Sentenza n. 68 del 1964
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SENTENZA N. 68

ANNO 1964

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Prof. GASPARE AMBROSINI, Presidente

Prof. GIUSEPPE CASTELLI AVOLIO

Prof. ANTONINO PAPALDO

Prof. NICOLA JAEGER

Prof. GIOVANNI CASSANDRO

Prof. BIAGIO PETROCELLI

Dott. ANTONIO MANCA

Prof. ALDO SANDULLI

Prof. GIUSEPPE BRANCA

Prof. MICHELE FRAGALI

Prof. COSTANTINO MORTATI

Prof. GIUSEPPE CHIARELLI

Dott. GIUSEPPE VERZÌ

Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI

Prof. FRANCESCO PAOLO BONIFACIO

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 2 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, contenente norme di prevenzione nei confronti di persone pericolose per la sicurezza e la pubblica moralità, promosso con ordinanza emessa il 31 gennaio 1963 dal Pretore di Cortina d'Ampezzo nel procedimento penale a carico di Gollino Ada, iscritta al n. 57 del Registro ordinanze 1963 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 87 del 30 marzo 1963.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

udita nell'udienza pubblica del 18 marzo 1964 la relazione del Giudice Antonino Papaldo;

udito il sostituto avvocato generale dello Stato Franco Chiarotti, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

Con ordinanza del 31 gennaio 1963, emessa nel procedimento penale a carico di Ada Gollino, notificata al Presidente del Consiglio dei Ministri ed alla parte, rispettivamente, il 9 ed il 6 febbraio 1963, comunicata ai Presidenti delle due Camere in data 7 febbraio dello stesso anno, e pubblicata nella Gazzetta Ufficiate della Repubblica, n. 87 del 30 marzo 1963, il Pretore di Cortina d'Ampezzo ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, contenente norme di prevenzione nei confronti di persone pericolose per la sicurezza e la pubblica moralità, in riferimento agli artt. 16, 3, 25, terzo comma, e 102, primo comma, della Costituzione.

Nell'ordinanza si osserva che ragioni di sicurezza e di sanità possono, a norma dell'art. 16 della Costituzione, giustificare l'allontanamento di una persona da un certo luogo, non invece l'ordine di portarsi (pur senza l'obbligo di rimanervi) in altro luogo. I fini di prevenzione perseguiti dall'art. 16 citato sarebbero soddisfatti da una norma che consentisse l'allontanamento di una persona da un determinato luogo; la norma, invece, che prevede l'obbligo di portarsi (senza rimanervi) in altro luogo, sembrerebbe superare tali fini, dimostrandosi, rispetto ad essi, incongrua per eccesso.

La norma sarebbe in contrasto anche con l'art. 3 della Costituzione, perché autorizzerebbe limitazioni della libertà di circolazione e di soggiorno non già in relazione a motivi di carattere generale ed obiettivo, come richiede l'art. 16 della Costituzione, ma in base a motivi ed a situazioni che implicano un giudizio sulla personalità e sul comportamento dei singoli soggetti. Di conseguenza, l'ordine di rimpatrio, comportando la qualifica di persona socialmente pericolosa, inciderebbe sulla dignità del soggetto.

Vi sarebbe poi violazione del terzo comma dell'art. 25 della Costituzione, in quanto il principio della assoluta riserva di legge investe non soltanto le misure di sicurezza in senso stretto, ma anche la più ampia categoria delle misure di prevenzione, fra le quali rientra il rimpatrio con foglio di via obbligatorio.

Infine, l'art. 2 sarebbe in contrasto con l'art. 102 della Costituzione, in quanto la misura di prevenzione in questione sarebbe presa dall'autorità amministrativa e non da quella giudiziaria e senza instaurare un contraddittorio nei confronti del cittadino.

Il Pretore, premesso che la questione di costituzionalità, così formulata, non é stata presa in esame dalla Corte in precedenti occasioni, ha sollevato la questione stessa, ritenendola non manifestamente infondata e rilevante per la decisione della causa.

La parte privata non si é costituita nel giudizio davanti alla Corte. É intervenuto, invece, il Presidente del Consiglio dei Ministri, con il patrocinio dell'Avvocatura dello Stato, la quale nelle proprie deduzioni, depositate in cancelleria il 28 febbraio 1963, sostiene che la questione sollevata dal Pretore di Cortina d'Ampezzo non é fondata. E ciò per i seguenti motivi.

Il concetto di limitazione della libertà di soggiorno e di circolazione presuppone, ovviamente, il riferimento ad un luogo nel quale sia consentito soggiornare e tale luogo non può non essere, in astratto, che quello della dimora abituale e cioè della residenza della persona.

Che da parte del Questore il rinvio avvenga al luogo di residenza é logico, un luogo di soggiorno dovendo pur essere riconosciuto all'individuo. Ed é altrettanto logico che la norma di legge si richiami a quel luogo, e non ad un altro, per la funzione strumentale che l'istituto ha, ai fini di un controllo sull'adempimento del precetto di non soggiornare in un certo luogo, ove ostino motivi di sicurezza o di sanità. Ma la norma costituzionale, accanto ai limiti di soggiorno, prevede anche i limiti di circolazione. Ed é appunto in questi limiti di circolazione che s'inquadra l'ordine di rientro nel luogo di residenza, anche se l'obbligo non trovi poi compiuta espressione nel divieto di allontanarvisi.

L'art. 2 della legge del 1956 non appare eccedere tali limiti.

É da negarsi poi che sussista violazione dell'art. 3 della Costituzione.

Secondo la giurisprudenza della Corte, la violazione del principio di eguaglianza sussiste quando la norma di legge sia dettata "in odio" a certe categorie di persone: nella specie, ciò non sussiste, perché i limiti di soggiorno e di circolazione sono posti nei confronti delle persone indicate nella legge del 1956 e ritenute pericolose per la sicurezza pubblica o per la pubblica moralità, che si trovino fuori dei luoghi di residenza.

Nulla, quindi, "in odio" a categorie di persone, il cui status non giustifichi le limitazioni in astratto previste dalla norma costituzionale.

Per quanto attiene, infine, alla dedotta violazione degli artt. 25 e 102 della Costituzione, l'Avvocatura, mentre ammette che la riserva di legge di cui all'ultimo comma dell'art. 25 investe non solo le misure di sicurezza in senso stretto, ma anche la più ampia categoria delle misure di prevenzione, fra le quali non v'é dubbio che rientri il così detto rimpatrio con foglio di via obbligatorio, nega che alle misure di prevenzione si estenda anche la riserva di giurisdizione, fondata dal Pretore sullo stesso art. 25 e sull'art. 102 della Costituzione. La riserva di giurisdizione concerne soltanto le misure di sicurezza e, delle misure di prevenzione, solo quelle che si risolvono in una restrizione della libertà personale, per la quale valgono le disposizioni di cui all'art. 13 della Costituzione. Il rimpatrio con foglio di via obbligatorio non comporta restrizione alla libertà personale, e pertanto esso può essere opisdsto anche da autorità diversa da quella giudiziaria, il cui intervento é necessario per le misure di sicurezza in senso stretto. Del resto l'ordinamento giuridico offre strumenti idonei per il controllo della legittimità degli atti di prevenzione, e, pertanto, anche sotto tale profilo, la questione prospettata dal Pretore di Cortina d'Ampezzo deve ritenersi infondata.

 

Considerato in diritto

 

1. - L'ordinanza osserva che ragioni di sicurezza (o di sanità) possono giustificare l'allontanamento di una persona da un luogo determinato, ma non giustificano l'obbligo di portarsi, senza rimanervi, in altro luogo.

Tale misura, non congrua rispetto alle esigenze da soddisfare, costituirebbe una limitazione della libertà di circolazione e di soggiorno più grave, e comunque ulteriore e diversa, in confronto a quella consistente nel mero allontanamento da un certo luogo.

L'osservazione non é fondata. Potrebbe anche non contestarsi l'esattezza dell'affermazione del Pretore, che, cioè , quando il sacrificio di un diritto può essere disposto soltanto per salvaguardia di un interesse pubblico determinato da una norma costituzionale, é ammissibile il raffronto tra il mezzo prescelto dal legislatore ordinario per quella salvaguardia e il fine impostogli, come limite, dal legislatore costituzionale: di modo che, ove il mezzo risultasse incongruo o addirittura eccessivo, la norma potrebbe essere costituzionalmente illegittima. Ma, rispetto alla disposizione in esame, non si ravvisa né incongruità né eccesso.

L'obbligo di portarsi, almeno inizialmente, nel Comune di residenza risponde ad una esigenza logica, fondata sulla realtà: senza la indicazione di una destinazione il foglio di via avrebbe l'aspetto di un bando, non di un ordine di trasferimento da un Comune ad un altro.

D'altra parte, poiché tra Comuni e Comuni della Repubblica italiana non ci sono barriere, non sarebbe materialmente possibile né per l'autorità di pubblica sicurezza né per la stessa persona munita di foglio di via obbligatorio accertare e fare accertare se tale persona si sia effettivamente allontanata dal territorio di un Comune. Ora, siffatto accertamento non é soltanto richiesto da esigenze di buon funzionamento degli uffici di polizia ai fini di un efficace controllo, che può essere unicamente effettuato presso gli uffici esistenti in un determinato Comune; ma l'ordine di raggiungere il Comune di residenza offre anche una garanzia per la stessa persona munita del foglio di via, al cui interesse giova che la destinazione sia fissata dalla legge. Difatti, più gravi limitazioni della libertà di soggiorno e di circolazione e maggiori disagi si sarebbero avuti se la scelta fosse stata devoluta all'autorità di pubblica sicurezza. Né la scelta poteva essere lasciata allo stesso interessato, dovendosi ragionevolmente presumere che egli nel luogo della sua dimora abituale abbia le maggiori possibilità di reinserirsi in un ambiente più confacente ad un sistema di vita meno esposto ai pericoli ed ai turbamenti del luogo di non abituale dimora.

Se, poi, la persona non troverà adatto al suo soggiorno il Comune di residenza, sarà libera di spostarsi dove vorrà, purché, fino a quando perduri l'ordine di allontanamento, non torni al luogo di provenienza.

Le esposte considerazioni mostrano come nella norma denunziata non sussista incongruità né eccesso rispetto ai fini ed ai limiti segnati dal precetto costituzionale.

2. - La seconda censura prospetta alcuni nuovi argomenti per contrastare l'interpretazione data dalla Corte, con sentenza n. 2 del 1956, alla formula contenuta nell'art. 16 della Costituzione: limitazioni stabilite in via generale dalla legge. In quella sentenza fu detto che l'inciso "in via generale" deve intendersi nel senso che la legge debba essere applicabile alla generalità dei cittadini, non a singole categorie.

Secondo il Pretore, invece, quell'inciso, che non si trova né nell'art. 13 né nell'art. 25, ultimo comma, della Costituzione, significherebbe che le limitazioni consentite dall'art. 16 si riferiscono a motivi di carattere generale, obiettivamente accertabili, e non a motivi che implichino un giudizio sulla personalità e sui comportamenti dei soggetti, tanto più che questo giudizio darebbe luogo a discriminazioni inaccettabili.

Solo escludendo la possibilità di un giudizio rispetto ai comportamenti individuali, si potrebbe ammettere che questi provvedimenti siano adottati dall'autorità amministrativa.

L'interpretazione sostenuta nell'ordinanza non risponde alle finalità chiaramente volute dalla norma costituzionale. I motivi di sanità o di sicurezza possono nascere da situazioni generali o particolari. Ci può essere la necessità di vietare l'accesso a località infette o pericolanti o di ordinarne lo sgombero; e queste sono ragioni - non le uniche - di carattere generale, obiettivamente accertabili e valevoli per tutti. Ma i motivi di sanità e di sicurezza possono anche derivare, e più frequentemente derivano, da esigenze che si riferiscono a casi individuali, accertabili dietro valutazioni di carattere personale. Si pensi alla necessità di isolare individui affetti da malattie contagiose o alla necessità di prevenire i pericoli che singoli individui possono produrre rispetto alla sicurezza pubblica.

Il fatto che l'art. 16 accomuni, mettendole sullo stesso piano, le ragioni di sanità e di sicurezza é indice che non può trattarsi solo di ragioni di carattere generale, non essendo pensabile che motivi di sanità attinenti alla pericolosità di singoli individui possano non essere validi ai fini delle limitazioni consentite dalla norma costituzionale. Ed anche il fatto che lo stesso art. 16 esclude le restrizioni determinate da ragioni politiche conferma che le limitazioni possono essere adottate per motivi di carattere individuale, non essendo concepibile una misura ispirata da motivi politici se non in vista dei personali convincimenti e comportamenti di individui e di gruppi.

D'altra parte, se il costituente avesse avuto la volontà di circoscrivere le limitazioni ai soli casi di carattere generale, avrebbe certamente preveduto, magari imponendo particolari garanzie, la possibilità di adottare provvedimenti di carattere individuale almeno nei casi urgenti. E sarebbe strano il fatto che, mentre per le restrizioni della libertà personale l'art. 13 prevede che la legge indichi i casi urgenti in cui l'autorità di pubblica sicurezza può intervenire, l'art. 16 avrebbe escluso in via assoluta che la legge possa statuire limitazioni alla libertà di circolazione e di soggiorno che non siano di carattere generale.

Che la volontà del costituente sia stata quella di venire incontro alle pubbliche esigenze di sanità e di sicurezza anche rispetto alle situazioni di carattere individuale, si evince in modo chiaro dai lavori preparatori, dai quali risulta che si volle lasciare alle autorità di pubblica sicurezza la possibilità di "rinviare al proprio domicilio, con foglio di via obbligatorio, le persone che siano per un modo o per un altro, indesiderabili, come nei casi di accattonaggio, prostituzione, etc.", considerando "come forma essenziale di tutela della libertà dei cittadini quella di permettere alla polizia di restituire al loro domicilio e ivi fissare le persone pericolose alla sicurezza pubblica". E proprio per prevenire qualsiasi abuso nel campo politico si stabilì che nessuna restrizione può essere determinata da ragioni politiche.

Nel quadro di questi presupposti, ed espressamente in vista di essi, fu inserita nel testo definitivo dell'attuale art. 16 la formula "in via generale", per chiarire che "le autorità non possono porre limiti contro una determinata persona o contro determinate categorie": non nel senso che non si potessero adottare provvedimenti contro singoli o contro gruppi, ma nel senso che non si potessero stabilire illegittime discriminazioni contro singoli o contro gruppi.

La conclusione é che la formula "stabilisce in via generale"altro non é che una particolare e solenne riaffermazione del principio posto nell'art. 3 della Costituzione, come lo é nell'art. 21, ultimo comma, della stessa Costituzione.

In vista della particolare delicatezza di questi provvedimenti che i costituenti non dubitarono che fossero di competenza della autorità amministrativa, non fa meraviglia che si sia sentita la opportunità di ribadire un canone che la Costituzione enuncia come uno dei suoi principi fondamentali.

Con la recente sentenza n. 23 del 1964 la Corte ha dichiarato, in relazione all'art. 1 della legge del 1956, che la disposizione configura una categoria di persone identificabili in base ad elementi da essa stessa determinati: che poi la sua attuazione implichi un margine di discrezionalità nelle valutazioni dei singoli casi concreti non é motivo perché possa ravvisarsi nella norma un contrasto con l'art. 3 della Costituzione, essendo proprie, quelle valutazioni, di ogni giudizio diretto all'applicazione di norme giuridiche.

Si può ulteriormente precisare che nell'accertamento da farsi ai fini dell'applicazione della misura prevista dall'art. 2 della stessa legge, non si emette un giudizio sulla moralità e sulla rispettabilità della persona, ma si accerta il pericolo per la sicurezza o per la sanità, come ebbe a rilevare la Corte con un'altra sua sentenza (n. 126 del 1962). Quando, nel caso in cui questo accertamento sia positivo, si dia luogo all'applicazione della diffida o del rimpatrio, il provvedimento non può dirsi discriminatorio, giustificato com'é dalla necessità da cui é stato determinato: necessità che esclude ogni carattere di arbitrarietà e di ingiusta discriminazione. É, quindi, da escludere, sotto questo aspetto, la violazione dell'art. 3 della Costituzione.

Sarà separatamente esaminata l'altra questione circa il denunziato contrasto con lo stesso art. 3 per il fatto che il provvedimento previsto dall'art. 2 della legge del 1956, risolvendosi in una misura lesiva della dignità della persona, non é stato attribuito alla competenza del giudice.

3. - Nelle precedenti pronunce della Corte la questione relativa alla competenza dell'organo chiamato ad applicare i provvedimenti in questione era stata esaminata sotto l'aspetto della violazione dell'art. 13 della Costituzione, e ciò in conformità e nei limiti delle proposizioni contenute nelle ordinanze di rimessione.

Escluso che la limitazione dei diritti riconosciuti con l'art. 16 fosse da considerarsi restrizione della libertà personale ai sensi dell'art. 13, la Corte ha più volte ripetuto che non é necessario l'intervento del giudice.

Il Pretore di Cortina d'Ampezzo risolleva la questione prospettandola da un angolo visuale che vorrebbe essere diverso:

la norma denunziata violerebbe una riserva di giurisdizione posta dalla Costituzione. Tale riserva risulterebbe precipuamente dall'art. 102 della Costituzione. In questa norma, che vieta l'esercizio della funzione giurisdizionale ad organi diversi da quelli investiti di giurisdizione, il Pretore trova implicito il divieto di affidare ad altri organi certi atti che per loro natura devono essere attribuiti ad un giudice, "essendo compito della giurisdizione di giudicare gli individui e correlativamente disporre delle loro libertà fondamentali": nel che si concreterebbe la "riserva di giurisdizione". Il provvedimento di rimpatrio sarebbe uno di codesti atti riservati al giudice.

Poiché, ai fini di questa causa, ci si deve occupare soltanto degli atti della pubblica Amministrazione, la Corte ritiene che sia d'uopo ricordare che la vita amministrativa pubblica é intessuta di atti, che l'Amministrazione adotta senza un previo accertamento da parte dei giudici e che sono senz'altro imperativi. É questa, anzi, una delle caratteristiche degli atti amministrativi. Ed anche in relazione a questo generale potere degli organi amministrativi di adottare provvedimenti senz'altro imperativi, é da considerare la norma dell'art. 113 della Costituzione, secondo cui contro gli atti della pubblica Amministrazione é ammessa, senza esclusioni o limitazioni, la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi.

Si può dunque affermare che la tutela giurisdizionale rispetto agli atti dell'Amministrazione é sempre assicurata senza limitazioni; ma di regola é assicurata a posteriori.

Esistono indubbiamente delle sfere nell'ambito delle quali l'Amministrazione non può provvedere, essendo la competenza riservata agli organi giurisdizionali. Ma a tal fine occorre attenersi alle singole disposizioni.

E poiché nel caso attuale si tratta di giudicare in ordine al provvedimento di rimpatrio obbligatorio, l'esame consiste nel rilevare se la disposizione denunziata, deferendo il provvedimento ad un organo dell'Amministrazione, violi le norme od i principi della Costituzione invocati nell'ordinanza di rinvio.

Si sostiene, nell'ordinanza, che la Costituzione tutela la pari dignità sociale della persona (art. 3) e precisa, negli artt. 25, 27 e 101 e seguenti, a quali organi e con quali garanzie spetta di emanare giudizi che intacchino quella parità, specialmente quando si risolvano in una degradazione giuridica della persona: rilievo questo che potrebbe dirsi confortato dalla sentenza n. 11 del 1956, emessa dalla Corte sia pure nei confronti dell'art. 13 della Costituzione.

La Corte osserva che fra gli articoli seguenti al 101 bisogna considerare il 102, sul quale l'ordinanza aveva posto l'accento per fondarvi il principio della riserva di giurisdizione. L'argomento addotto dall'ordinanza, secondo cui dal divieto di attribuire funzioni giurisdizionali ad organi non investiti di giurisdizione si dovrebbe dedurre la esistenza di detta riserva, operante anche in riferimento al caso in esame, non appare esauriente, risolvendosi, quell'argomento, in una petizione di principio.

Né a favore della tesi sostenuta nell'ordinanza si possono trarre argomenti dalle altre norme costituzionali ora richiamate.

Non si può, infatti, fondatamente affermare che alla pubblica Amministrazione sia sottratto qualunque provvedimento che intacchi la dignità delle persone.

Nella vastissima sfera dei suoi compiti pubblici l'Amministrazione é chiamata ad emettere una numerosa serie di atti le cui ripercussioni sulla stimabilità delle persone possono essere rilevanti: si pensi agli atti relativi a decadenze, dimissioni, divieti, sanzioni amministrative, fra le quali, rilevantissime, quelle disciplinari, che possono giungere alla destituzione di pubblici dipendenti ed alla radiazione dagli albi professionali. Ben potrebbe il legislatore attribuire al giudice la competenza di adottare qualcuno di questi atti; ma non ha fondamento la tesi secondo cui tutti gli atti del genere debbano essere affidati esclusivamente al giudice. Le leggi ed i principi elaborati dalla giurisprudenza amministrativa stabiliscono le garanzie formali e sostanziali che spettano al cittadino nei confronti dell'Amministrazione quando trattisi di provvedimenti inerenti alle persone; ma ciò non significa che, nell'ambito della legittimità costituzionale, sia necessario che tali garanzie siano sempre poste nelle mani del giudice. Questi ne conoscerà dopo; ed uno degli elementi essenziali del suo esame consisterà nel rilevare se quelle garanzie siano state o non rispettate dall'organo amministrativo.

Si può concludere che dall'insieme delle norme ora esaminate non si può dedurre l'esistenza di un principio generale di ordine costituzionale, che affermi la necessità dell'intervento del giudice in tutti i casi in cui nell'interesse della pubblica Amministrazione si debba procedere ad atti da cui derivi o possa derivare una menomazione della dignità della persona. In sostanza, o tali atti sono ammissibili in base all'art. 3 della Costituzione, e allora anche le autorità amministrative possono emetterli, salvo che in virtù di altre norme o principi costituzionali la competenza non debba essere affidata al giudice, o non sono ammissibili e allora neppure una sentenza del giudice potrebbe adottarli.

Una delle norme della Costituzione su cui é basato l'obbligatorio intervento dell'organo giurisdizionale é l'art. 13. E sull'art. 13, come esattamente nota l'ordinanza di rimessione, fu fondata la pronuncia di illegittimità delle disposizioni relative all'ammonizione. Con quella pronuncia, contenuta nella sentenza n. 11 del 19 giugno 1956, la Corte, dopo avere affermato che "in nessun caso l'uomo potrà essere privato o limitato nella sua libertà se questa privazione o restrizione non risulti astrattamente prevista dalla legge, se un regolare giudizio non sia a tal fine instaurato, se non vi sia provvedimento dell'autorità giudiziaria che ne dia le ragioni", considerò che secondo le norme allora vigenti l'ammonizione si concretava nella restrizione della libertà personale, risolvendosi in una sorta di degradazione giuridica.

Con questa sentenza, che non rappresenta una manifestazione isolata del pensiero della Corte, ma che é invece strettamente collegata con la coeva decisione n. 2 del 14 di quello stesso mese di giugno del 1956, venne fissato un orientamento sul quale la Corte é rimasta ferma nelle successive decisioni.

É stato escluso che il rimpatrio obbligatorio importi restrizione della libertà personale, ponendo esso soltanto limiti alla possibilità di movimento e di soggiorno. Ciò fu dichiarato con la sentenza n. 45 del 1960, alla quale hanno fatto seguito non poche altre conformi decisioni, rispetto alle quali la Corte non ritiene che sussistano ragioni per cambiare indirizzo.

L'ordine di rimpatrio non é suscettibile di coercitiva esecuzione. Gli organi di polizia possono procedere alla traduzione solo dopo che il giudice penale, accertata la legittimità dell'atto, abbia dichiarato che l'intimato si é sottratto all'obbligo di obbedienza. Espletate le necessarie formalità per accertare che il soggetto abbia raggiunto la nuova sede, l'intimato é libero di restarvi o di trasferirsi altrove, purché non torni alla sede dalla quale é stato allontanato. Non sussistono altri adempimenti, né altri vincoli o limitazioni alla libertà del soggetto.

Se si confronta questa situazione con quella rilevata dalla sentenza n. 11 del 1956 rispetto all'ammonizione, si vede come nel rimpatrio obbligatorio non sussistano quegli elementi in vista dei quali la Corte riscontrò nell'ammonizione una causa di "degradazione giuridica".

In sostanza, le due decisioni del 1956 e le decisioni successive hanno ritenuto che per aversi degradazione giuridica, come uno degli aspetti di restrizione della libertà personale ai sensi dell'art. 13 della Costituzione, occorre che il provvedimento provochi una menomazione o mortificazione della dignità o del prestigio della persona, tale da potere essere equiparata a quell'assoggettamento all'altrui potere, in cui si concreta la violazione del principio dell'habeas corpus.

Per le ragioni esposte, l'ordine di rimpatrio non presenta tale carattere.

Nell'ordinanza viene esposto un altro argomento per sostenere l'obbligatorio intervento del giudice.

Il fine preventivo delle misure di polizia non toglierebbe che esse possano avere il contenuto di una sanzione, tanto più che per il rimpatrio obbligatorio non basta più il mero sospetto, e la pericolosità del soggetto, che ne costituisce il presupposto, non può essere soltanto desunta dalla sua personalità biopsichica, ma deve sempre esprimersi attraverso liberi comportamenti. Comunque, sussisterebbe una riserva di giurisdizione per l'applicazione delle misure di polizia, al pari delle misure di sicurezza, per le quali detta riserva risulterebbe dall'art. 25, terzo comma, della Costituzione, come si desumerebbe dalla stessa collocazione della norma che si apre con l'obbligatoria precostituzione del giudice e che a sua volta fa parte di una serie di articoli (da 24 a 27) tutti riferentisi alle attività dei giudici. Uguale sarebbe la situazione rispetto alle misure di polizia, delle quali l'ordinanza si sforza di dimostrare l'identità con le misure di sicurezza.

La Corte rileva che, anche se fosse esatto - e non é - che le misure di polizia abbiano il contenuto di sanzione, non per questo all'organo amministrativo dovrebbe essere inibito di provvedere, non esistendo una norma o un principio costituzionale che, in linea generale, imponga l'intervento del giudice per l'applicazione delle sanzioni non penali. E lo stesso é da dirsi anche in rapporto al carattere personale del rimpatrio obbligatorio: tale carattere non impedisce che il provvedimento sia adottato dall'Amministrazione. Le cose già dette in precedenza giustificano queste affermazioni della Corte.

Qualche osservazione é d'uopo aggiungere circa l'argomento addotto in ordine all'identificazione delle misure di sicurezza propriamente dette con le misure di polizia di sicurezza.

Pure se si potesse aderire allo sforzo interpretativo dell'Avvocatura dello Stato nel senso che la riserva di legge posta con l'ultimo comma dell'art. 25 della Costituzione investa non solo le misure di sicurezza intese in senso stretto, ma anche la più ampia categoria delle misure di prevenzione, fra cui quella del rimpatrio obbligatorio, non si potrebbe ugualmente ammettere la tesi dell'ordinanza, secondo cui le une e le altre misure resterebbero accomunate sotto una duplice riserva: di legge e di giurisdizione.

Se, infatti, si può comprendere che nessuna limitazione, quale che essa sia, dei diritti di libertà può essere disposta fuori dei casi previsti dalla legge, solo quelle limitazioni che si risolvano in una restrizione della libertà personale cadono sotto il disposto dell'art. 13 della Costituzione. É vero che il fondamento comune e la comune finalità delle misure di sicurezza e di quelle di polizia di sicurezza si trovano nella esigenza di prevenzione di fronte alla pericolosità sociale del soggetto, ma é anche certo che, per tutte le considerazioni dianzi esposte che trovano puntuale riscontro nella diversa disciplina prevista dagli artt. 13 e 16 della Costituzione, resta sempre una netta differenziazione fra i due ordini di misure, per diversità di struttura, settore di competenza, campo e modalità di applicazione, specialmente per quanto si riferisce agli organi preposti a tale applicazione.

I costituenti ebbero presente lo stato della legislazione, la quale poneva, come pone, tanto una riserva di legge (art. 199 del Codice penale) quanto una riserva di giurisdizione (art. 205 dello stesso Codice) per le pene e per le misure di sicurezza propriamente dette; e vollero mantenere ferma questa situazione. Ma, come risulta espressamente dalle dichiarazioni di uno dei due proponenti del testo che attualmente costituisce l'ultimo comma dell'art. 25 - dichiarazioni rispetto alle quali non risulta che in quella sede fossero sorti dissensi - fu tenuta ben presente, ai fini della tutela che si veniva a stabilire, la particolare fisionomia delle misure di sicurezza, "che entrano in considerazione nella legge penale, e quindi vengono applicate nei confronti di persone socialmente pericolose, in occasione della perpetrazione di un reato". E giova riportare queste altre parole del dichiarante:

"Non sono misure di polizia: questo devo chiarire perché non sorgano equivoci. Si tratta di misure preventive di sicurezza, che devono essere applicate, a norme del Codice penale, nei confronti di individui imputati o imputabili in occasione della perpetrazione di un reato".

Ma anche indipendentemente da questi precedenti, bisogna concludere, in base a tutte le considerazioni già esposte, che non si può trarre dall'interpretazione degli articoli richiamati dall'ordinanza un argomento in base al quale si possa stabilire che una riserva di giurisdizione sia stata posta dagli articoli stessi nei riguardi delle misure di polizia non contemplate dall'art. 13 della Costituzione.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, concernente misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità, in riferimento agli artt. 3, 16, 25 e 102 della Costituzione.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 giugno 1964.

Gaspare AMBROSINI - Giuseppe CASTELLI AVOLIO - Antonino PAPALDO - Nicola JAEGER - Giovanni CASSANDRO - Biagio PETROCELLI - Antonio MANCA - Aldo SANDULLI - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI – Giuseppe VERZì - Giovanni Battista BENEDETTI -  Francesco Paolo BONIFACIO.

 

Depositata in Cancelleria il 30 giugno 1964.