Sentenza n. 65 del 1964
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SENTENZA N. 65

ANNO 1964

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Prof. GASPARE AMBROSINI, Presidente

Prof. GIUSEPPE CASTELLI AVOLIO

Prof. ANTONINO PAPALDO

Prof. NICOLA JAEGER

Prof. GIOVANNI CASSANDRO

Prof. BIAGIO PETROCELLI

Dott. ANTONIO MANCA

Prof. ALDO SANDULLI

Prof. GIUSEPPE BRANCA

Prof. MICHELE FRAGALI

Prof. COSTANTINO MORTATI

Prof. GIUSEPPE CHIARELLI

Dott. GIUSEPPE VERZÌ

Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI

Prof. FRANCESCO PAOLO BONIFACIO

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 116 del Codice penale, promosso con ordinanza emessa il 13 gennaio 1964 dal Tribunale di Livorno sull'incidente di esecuzione proposto da Piram Aldo, iscritta al n. 27 del Registro ordinanze 1964 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 67 del 14 marzo 1964.

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Piram Aldo e d'intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

udita nell'udienza pubblica del 3 giugno 1964 la relazione del Giudice Biagio Petrocelli;

uditi l'avv. Remo Pannain, per il Piram, e il vice avvocato generale dello Stato Dario Foligno, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

Piram Aldo, condannato con sentenza del 15 dicembre 1951 della Corte di assise di Livorno alla pena di anni ventiquattro di reclusione per concorso, ai sensi dell'art. 116 del Codice penale, in omicidio volontario aggravato, ha proposto con atto del 23 aprile 1963 incidente di esecuzione davanti al Tribunale di Livorno al fine, esplicitamente dichiarato ("per ottenere l'illegittimità costituzionale"), di sollevare questione di legittimità costituzionale del citato art. 116 in riferimento all'art. 27 della Costituzione. Il Tribunale, con ordinanza del 13 gennaio 1964, ha disposto la trasmissione degli atti a questa Corte. Nell'ordinanza si riconosce non esservi, in via generale, alcun ostacolo alla proposizione di questioni di legittimità costituzionale nel corso di un incidente di esecuzione.

Si rileva però che, per quanto riguarda in particolare le norme applicate nel giudizio di cognizione, non é possibile sollevare questioni di legittimità costituzionale in sede di esecuzione penale quando il contrasto fra dette norme e quelle costituzionali sia insorto prima del passaggio in giudicato della sentenza, mentre lo é invece quando il contrasto sia insorto successivamente. Il momento della insorgenza del contrasto deve identificarsi, secondo il Tribunale, con quello dell'applicazione della norma ordinaria, sempre però che in quel momento sia possibile proporre la questione di legittimità costituzionale agli organi giurisdizionali all'uopo previsti dalla Costituzione. Il contrasto fra l'art. 116 del Codice penale e l'art. 27, primo comma, della Costituzione era già insorto quando era in corso il giudizio a carico del Piram, ma la relativa questione non poté essere sollevata allora, non essendo ancora costituita la Corte costituzionale.

Nel merito, il Tribunale osserva che l'art. 116 darebbe luogo ad una ipotesi di responsabilità oggettiva e che per ciò, sempre a parere dello stesso Tribunale, sarebbe in contrasto col principio della personalità della pena, sancito dall'art. 27, primo comma, della Costituzione.

L'ordinanza é stata regolarmente notificata, comunicata e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale, n. 67 del 14 marzo 1964.

Si sono costituiti il Presidente del Consiglio dei Ministri con atto di intervento e deduzioni dell'Avvocatura generale dello Stato, depositato il 20 febbraio 1964, e la difesa del Piram con atto depositato il 21 marzo 1964.

L'Avvocatura generale dello Stato eccepisce in via preliminare la inammissibilità della questione.

Concorda col Tribunale sulla ammissibilità di questioni di legittimità costituzionale in sede di incidente di esecuzione, e ricorda precedenti in tal senso nella giurisprudenza della Corte costituzionale. Rileva tuttavia che tale principio, senz'altro valido per le norme da applicare nel giudizio di esecuzione, non lo é invece per le norme applicate nel giudizio di cognizione. Infatti, nel giudizio di esecuzione non viene in esame l'"applicazione" delle norme contenenti precetti punitivi, sebbene l'applicazione delle norme riguardanti l'esecuzione delle sentenze che sono state pronunciate sulla base e in applicazione di quei precetti.

Sicché , superandosi quel limite, si finirebbe col dare sostanzialmente ingresso ad una impugnazione di norme ordinarie in via principale.

Altro limite all'ammissibilità della questione proposta sarebbe costituito dal principio del giudicato. Questo infatti, ai sensi dell'art. 136, primo comma, della Costituzione e dell'art. 30, terzo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, non viene travolto dalla dichiarazione di incostituzionalità della norma in applicazione della quale si é formato. Né varrebbe qui il richiamo alla disposizione del quarto comma del citato art. 30, in virtù del quale cessano la esecuzione e gli effetti penali delle sentenze di condanna pronunciate in applicazione di norma dichiarata incostituzionale. Tale norma infatti non può interpretarsi in modo da dare la possibilità di proporre in un nuovo giudizio, per la medesima fattispecie concreta, la questione di legittimità della norma che sia stata applicata.

L'Avvocatura rileva inoltre che il Tribunale di Livorno ha esattamente identificato il momento della insorgenza del contrasto con quello dell'applicazione della norma ordinaria; ma che proprio per ciò tale contrasto avrebbe dovuto essere denunciato allora, cioè quando era ancora in corso il giudizio di cognizione.

Né varrebbe obiettare che in quel momento il contrasto non era ancora attuale per non essere ancora entrata in funzione la Corte costituzionale, giacché , prima dell'entrata in funzione della Corte, il sindacato sulla legittimità delle leggi era affidato, ai sensi della VII disposizione transitoria della Costituzione, ai giudici ordinari.

Nel merito, infine, l'Avvocatura esprime l'avviso che l'art. 116 non dia affatto luogo ad una ipotesi di responsabilità oggettiva, non potendosi escludere nel fatto previsto dalla norma la presenza di un rapporto di causalità anche psichica. Osserva tuttavia che, se anche fosse esatta la tesi della responsabilità oggettiva, non per ciò potrebbe dirsi violato l'art. 27, primo comma, della Costituzione. Una tale norma, infatti, secondo la giurisprudenza della Corte, si limita a fissare il divieto della responsabilità penale per fatto altrui, "senza alcun riferimento al divieto della cosiddetta responsabilità oggettiva" (sentenza n. 107 del 1957).

La difesa del Piram, che, all'atto della costituzione in giudizio, si era brevemente riportata ai motivi dell'ordinanza di rinvio, ha esposto in maniera più ampia i propri argomenti in una memoria depositata il 19 maggio 1964. In ordine alla eccezione di inammissibilità ripete l'argomentazione secondo la quale la inammissibilità non potrebbe riferirsi ai casi che, come quello in esame, riguardano questioni di legittimità sorte dopo il passaggio in giudicato della sentenza, ma prima della entrata in funzione della Corte costituzionale.

Venendo al merito, la difesa esprime la opinione che l'art. 116 preveda una ipotesi di responsabilità per fatto altrui, o, quanto meno, che questa sia sostanzialmente la interpretazione che di tale norma verrebbe costantemente operata dalla giurisprudenza. L'art. 116 realizzerebbe "addirittura un caso di responsabilità per fatto altrui, in senso fisico, nel senso cioè , che il fatto appartenente esclusivamente ad un concorrente é posto a carico anche degli altri concorrenti, che nulla hanno operato in quel senso". Secondo la difesa "solo il dolo e la colpa possono ricollegare a un soggetto il fatto di un terzo, un'attività non realizzata dal soggetto stesso, un evento diverso da quello voluto", mentre "se taluno si é limitato a porre la causa senza volere l'effetto, il fatto suo é solo quello che si concreta nella causa; di quel che segue potrà rispondere solo se vi é colpa, pur non trattandosi di fatto suo". In conclusione si sostiene "che l'azione altrui é sempre fatto altrui": di esso può rispondersi quando questo fatto altrui diventa proprio, in virtù del legame psichico "dolo" o "colpa".

L'Avvocatura generale dello Stato, con altra memoria depositata il 21 maggio 1964, dopo aver insistito sulla proposta eccezione di inammissibilità, sul merito della questione osserva che la fattispecie dell'art. 116 non può risolversi in un'ipotesi di responsabilità per fatto altrui, in quanto la norma richiede che fra l'azione o l'omissione del concorrente e l'evento diverso o più grave di quello da lui voluto, che si é verificato, sussista un rapporto di conseguenzialità. A questo proposito l'Avvocatura rileva che l'art. 110 del progetto preliminare (corrispondente all'art. 116 in esame) conteneva la specificazione che l'evento -anche se non voluto da uno dei partecipi all'azione criminosa - dovesse essere posto a di lui carico, quando fosse conseguenza, "quantunque soltanto mediata" della sua azione o omissione; ma che la locuzione fu soppressa perché ritenuta superflua.

 

Considerato in diritto

 

La questione di legittimità costituzionale dell'art. 116 del Codice penale, così come presentata alla Corte con l'ordinanza del Tribunale di Livorno, deve essere dichiarata inammissibile, perché non sollevata, secondo il sistema del vigente ordinamento, nel corso di un giudizio.

L'interessato, detenuto nello stabilimento di Pianosa in espiazione della pena inflittagli fin dal 15 dicembre 1951, affermando di voler proporre un incidente di esecuzione, ha presentata al Tribunale una istanza che, dalla sua stessa formulazione, si manifesta in modo non dubbio come avente per unico oggetto il promuovimento della questione di legittimità costituzionale dell'art. 116, e quindi con nessun altro contenuto, nessun'altra materia da decidere all'infuori di questa. Nella istanza si dichiara infatti, senz'altro aggiungere, che si propone l'incidente di esecuzione "per ottenere la illegittimità costituzionale dell'art. 116 del Codice penale, ai sensi dell'art. 27 della Costituzione". Non vi é dunque una domanda, e quindi una controversia di merito, che il giudice, nell'ambito della sua propria competenza, sia chiamato a decidere, e nella quale, si inserisca, in via incidentale, la domanda relativa alla questione di legittimità costituzionale; ma l'istanza é unica, e muove direttamente e immediatamente, e quindi in via principale e non incidentale, a sollevare detta questione di legittimità.

Né ciò può essere attribuito ad una sommaria ed inesperta formulazione della istanza, in quanto la posizione non subisce modificazioni di sorta con gli atti successivamente intervenuti a sostegno della medesima, vale a dire la requisitoria del Pubblico Ministero presso il Tribunale di Livorno e le deduzioni del difensore presentate al Tribunale il 18 dicembre 1963. La prima, infatti, nel dare parere favorevole sul merito della istanza, prendeva atto che questa era stata proposta "per ottenere la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'art. 116 del Codice penale"; nella seconda la difesa concludeva addirittura facendo propria l'unica richiesta originaria del Piram, cioè che "il Tribunale, in accoglimento dell'incidente, voglia trasmettere gli atti alla Corte costituzionale". La stessa ordinanza, infine, nulla contiene che valga a stabilire l'esistenza di un autonomo giudizio di merito, e si limita anch'essa a prendere atto che era stato proposto incidente di esecuzione "per far dichiarare l'illegittimità costituzionale dell'art. 116 del Codice penale".

La condizione in forza della quale le questioni di legittimità costituzionale devono essere sollevate nel corso di un giudizio ebbe, come é noto, la sua prima enunciazione in una norma costituzionale. Fu innanzi tutto l'art. 1 della legge costituzionale n. 1 del 9 febbraio 1948 a stabilire che alla Corte costituzionale potesse rimettersi una questione di legittimità costituzionale di una legge, o di un atto avente forza di legge, se rilevata d'ufficio o sollevata da una delle parti "nel corso di un giudizio". Questa delimitazione fu poi nettamente ribadita dall'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, il quale dispone che mediante apposita istanza, da una delle parti o dal Pubblico Ministero (comma primo), o anche d'ufficio (comma terzo), si possono sollevare questioni di legittimità costituzionale "nel corso di un giudizio dinanzi ad una autorità giurisdizionale".

Ora, ciò che fa difetto nell'attuale controversia é precisamente questa condizione essenziale, cioè che la questione di legittimità costituzionale sia stata sollevata nel corso di un giudizio. Per la quale condizione non é sufficiente che una domanda venga presentata, né che con essa si richieda comunque la istituzione di una certa forma di giudizio (in questo caso il procedimento di esecuzione, disciplinato dagli artt. 628 e seguenti del Codice di procedura penale), ma occorre che effettivamente ricorrano i coefficienti in base ai quali un siffatto giudizio possa dirsi concretamente ed effettivamente instaurato, e col suo proprio contenuto. E indispensabile, in altri termini, che il giudizio abbia un proprio oggetto e un proprio autonomo svolgimento: un proprio oggetto, vale a dire un petitum che sia separato o distinto dalla questione di legittimità costituzionale, e sul quale il giudice ordinario sia chiamato per sua competenza a decidere; un proprio autonomo svolgimento, nel senso che il giudizio sia tale, in base alle norme che attualmente ne governano la materia, da poter essere indirizzato per suo conto ad una propria conclusione, al di fuori della questione di legittimità costituzionale, il cui insorgere é soltanto eventuale. Nella dottrina e nella prassi, una siffatta autonoma individualità del giudizio si é andata affermando, oltre tutto, col sorgere delle note denominazioni: giudizio "principale", giudizio "di merito", controversia "di merito", processo "ordinario", ecc. Sicché , come esattamente é stato affermato, la esistenza del processo di merito si presenta addirittura come pregiudiziale rispetto al processo instaurato dinanzi alla Corte costituzionale. Nel procedimento promosso dal Piram la esistenza del giudizio di merito fa difetto appunto perché non v'é altra materia da decidere all'infuori della istanza di rimessione degli atti alla Corte costituzionale.

La inderogabile presenza di un autonomo giudizio di merito é poi ribadita dalle due ulteriori condizioni richieste dal secondo comma del citato art. 23 della legge n. 87: prima, che il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale (rilevanza); seconda, che, nel rimettere gli atti alla Corte costituzionale, l'autorità giurisdizionale debba "sospendere il giudizio "in corso"". Ed é ben significativo, a tal proposito, che nell'ordinanza del Tribunale di Livorno manchi qualsiasi accenno sia al rapporto di rilevanza sia alla sospensione di un giudizio in corso. Il che non é possibile attribuire ad una deficienza di mera forma, dovuta a sommaria e incompleta redazione dell'ordinanza; e ciò per la semplice ragione che il giudice non aveva nulla da sospendere o nulla con cui stabilire un rapporto di rilevanza, non essendovi, appunto, di fronte al giudice stesso, altra istanza, altra materia da decidere se non il chiesto rinvio degli atti alla Corte costituzionale.

La questione di legittimità dell'art. 116 bene avrebbe potuto essere sollevata nel corso del giudizio di cognizione, e non lo fu. Né a ciò poteva ostare il fatto che non ancora fosse entrata in funzione la Corte costituzionale, in quanto, come é ben noto, e come la difesa non é stata in grado di contestare positivamente, la VII disposizione transitoria della Costituzione, prevedendo siffatta eventualità, stabiliva che la decisione sulle controversie di legittimità costituzionale, fino a quando non fosse entrata in funzione la Corte, avrebbe avuto luogo in base alle norme preesistenti all'entrata in vigore della Costituzione, cioè ad opera del giudice ordinario.

Vero é che anche dopo il giudizio di cognizione spetta al condannato in espiazione di pena la facoltà di rivolgersi al giudice, mediante lo strumento processuale dell'incidente di esecuzione, per presentargli istanze inerenti alla pena in corso di esecuzione, in dipendenza delle modificazioni che, per qualsiasi causa, essa possa aver subito. Ma quando, come nel caso presente, contro la condanna in corso di esecuzione altro non si invoca se non il futuro e diverso regolamento giuridico che possa eventualmente risultare dalla soluzione della questione di legittimità costituzionale, tutto evidentemente rifluisce e si risolve in questa unica istanza, diretta a sollevare tale questione; con la conseguenza che essa, in mancanza di un giudizio di merito nel quale inserirsi in via incidentale, rimane una questione proposta in via principale. Indubbiamente nella istanza del Piram era presente l'interesse del condannato alla propria libertà; ma esso non può dirsi l'oggetto di un autonomo giudizio principale, bensì soltanto l'elemento soggettivo, il movente della istanza medesima, unicamente diretta a sollevare il giudizio di legittimità costituzionale.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 116 del Codice penale in riferimento all'art. 27, primo comma, della Costituzione, sollevata dal Tribunale di Livorno con ordinanza del 13 gennaio 1964.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 giugno 1964.

Gaspare AMBROSINI - Giuseppe CASTELLI AVOLIO - Antonino PAPALDO - Nicola JAEGER - Giovanni CASSANDRO - Biagio PETROCELLI - Antonio MANCA - Aldo SANDULLI - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI – Giuseppe VERZì - Giovanni Battista BENEDETTI -  Francesco Paolo BONIFACIO.

Depositata in Cancelleria il 30 giugno 1964.