Sentenza n. 6 del 1966
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SENTENZA N. 6

ANNO 1966

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Prof. Gaspare AMBROSINI, Presidente

Prof. Giuseppe CASTELLI AVOLIO

Prof. Antonino PAPALDO

Prof. Nicola JAEGER

Prof. Giovanni CASSANDRO

Dott. Antonio MANCA

Prof. Aldo SANDULLI

Prof. Giuseppe BRANCA

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Prof. Giuseppe CHIARELLI

Dott. Giuseppe VERZÌ

Dott. Giovanni BATTISTA BENEDETTI

Prof. Francesco Paolo BONIFACIO, 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 3, secondo comma, della legge 20 dicembre 1932, n. 1849, promosso con ordinanza emessa il 27 gennaio 1964 dalla Corte suprema di cassazione - Sezione I civile - nel procedimento civile vertente tra Cometti Carlo Cesare ed il Ministero della difesa-esercito, iscritta al n. 135 del Registro ordinanze 1964 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 212 del 29 agosto 1964.

Visti gli atti di costituzione del Cometti e del Ministero della difesa;

udita nell'udienza pubblica del 27 ottobre 1965 la relazione del Giudice Antonino Papaldo;

uditi l'avv. Giuseppe Trabucchi, per il Cometti, ed il sostituto avvocato generale dello Stato Luciano Tracanna, per il Ministero della difesa.

 

Ritenuto in fatto

 

Con manifesto in data 12 marzo 1958 il Comando Militare Territoriale della Regione N. E. di Padova - a mente dell'art. 2 della legge 20 dicembre 1932, n. 1849 - sottoponeva una vasta zona di terreno sita nel Comune di Grazzana ad una serie di limitazioni, tutte a contenuto negativo, oltre ad un generico divieto di transito e di sosta a persone, veicoli animali, su vie, spiazzi, mulattiere, sentieri, ecc. da determinarsi in futuro con ordinanza militare.

Uno dei proprietari gravati da tali limitazioni, il sig. Carlo Cesare Cometti, ritenendo di avere diritto ad un indennizzo per la soppressione dei pieni diritti di godimento della sua proprietà, con citazione del 9 dicembre 1959, conveniva il Ministero della difesa- esercito innanzi al Tribunale di Venezia, chiedendo la liquidazione di tale indennità, ed invocando a fondamento della domanda l'art. 46 della legge 25 giugno 1865, n. 2359, sulle espropriazioni per pubblica utilità, e l'art. 42 della Costituzione, previo eventuale giudizio sulla legittimità costituzionale dell'art. 3, secondo comma, della citata legge del 1932, n. 1849.

Il Tribunale e la Corte d'appello respingevano la domanda. Ma la Corte di cassazione, con ordinanza 27 gennaio 1964, ritenuta la non manifesta infondatezza della proposta questione di legittimità costituzionale, in relazione all'art. 42, terzo comma, della Costituzione, dell'art. 3, secondo comma, della legge 20 dicembre 1932, n. 1849, nella parte in cui per implicito é prevista la imposizione di dette servitù senza indennizzo, e giudicatane la rilevanza ai fini della decisione di merito, ha sospeso il giudizio, ordinando la trasmissione degli atti a questa Corte.

La Corte di cassazione ha osservato che l'art. 3, secondo comma, della legge del 1932 prevede l'indennizzo soltanto per l'ipotesi che la cosiddetta servitù militare sia positiva, e cioè consista in un facere (modifica dello stato delle cose, demolizione, ecc.), e perciò quando non ricorra tale ipotesi, ma quella diversa di una servitù negativa, ossia di un non facere (non aprire strade, non edificare, ecc.) l'indennizzo, in base alla legge ordinaria, non é dovuto.

Posto ciò la Cassazione ritiene che tanto se si attribuisca alle servitù militari il carattere tipico della servitù in senso tecnico, ossia della servitù prediale su fondo privato a profitto di un bene pubblico, quanto se si riconosca ad esse la figura di semplice limite di diritto pubblico al diritto di privata proprietà, in ogni caso sarebbe configurabile un contrasto della norma in esame con l'art. 42, terzo comma, della Costituzione, giacché nel primo caso vi sarebbe una costituzione di servitù (anche temporanea) imposta discrezionalmente dall'Autorità amministrativa senza indennizzo, e se si tratta, invece, di limite, il contrasto sempre sussisterebbe dato che la legge non prevede criteri obiettivi di qualificazione che valgano a differenziare il limite da un'effettiva parziale espropriazione del bene, rimessa all'Amministrazione senza corresponsione dell'indennizzo.

L'ordinanza é stata ritualmente notificata al Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.

In questa sede si é costituito il sig. Cometti la cui difesa ha depositato le deduzioni il 1 agosto 1964.

Partendo dall'elencazione delle numerose limitazioni imposte alla sua proprietà dal manifesto dell'Autorità militare, per il Cometti si rileva che della sua proprietà non gli resterebbe altro che un merum nomen.

Si osserva come la disciplina delle servitù militari introdotta con la legge del 1932, n. 1849, abbia subito un sostanziale mutamento rispetto a quella contenuta nel T.U. approvato con R.D. 16 maggio 1900. Con detto T.U., infatti, erano state determinate preventivamente, in modo preciso, con misure massime le zone circostanti le fortificazioni militari, ed entro tali zone poligonali erano proibite certe costruzioni o piantagioni da parte dei proprietari dei terreni viciniori. Di qui la teoria che le cosiddette servitù militari non erano delle vere e proprie servitù ma più esattamente dei limiti alla proprietà, giacché la costruzione di una fortificazione o di un complesso di opere importava de jure la compressione del diritto del proprietario di usare della res sua.

Con la legge 20 dicembre 1932, n. 1849, invece, la costruzione dell'opera militare, non fa sorgere, di diritto, alcuna servitù, non implica nessun vincolo, ma rappresenta soltanto il presupposto perché l'Autorità amministrativa si avvalga della potestà di imporre la servitù, facoltà che si appalesa di apprezzabile ampiezza.

Passando poi ad esaminare il secondo ed il terzo comma dell'art. 42 della Costituzione, si sostiene che il legislatore costituente abbia considerato due ipotesi, quella dei limiti, da imporre con norme universali, e cioè dalla legge, al libero godimento della proprietà per assicurarne la funzione sociale e per renderla accessibile a tutti (secondo comma) e quella dell'espropriazione per motivi di interesse generale, salvo indennizzo (terzo comma).

Ora, le servitù militari non pongono limiti destinati ad assicurare la funzione sociale della proprietà o a renderla accessibile a tutti, ma piuttosto si risolvono in parziali espropriazioni, imponendo gravissime limitazioni ai proprietari. Onde ad esse devesi ritenere applicabile il terzo comma dell'art. 42 della Costituzione, e, pertanto, alle servitù imposte ai terreni del deducente deve corrispondere un giusto indennizzo.

Si é costituito il Ministero della difesa-esercito, nel cui interesse l'Avvocatura generale dello Stato, con deduzioni depositate il 29 luglio 1964, ha sostenuto che il contrasto denunziato dalla Cassazione non sussiste.

Le servitù militari, disciplinate dalla legge 20 dicembre 1932, n. 1849, e dal regolamento 4 maggio 1936, n. 1388, sono da annoverare, secondo la dottrina più autorevole, tra le "limitazioni poste al diritto di proprietà nel pubblico interesse" e precisamente nell'interesse della difesa militare. I vincoli costituiti dalle servitù militari, che traggono origine, in base alla legge, dal rapporto di vicinanza della proprietà privata con il demanio militare, si concretano normalmente in divieti rivolti al proprietario di far uso di determinate facoltà, peraltro senza che queste si trasferiscano alla pubblica Amministrazione. Le limitazioni sono sancite nella legge e sono concretamente determinate con atto amministrativo soggetto agli ordinari rimedi giurisdizionali ed amministrativi.

Il campo delle limitazioni poste nell'interesse pubblico, nel nostro ordinamento, é vastissimo. Si va, infatti, dalle limitazioni che attengono al rapporto di vicinanza della proprietà privata con la proprietà demaniale, come quelle in esame, ai limiti derivanti dai piani regolatori edilizi, a quelli della legge sulla tutela delle cose di interesse storico e artistico, delle leggi sulla tutela delle bellezze naturali.

Più particolarmente, si indicano, poi, i numerosi esempi di limitazioni derivanti dal rapporto di vicinanza con la proprietà demaniale: l'Avvocatura ne fa una vasta elencazione.

Si mette in rilievo che dette limitazioni concettualmente concorrono a definire, in tutti gli ordinamenti, compreso quello italiano, il contenuto del diritto di proprietà che va esercitato tenuti presenti "i limiti e l'osservanza degli obblighi stabiliti nell'ordinamento giuridico" (art. 832 del Codice civile).

Ma tali limitazioni non importano alcun trasferimento di facoltà dal privato proprietario alla pubblica Amministrazione, cosa che, invece, si verifica nelle servitù vere e proprie di diritto pubblico o servitù prediali pubbliche (servitù di via alzaia o di marciapiedi sui beni laterali ai fiumi, servitù di scolo delle acque sui terreni laterali alle strade) le quali costituiscono uno jus in re a favore dell'Amministrazione. E tuttavia ad eccezione degli unici due casi di servitù di acquedotto e di elettrodotto, in rapporto alle quali si costituisce uno speciale jus in re aliena, per le servitù prediali, come per le limitazioni poste nel pubblico interesse, il vincolo non importa alcun indennizzo.

Passando poi ad illustrare tale sistema alla luce dell'art. 42 della Costituzione, l'Avvocatura sostiene che la legge può, in base alla norma costituzionale, determinare, oltre i modi di acquisto, anche i "modi di godimento" nonché i "limiti" della proprietà privata allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti.

Detta norma costituzionale concerne direttamente anche i limiti menzionati nella definizione del contenuto della proprietà dell'art. 832 del Codice civile quali restrizioni alla facoltà di godere e di disporre da parte del proprietario, e tali limiti previsti in connessione al raggiungimento dello scopo della funzione sociale della privata proprietà, incidono sui "modi di godimento" della proprietà stessa.

Ora, per la determinazione legislativa dei "modi di godimento" della proprietà privata e per la imposizione dei limiti, in funzione gli uni e gli altri dell'interesse sociale, la Costituzione non ha previsto alcun indennizzo; il che é conforme alla natura e all'essenza di tali vincoli che definiscono in concreto la proprietà privata, ed é conforme altresì al sistema della legislazione ordinaria, sopra delineato, secondo cui, tranne qualche eccezione, l'indennizzo é escluso sia nei casi di limitazioni di diritto pubblico vere e proprie che nei casi di servitù di diritto pubblico.

L'espropriazione é istituto che non ha alcun rapporto col contenuto e con la definizione del diritto di proprietà, ma incide sulle possibilità che tale diritto continui ad esistere nello stesso proprietario. Correlativamente il terzo comma dell'art. 42 della Costituzione non ha considerato questa o quella restrizione dettata, nel pubblico interesse, al "modo o facoltà di godimento", ma soltanto i casi di "trasferimento coattivo" ed effettivo della proprietà per motivi di interesse generale.

L'Avvocatura conclude che non esiste alcun contrasto tra le norme contenute nella legge del 1932, n. 1849 e la norma costituzionale, giacché, in primo luogo, le servitù militari sono da inquadrare tra le limitazioni e non tra le servitù vere e proprie di diritto pubblico e, in secondo luogo, non si attua alcuna espropriazione, cioè alcun trasferimento coattivo né del diritto di proprietà né di alcuna delle facoltà comprese nel diritto stesso, dal proprietario alla pubblica Amministrazione.

D'altra parte anche se si trattasse di vere e proprie servitù di diritto pubblico la conclusione sarebbe identica in rapporto alla costituzionalità della mancata previsione dell'indennizzo, giacché si tratterebbe sempre di vincolo a contenuto negativo che non importa, a favore dell'Amministrazione, alcun trapasso coattivo delle facoltà di usare e di godere parzialmente della cosa.

Con la memoria depositata il 14 ottobre 1965 l'Avvocatura sviluppa le proprie argomentazioni insistendo in primo luogo sulla qualificazione giuridica delle servitù militari che, nonostante la dizione legislativa, sono da collocare tra le limitazioni al diritto di proprietà privata poste nell'interesse pubblico, e, in secondo luogo, sul problema fondamentale della interpretazione delle norme costituzionali contenute nell'art. 42. Problema che, come già sostenuto nelle deduzioni, viene risolto nel senso che il termine "espropriazione", di cui al terzo comma, ha un solo e preciso significato che é quello tradizionale tecnico giuridico e non può dilatarsi fino a comprendere l'indennizzabilità di qualsiasi diminuzione patrimoniale o di qualsiasi limite e che, pertanto, il Costituente ha inteso garantire l'indennizzo solo nel caso di esproprio e non dei semplici limiti di cui al secondo comma.

 

Considerato in diritto

 

1. - La norma denunziata é contenuta nel secondo comma dell'art. 3 della legge 20 dicembre 1932, dal cui testo si evince, per omissione, l'esclusione di ogni indennizzo fuori dei casi di modificazione dello stato delle cose ai sensi del primo comma dello stesso articolo.

Per giudicare se tale esclusione sia in contrasto con l'art. 42, terzo comma, della Costituzione occorre vedere se le "servitù" indicate nell'art. 1 e specificate nell'art. 2 di tale legge comportino, in tutto o in parte, una espropriazione ai sensi della invocata norma costituzionale.

La difesa della parte privata sostiene che le servitù militari non pongono meri limiti al libero godimento della proprietà, ma si risolvono in parziali espropriazioni, alle quali deve corrispondere un giusto indennizzo. Nella specie, le limitazioni sarebbero tali da ridurre il diritto del proprietario ad un merum nomen.

L'Avvocatura dello Stato, nel presupposto che non si abbia espropriazione se non nel caso di trasferimento coattivo di un diritto dello espropriato allo espropriante, nega che possa par tarsi di espropriazione e quindi di indennizzabilità rispetto all'imposizione di limitazioni, tranne che ricorra un danno permanente che produca la definitiva soppressione del diritto.

2. - É da premettere che questa Corte non é chiamata a risolvere la questione se spetti o no all'attore nel giudizio a quo un indennizzo a causa delle "servitù" imposte nella sua proprietà: in questa sede si giudica della legittimità delle norme, non dell'applicazione di esse ai casi concreti.

É altresì da premettere che per risolvere la questione di legittimità costituzionale non gioverebbe far ricorso ad un'altra questione: quella del carattere delle cosiddette servitù militari. Che trattisi di servitù o di limiti non ha influenza decisiva, come ha messo bene in luce l'ordinanza della Corte di cassazione; tanto più che, non essendo chiarito a sufficienza nella legislazione, nella giurisprudenza e nella dottrina il significato dei due termini "servitù" e "limiti" (assunti come sinonimi ed intercambiabili i due termini "limiti" e "limitazioni", le cui differenze di significato, se pure esistono, non hanno rilievo ai fini della questione in esame), specialmente in rapporto alle servitù militari, il tentativo di una definizione di tale significato in questa sede non partirebbe da una base sicura e difficilmente approderebbe ad una sicura soluzione.

Ma anche se fosse possibile giungere ad una appagante discriminazione, rispetto alle predette "servitù", dei due concetti di servitù e di limite, ciò non offrirebbe un criterio valevole per identificare i casi in cui sussista espropriazione e quindi diritto all'indennizzo. Difatti, non sarebbe esatto affermare che si abbia sempre espropriazione nei casi di servitù e non si abbia mai espropriazione nei casi di limiti, giacché possono esserci imposizioni di servitù che non importano espropriazione e imposizioni di limiti che hanno carattere di espropriazione, secondo la natura, l'incidenza, l'entità del sacrificio che deriva dalla imposizione.

3. - Giova, anzitutto, affermare che la nozione di espropriazione enunciata nell'art. 42, terzo comma, della Costituzione non può essere ristretta al concetto di trasferimento coattivo nell'obbligo della indennizzabilità può essere ricondotto esclusivamente a tale concetto.

Già nel periodo anteriore alla Costituzione vigente era pacifica l'indennizzabilità in alcuni casi nei quali non si aveva trasferimento, fossero o no tali casi classificabili sotto il concetto di espropriazione: si ricordino i casi di requisizione in uso, di occupazioni temporanee, di danno permanente conseguente all'esecuzione di opere pubbliche; la imposizione di talune servitù; la eliminazione di servitù senza il trasferimento della servitù stessa ad altri. Del resto anche nel caso previsto dall'art. 3, primo comma, della legge denunziata la legge stessa prevede il diritto ad indennità anche se non si verificano trasferimenti.

Ora, se é vero che il Costituente nel parlare di espropriazione si é riferito a questo istituto quale risultava dalla tradizione in atto, é pure certo, da un canto, che la tradizione conosceva espropriazioni non traslative e, dall'altro, che con l'art. 42, terzo comma, non fu esclusa l'indennizzabilità per i casi in cui il diritto vigente ammetteva - ed ammette - l'indennizzabilità anche se non sussista trasferimento di diritti.

Lo Statuto albertino, mentre dichiarava inviolabile la proprietà, permetteva, dato il suo carattere di flessibilità, che la legge ordinaria limitasse o addirittura sottraesse il diritto all'indennizzo. All'opposto, la Costituzione vigente, per un verso, accorda una minore tutela, ma, per l'altro, stante il suo carattere rigido, non ammette la legittimità di una legge ordinaria che disponendo o autorizzando misure espropriative, neghi l'indennizzo.

Che cosa debba intendersi per espropriazione ai sensi del terzo comma dell'art. 42 risulta dal confronto di questa norma con i due commi precedenti dello stesso articolo. Con il primo comma e con la prima parte del secondo comma, si afferma, in correlazione con altri articoli, quali precipuamente il 41, il 43 ed il 44, il principio che l'istituto della proprietà privata é garantito; con la seconda parte del secondo comma si enuncia che la legge ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti; nel terzo comma si prevede che la proprietà può essere espropriata, salvo indennizzo. Ciò comporta che la determinazione dei modi di acquisto e di godimento e dei limiti, volta, come deve essere, a regolare l'istituto della proprietà privata, a stabilirne, cioè, la configurazione nell'ordinamento positivo, non può violare la garanzia accordata dalla Costituzione al diritto di proprietà, sopprimendo l'istituto della proprietà privata o negando ovvero comprimendo singoli diritti senza indennizzo. La logica del sistema impone di considerare che la violazione della garanzia si avrebbe non soltanto nei casi in cui fosse posta in essere una traslazione totale o parziale del diritto, ma anche nei casi in cui, pur restando intatta la titolarità, il diritto di proprietà venisse annullato o menomato senza indennizzo.

4. - Trattandosi di materia non regolata, in via generale, dal legislatore e ancora in elaborazione da parte della dottrina e della giurisprudenza, non é possibile fissare criteri sicuri, valevoli a comprendere tutti i casi e a chiarire tutte le situazioni.

Tuttavia, si può affermare che la legge può non disporre indennizzi quando i modi ed i limiti che essa segna, nell'ambito della garanzia accordata dalla Costituzione, attengano al regime di appartenenza o ai modi di godimento dei beni in generale o di intere categorie di beni ovvero quando essa regoli la situazione che i beni stessi abbiano rispetto a beni o a interessi della pubblica Amministrazione; sempre che, la legge, sia destinata alla generalità dei soggetti i cui beni si trovino nelle accennate situazioni, salva la possibilità di accertare con singoli atti amministrativi l'esistenza di tali situazioni rispetto a singoli soggetti ed a singoli beni. Per questo può anche dirsi che le imposizioni devono avere carattere obbiettivo, nel senso che devono scaturire da disposizioni che imprimano, per così dire, un certo carattere a determinate categorie di beni, identificabili a priori per caratteristiche intrinseche.

Se le imposizioni non abbiano questo carattere generale ed obbiettivo, in quanto comportino un sacrificio per singoli soggetti o gruppi di soggetti rispetto a beni che non si trovino nelle condizioni suindicate, allora sorge il problema dell'indennizzabilità. In questi casi può dirsi che si ha espropriazione quando il godimento del bene (nel senso di utilizzazione e di disposizione) sia in tutto o in parte sottratto al titolare del diritto, essendo senza decisiva importanza il fatto che titolare ne resti o no il proprietario. Né ha importanza il fatto che il sacrificio sia imposto direttamente dalla legge o con atto amministrativo in base alla legge, perché non é la forma dell'atto di imposizione quella che dà all'atto stesso la sua caratteristica come atto di espropriazione.

É, pertanto, da considerarsi come di carattere espropriativo anche l'atto che, pur non disponendo una traslazione totale o parziale di diritti, imponga limitazioni tali da svuotare di contenuto il diritto di proprietà incidendo sul godimento del bene tanto profondamente da renderlo inutilizzabile in rapporto alla destinazione inerente alla natura del bene stesso o determinando il venir meno o una penetrante incisione del suo valore di scambio. É altresì da considerare come di carattere espropriativo l'atto che costituisca servitù o imponga limiti a carico della proprietà, quando gli uni e gli altri siano di entità apprezzabile, anche se non tali da svuotare di contenuto il diritto del proprietario.

Non si può negare che nei criteri esposti ha parte notevole un elemento quantitativo, nel senso che il carattere espropriativo é fatto dipendere anche dalla maggiore o minore incidenza che il sacrificio imposto ha sul contenuto del diritto. Ma questo é un elemento insopprimibile del concetto di espropriazione, intesa non soltanto come trasferimento ma anche come sottrazione o menomazione del godimento del diritto: sottrazione o menomazione che deve essere prevista ed accertata anche in rapporto alla concretezza del sacrificio imposto.

5. - Sulla base dei criteri enunciati, occorre ora tornare all'esame dell'art. 2 della legge denunziata.

In primo luogo, é da dire che non trattasi di limitazioni (si qualifichino servitù o limiti) aventi carattere generale ed obbiettivo nei sensi sopra indicati. Trattasi di imposizioni da disporsi, in base alla legge, con atti amministrativi, improntati a criteri di larga discrezionalità ed aventi contenuto svariato.

É, tuttavia, da notare che nessuna delle previsioni contenute nell'art. 2 rappresenta, isolatamente considerata, un caso di espropriazione. Anche le prescrizioni che appaiono più impegnative - come quella di non impiantare linee elettriche o condotte di acqua o di gas o quella di non tenere fucine o altri impianti provvisti di focolare o quella di non fabbricare muri o edifici o quella, purché temporanea, di non transitare o non sostare - non sono idonee, da sole ed in astratto, a costituire atti di espropriazione: tali sarebbero se, per fare due soli esempi, dalla imposizione di uno o più limiti risultasse impedita la coltivazione della terra e la raccolta dei frutti in un fondo agricolo o la possibilità di abitazione (soggiorno, preparazione e consumazione dei pasti, ecc.) in un edificio a ciò destinato.

Ciò posto, mentre non si può dichiarare l'illegittimità della norma denunziata in quanto nega l'indennizzo in relazione all'uno o all'altro dei sacrifici previsti dalla legge, tale dichiarazione si deve emettere in relazione ai casi in cui per effetto di uno o più di tali sacrifici si abbia espropriazione nel senso delineato nella motivazione di questa sentenza.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 3, secondo comma, della legge 20 dicembre 1932, n. 1849, sulle servitù militari, in riferimento all'art. 42, terzo comma, della Costituzione, in quanto non prevede indennizzo per limitazioni della proprietà privata di natura espropriativa nei sensi di cui in motivazione

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 gennaio 1966.

 

Gaspare AMBROSINI - Giuseppe CASTELLI AVOLIO - Antonino PAPALDO - Nicola JAEGER - Giovanni CASSANDRO - Antonio MANCA - Aldo SANDULLI - Giuseppe  BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ -  Giovanni BATTISTA BENEDETTI - Francesco Paolo BONIFACIO 

 

 

Depositata in cancelleria il 20 gennaio 1966.