Sentenza n. 8 del 1966
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SENTENZA N. 8

ANNO 1966

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Prof. Gaspare AMBROSINI, Presidente

Prof. Giuseppe CASTELLI AVOLIO

Prof. Antonino PAPALDO

Prof. Nicola JAEGER

Prof. Giovanni CASSANDRO

Prof. Biagio PETROCELLI

Dott. Antonio MANCA

Prof. Aldo SANDULLI

Prof. Giuseppe BRANCA

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Dott. Giuseppe VERZÌ

Dott. Giovanni Battista BENEDETTI

Prof. Francesco Paolo BONIFACIO,

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale del D.P.R. 14 luglio 1960, n. 1019, che rende obbligatorio l'accordo interconfederale 20 dicembre 1950 sui licenziamenti per riduzione di personale dei lavoratori dipendenti dalle imprese industriali, e dell'art. 509 del Codice penale, promossi con due ordinanze emesse il 23 ed il 31 marzo 1964 dal Pretore di Monsummano Terme nei procedimenti penali a carico di Motroni Arrigo ed altri e di Tagliasacchi Corrado, iscritte ai nn. 85 e 86 del Registro ordinanze 1964 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 144 del 13 giugno 1964, e con ordinanza emessa il 9 marzo 1965 dal Pretore di Firenze nel procedimento civile vertente tra Chiamenti Carla e l'impresa Martini e Reggioli, iscritta al n. 42 del Registro ordinanze 1965 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 109 del 30 aprile 1965.

Visti gli atti di costituzione dell'impresa Martini e Reggioli e di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

udita nell'udienza pubblica del 10 novembre 1965 la relazione del Giudice Michele Fragali;

uditi l'avv. Giuliano Mazzoni, per l'impresa Martini e Reggioli, e il sostituto avvocato generale dello Stato Giovanni Albisinni, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

1. - Due ordinanze del Pretore di Monsummano Terme emesse rispettivamente il 23 e il 31 marzo 1964, e una ordinanza del Pretore di Firenze del 9 marzo 1965 hanno proposto questione di legittimità costituzionale del D.P.R. 14 luglio 1960, n. 1019, che rende obbligatorio erga omnes l'accordo interconfederale 20 dicembre 1950 sulla procedura da svolgere nei casi di licenziamento di personale. Tutte e tre le ordinanze osservano che il decreto predetto ha ecceduto dai limiti posti nell'art. 1 della legge di delegazione 14 luglio 1959, n. 741, e quindi ha violato gli artt. 76 e 39 della Costituzione; il Pretore di Monsummano si é riferito anche agli artt. 25 e 102 della Costituzione e ha altresì sottoposto al giudizio di questa Corte l'art. 509 del Codice penale che prevede sanzioni per l'inosservanza delle norme disciplinanti i rapporti di lavoro, in riferimento all'art. 39 della Costituzione.

Il Pretore di Monsummano ha rilevato che l'accordo interconfederale 20 dicembre 1950 ha per oggetto una particolare procedura per il licenziamento causato da riduzione di personale e non riguarda quindi i minimi inderogabili di trattamento economico normativo che la legge 14 luglio 1959, n. 741, intendeva assicurare a tutti gli appartenenti ad una medesima categoria. Destinatari dell'accordo non sono i singoli datori di lavoro e i singoli lavoratori, ma le associazioni sindacali contraenti, alle quali incombe l'obbligo di espletare un particolare procedimento di conciliazione, e alle quali é demandata la competenza a conoscere della controversia collettiva inerente al licenziamento. Con l'estensione erga omnes di tale accordo si verrebbe a rendere obbligatoria la rappresentanza delle associazioni sindacali anche ai non iscritti, in contrasto con l'art. 39 della Costituzione, e si verrebbero a violare gli artt. 25 e 102 della Costituzione che vietano di distogliere dal giudice naturale precostituito e di istituire giudici straordinari o giudici speciali. Quanto all'art. 509 del Codice penale, esso può sfogare efficacia soltanto per i contratti collettivi di diritto corporativo rimasti in vigore a termini dell'art. 43 del D.L.Lgt. 23 novembre 1944, n. 369, e non é applicabile ai contratti collettivi previsti dalla legge 14 luglio 1959, n. 741, che contiene, per la inosservanza ad essi, sanzioni autonome.

Il Pretore di Firenze ha ricordato che é dibattuta la questione dell'applicabilità della legge 14 luglio 1959, n. 741, all'accordo interconfederale di cui si tratta; ha esposto le ragioni fatte valere dalle opposte dottrine, e ha osservato che il contrasto esistente fa ritenere che la questione non sia manifestamente infondata.

L'ordinanza n. 85 é stata notificata al Presidente del Consiglio dei Ministri il 16 aprile 1964 e comunicata ai Presidenti delle Camere il 15 aprile 1964; l'ordinanza n. 86 é stata notificata all'imputato il 4 maggio 1964, al Pubblico Ministero il 15 aprile 1964, al Presidente del Consiglio dei Ministri il 7 aprile 1964 e comunicata ai Presidenti delle Camere il 15 aprile 1964; ambedue sono state pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 144 del 13 giugno 1964. L'ordinanza n. 42 é stata notificata ai difensori delle parti in causa il 10 marzo 1965, al Presidente del Consiglio dei Ministri il 10 marzo 1965 e comunicata ai Presidenti delle Camere l'11 marzo 1965; é stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 109 del 30 aprile 1965.

Si é costituita in giudizio l'impresa ingegneri Martini e Reggioli, parte nel procedimento innanzi al Pretore di Firenze; il Presidente del Consiglio é intervenuto soltanto nei procedimenti svoltisi innanzi al Pretore di Monsummano. L'impresa Martini e Reggioli ha presentato memoria.

2. - L'impresa Martini e Reggioli, nelle sue deduzioni, ha premesso che la legge 14 luglio 1959, n. 741, non si riferisce ai contratti collettivi di carattere meramente strumentale ed ha all'uopo richiamato la sentenza di questa Corte 13 luglio 1963, n. 129; ha soggiunto che il contratto collettivo che é oggetto del D.P.R. 14 luglio 1960, n. 1019, contiene norme per la regolamentazione dei rapporti fra le associazioni sindacali contrapposte e non per il minimo di trattamento economico e normativo.

Nella memoria ha poi ribadito i concetti suesposti e ha aggiunto che l'accordo contiene soltanto un impegno di non promuovere o di non dare appoggio ad agitazioni sindacali fino a che non sia esaurito l'iter della procedura; ha ricordato anche la sentenza 6 luglio 1965, n. 56, che escluse dall'ambito della predetta legge del 1959 la materia dell'esperimento obbligatorio di conciliazione, per le controversie individuali; ha rilevato che, a comprendere il contratto di cui si tratta nell'ambito della legge di delegazione, non vale nemmeno il fatto che, all'art. 4, esso sancisce il diritto dei lavoratori licenziati per riduzione di personale di essere riassunti nel caso che l'azienda proceda entro un anno a nuove assunzioni perché, dovendo l'assunzione avvenire per il tramite degli uffici di collocamento, non é configurabile l'attribuzione di quel diritto, che piuttosto deriva dall'art. 15 della legge 29 aprile 1949, n. 264, sulla disciplina del collocamento. Ha infine osservato che il decreto del 1960 ha sostanzialmente imposto alle associazioni sindacali l'obbligo di prestare i propri servizi anche ai non iscritti, e quindi conferito o un pubblico ufficio o una rappresentanza dei non iscritti; per cui risulta violato anche l'art. 39 della Costituzione.

3. - Il Presidente del Consiglio ha rilevato che lo speciale procedimento di conciliazione previsto dall'accordo interconfederale 20 dicembre 1950, non é di carattere giurisdizionale e quindi né distoglie la parte dal giudice naturale né implica istituzione di giudici speciali. Le norme di cui al detto accordo riguardano i minimi inderogabili di trattamento normativo, in quanto rafforzano l'aspettativa del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro; non é pertinente il richiamo alla sentenza di questa Corte del 13 luglio 1963, n. 129, che invece ritenne di includere nella delegazione ogni contratto collettivo contenente pattuizioni necessarie ad assicurare al lavoratore un'esistenza corrispondente alla dignità della persona umana, come sono quelle che tendono a disciplinare i licenziamenti per riduzione di personale. L'accordo non viola l'art. 39 della Costituzione, perché impone soltanto l'obbligo del datore di lavoro di informare una associazione territoriale di categoria del divisato provvedimento di riduzione di personale, senza inserire il datore di lavoro nell'associazione e senza vincolarne le determinazioni: il datore di lavoro é tenuto soltanto a sospendere per 15 giorni l'attuazione del progettato licenziamento e a tener conto, nella identificazione di lavoratori da licenziare, di determinati criteri preordinati ad esigenze di carattere sociale (anzianità, carichi di famiglia, ecc.).

Circa l'art. 509 del Codice penale, non essendo in discussione l'applicazione di norme di un contratto collettivo di diritto corporativo, il suo contenuto esula dalla materia, avuto riguardo anche al fatto che le violazioni della legge delegante e di quella delegata sono sanzionate nell'art. 8 della prima, che non ha formato oggetto di denuncia di illegittimità costituzionale.

4. - All'udienza del 10 novembre 1965 i difensori delle parti hanno illustrato e ribadito le proprie tesi.

 

Considerato in diritto

 

1. - Le tre ordinanze sopra richiamate concernono la medesima questione e, per quanto si riferisce all'art. 509 del Codice penale, sono strettamente collegate. Le cause debbono quindi riunirsi.

2. - Il D.P.R. 14 luglio 1960, n. 1019, emesso in base alla delegazione contenuta nella legge 14 luglio 1959, n. 741, ha esteso erga omnes l'accordo interconfederale 20 dicembre 1950, sui licenziamenti per riduzione di personale.

Questo accordo, fra l'altro, istituisce e regola un procedimento di conciliazione affidato alle organizzazioni provinciali delle associazioni sindacali che lo conclusero, diretto ad evitare e ad eliminare i contrasti che quei licenziamenti possono determinare nei rapporti di lavoro aziendale. Non vi é dubbio che le norme relative a tale procedimento sono di ordine strumentale, con riguardo al fine perseguito dalla suddetta legge 14 luglio 1959, n. 741; ma nelle precedenti sentenze di questa Corte del 13 luglio 1963, n. 129, e del 6 luglio 1965, n. 56, si é chiarito che unicamente le determinazioni contrattuali non strettamente necessarie a garantire i minimi retributivi e normativi sono estranee agli interessi che la citata legge ha voluto tutelare.

Nella specie, un procedimento di conciliazione fra associazioni professionali non é strettamente necessario ai fini di una protezione minima del lavoratore nel caso in cui il datore di lavoro ritenga necessaria una riduzione di personale: questa protezione é data, nell'accordo, da norme precise di carattere sostanziale, che il datore di lavoro deve osservare per regolare l'ordine dei licenziamenti. Per giunta quel procedimento, dovendo contenersi nell'ambito dei fini che l'accordo persegue (art. 6, primo comma), non può ritenersi indirizzato se non allo scopo enunciato nel secondo comma dello stesso art. 6; nel quale si esprime "la fiducia di porre in essere uno strumento idoneo a favorire la collaborazione tra le organizzazioni e gli appartenenti alle categorie rappresentate e a risolvere pacificamente i contrasti che i provvedimenti di licenziamento frequentemente determinano nei rapporti di lavoro aziendale". In modo che é direttamente destinato a regolare l'azione sindacale e i rapporti fra sindacati, a prevenire ed eliminare contese sindacali, sia pure incidenti sui rapporti di lavoro che ineriscono ad una singola impresa; tanto vero che la sua instaurazione é soltanto oggetto di obbligazioni reciproche delle associazioni, e non ne sono parti necessarie né il datore di lavoro, che può soltanto assistere l'organizzazione industriale e unicamente se questa ne richieda la presenza, né il lavoratore, perché l'organizzazione alla quale egli é iscritto può farsi assistere, non da lui, ma dalla commissione interna o da una rappresentanza di questa. Per quanto sia vero che gli effetti della conciliazione influenzano il rapporto individuale, non é contestabile che ciò accade in sede di composizione delle vertenze sindacali insorte sulla materia regolata dall'accordo, quindi in via riflessa, e soltanto con riferimento a singole ipotesi controverse; mentre la legge delegante mirava ad un diretto ed astratto regolamento del rapporto individuale.

La Corte, nella citata sentenza 6 luglio 1965, ha rilevato che non possono ritenersi compresi nell'ambito della legge 14 luglio 1959, n. 741, i regolamenti di diritti e di doveri attuabili attraverso l'interposizione delle associazioni sindacali che conclusero il singolo contratto collettivo; ed ha osservato che, in tal caso, gli estranei a dette associazioni vengono sottoposti a vincoli di subordinazione nei confronti delle medesime, la cui predisposizione, a parte l'incidenza del sistema sul principio della libertà sindacale, non si può reputare pertinente a quella parte della contrattazione collettiva alla quale si é riferita la legge di delegazione. Questo assoggettamento si ha certamente nella specie se, come si é detto, al procedimento non hanno diritto di partecipare né il datore di lavoro, né i lavoratori, se i provvedimenti di licenziamento non possono aver corso fino a quando le organizzazioni sindacali ritengano possibile la conciliazione e, nel caso di accordo, possono aver effetto esclusivamente in conformità ai termini dello stesso (art. 2, lett. e). Il potere delle associazioni nei confronti dei non iscritti é tanto più penetrante in quanto spetta ad esse l'esaminare se il motivo della riduzione del personale sia consistente e, nel caso affermativo, se vi siano concrete e attuali possibilità di evitarla, in tutto o in parte, senza costituire un carico improduttivo per il datore di lavoro (art. 2, lett. a, dell'accordo).

3. - Rientrano invece nei fini cui tendeva la legge 14 luglio 1959, n. 741, le clausole dell'accordo che determinano i limiti del potere del datore di lavoro nella materia regolata.

Si allude all'art. 2, lett. e, nel quale si stabiliscono i criteri che l'imprenditore deve seguire nell'identificazione dei lavoratori da licenziare, al successivo art. 4, che fa obbligo di motivare il licenziamento e detta modalità integrative dell'art. 15 della legge 29 aprile 1949, n. 264, sulla disciplina del collocamento circa il diritto del lavoratore ad essere riassunto, all'art. 5 che fissa i limiti di applicazione dell'accordo, e alla clausola di chiarimento a tale articolo. Queste determinazioni hanno valore materiale; e sono distaccabili da quelle concernenti il procedimento di conciliazione perché hanno un contenuto di completezza tale da permettere al datore di lavoro di applicarle, al lavoratore di fondarvi diritti concreti, al giudice di risolvere eventuali controversie. Esse tanto sono separabili dal procedimento conciliativo, che, nell'art. 2, lett. e, dell'accordo, si fa obbligo all'imprenditore di tenere conto dei criteri sostanziali ivi enunciati pur nel caso in cui la conciliazione non abbia successo.

L'illegittimità costituzionale non si può riferire pertanto alle predette norme.

4. - Non si può riferire nemmeno all'art. 509 del Codice penale, secondo il dubbio sollevato dal Pretore di Monsummano.

Già questa Corte ha ritenuto (sentenza 10 aprile 1957, n. 55), che quella norma non trova ostacolo nell'art. 39 della Costituzione: non si prospettano ragioni per un nuovo esame della questione. Lo stesso Pretore ha poi rilevato che le sanzioni penali per le inosservanze al D.P.R. 14 luglio 1960, n. 1019, oggetto dell'attuale giudizio, sono contenute nell'art. 8 della legge di delegazione 14 luglio 1959, n. 741; ma, in tal modo, egli stesso ha manifestato un apprezzamento di irrilevanza della questione, il che gli avrebbe dovuto suggerire di non proporla.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

riunisce i giudizi promossi con le ordinanze indicate in epigrafe;

dichiara l'illegittimità costituzionale del D.P.R. 14 luglio 1960, n. 1019, concernente norme sui licenziamenti per riduzione di personale dei lavoratori dipendenti dalle imprese industriali, nella parte in cui prescrive l'obbligo di un previo procedimento di conciliazione fra le organizzazioni sindacali competenti, nel caso in cui il datore di lavoro dovesse ravvisare la necessità di attuare quella riduzione;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale proposta dal Pretore di Monsummano con le ordinanze 23 e 31 marzo 1964 e dal Pretore di Firenze con l'ordinanza del 9 marzo 1965, in riferimento agli artt. 76 e 77 della Costituzione, con riguardo:

1) all'art. 2, lett. e, dell'accordo interconfederale del 20 dicembre 1950, allegato al detto decreto, salvo per quanto concerne l'inciso "tanto in caso di accordo, come in caso di insuccesso della procedura conciliativa";

2) degli artt. 4, 5 dell'accordo predetto e della clausola di chiarimento dell'art. 5;

dichiara manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 509 del Codice Penale, proposta dal Pretore di Monsummano con le ordinanze predette, in riferimento all'art. 39 della Costituzione.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 febbraio 1966.

 

Gaspare AMBROSINI - Giuseppe CASTELLI AVOLIO - Antonino PAPALDO - Nicola JAEGER - Giovanni CASSANDRO - Biagio PETROCELLI - Antonio MANCA - Aldo SANDULLI - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe VERZÌ - Giovanni Battista BENEDETTI - Francesco Paolo BONIFACIO

 

Depositata in cancelleria il 8 febbraio 1966.