Sentenza n. 67 del 1960
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SENTENZA N. 67

ANNO 1960

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Dott. GAETANO AZZARITI, Presidente

Avv. GIUSEPPE CAPPI

Prof. GASPARE AMBROSINI

Dott. MARIO COSATTI

Prof. FRANCESCO PANTALEO GABRIELI

Prof. GIUSEPPE CASTELLI AVOLIO

Prof. NICOLA JAEGER

Prof. GIOVANNI CASSANDRO

Prof. BIAGIO PETROCELLI

Dott. ANTONIO MANCA

Prof. ALDO SANDULLI

Prof. GIUSEPPE BRANCA

Prof. MICHELE FRAGALI

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 98 Cod. proc. civ., promosso con l'ordinanza emessa il 24 giugno 1959 dal Tribunale di Chieti nel procedimento civile vertente tra Carabba Dino e Marcellusi Enzo, iscritta al n. 114 del Registro ordinanze 1959 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 288 del 28 novembre 1959.

Vista la dichiarazione di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

udita nell'udienza pubblica del 12 ottobre 1960 la relazione del Giudice Nicola Jaeger;

uditi l'avv. Francesco Gravone, per Carabba Dino, l'avv. Umberto Lombardi, per Marcellusi Enzo, e il sostituto avvocato generale dello Stato Francesco Agrò, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

In un giudizio civile promosso davanti al Tribunale di Chieti dal dott. Dino Carabba contro l'avv. Enzo Marcellusi, per ottenere la condanna di questo ultimo al pagamento di L. 320.000 a titolo di restituzione di un onorario a lui pagato quale arbitro, in seguito a sentenza della Corte di cassazione che dichiarava giuridicamente inesistente un lodo arbitrale da lui pronunciato, oltre agli interessi dal giorno del pagamento e al risarcimento dei danni da liquidarsi in prosieguo, il convenuto chiedeva in via preliminare la imposizione all'attore di congrua cauzione per le spese, giustificandola con la palese difficoltà, se non impossibilità, di eseguire la condanna per mancanza di beni perseguibili.

A seguito di tale richiesta, l'attore sollevava incidente di legittimità costituzionale dell'art. 98 Cod. proc. civ., in relazione alle ripetute affermazioni contenute nella Costituzione sulla libertà di adire l'autorità giudiziaria per la tutela dei diritti e degli interessi legittimi del cittadino, senza restrizioni di sorta.

Il Presidente istruttore, ritenendo che i provvedimenti sull'incidente appartenessero alla competenza del Tribunale, rimetteva le parti davanti al Collegio; e questo, con ordinanza del 24 giugno 1959, disponeva la rimessione degli atti alla Corte costituzionale "per la decisione della questione di legittimità costituzionale sollevata dall'attore relativa al disposto dell'art. 98 Cod.proc.civ., che si assume costituire violazione dell'art. 24 della Costituzione".

Nella motivazione dell'ordinanza il Tribunale osserva che la questione non appare manifestamente infondata; che la norma dell'art. 98 limita, rispetto al non abbiente, l'esercizio del diritto di azione; che essa stabilisce, nell'esercizio del potere di agire in giudizio, tra ricco e povero una differenza che l'art. 3 della Carta costituzionale in termini generali ripudia per tutti i cittadini. In quanto alla obbiezione che l'attore ammesso al beneficio del gratuito patrocinio, non é soggetto all'onere della cauzione per le spese, l'ordinanza afferma che il dissenso tra le norme non sembra tuttavia ovviato e che il vigente istituto del gratuito patrocinio subordina la concessione del beneficio a condizioni e limiti non del tutto aderenti al precetto costituzionale.

L'ordinanza é stata regolarmente notificata e comunicata e, quindi, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 28 novembre 1959, n. 288.

Si sono costituiti in giudizio, depositando le proprie deduzioni, tanto il dott. Carabba quanto l'avv. Marcellusi ed é intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri rappresentato dall'Avvocatura generale dello Stato.

La difesa del dott. Carabba (l'attore del giudizio ordinario, a carico del quale era stata richiesta l'imposizione della cauzione) premette che, sebbene l'ordinanza del Tribunale di Chieti abbia richiamato nel dispositivo soltanto l'art. 24 della Costituzione, il giudizio della Corte costituzionale dovrebbe estendersi all'esame della compatibilità della norma contenuta nell'art. 98 Cod. proc. civ. anche con l'art. 3 della Costituzione, ricordato nella motivazione dell'ordinanza stessa, nonché con l'art. 10, che esso attore aveva richiamato nella discussione davanti al Tribunale.

Essa chiede che la illegittimità della norma venga riconosciuta e dichiarata perché le disposizioni che prescrivono la proposizione, nella prima udienza di trattazione, dell'istanza diretta all'imposizione della cauzione sono tali, da impedire addirittura la costituzione del rapporto processuale; perché il giudice deve limitarsi a constatare che l'attore non é ammesso al gratuito patrocinio e che é fondato il timore che l'eventuale condanna nelle spese possa rimanere ineseguibile; perché il suo provvedimento non é preceduto da alcuna istruttoria, ed é definitivo e non soggetto ad alcun reclamo. La cauzione, inoltre, può essere imposta anche a carico dell'appellante, che sia stato convenuto nel giudizio di primo grado, e del fallito, e la mancata presentazione determina l'estinzione del processo. Infine, la cauzione imposta deve essere prestata in denaro o in titoli del debito pubblico, con notevole aggravio per chi non abbia beni agevolmente liquidabili; né ciò é disposto a garanzia di interessi dello Stato, ma a favore di un privato. Anche il contrasto fra la disposizione denunziata e la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948 e le convenzioni internazionali conferma che essa viola i principi di eguaglianza sanciti nella Costituzione.

La difesa dell'avv. Marcellusi (convenuto davanti al Tribunale e proponente dell'istanza per l'imposizione della cauzione) sostiene, invece, che l'art. 24 della Costituzione, mentre riconosce a tutti la possibilità di agire e di difendersi in giudizio, contiene tale diritto nell'ambito del potere sommo della legge, né lo lede con l'art. 98 del Cod. proc. civ., il quale dispensa dalla cauzione chi ha ottenuto le spese a credito. La inviolabilità del diritto é riconfermata dal carattere puramente processuale e cautelare dell'istituto, perché, se la cauzione disposta non viene prestata, non si perde l'azione, e l'attore subisce solo l'estinzione del processo e può sempre riprendere la lite. Aggiunge che i numeri sono i casi per cui non é dato agire se non si soddisfano oneri finanziari; e qui ricorda le leggi sul bollo, sul registro, le tasse di successione, i depositi per multa e il solve et repete.

L'Avvocatura generale dello Stato afferma che la questione proposta é priva di ogni fondamento giuridico, e conclude perché la Corte costituzionale voglia "respingere l'eccezione di incostituzionalità, dichiarando la piena legittimità costituzionale dell'art. 98 Cod. proc. civ.". Essa sostiene che il Tribunale ha frainteso il contenuto e lo scopo dell'art. 24 della Costituzione, il quale non mira ad altro che a riconoscere a tutti i cittadini indistintamente la facoltà di agire in giudizio per far valere le loro ragioni per la tutela di diritti soggettivi e degli interessi legittimi. Ricorda anche essa le norme fiscali e quelle sul deposito per il caso di soccombenza. Fa presente il rapporto fra l'art. 98 e l'istituto del gratuito patrocinio, e ravvisa nel primo la finalità di assicurare precisamente la par condicio litigantium evitando che una parte, riuscita vittoriosa, venga a trovarsi nella impossibilità pratica di ricuperare dall'altra, non ammessa al gratuito patrocinio, le sempre notevoli spese e onorari di lite.

Tanto la difesa del dott. Carabba quanto quella dello Stato hanno presentato memorie, nelle quali hanno ribadito le precedenti conclusioni. La prima espone alcuni rilievi sulla giurisprudenza e la dottrina più recenti, sostenendo che é unanime l'ammissione del contrasto fra il principio della libertà di agire in giudizio e quello della aspettativa del convenuto vittorioso di rivalersi delle spese che ha dovuto sostenere. Contesta la validità dell'argomento desunto dall'istituto del gratuito patrocinio e di quello della par condicio litigantium.

L'Avvocatura generale dello Stato insiste, invece, su questa tesi, aggiungendo che la norma dell'art. 98 Cod. proc. civ. é diretta ad ostacolare il litigante di mala fede, in quanto che colui che potrà dimostrare di non aver mezzi per affrontare una lite e provare che la sua pretesa é assistita, appena, da un fumus boni juris, avrà tutti i vantaggi del gratuito patrocinio. Contesta, infine, che si possa discutere in questa sede della incompatibilità dell'art. 98 con l'art. 3 della Costituzione, non menzionato nel dispositivo dell'ordinanza del Tribunale, aggiungendo che, ad ogni modo, ogni richiamo a tale art. 3 sarebbe del tutto infondato.

Nella discussione orale in pubblica udienza i difensori delle parti e l'avvocato dello Stato hanno esposto nuovamente i loro argomenti, con particolare riguardo alla estensione della indagine del Giudice istruttore al merito della controversia.

 

Considerato in diritto

 

Le riserve esposte dalla difesa dell'avv. Marcellusi e da quella dello Stato sul potere della Corte di esaminare la questione della legittimità costituzionale dell'art. 98 del Cod. proc. civ. anche in riferimento alla norma contenuta nell'art. 3 della Costituzione, oltre che a quella dell'art. 24 della Costituzione stessa, non sono state ripetute nel corso della discussione orale.

D'altra parte, nella motivazione dell'ordinanza del Tribunale di Chieti si richiama espressamente anche la prima delle due norme costituzionali ricordate, seppure il richiamo non ritorna nel dispositivo.

Di conseguenza, la Corte ritiene, seguendo un suo costante orientamento, di dover esaminare la questione della legittimità dell'art. 98 Cod. proc. civ. con riferimento così all'art. 3 come all'art. 24 della Costituzione, che devono essere interpretati ai fini del presente giudizio in coordinazione reciproca.

Dalla combinazione fra queste due norme si deduce che il principio, secondo il quale tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi e la difesa é diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento, deve trovare attuazione uguale per tutti, indipendentemente da ogni differenza di condizioni personali e sociali. Né sembra dubbio che l'art. 98 Cod. proc. civ., prevedendo la imposizione della cauzione a carico di chi non sia ammesso al gratuito patrocinio e nella ipotesi che vi sia fondato timore che l'eventuale condanna nelle spese possa restare ineseguita, ricollega l'applicazione dell'istituto alle condizioni economiche dell'attore, con la conseguenza che, se questi possiede un patrimonio di qualche entità, la misura prevista dalla disposizione non può essere disposta.

D'altronde la esclusione dell'applicazione dell'istituto nella ipotesi che l'attore sia stato ammesso al gratuito patrocinio non elimina la disparità di condizioni, sia perché tale ammissione é subordinata alla dimostrazione dello stato di povertà dell'interessato, e perciò dovrebbe essere rifiutata a chi non si trovasse in tale condizione, sia perché il procedimento preliminare per la concessione del beneficio non é sempre rapido come sarebbe desiderabile, pur essendo previsto un procedimento d'urgenza.

I difensori hanno ampiamente discusso, richiamando tesi sostenute dall'una o dall'altra parte della dottrina processualistica, sull'ampiezza dell'esame affidato al Giudice istruttore, in relazione all'istanza del convenuto per la imposizione della cauzione a carico dell'attore, esame che, secondo alcuni, si estenderebbe anche al merito della controversia, alle probabilità di vittoria dell'uno o dell'altro litigante, al carattere temerario della lite. La Corte non ritiene di potersi pronunciare su questi argomenti, che riguardano direttamente la estensione e il contenuto di un potere attribuito al giudice ordinario.

Essa si limita ad osservare che il testo della legge vigente é stato costantemente interpretato dalla giurisprudenza nel senso che l'istituto della cauzione per le spese debba ritenersi applicabile anche nel giudizio di appello, a carico dell'appellante, fosse questi attore o convenuto nel giudizio di primo grado, nonché nel giudizio di opposizione a decreto di ingiunzione. Queste applicazioni, unitamente alla esclusione di ogni possibilità di reclamo, fanno sì che la imposizione della cauzione e la conseguente estinzione del processo, ove essa non sia prestata in denaro o in titoli del debito pubblico (art. 86 disp. attuaz. del Cod. proc. civ.) nel termine stabilito, possano provocare conseguenze di eccezionale gravità rispetto all'esercizio di diritti che l'art. 24 della Costituzione proclama inviolabili.

Dai difensori del convenuto nel giudizio di merito e dall'Avvocatura dello Stato si sono ricordati, allo scopo di accostarli a quello in esame, diversi istituti del processo, i quali prevedono l'adempimento di oneri, anche di natura patrimoniale, quale presupposto per la valida costituzione del rapporto processuale: tali i depositi per il caso di soccombenza, il principio del solve et repete in materia fiscale, e così via.

A giudizio della Corte, fra codesti istituti e quello in esame sono prevalenti le differenze su ogni possibile analogia, almeno ai fini della presente questione. Anzitutto é evidente che molti di essi sono posti in funzione di particolari interessi pubblici, che il legislatore ha voluto salvaguardare, laddove la cautio pro expensis non serve neppure al fine pubblico inerente al processo, del quale é piuttosto una remora; in secondo luogo si osserva che essi presuppongono un provvedimento giurisdizionale o amministrativo, quindi emesso da una pubblica autorità, che può ben essere considerato titolo sufficiente a giustificare l'imposizione di una cauzione, anche se suscettibile di impugnazione e di riforma; infine, non si può omettere di rilevare che in tutti i casi addotti come analoghi all'istituto in esame l'imposizione dell'onere deriva da categorie e presupposti oggettivi, laddove in questo si ha riguardo proprio, seppure non esclusivamente, a quelle condizioni soggettive, personali o sociali, che l'art. 3 della Costituzione impone di considerare non influenti ai fini della tutela della eguaglianza giuridica.

Tutte queste considerazioni inducono la Corte a ritenere che l'art. 98 Cod. proc. civ. sia in contrasto con i principi degli artt. 3 e 24 della Costituzione.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara la illegittimità costituzionale dell'art. 98 del Codice di procedura civile, in riferimento alle norme contenute negli artt. 24 e 3 della Costituzione.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta il 23 novembre 1960.

Gaetano AZZARITI - Giuseppe CAPPI - Gaspare AMBROSINI - Mario COSATTI - Francesco PANTALEO GABRIELI - Giuseppe CASTELLI AVOLIO - Nicola JAEGER - Giovanni CASSANDRO - Biagio PETROCELLI - Antonio MANCA - Aldo SANDULLI - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI.

 

Depositata in Cancelleria il 29 novembre 1960.