Sentenza n. 49 del 1961
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SENTENZA N. 49

ANNO 1961

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE 

composta dai signori giudici:

Avv. Giuseppe CAPPI, Presidente

Prof. Gaspare AMBROSINI

Dott. Mario COSATTI

Prof. Francesco Pantaleo GABRIELI

Prof. Giuseppe CASTELLI AVOLIO

Prof. Antonino PAPALDO

Prof. Nicola JAEGER

Prof. Giovanni CASSANDRO

Prof. Biagio PETROCELLI

Dott. Antonio MANCA

Prof. Aldo SANDULLI

Prof. Giuseppe BRANCA

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Prof. Giuseppe CHIARELLI,

ha pronunciato la seguente  

SENTENZA 

nel giudizio di legittimità costituzionale della legge regionale siciliana 13 settembre 1956, n. 46, promosso con ordinanza emessa il 22 giugno 1960 dal Tribunale di Catania nel procedimento civile vertente tra l'Ospizio per ciechi "Ardizzone - Gioeni" e Romeo Giovanni, iscritta al n. 84 del Registro ordinanze 1960 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 254 del 15 ottobre 1960 e nella Gazzetta Ufficiale della Regione siciliana n. 49 del 22 ottobre 1960.

Vista la dichiarazione di intervento del Presidente della Regione siciliana;

udita nell'udienza pubblica del 7 giugno 1961 la relazione del Giudice Francesco Pantaleo Gabrieli;

uditi gli avvocati Arturo Carlo Jemolo e Paolo Torrisi, per l'Ospizio "Ardizzone - Gioeni", e l'avv. Salvatore Orlando Cascio, per il Presidente della Regione siciliana.  

Ritenuto in fatto 

Con ricorso del 20 aprile 1960 al Tribunale di Catania - Sezione specializzata agraria - l'Ospizio per ciechi "Ardizzone Gioeni" di Catania ha esposto che Romeo Giovanni affittuario della quota n. 10 della tenuta in contrada S. Vito di Paternò, di proprietà dell'Ospizio, si era reso inadempiente del pagamento del canone locatizio 1959-60 per l'importo di lire 35. 000 e dei vantaggi valutati in lire 2. 000. Per tali inadempienze ha chiesto che il Romeo venga dichiarato decaduto dalla proroga ex lege e, in conseguenza, condannato al rilascio del fondo e al pagamento del canone insoluto, dei carnaggi non corrisposti e delle spese di lite.

Il convenuto, costituitosi in giudizio, ha resistito alla domanda adducendo che, in virtù della legge regionale siciliana 13 settembre 1956, n. 46, il contratto di locazione si é automaticamente trasformato in enfiteusi e si é, pertanto, dichiarato disposto a versare il fitto dovuto in conto del canone enfiteutico.

Il ricorrente all'udienza del 1 giugno 1960 ha eccepito la illegittimità costituzionale della citata legge regionale per i seguenti motivi: a) perché in contrasto con l'art. 44 della Costituzione, che consente la imposizione di vincoli alla proprietà privata e non anche a quella pubblica (art. 42 Cost.), b) perché esorbita dai poteri attribuiti all'Assemblea regionale dall'art. 14 dello Statuto speciale per la Sicilia; c) perché, lungi dal costituire un particolare adattamento della legislazione statale, é in contrasto con la stessa. Del pari é in contrasto: d) con la legge fondamentale dello Stato, che non prevede un tipo di enfiteusi perpetua non affrancabile; e) con la legge di riforma agraria siciliana del 27 dicembre 1950, n. 104, che non pone limiti assoluti alla disponibilità dei beni, sebbene relativi, limitati alla quota di conferimento; f) con l'art. 38 della Costituzione, in quanto disciplinando una materia, tra l'altro non ancora passata alla competenza regionale (mancanza di decreto presidenziale di passaggio dallo Stato alla Regione dei poteri relativi alle Opere pie), agevola una determinata categoria di lavoratori a scapito degli indigenti; g) con l'art. 3 della Costituzione sulla parità dei cittadini, perché riserva il vantaggio ai soli lavoratori dei fondi, oggetto della enfiteusi; h) con la legge 17 luglio 1890, n. 6972, secondo la quale i beni delle Opere pie debbono, di regola, essere concessi in affitto (art. 27).

Il Tribunale ha ritenuto che la legge n. 46, non suggerita dalla necessità di regolamentare situazioni eccezionali, appare in contrasto, oltre che con le norme sopra indicate, con la legislazione statale in materia di riforma agraria e con la legge regionale del 27 dicembre 1950, n. 104, che dalla riforma e dal conferimento esclude i terreni migliorati ed in particolare gli agrumeti, mentre, per effetto della legge impugnata, anche gli agrumeti sono soggetti al piano generale di miglioramento agrario; che la proposta eccezione di incostituzionalità é rilevante per la decisione del giudizio; che la stessa non appare manifestamente infondata con particolare riferimento ai motivi di cui alle lettere a), b), d), e). E, pertanto, con ordinanza del 22 giugno 1960, ha sospeso il giudizio e ha disposto la trasmissione degli atti a questa Corte per decidere se la legge regionale siciliana 13 settembre 1956, n. 46, sia stata emanata oltre i limiti della potestà legislativa esclusiva in materia di agricoltura conferita all'Assemblea dall'art. 14 dello Statuto siciliano e, comunque, sia in contrasto con le norme costituzionali e con la legislazione statale e regionale sopra indicata, e se, quindi, sia costituzionalmente illegittima.

L'ordinanza, ritualmente notificata al Presidente della Giunta regionale (4 agosto 1960), é stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale della Regione siciliana n. 49 del 22 ottobre 1960, supplemento ordinario, e comunicata al Presidente dell'Assemblea regionale con raccomandata n. 1320 del 19 luglio 1960.

L'Ospizio "Ardizzone - Gioeni", nella persona del Presidente del Consiglio di amministrazione dell'Ente, avvocato Domingo Finocchiaro, autorizzato con deliberazione del 22 luglio 1960 (depositata il 23 novembre 1960), rappresentato e difeso (mandato depositato nella cancelleria della Corte costituzionale il 30 luglio 1960) dagli avvocati Paolo Torrisi e Carlo Arturo Jemolo, presso il quale il Finocchiaro ha eletto domicilio in Roma, ha depositato deduzioni, in termini, presso la cancelleria della Corte costituzionale (30 luglio 1960).

Nelle deduzioni la difesa dell'Ospizio Ardizzone premette che erroneamente l'Assemblea regionale avrebbe ritenuto con la legge impugnata di legiferare in materia di agricoltura (art. 14, lett. a, Statuto siciliano); che, secondo gli insegnamenti di questa Corte, il limite alla competenza della Regione non é segnato dal fatto che una data materia sia compresa nell'ambito di diritto privato, ma dalla rilevanza che i rapporti intersubiettivi da regolare presentano rispetto alle specifiche finalità che la Regione deve perseguire (sent. n. 35 del 26 gennaio 1957); che, peraltro, non é da escludere che vi siano tipi di rapporti per cui occorra una particolare regolamentazione per attuare finalità di giustizia sì da legittimare l'intervento della stessa Regione anche nella sfera di rapporti privatistici col concorso di determinate condizioni. Tra queste condizioni é da annoverare la eccezionalità di situazioni locali, il soddisfacimento di interessi pubblici, la non contrarietà delle leggi regionali ai criteri informatori della legislazione statale, della quale debbono, anzi, rappresentare un adattamento alle particolari situazioni ambientali (sent. n. 6 del 27 gennaio 1958). La disposizione dell'art. 14, lett. a, dello Statuto speciale per la Sicilia non può, soggiunge la difesa, interpretarsi in senso finalistico (sent. n. 60 del 5 novembre 1957), né la Regione può stabilire una misura del capitale di affranco diversa da quella fissata dalla legge dello Stato (sentenza n. 123 dell'8 luglio 1957: in materia di proprietà contadina).

La legge n. 46, prosegue la difesa, non risponde alla necessità di regolare esigenze che si riferiscono soltanto all'Isola; si inserisce in un programma di alta politica agraria, che non può non essere unitaria per tutta la Repubblica e, quindi, da effettuarsi sul piano nazionale. Si tratta non già di ridimensionare la proprietà fondiaria, ma di dare ai coltivatori - coloni o braccianti - la terra che hanno coltivato e continuano a coltivare: riforme del genere non possono rientrare nel quadro dell'autonomia regionale.

Inoltre, la legge regionale n. 46, considerata nel suo insieme, sarebbe in contrasto con l'art. 44 della Costituzione, secondo il quale la legge fissa limiti alla estensione della proprietà terriera secondo le regioni e le culture; principio sovvertito dalla cennata legge, che non accoglie né il criterio del limite massimo di estensione della proprietà, né quello della buona o cattiva coltivazione, ma prescrive che il proprietario sia privato di tutta la sua terra suscettibile di essere posta a cultura. Né si dica che l'art. 44 si applica solo alla proprietà terriera privata, sì da escludere la proprietà degli enti pubblici; giacché secondo il nostro ordinamento si parla di proprietà pubblica quando si tratta di un rapporto di appartenenza iure publico, e di proprietà privata allorché trattasi di proprietà iure privatorum qualunque sia il soggetto. Né la legge impugnata si può giustificare sostenendo che per l'art. 14, lett. m, dello Statuto siciliano la Regione ha potere normativo esclusivo in materia della pubblica beneficenza, delle Opere pie e sul regime degli enti locali per quanto attiene ai controlli, alla loro attività ecc., sempre che sia intervenuta la legge che regoli il trapasso di questo ramo di attività dallo Stato alla Regione. La Regione non ha tale potere per limitare la capacità di alcune persone giuridiche, costituendo una limitazione di capacità il non poter possedere terreni idonei a cultura, né aziende agricole. E, poi, da considerare che, attuando le istituzioni di beneficenza un fine di Stato in quanto tenute a soccorrere i poveri senza distinzione delle Regioni cui appartengono, l'impoverimento delle istituzioni siciliane si ripercuoterebbe sulle Opere pie delle altre parti d'Italia, che dovrebbero soccorrere gli indigenti siciliani e viceversa.

La difesa dell'Ente di beneficenza osserva ancora, che la legge regionale viola il principio di eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge (art. 3 Cost.) sotto un duplice aspetto. Anzitutto, non é ammissibile che i coltivatori di beni di Opere pie esistenti nel territorio nazionale non abbiano la possibilità di divenire enfiteuti, come i coltivatori di beni di Opere pie della Regione siciliana.

Si viene, poi, a creare disuguaglianza anche tra gli stessi coltivatori siciliani in quanto, se legati da antico contratto per terreni appartenenti a Opere di beneficenza, possono divenire proprietari enfiteutici, non lo possono se i terreni appartengono a privati ovvero ad enti morali diversi dalle Opere pie o a enti ecclesiastici.

La legge n. 46 pone, inoltre, una discriminazione tra beni appartenenti ad Opere pie e beni appartenenti ad enti ecclesiastici, in contrasto con la legislazione statale che equipara il fine di culto al fine di beneficenza; togliendo così agli enti pubblici la base di stabilità economica costituita dalla proprietà immobiliare ed orientando il privato a lasciti di patrimoni terrieri a favore di enti ecclesiastici anziché a favore di enti di beneficenza.

La difesa passando, poi, all'esame analitico delle disposizioni della legge impugnata osserva: che l'art. 2, primo comma, prevede un tipo di enfiteusi perpetua non affrancabile in contrasto con le disposizioni del Codice civile: che l'art. 6, disponendo che il canone enfiteutico sia determinato in prodotti o in danaro con ragguaglio a quantità di prodotti e non consentendo il canone in danaro, modifica lo stesso Codice civile; che gli artt. 8 e 9, statuendo, rispettivamente, la nullità degli atti di trasferimento e di concessione dei terreni, oggetto della legge, e il trasferimento sul canone dei diritti reali sui terreni, interferiscono su rapporti civilistici.

La difesa dell'Ospizio "Ardizzone - Gioeni" conclude per la illegittimità costituzionale della legge, quanto meno per la parte che si riferisce alle istituzioni di assistenza e beneficenza.

Si é anche costituita la Regione siciliana nella persona del Presidente della Giunta regionale siciliana, rappresentata e difesa dagli avvocati Salvatore Orlando Cascio e Paolo Torrisi, con elezione di domicilio, in Roma, piazza Oreste Tommasini presso l'avvocato Giuseppe Bartoli (mandato depositato nella cancelleria della Corte costituzionale il 23 agosto 1960).

Con l'atto d'intervento, depositato nei termini (23 agosto 1960), la difesa della Regione eccepisce preliminarmente l'inammissibilità del ricorso per difetto di rilevanza. Si osserva, in proposito, che la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Romeo presuppone la trasformazione automatica dei contratti di locazione dei fondi rustici degli enti pubblici in concessioni enfiteutiche, automatismo che non é nella legge 13 settembre 1956, n. 46. Questa, infatti, predispone un complesso procedimento amministrativo (art. 4: denunzia dei beni; art. 5: accertamento dei terreni per la utilizzazione agraria con provvedimento assessoriale; artt. 2 e 3: sorteggio dei vari lotti di terreni tra lavoratori qualificati), non bastando la qualità di affittuario per la conversione della locazione in enfiteusi.

Nel merito, si deduce la infondatezza del ricorso. Si sostiene che l'art. 44 della Costituzione si occupa soltanto della proprietà privata e non della proprietà pubblica per imporre vincoli a fini sociali, in quanto la proprietà degli enti ha in sé il perseguimento delle funzioni sociali dei beni. Una norma costituzionale in tale senso sarebbe stata superflua, dovendosi ritenere sufficiente una legge ordinaria riguardante l'amministrazione dei beni degli enti pubblici. E la legge impugnata rientra nella potestà normativa esclusiva conferita all'Assemblea regionale dall'art. 14, lett. a, o, p, dello Statuto speciale per la Sicilia, per quanto attiene all'agricoltura e foreste, al regime degli enti pubblici ecc. Potestà normativa non di adattamento, da svolgersi, cioè, entro leggi cornici o entro norme rigide fissate dalla leggi dello Stato; ma potestà esclusiva che trova limiti soltanto nelle leggi costituzionali dello Stato.

La legge n. 46 non é, poi, in contrasto né con la legislazione statale, la quale tra l'altro consente concessioni enfiteutiche di beni provenienti dalla liquidazione degli usi civici; né col Codice civile, perché le enfiteusi che essa prevede sono affrancabili con le modalità indicate in detto Codice; né con la legge di riforma agraria siciliana del 27 dicembre 1950, n. 104. Invero, questa legge, non essendo una legge costituzionale, non può costituire un limite a successive leggi regionali; né é esatto che a differenza della legge n. 104, che pone limiti alla disponibilità dei beni, con riguardo soltanto alla quota di conferimento, la legge n. 46 porrebbe limiti assoluti. Inoltre, prosegue la difesa della Regione, la censura relativa ad una pretesa violazione degli artt. 3 e 38 della Costituzione, in quanto la legge n. 46 avrebbe favorito una determinata categoria di lavoratori a danno degli indigenti, é infondata. La legge vuole favorire la categoria più bisognosa di lavoratori ai quali sono assegnati i terreni in essa indicati, ottemperandosi così al principio della parità fra i cittadini. Valutazione che, del resto, sfugge al sindacato di costituzionalità perché di carattere politico. Le disposizioni della legge impugnata non sono poi in contrasto con la legge 17 luglio 1890, n. 6972, secondo la quale i beni delle Opere pie devono essere, di regola, concessi in fitto (art. 27, primo comma), non potendo ciò costituire un limite alla potestà normativa regionale in materia agraria. E devesi tenere presente che l'orientamento della legislazione nazionale anche de jure condendo, in materia di contratti agrari, tende alla stabilizzazione dei patti agrari; scopo cui risponde, appunto, la concessione in enfiteusi dei terreni attualmente oggetto di fittanze agrarie.

Infine, ben poteva la Regione legiferare in materia agraria, essendo avvenuto il passaggio dei poteri dallo Stato alla Regione col D..P. 7 maggio 1948, n. 789. E, peraltro, la disposizione VIII della Costituzione non é applicabile in Sicilia per l'attività legislativa dell'Assemblea regionale, giacché quella disposizione, entrata in vigore il 1 gennaio 1948, non poteva essere operativa nei confronti di un'Assemblea che, da tempo, espletava la sua attività normativa.

La difesa della Regione conclude, che sia dichiarata infondata la questione di legittimità costituzionale della legge 13 settembre 1956, n. 46, sollevata con l'ordinanza del Tribunale di Catania del 22 giugno 1960.

La difesa dell'Ospizio "Ardizzone - Gioeni" ha presentato memoria (depositata nella cancelleria della Corte il 24 maggio 1961) con cui resiste alla eccezione sulla rilevanza; assumendo che il giudice adito, nel momento di pronunziarsi sulla questione di legittimità costituzionale, non poteva procedere all'esame delle sopravvenute norme impugnate per accertare, se nei confronti del Romeo si fossero verificati i requisiti richiesti per dare vita alla concessione enfiteutica; che, data la posizione delle parti e i limiti del potere dispositivo del giudice, questi, nel giudizio di rilevanza, poteva solo genericamente tenere conto della legge impugnata. L'Ospizio e le Opere pie siciliane avrebbero potuto promuovere azione di accertamento, quale mezzo per adire la Corte costituzionale, azione proponibile anche in altro procedimento.

Nel merito, premesso che le norme dello Statuto siciliano vanno interpretate in modo che ne sia consentita l'adeguazione al sistema costituzionale italiano (ex artt. 5, 115, 116 Cost.), la difesa dell'Opera pia sostiene che ad alcuna Regione é dato emanare leggi che invadano l'ambito della politica (ex artt. 95 e 80 Cost. e 114 Statuto sic.), riservato al Governo per esigenze della unità dello Stato. Vi sono orientamenti e concezioni fondamentali e fini non connessi ad interessi regionali, per i quali non si possono emanare norme diverse nello Stato e nella Regione. Quando una legge ha un dato presupposto, qualunque sia il suo oggetto immediato, esorbita dai poteri della Regione anche perché, con la sua stessa emanazione viene a porre un problema nazionale. Tale é la legge 13 settembre 1956, n. 46, che bene si può annoverare tra le leggi di ammortizzazione e di censuazione. A tal punto si ricordano le vicende dell'iter formativo della legge sulle Opere pie del 17 luglio 1890, in cui si trattava non di privarle del diritto di possedere proprietà terriera, ma soltanto della trasformazione di istituzioni non più consone ai fini attuali della pubblica beneficenza. La legge impugnata pone il problema se debbano prevalere gli interessi della pubblica assistenza e beneficenza su quelli di un limitato gruppo di lavoratori agricoli; nonché del rispetto della volontà dei testatori e dei donanti che hanno elargito patrimoni immobiliari, ritenendo di avere provveduto, con ciò, alla sicurezza economica delle benefiche istituzioni. Infine, la legge regionale proclama il principio, che il coltivatore ha diritto di diventare proprietario del fondo che coltiva, principio che trascende la sfera della legislazione regionale.

La legge impugnata invade, inoltre, il campo del diritto privato. La difesa richiama la giurisprudenza di questa Corte sui limiti alla potestà normativa della Regione nel campo dei diritti privati, limiti violati sia in relazione alle leggi statali di riforma agraria, che al Codice civile.

Invero, con la legge Sila (12 maggio 1950, n. 230) e con la legge stralcio (21 ottobre 1950, n. 841), leggi di portata vasta, benché territorialmente limitate, si fissano i capisaldi di quella che, nel generale programma, dovrebbe essere la riforma fondiaria.

La legge regionale si é discostata da detti criteri in quanto: a) colpisce i beni degli enti pubblici, esenti per le predette leggi; li priva dell'intero possesso della terra e, quindi, della possibilità di avere un patrimonio agrario; b) non considera i terreni in relazione ai loro proprietari; c) non ha lo scopo di favorire l'agricoltura locale; ed é anche in contrasto con la legge siciliana di riforma agraria del 27 dicembre 1950, n. 104. Deroga, poi, alle disposizioni del Codice civile in materia di enfiteusi (art. 977), in quanto viola il principio della libertà negoziale degli enti pubblici nelle concessioni enfiteutiche, sia nella scelta delle persone che diano maggiori garanzie, sia nel non prevedere l'obbligo del miglioramento dei terreni, sia nel togliere la possibilità di concordare il canone o di farlo determinare, in caso di contrasto, dall'Autorità giudiziaria o da altro organo amministrativo: il canone in "natura o con ragguaglio annuale in una quantità di prodotti", disposto dall'art. 6 della legge regionale, rappresenta un tertium genus rispetto al canone preveduto dall'art. 960 Cod. civ. con i medesimi inconvenienti della quota proporzionale. L'invasione nella sfera del diritto privato é, poi, evidente con le disposizioni dell'art. 9 per cui i diritti reali di godimento e di garanzia gravanti sui terreni dati in enfiteusi si trasferiscono sul canone; e dell'art. 8 che dichiara nulli gli atti di trasferimento di concessione successivi alla pubblicazione della legge impugnata. La quale é in contrasto anche con l'art. 44 della Costituzione in relazione all'art. 42 della stessa Costituzione. L'art. 44, parlando di proprietà terriera privata, esclude la proprietà degli enti pubblici. Il Costituente, consentendo di porre limiti per fini di pubblico interesse alla sola proprietà privata, non ha inteso privare di garanzia costituzionale i beni patrimoniali degli enti pubblici; bensì ha ritenuto che tali beni tendono, di per sé, a realizzare equi rapporti sociali. Ma se pur non si voglia sostenere che la proprietà pubblica sia esente dagli interventi coattivi previsti per la proprietà privata, la proprietà degli enti pubblici non può avere un trattamento deteriore rispetto a quello della proprietà privata, come si verifica con la legge n. 46; la quale va oltre i limiti indicati nell'art. 44 della Costituzione, imponendo una enfiteusi perpetua, che si traduce in alienazione virtuale, sostituisce sostanzialmente al patrimonio terriero una rendita, sostituibile, a sua volta, con un capitale di affranco. E la costante esperienza economica segnala il rapido declino dei patrimoni mobiliari con grave danno delle Opere pie.

La legge n. 46 viola ancora l'art. 38 della Costituzione e, nel contempo, il principio della localizzazione territoriale delle leggi regionali, tendente a non turbare nel resto del territorio nazionale interessi e rapporti analoghi all'oggetto della legge regionale, principio da applicare anche nelle materie di legislazione esclusiva. Infatti, la legge colpisce anche beni di enti pubblici con sede in ogni parte d'Italia; causandone l'impoverimento con la concessione in enfiteusi dei loro terreni; impoverimento che, in virtù del principio della solidarietà nel campo della pubblica assistenza e beneficenza, si ripercuoterebbe su tutte le categorie di bisognosi indicate nell'art. 38 della Costituzione. E ciò viola, altresì, gli artt. 5 della Costituzione e 15 dello Statuto siciliano, che impongono di adeguare le leggi alle esigenze dell'autonomia. Tale obbligo vieta di pregiudicare la vita dei centri autonomi, come avverrebbe, trasformando il patrimonio delle Opere pie in modo da compromettere la possibilità di soddisfare gli interessi cui é destinato.

La difesa dell'Ospizio "Ardizzone - Gioeni" conclude:

"voglia la Corte giudicare che la legge é estranea alla materia dell'agricoltura e foreste, non avendo per fine d'intensificare o migliorare la produzione agraria, né di operare trasformazioni di culture;

"che essa non rientra in alcun'altra delle materie in cui la Regione ha il potere legislativo, trattandosi, invece, di legge dal contenuto politico - sociale, che sfugge alla competenza della Regione, in virtù del principio, più volte affermato dalla Corte, e ribadito a proposito delle materie stesse comprese nell'art. 14 dello Statuto siciliano, che "la Regione, per quanto di estesa autonomia, resta sempre inquadrata nell'unità nazionale e subordinata allo Stato" (sent. 9 marzo 1959, n. 12);

"dichiarare la illegittimità costituzionale della intera legge regionale 13 aprile 1956;

"in deteriore ipotesi, dichiarare la illegittimità della inclusione nell'alinea dell'articolo 1, delle parole: ' degli altri enti pubblici '".

Anche la difesa della Regione ha depositato, nei termini (24 maggio 1961), memoria con la quale, anzitutto, insiste sulla pregiudiziale della mancata motivazione delle rilevanza, non risultando dal provvedimento di rinvio, se il Romeo avesse il requisito di coltivatore diretto, essendo insufficiente la qualità di affittuario del fondo per cui era stato convenuto in giudizio. Si assume, inoltre, che la competenza dell'adita Sezione specializzata agraria, limitata alla applicabilità delle leggi di proroga, non si estende alla riconvenzionale con la quale il convenuto pretende di fare valere in giudizio un titolo autonomo di godimento del fondo (concessione enfiteutica). La Sezione agraria avrebbe dovuto inviare gli atti al Tribunale, in sede ordinaria, per la decisione sull'eventuale ordinanza di rimessione a questa Corte costituzionale.

Nel merito, premesso un cenno sui motivi che hanno suggerito la legge impugnata, si ritorna sulla tesi che l'art. 44 della Costituzione comprende la proprietà agli enti pubblici appartenente iure privatorum:e che, comunque, i terreni appartenenti agli enti pubblici perseguono gli stessi fini sociali e di produzione imposti alla proprietà dei privati. Né gli enti pubblici subiscono, con ciò; un trattamento deteriore rispetto a quello riservato ai privati. Gli enti pubblici mantengono integra tutta la loro proprietà terriera; sono soltanto soggetti alla stabilizzazione degli attuali con tratti agrari, resi perpetui con l'obbligo del miglioramento dei fondi a carico dei coltivatori diretti, forma questa di normale gestione per gli enti pubblici ed unico modo per eliminare il "gabellotto".

Prosegue la difesa, che la legge in esame non esorbita dai poteri dell'Assemblea regionale conferiti dall'art. 14, lett. a, dello Statuto per la Sicilia con competenza esclusiva; che tra gli obblighi imposti alla proprietà terriera privata dall'art. 44 della Costituzione devesi comprendere anche l'obbligo rivolto a limitare l'autonomia contrattuale nel campo dei rapporti agrari, principio cui si é uniformata la legge n. 46, che indubbiamente persegue il fine del razionale sfruttamento del suolo e di instaurare equi rapporti sociali.

Inoltre, la stessa legge non é in contrasto con la legislazione statale, né con i principi ed interessi generali cui essa si informa, perché mira alla produttività della terra da conseguirsi col con tratto di enfiteusi affrancabile. Sistema accolto dalla legge per la formazione della piccola proprietà contadina (26 giugno 1948, n. 14: art. 11), dalla legge regionale di riforma agraria siciliana (27 dicembre 1950, n. 104: artt. 26 e 16) e da numerose leggi per gli enti pubblici (dalla legge 10 agosto 1862, n. 743, alla legge 16 giugno 1927, n. 1766).

Alcun limite il potere normativo della Regione può, inoltre, incontrare nella legge 27 luglio 1890, n. 6972, non essendo questa legge costituzionale.

Né sussiste, continua la difesa della Regione, la violazione dell'art. 38 della Costituzione nel senso che la Regione, legiferando in materia non ancora passata alla sua competenza (poteri relativi alle Opere pie), agevolerebbe una determinata categoria a danno degli indigenti. Invero, la legge si limita a rendere perpetui i rapporti colonici esistenti in atto, con notevole semplificazione amministrativa; e, nell'ambito del territorio regionale, pone per determinate materie norme giuridiche che, se cogenti, importano modifiche della capacità dei soggetti. É, poi, male invocata la mancata emanazione del decreto presidenziale per il passaggio dei poteri dallo Stato alla Regione, occorrendo tale passaggio soltanto per l'esplicazione di funzioni amministrative.

Infine, la legge in oggetto non é in contrasto con il principio sulla parità dei cittadini davanti alla legge (art. 3 Cost.), perché tutte le leggi di riforma agraria, ancora in via di sviluppo, limitate a determinate Regioni, danno luogo a squilibri e disparità di trattamento. La esclusione, poi, degli enti ecclesiastici é giustificata dalla legge del 27 maggio 1929, n. 810, che, dando esecuzione ad accordi internazionali (Patti lateranensi), pone un limite assoluto alla legislazione regionale. Si ripetono le conclusioni già prese.

Nell'udienza del 7 giugno la difesa ha ulteriormente illustrato le rispettive tesi, riportandosi alle precedenti conclusioni.  

Considerato in diritto 

1. - La Regione siciliana eccepisce l'inammissibilità della questione di legittimità costituzionale della legge 13 settembre 1956, n. 46, per omessa motivazione sulla rilevanza. Assume la difesa, che la legge impugnata non dispone la conversione automatica in enfiteusi del contratto di affitto agrario di cui l'Ospizio "Ardizzone - Gioeni" chiede la risoluzione per inadempienza; alla concessione enfiteutica si addiverrebbe, invece, attraverso un complesso procedimento amministrativo e la qualità di coltivatore in atto della terra é uno soltanto dei requisiti richiesti per la trasformazione del rapporto giuridico. E, pertanto, il giudice adito, mantenendosi nei limiti della contestazione della lite, avrebbe potuto decidere indipendentemente dalla proposta questione di costituzionalità. Inoltre, la Sezione specializzata agraria, attesa la sua particolare competenza funzionale, non avrebbe potuto conoscere della rilevanza della questione di legittimità costituzionale, ma doveva rimettere gli atti al Tribunale di Catania, in sede ordinaria, il solo competente a decidere sulla detta questione.

La eccezione non é fondata.

L'ordinanza di rinvio rileva che la legge in esame, non suggerita dalla necessità di regolamentare situazioni eccezionali, appare in contrasto con la legislazione statale in materia di riforma agraria e con la legge regionale 27 dicembre 1950, n. 104, che dalla riforma esclude i terreni migliorati e, in particolare, gli agrumeti; considera la eccezione rilevante per la decisione del giudizio e non manifestamente infondata e rimette, in conseguenza, gli atti alla Corte costituzionale per esaminare se la legge 13 settembre 1956, n. 46, sia stata emanata oltre i limiti della potestà legislativa conferita all'Assemblea siciliana dall'art. 14, lett. a, dello Statuto speciale per la Sicilia. Con tale motivazione il giudizio di rilevanza deve ritenersi adeguatamente compiuto (Corte cost., sent. n. 102 del 25 giugno 1957, sent. n. 57 del 18 novembre 1959). Invero, data la situazione processuale determinatasi con la eccezione di incostituzionalità, il giudice adito doveva, ai fini della rilevanza, procedere ad un esame delibativo della legge impugnata, né poteva, allo stato, accertare, come sostiene la difesa della Regione, la sussistenza dei requisiti richiesti per la conversione del rapporto giuridico. E, pertanto, non é esatto che il giudizio di rilevanza sia stato fatto sul presupposto dell'automatica conversione del contratto di affitto agrario in concessione enfiteutica.

Infine, quanto alla incompetenza della Sezione specializzata a decidere sulla rilevanza, questa Corte non può pronunciarsi sulla competenza del giudice che ha emesso l'ordinanza di rinvio, data la separazione fra il giudizio principale e quello di costituzionalità. Il giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale, presuppone l'esistenza di un giudizio (principale) di merito; ed é sufficiente che il giudizio di merito, nel corso del quale é sorta la questione di legittimità costituzionale, sia stato di fatto instaurato (Corte cost., sent. n. 24 del 18 aprile 1959, sent. n. 30 del 23 gennaio 1957).

2. - Nel merito, anzitutto é bene precisare, nel contrasto delle parti, che l'Assemblea regionale con la legge impugnata non ha legiferato in materia di pubblica beneficenza e di Opere pie (art. 14, lett. m, Statuto regionale siciliano, che riguarda l'organizzazione, il funzionamento, i controlli ecc., delle Opere pie ed assistenziali), bensì in materia di agricoltura e precisamente di riforma agraria. Ma in questo campo il potere dell'Assemblea deve adeguare ai particolari bisogni dell'Isola le leggi di riforma agraria emanate sul piano nazionale e sempre nell'ambito delle norme costituzionali. Le differenziazioni regionali contrasterebbero con i principi enunciati negli artt. 1 e 5 della Costituzione.

Le leggi dello Stato alle quali l'Assemblea siciliana deve, in materia agraria, fare riferimento sono: il D. Lgt. 24 febbraio 1948, n. 114, per la piccola proprietà contadina; la legge Sila 12 maggio 1950, n. 230; la legge stralcio 21 ottobre 1950, n. 841; la legge 18 maggio 1951, n. 333, per l'assegnazione dei terreni ai contadini.

3. - Poste tali premesse, la legge impugnata, disponendo che i terreni anche utilizzati ed anche se gravati di usi civici o soggetti a vincoli idrogeologici, a qualsiasi titolo appartenenti al patrimonio degli "enti pubblici", sono assegnati in enfiteusi perpetua ai lavoratori agricoli, che in atto li coltivano (artt. 1 e 2), sconvolge la riforma accolta dalla legislazione nazionale, ponendosi con essa in contrasto: per i soggetti colpiti dalla riforma; per il sistema con cui la riforma viene attuata; per l'oggetto e per i soggetti che se ne avvantaggiano.

Infatti, la legge n. 46 colpisce gli enti pubblici, tra i quali sono da annoverare le Opere pie, mentre la legge Sila del 1950, n. 230 (art. 2, primo comma), e la legge stralcio del 1950, n. 841 (art. 4, primo comma), riguardano soltanto i proprietari terrieri privati. Ché anzi la legislazione statale considera con favore gli enti pubblici di beneficenza e di assistenza in quanto dispone che le donazioni a beneficio di essi sono valide, se fatte fino al 15 novembre 1949 anziché sino al 1 gennaio 1948 (legge stralcio: art. 20; legge 18 maggio 1951, n. 333, art. 4, primo comma). E la legge del 1948, n. 114, comprende nella riforma i fondi rustici di natura patrimoniale appartenenti allo Stato, alle Province, ai Comuni, ma non i beni appartenenti agli altri enti pubblici (art. 5).

4. - Quanto al sistema, la legge in esame dispone la con versione ex lege in enfiteusi perpetua di tutti i rapporti giuridici che legano il coltivatore alla terra degli enti pubblici (mezzadria, affitto agrario, bracciantato, ecc.); in contrasto con la riforma nazionale attuata con la espropriazione della proprietà terriera privata con indennizzo (legge del 1950 n. 230, art. 2, primo comma; legge del 1950 n. 841, art. 4, primo comma). E non v'ha dubbio che la determinazione degli obblighi, dei vincoli e dei limiti alla proprietà privata (art. 44, primo comma, della Costituzione) va fatta sul piano nazionale. Trattandosi di riforme di struttura con riflessi economici e sociali, il ridimensionamento della proprietà e la ridistribuzione della ricchezza, che devono ispirarsi a principi uniformi e generali, non possono competere che allo Stato; il riconoscimento di una autonoma attività legislativa regionale, in questo campo, finirebbe col pregiudicare la riforma stessa.

5. - Relativamente all'oggetto, le leggi nazionali pongono, nel quadro della trasformazione agraria e fondiaria, un duplice limite alla espropriazione:

quantitativo, riservando de jure all'espropriato una quota del patrimonio terriero in piena proprietà (legge del 1950, n. 230, art. 2, primo comma; legge del 1950, n. 841, art. 4, primo comma); e riservando facoltativamente per l'espropriato anche in piena proprietà il terzo residuo (cit. legge, n. 841, art. 9);

qualitativo, assoggettando ad espropriazione i terreni suscettibili di trasformazione e disponendo esenzioni collegate a particolari tipi di cultura o a tipi di aziende (cit. leggi, n. 230, art. 2, primo comma, e n. 841, artt. 4, primo comma, 5, primo comma, e 10).

La legge n. 46, al contrario, assoggetta alla riforma senza limiti ed esclusioni (conversione in enfiteusi ex lege) tutte le proprietà terriere degli enti pubblici, anche se già convenientemente messe a culture; violando l'art. 44 della Costituzione sotto un duplice aspetto: perché colpisce anche i terreni migliorati, mentre i limiti alla proprietà privata costituzionalmente consentiti devono tendere ad una maggiore produttività; perché pregiudica gli equi rapporti sociali, favorendo solo alcune categorie di lavoratori.

6. - La legge siciliana viola, inoltre, l'autonomia degli enti pubblici limitandone la capacità negoziale nella sfera dei contratti agrari ed é in contrasto con l'art. 27 della legge 17 giugno 1890, n. 6972, secondo il quale "i beni immobili delle istituzioni pubbliche di beneficenza devono, di regola, essere dati in affitto con le forme fissate dal regolamento", per assicurare il conseguimento dei benefici fini istituzionali.

Secondo, poi, la legge regionale, l'assegnazione dei terreni é fatta di regola al contadino che coltiva la terra in atto; mentre per la legge stralcio l'assegnazione dei terreni espropriati é fatta di preferenza ai coltivatori degli stessi terreni solo quando essi abbiano in corso per lo stesso terreno contratti miglioratari, a lungo termine, ed abbiano eseguito sostanziali e permanenti migliorie nel fondo (art. 21, secondo comma). E non é superfluo aggiungere che la legge impugnata é in contrasto anche con la legislazione statale in materia di contratti agrari, che non prevede 1n conversione ex lege di detti contratti in enfiteusi perpetua.

7. - Infine, la legge regionale viola il principio di eguaglianza (art. 3, primo comma, della Costituzione) tra contadini che coltivano le terre degli enti pubblici e contadini che coltivano le terre dei privati, essendo riservata soltanto ai primi la possibilità di averle assegnate in concessione enfiteutica perpetua.

Gli altri motivi sono assorbiti.

Pertanto, le disposizioni degli artt. 1 e 2 della legge 13 settembre 1956, n. 46, eccedono i limiti in base ai quali é consentita un'attività normativa da parte dell'Assemblea regionale siciliana in materia di riforma agraria e devono, quindi, essere dichiarate incostituzionali. Dalla dichiarata incostituzionalità delle norme su riportate Consegue la incostituzionalità della intera legge. 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE 

respinta l'eccezione pregiudiziale sollevata dalla difesa della Regione;

dichiara la illegittimità costituzionale della legge regionale siciliana 13 settembre 1956, n. 46, riguardante l'applicazione della riforma agraria ai terreni degli enti pubblici in relazione all'articolo 14, primo comma, lett. a, dello Statuto speciale per la Sicilia e in riferimento agli artt. 3, 5 e 44 della Costituzione.  

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 luglio 1961.

Giuseppe CAPPI - Gaspare AMBROSINI - Mario COSATTI - Francesco Pantaleo GABRIELI - Giuseppe CASTELLI AVOLIO - Antonino PAPALDO - Nicola JAEGER - Giovanni CASSANDRO - Biagio PETROCELLI - Antonio MANCA - Aldo SANDULLI - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI

 

Depositata in cancelleria l'11 luglio 1961.