghe considerazioni sono state svolte nell'atto di costituzione del Capelli davanti a questa Corte.

3. - In base alla disposizione dell'art. 183, lett. b, del T.U. del 1895, denunciata con l'ordinanza intervenuta nel giudizio promosso col ricorso di Annibaldi Duilio, perdono il diritto a conseguire il trattamento di quiescenza e il godimento di quello già conseguito, gli impiegati civili e i militari di ogni grado, i quali abbiano riportato condanna a qualunque pena per i reati di peculato, malversazione a danno di privati, peculato mediante profitto dell'errore altrui, concussione, corruzione per un atto d'ufficio, corruzione per un atto contrario ai doveri d'ufficio, corruzione di persona incaricata di un pubblico servizio, istigazione alla corruzione, nonché per il reato militare di prevaricazione. L'ordinanza, richiamandosi alla sentenza di questa Corte n. 3 del 1966, avanza dubbi circa la legittimità costituzionale di tale disposizione, "sia sotto il profilo del carattere della misura sanzionatoria, che rende difficile l'inserimento del condannato nella vita sociale, sia in relazione all'art. 36 della Costituzione, che sancisce il diritto dei lavoratori alla retribuzione comprendendosi in essa la pensione, qualunque sia la natura giuridica che a questa si voglia attribuire". La totale perdita del diritto al trattamento di quiescenza - osserva l'ordinanza, la quale si richiama alla "funzione alimentare" della pensione - "andrebbe a ledere i principi generali accennati in considerazione della difficoltà di poter intraprendere nuovi rapporti di lavoro in chi é stato condannato". Nel dispositivo l'ordinanza si richiama ai soli artt. 3 e 36 della Costituzione.

4. - L'ordinanza intervenuta nel giudizio promosso col ricorso di Moccia Alfonso denuncia il contrasto, ancora una volta con gli artt. 3 e 36 della Costituzione, della lett. c del citato art. 183 del T.U. del 1895, in base alla quale perdono il diritto al trattamento di quiescenza gli impiegati civili e i militari di ogni grado che siano stati condannati a qualunque pena pronunziata in base ai Codici penali militari, la quale tragga seco la degradazione. Ricordata la sentenza di questa Corte n. 3 del 1966 con la quale furono dichiarati illegittimi la lett. a e il terzo comma dell'art. 183, che facevano discendere la perdita del diritto dei lavoratori al trattamento di quiescenza dall'aver subito una condanna a pena comportante l'interdizione dai pubblici uffici, l'ordinanza osserva che la degradazione é pena accessoria prevista dal Codice penale militare "del tutto equivalente alla interdizione perpetua dai pubblici uffici, che priva il condannato della qualità di militare, delle decorazioni, delle pensioni e del diritto alle medesime per il servizio anteriormente prestato"; osserva che, oltre a conseguire a certe condanne per reati militari, la degradazione consegue a talune condanne per reati previsti dal Codice penale comune, "che comportano e in quanto comportano l'interdizione perpetua dai pubblici uffici"; e perciò, richiamandosi alla ricordata sentenza di questa Corte, dichiara non manifestamente infondata la riferita nuova questione di legittimità costituzionale.

5. - La medesima questione é stata sollevata con l'ordinanza intervenuta nel giudizio promosso su ricorso di Azzi Paolo. Questa ordinanza denuncia però, oltre alla lett. c dell'art. 183 del T.U. del 1895, altresì l'art. 28, n. 2, del Codice penale militare di pace, per la parte in cui enuncia la stessa regola del collegamento alla degradazione della perdita "delle pensioni e del diritto alle medesime per il servizio anteriormente prestato". Inoltre essa denuncia il contrasto delle anzidette disposizioni, oltre che con l'art. 3 della Costituzione (con giustificazione analoga a quella formulata nel giudizio promosso col ricorso di Capelli Romildo), e con l'art. 36 (sul presupposto della configurazione della pensione come una retribuzione differita), altresì con l'art. 38, in considerazione del contenuto previdenziale del diritto alla pensione.

6. - Infine l'ordinanza intervenuta nel giudizio promosso col ricorso di Capponi Oviglio denuncia il contrasto con gli artt. 1, 3, 27, 36 e 38 della Costituzione della lett. d dell'art. 183 del T.U. del 1895, e dell'art. 1 del D. L. 3 giugno 1938, n. 1032, modificativo del primo, in base ai quali gli impiegati civili e militari di ogni grado perdono il diritto al trattamento di quiescenza nel caso di destituzione dall'impiego, a meno che l'apposita commissione ministeriale si sia pronunciata in senso favorevole al mantenimento del trattamento stesso.

In relazione agli artt. 1 e 36 della Costituzione, l'ordinanza si richiama al carattere di retribuzione differita del trattamento pensionistico dei pubblici dipendenti, mentre, in relazione all'art. 38 si richiama al ruolo previdenziale del trattamento stesso. In relazione agli artt. 3 e 27 della Costituzione svolge considerazioni analoghe a quelle svolte, in riferimento agli stessi articoli, nelle altre ordinanze di cui già si é detto. Aggiunge, poi, che dubbi circa la legittimità delle denunciate disposizioni nascono anche per il fatto che "l'attuale formulazione legislativa é carente dell'indicazione di precisi criteri direttivi che valgano a delimitare l'amplissimo potere discrezionale di cui é fornita la predetta Commissione"; al cui parere il provvedimento ministeriale é tenuto a conformarsi. Osserva infine che nella più recente legislazione (e segnatamente nel T.U. 10 gennaio 1957, n. 3) é evidente la tendenza a ridurre a pochi e ben delineati casi la perdita del diritto al trattamento di quiescenza da parte di pubblici dipendenti.

Nelle deduzioni presentate nell'interesse del Capponi le argomentazioni dell'ordinanza vengono confermate e ribadite, aggiungendosi che, qualora le disposizioni denunciate non venissero eliminate dall'ordinamento, ne risulterebbe "una evidente disarmonia e sperequazione nel sistema del trattamento pensionistico": infatti, mentre, in conseguenza della sentenza di questa Corte n. 3 del 1966, sono state dichiarate illegittime, e perciò eliminate dall'ordinamento, le disposizioni che collegavano la perdita del trattamento di quiescenza alla interdizione dai pubblici uffici in conseguenza di una condanna penale, verrebbero invece conservate disposizioni legislative colleganti la perdita del diritto al trattamento di quiescenza a condanne meno gravi.

Nell'interesse del sig. Capponi sono state depositate anche delle "note aggiunte" in data 6 maggio 1967, volte essenzialmente a richiamare l'attenzione sul fatto che la recente legge 8 giugno 1966, n. 424 - che ha abrogato le disposizioni denunciate con le riferite ordinanze della Corte dei conti - non avrebbe fatto venir meno - data la sua operatività ex nunc, e cioè soltanto a partire dal 6 luglio 1966 - la necessità del richiesto controllo di costituzionalità, dato che questo conserverebbe tutta la sua rilevanza in relazione al tempo anteriore all'anzidetta data.

7. - All'udienza di trattazione i difensori delle parti hanno insistito nelle rispettive tesi e conclusioni.

 

Considerato in diritto

 

1. - Data la stretta affinità delle questioni sottoposte a questa Corte con le riferite ordinanze della Corte dei conti, i cinque giudizi sono stati trattati congiuntamente e vengono riuniti e decisi con unica sentenza.

2. - Le questioni proposte investono disposizioni del testo unico delle leggi sulle pensioni civili e militari (R. D. 21 febbraio 1895, n. 70) e altre disposizioni strettamente connesse, in base a cui, in conseguenza di certe condanne penali o di certe sanzioni disciplinari, viene comminata agli aventi diritto la perdita del trattamento di pensione o dell'assegno o dell'indennità previsti dall'anzidetto testo legislativo e dalle successive modificazioni, ovvero viene esclusa la computabilità, ai fini del medesimo trattamento, del tempo trascorso in attesa di giudizio seguito da condanna.

Le disposizioni denunciate riguardano anche trattamenti che non sono collegati a un rapporto di lavoro e non hanno perciò funzione retributiva. In considerazione dell'oggetto dei giudizi in cui le questioni sono state proposte e della motivazione delle ordinanze con cui esse sono state rimesse a questa Corte - tutte incentrate essenzialmente sull'art. 36 della Costituzione - é però da ritenere che l'oggetto sul quale é stato richiesto il giudizio di legittimità costituzionale sia limitato alla normativa dei soli trattamenti conseguenti a un rapporto di lavoro. In senso analogo ebbe a delimitare l'oggetto della propria pronuncia questa Corte in occasione del consimile giudizio concluso con la sentenza n. 3 del 1966, dalla quale dichiaratamente le ordinanze da cui ha origine il presente giudizio hanno tratto ispirazione.

3. - Successivamente alla emanazione delle ordinanze che hanno promosso il presente giudizio é stata promulgata ed é entrata in vigore la legge 8 giugno 1966, n. 424, la quale ha abrogato tutte le disposizioni che prevedevano, a seguito di condanna penale o di provvedimento disciplinare, la perdita, la riduzione o la sospensione del diritto dei pubblici dipendenti al conseguimento o al godimento della pensione e di ogni altro assegno od indennità da liquidarsi in conseguenza della cessazione del rapporto di servizio.

Tale legge, la quale ha fatto venir meno, per la parte riferentesi ai trattamenti spettanti alla conclusione di un rapporto di lavoro, le norme contenute nelle disposizioni che formano oggetto del presente giudizio, dispone all'art. 2 che anche i trattamenti già perduti, ridotti o sospesi, "sono ripristinati integralmente". Il ripristino ha luogo però soltanto a decorrere dal primo giorno del mese successivo alla entrata in vigore della legge, e perciò a partire dal 6 luglio 1966.

Siccome nei giudizi nei quali sono state sollevate le questioni in esame si controverte anche di diritti maturati anteriormente a quest'ultima data, le questioni stesse conservano dunque una loro rilevanza nonostante l'intervenuta abrogazione delle disposizioni denunciate (cfr. la sentenza n. 30 del corrente anno).

4. - Passando al merito, é da ricordare che con la menzionata sentenza n. 3 del 1966 questa Corte, movendo dal carattere retributivo del trattamento di quiescenza spettante in conseguenza di un rapporto di lavoro e dalla particolare protezione di cui nel vigente ordinamento costituzionale viene fatta oggetto, sul piano morale e su quello patrimoniale, la retribuzione dei prestatori d'opera in ogni suo aspetto, affermò l'incompatibilità con tali principi di talune disposizioni che collegavano, alla condanna dei pubblici dipendenti a una pena detentiva comportante l'interdizione dai pubblici uffici, la perdita del diritto al trattamento economico ad essi spettante in conseguenza della cessazione del rapporto di lavoro.

Va ricordato inoltre che la successiva legge n. 424 del 1966, già menzionata, é una nuova conferma del contrasto ormai esistente, in via di principio, con la coscienza sociale - quale si é determinata nel clima della vigente Costituzione, che considera il lavoro come valore fondamentale della comunità nazionale - del fatto che un lavoratore o i suoi aventi causa siano privati, per qualsiasi ragione, dell'anzidetto trattamento, conquistato attraverso la prestazione dell'attività lavorativa e come frutto di questa. Nel medesimo spirito l'art. 9 della legge 15 luglio 1966, n. 604, sui licenziamenti individuali, ha statuito che l'indennità di anzianità prevista dall'art. 2120 del Codice civile spetta in ogni caso di licenziamento, e perciò (contrariamente a quanto disponeva l'art. 2120) anche nel caso di licenziamento dovuto a colpa del lavoratore.

Tutto ciò é da considerare di importanza decisiva ai fini del presente giudizio. Alla luce di quanto si é detto, non si può non negare infatti la compatibilità con la vigente Costituzione, delle diverse disposizioni denunciate, le quali tutte ricollegano, e per di più in modo notevolmente indifferenziato, la perdita totale del diritto al trattamento economico, spettante ai lavoratori o ai loro aventi causa alla cessazione del rapporto di servizio, a fatti penali o a misure disciplinari. In tal modo esse si pongono in contrasto con l'art. 36 della Costituzione, il quale vuole, in via di principio, assicurato ai lavoratori il compenso ad essi dovuto in corrispettivo del rapporto di servizio.

Con riferimento alla fattispecie dell'art. 54, n. 4, del T.U. sulle pensioni, in base alla quale il "tempo passato in aspettazione di giudizio seguito da condanna" non va computato, per i militari, indipendentemente dal tipo e dalla gravità del reato, nel servizio utile al conseguimento della pensione o dell'assegno - fattispecie comprensiva, secondo la giurisprudenza, anche del caso in cui durante l'attesa del giudizio l'imputato abbia prestato regolare servizio - , l'illegittimità appare di particolare evidenza. A parte ogni altra considerazione, va sottolineato, in proposito, che la durata del tempo trascorso in attesa del giudizio può subire variazioni anche notevoli in dipendenza di fattori assolutamente casuali ed estranei alla volontà e all'operato del reo.

Con riferimento alla disposizione dell'art. 183, lett. d, del testo unico, modificata dall'art. 1 del decreto - legge 3 giugno 1938, n. 1032 (convertito in legge 5 gennaio 1939, n. 84), in base alla quale alla destituzione (regolata per gli impiegati civili dagli artt. 84 - 85 del T.U. 10 gennaio 1957, n. 3, e per gli operai dagli artt. 41 - 42 della legge 5 marzo 1961, n. 90) o alla perdita del grado militare (regolata dall'art. 29 del Codice penale militare di pace approvato con R.D. 20 febbraio 1941, n. 303) può conseguire la perdita del trattamento di quiescenza in base a una scelta discrezionale dell'Amministrazione, é da rilevare che, indipendentemente da ogni altra considerazione, essa é illegittima già per il solo fatto della rimessione della perdita del trattamento in esame a un latissimo potere amministrativo discrezionale del quale la legge non specifica in alcun modo i limiti. In tal modo, a parte l'art. 36 della Costituzione, viene a esser sicuramente vulnerata - come l'ordinanza che ha denunciato l'anzidetta disposizione non ha mancato di rilevare - una regola di riserva di legge: venendo in questione la comminazione di una sanzione ulteriore rispetto a quella della destituzione o della perdita del grado, deve avere infatti applicazione il principio della legalità della pena, ricavabile anche per le sanzioni amministrative dall'art. 25, secondo comma, della Costituzione, in base al quale é necessario che sia la legge a configurare, con sufficienza adeguata alla fattispecie, i fatti da punire.

Quanto alla fattispecie dell'art. 183, lett. c, del testo unico (riaffermata nell'art. 28 del Codice penale militare di pace) - in base alla quale il diritto al trattamento di quiescenza si perde totalmente in ogni caso di condanna a qualunque pena, pronunziata in base ai Codici penali militari, che tragga seco la degradazione - , la illegittimità ne appare evidente, stante l'indifferenziato collegamento della sanzione alla perdita del diritto in esame a fatti di natura assai varia, quali sono quelli cui, in base alle vigenti disposizioni, si collega l'effetto della degradazione (art. 28 citato).

Né a diversa soluzione si può pervenire in riferimento alla disposizione dell'art. 183, lett. b, in base alla quale la totale perdita del trattamento di quiescenza viene collegata indiscriminatamente alla condanna a qualunque pena per certe figure di reato (peculato, malversazione, concussione, corruzione, prevaricazione, ecc.).

5. - Riconosciuta la fondatezza delle questioni proposte, in riferimento ai precetti costituzionali sopra indicati, devono esser considerate assorbite le denuncie di violazione di altri precetti costituzionali.

6. - Ai sensi dell'art. 27, secondo periodo, della legge 11 marzo 1953, n. 87, la dichiarazione di illegittimità costituzionale deve essere estesa all'art. 54, n. 6, del menzionato testo unico delle leggi sulle pensioni civili e militari, in base al quale "il servizio militare prestato prima della condanna che trasse con sé la degradazione" non viene computato ai fini del trattamento di quiescenza.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara l'illegittimità costituzionale delle seguenti disposizioni, limitatamente alla parte in cui i diritti ai trattamenti economici dei quali prevedono la perdita traggono titolo da un rapporto di lavoro:

1) art. 54, n. 4 - limitatamente alle parole "ed il tempo passato in aspettazione di giudizio seguito da condanna" - , e art. 54, n. 6, del T.U. delle leggi sulle pensioni civili e militari approvato con R.D. 21 febbraio 1895, n. 70;

2) art. 183, lett. b, c, d, dello stesso T.U.;

3) art. 1 del decreto - legge 3 giugno 1938, n. 1032, contenente norme sulla perdita del diritto a pensione per il personale statale destituito, convertito nella legge 5 gennaio 1939, n. 84;

4) art. 28 del Codice penale militare di pace approvato con R.D. 20 febbraio 1941, n. 303, limitatamente alla parte del primo comma n. 2, in base alla quale la degradazione priva il condannato "delle pensioni e del diritto alle medesime per il servizio anteriormente prestato".

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 15 giugno 1967.

 

Gaspare AMBROSINI - Antonino PAPALDO - Nicola JAEGER - Giovanni CASSANDRO - Biagio PETROCELLI - Antonio MANCA - Aldo SANDULLI - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ - Giovanni Battista BENEDETTI -  Francesco Paolo BONIFACIO - Luigi OGGIONI 

 

 

Depositata in cancelleria il 3 luglio 1967.