Sentenza n. 22 del 1959

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SENTENZA N. 22

 

ANNO 1959

 

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

 

 

composta dai signori Giudici:

 

Dott. Gaetano AZZARITI, Presidente

 

Avv. Giuseppe CAPPI

 

Prof. Tomaso PERASSI

 

Prof. Gaspare AMBROSINI

 

Prof. Ernesto BATTAGLINI

 

Dott. Mario COSATTI

 

Prof. Francesco PANTALEO GABRIELI

 

Prof. Giuseppe CASTELLI AVOLIO

 

Prof. Antonino PAPALDO

 

Prof. Nicola JAEGER

 

Prof. Giovanni CASSANDRO

 

Prof. Biagio PETROCELLI

 

Prof. Aldo SANDULLI

 

ha pronunciato la seguente

 

 

 

SENTENZA

 

 

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 313 del Codice penale, promosso con ordinanza emessa il 18 dicembre 1957 dal Pretore di San Daniele del Friuli nel procedimento penale a carico di Presello Emilio, iscritta al n. 9 del Registro ordinanze 1958 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 53 del 1 marzo 1958.

 

Vista la dichiarazione di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

 

udita nell'udienza pubblica dell'11 marzo 1959 la relazione del Giudice Francesco Pantaleo Gabrieli;

 

udito il sostituto avvocato generale dello Stato Raffaello Bronzini per il Presidente del Consiglio dei Ministri.

 

 

 

Ritenuto in fatto

 

 

 

Il Pretore di S. Daniele del Friuli, nel procedimento contro Presello Emilio, imputato del reato di cui all'art. 290 Cod. pen. per avere rivolto a Gerussi Ottelio fu Albino le parole "partigiano disonesto" con l'intento di vilipendere le forze della liberazione (la legge 11 novembre 1947, n. 1317, estende alle forze armate della liberazione il delitto di vilipendio preveduto dallo art. 290), emetteva, nell'udienza del 13 dicembre 1957, pur non essendo competente a giudicare per il titolo del reato (art. 29 Cod. proc. pen. modificato dalla legge 10 aprile 1951, n. 287), ordinanza con la quale disponeva la trasmissione degli atti al Ministro di grazia e giustizia con richiesta di autorizzazione a procedere ai sensi dell'art. 313, terzo comma, Codice penale.

 

Lo stesso Pretore, con successiva ordinanza del 18 dicembre 1957, revocava la precedente ordinanza e, di ufficio, sollevava la questione di legittimità costituzionale dell'art. 313 Cod. pen., in punto di autorizzazione a procedere, ritenendola non manifestamente infondata e disponeva trasmettersi gli atti alla Corte costituzionale.

 

Quest'ultima ordinanza, notificata alle parti (il 24 gennaio 1958 al P.M. presso il Tribunale di Udine e l'8 febbraio 1958 al Presello) e al Presidente del Consiglio dei Ministri (25 gennaio 1958) e comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento (8 febbraio 1958), é stata pubblicata per disposizione del Presidente della Corte costituzionale, ai sensi dell'art. 25 della legge 11 marzo 1953, n. 87, nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica del 1 marzo 1958, n. 53, e iscritta al n. 9 del Reg. ord. 1958.

 

Nel giudizio davanti a questa Corte il Presello non si é costituito. É intervenuto invece il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso come per legge dall'Avvocatura generale dello Stato, depositando in cancelleria il 14 febbraio 1958 le proprie deduzioni.

 

Nella citata ordinanza si premette che la norma contenuta nell'art. 313, terzo comma, del Codice penale (autorizzazione a procedere), non appare diretta a tutelare la divisione dei poteri, tutela alla quale provvedono invece gli artt. 68 della Costituzione (immunità parlamentare) e 16 del Codice di procedura penale (autorizzazione a procedere per reati commessi in servizio di polizia), diretti rispettivamente ad evitare ogni interferenza del potere giudiziario nelle attività del potere legislativo e del potere esecutivo.

 

Ciò posto, si rileva che la norma del citato art. 313 appare in contrasto:

 

a) con l'art. 3, primo comma, della Costituzione in quanto, essendo evidentemente diretta ad introdurre tra i cittadini criteri di discriminazione politica, viola il principio, contenuto in tale articolo, della assoluta uguaglianza dei cittadini stessi davanti alla legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali;

 

b) con l'art. 25 della Costituzione in quanto, se "nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge", a maggior ragione nessuno può essere sottratto alla giurisdizione della magistratura ordinaria e speciale. Il che appare ancor più evidente - si aggiunge - ove si consideri che allorquando il Costituente ha ritenuto opportuna tale sottrazione la ha espressamente stabilita con norma costituzionale (art. 68), non estensibile ad altri casi;

 

c) con gli artt. 101 cpv. e 104 prima parte della Costituzione - secondo i quali "i giudici sono soggetti soltanto alla legge" e "la magistratura costituisce un ordine autonomo ed indipendente" - in quanto pone di fatto e di diritto magistrati giudicanti e requirenti in stato di soggezione - e proprio in materia giurisdizionale - nei confronti del Ministro di grazia e giustizia. Al quale spettano invece - secondo l'art. 110 della Costituzione - soltanto l'organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia;

 

d) con l'art. 112 della Costituzione, secondo il quale "il pubblico ministero ha l'obbligo di esercitare l'azione penale".

 

Nelle deduzioni dell'Avvocatura generale si premette che l'autorizzazione a procedere - istituto di lunga tradizione storico-giuridica - partecipa del più ampio principio secondo il quale in taluni casi la promovibilità o la proseguibilità dell'azione penale sono subordinate ad una manifestazione di volontà o di soggetti privati, ovvero di organi statuali, secondo la natura degli interessi tutelati. E ciò senza che di siffatta azione venga snaturata l'essenza giuridica, che rimane inderogabilmente pubblica.

 

Si precisano e si esaminano, quindi, le varie forme di autorizzazione a procedere, e cioé: a) autorizzazione a procedere per alcuni reati determinati; b) autorizzazione a procedere contro parlamentari e contro i giudici della Corte costituzionale; c) autorizzazione a procedere per reati commessi in servizio di polizia; d) autorizzazione a procedere contro funzionari amministrativi. Dall'analisi di tali ipotesi si riscontra in esse la finalità di tutelare l'esercizio di una pubblica funzione al di fuori e indipendentemente da ogni concezione di privilegio personale. Si deduce altresì che il principio dell'art. 3 della Costituzione (uguaglianza dei cittadini) non é vulnerato dall'istituto dell'autorizzazione a procedere, parimenti a quanto si verifica per quegli altri istituti analoghi che, riferendosi nella loro generalità a tutti i cittadini i quali si trovino in determinate situazioni, assicurano ad ognuno di essi proprio quella uguaglianza di trattamento che la Costituzione ha voluto.

 

"Non si tratta - si precisa - di una discriminazione politica, in relazione al soggetto della violazione della legge penale, ma di una valutazione di opportunità, in relazione all'oggetto del giudizio, il quale, per quanto riguarda in particolare la ipotesi prevista dall'art. 313, impone di valutare se nella singola fattispecie sia davvero utile a riparare all'offesa recata all'ordine costituito il procedimento inteso a comminare la relativa sanzione, o non si renda talvolta più opportuno evitare quel giudizio, in base ad un interesse superiore e, comunque, di ordine generale".

 

Né giova a contestare ciò - si aggiunge - il richiamo dello art. 68 della Costituzione. Ed invero, se tale articolo non fosse conforme ai principi generali della medesima, non avrebbe in essa trovato posto, in quanto é da escludere che il costituente abbia dettato due norme tra loro contrastanti. Nell'art. 68, si tratta invece di prerogativa che, ispirata ad un concetto di indipendenza di un organismo fondamentale, assurge ad esigenza costituzionale. Pertanto, essa é prevista dalla Costituzione, non perché faccia eccezione, non altrimenti ammissibile, ai principi generali della stessa, ma soltanto perché trova, per la sua funzione e per il suo stesso carattere, la sua sede naturale in quella legge fondamentale.

 

Nel caso dell'art. 313 Cod. pen. non si tratta - concludono su tal punto le deduzioni - "di una ingerenza nel procedimento e comunque nell'operato della magistratura, in quanto la condizione che si attua con l'autorizzazione opera fuori del procedimento stesso ed al margine di esso, in un campo del tutto estraneo a quello riservato all'autorità giudiziaria".

 

La giurisprudenza, la legislazione, e i pareri espressi in varie occasioni delle assemblee legislative offrono ulteriori argomenti - rileva ancora l'Avvocatura dello Stato - a conforto della tesi della validità della norma contenuta nell'art. 313 Cod. pen. in relazione ai principi costituzionali.

 

Per la giurisprudenza vengono indicate alcune decisioni del Tribunale supremo militare e della Corte di cassazione, anche a sezioni unite.

 

Per la legislazione, viene citata la legge 11 novembre 1947, n. 1317 - approvata dalla stessa Assemblea costituente nel periodo di perfezionamento della Costituzione della Repubblica con la quale il terzo comma dell'art. 313 del Codice penale é stato sostituito da quello del quale si assume la illegittimità costituzionale. Si rileva in proposito che il costituente ha dettato la cennata norma dopo averne valutato la conformità ai principi della Carta costituzionale che andava elaborando. E viene citata altresì la relazione ministeriale del 1950 al progetto preliminare di un nuovo Codice di procedura penale. In tale relazione, infatti, per dimostrare la compatibilità dell'istituto dell'autorizzazione a procedere con i principi della Carta costituzionale é detto, tra l'altro: "basterà considerare che l'art. 3 si occupa dell'uguaglianza dei cittadini sul piano etico-sociale... e che l'art. 112 sancisce l'obbligatorietà della azione penale da parte del pubblico ministero, principio che, peraltro, trova applicazione non appena le condizioni dell'azione si verifichino. Cade l'appunto di incostituzionalità, quindi, e non vi sono ostacoli da considerare nel merito se vi siano ragioni per sopprimere l'istituto o per modificarlo".

 

Per quanto attiene ai pareri espressi dalle assemblee legislative, l'Avvocatura dello Stato fa presente che bene spesso nelle medesime si é insistito sulla esigenza della autorizzazione a pro cedere e sulla necessità di rispettare in grado eminente l'istituto, adducendo argomenti di carattere generale, cioè indipendenti dalla circostanza che il soggetto da sottoporre a giudizio fosse membro del Parlamento. Più specificamente, si rileva che in Senato é stato affermato che l'art. 313 non toglie al Procuratore della Repubblica il diritto, anzi l'obbligo, di procedere penalmente, ma stabilisce che possa procedere soltanto dopo l'autorizzazione di altra autorità. Autorizzazione che trova la sua giustificazione nel fatto che talora - come avvertiva il Carrara - "maggiore nocumento incombe al prestigio delle istituzioni dalla pubblicità del processo che dal vilipendio".

 

Nelle ripetute deduzioni, si fa notare, infine, che ove la norma del terzo comma dell'art. 313 Cod. pen. dovesse ritenersi incompatibile con i precetti della Costituzione, verrebbe meno non soltanto l'autorizzazione da concedersi dal Ministro Guardasigilli, ma anche quella demandata alla Camera dei deputati o al Senato della Repubblica, ovvero alla Corte costituzionale, per i reati di vilipendio preveduti dall'art. 290 Cod. penale. Il che - si argomenta - significherebbe rinunciare ad una esigenza di tutela del prestigio delle massime istituzioni costituzionali dello Stato.

 

Si conclude, pertanto, chiedendo che la questione di legittimità costituzionale sollevata con l'ordinanza più volte menzionata del Pretore di S. Daniele del Friuli sia dichiarata manifestamente infondata.

 

L'Avvocatura dello Stato il 26 febbraio 1959 ha depositato nella cancelleria di questa Corte una memoria con la quale, sostanzialmente, si ribadiscono le già svolte argomentazioni.

 

Tra l'altro circa l'asserito contrasto della norma in questione con il primo comma dell'art. 25 della Costituzione, si insiste nel porre in evidenza che il divieto di istituire giudici straordinari o speciali (art. 102, secondo comma, Cost.) ha lo scopo di vietare la creazione di magistrature straordinarie, dando con ciò al cittadino la certezza del magistrato che deve giudicarlo.

 

É poi irrilevante ogni richiamo all'art. 110 della Costituzione, con il quale vengono delimitate le competenze del Ministro di grazia e giustizia in rapporto al Consiglio superiore della Magistratura.

 

"Nel concedere ovvero negare l'autorizzazione a procedere nei casi previsti dalla legge, il Ministro - spiega l'Avvocatura - agisce infatti come organo del potere politico, come l'organo cioè meglio qualificato, ma al di fuori di ogni rapporto di interferenza con l'autorità giudiziaria, le cui attribuzioni e la cui indipendenza dal potere esecutivo non vengono per questo minimamente intaccate".

 

Per quanto attiene, infine, al preteso contrasto con il disposto dell'art. 112 della Costituzione, va osservato - si conclude nella memoria - che tale norma deve essere intesa nel senso che il pubblico ministero non può esercitare un'attività discrezionale circa l'esercizio dell'azione penale, ma, avuta la notitia criminis, deve investire l'organo della giurisdizione dell'esame del contenuto dell'azione penale.

 

"Ciò pertanto non può significare che il P.M. sia in ogni caso obbligato ad esercitare l'azione: é ovvio che l'obbligo sorgerà soltanto quando verranno ad essere integrati i requisiti di ordine sostanziale e processuale cui la legge condiziona tale esercizio, non escluso, quindi, il requisito dell'autorizzazione nei casi previsti dalla legge stessa".

 

Nella udienza dell'11 marzo 1959 l'avvocato dello Stato illustrava le precedenti deduzioni.

 

 

 

Considerato in diritto

 

 

 

Al fine di precisare i limiti della questione da esaminare é opportuno premettere che essa, come enunciata nell'ordinanza del Pretore, riguarda esclusivamente la legittimità costituzionale dell'art. 313, terzo comma, del Codice penale in quanto prescrive l'autorizzazione a procedere per i delitti di vilipendio alle istituzioni costituzionali, vilipendio esteso alle Forze della liberazione in virtù della legge 11 novembre 1947, n. 1317. Ed é opportuno premettere altresì che questa Corte ha fissato e ribadito il principio, che oggetto del giudizio di legittimità costituzionale, promosso in via incidentale, può essere solo l'esame della questione proposta dall'ordinanza del giudice a quo (sentenze n. 55 del 10 aprile 1957; n. 64 del 14 maggio 1957; n. 80 del 16 maggio 1957 e n. 84 del 7 giugno 1957).

 

Conseguentemente il presente giudizio non investe la legittimità costituzionale delle altre specie di autorizzazione a procedere.

 

Ciò posto, osserva la Corte che non sussiste l'asserito contrasto tra l'istituto dell'autorizzazione a procedere preveduto dall'art. 313, terzo comma, del Codice penale e il principio dell'articolo 3, primo comma, della Costituzione, secondo il quale "tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge".

 

Ed invero il citato articolo 313 nessuna discriminazione opera tra i cittadini, in quanto i medesimi, qualora si trovino nelle situazioni prevedute da tale disposizione, ricevono tutti indistintamente il medesimo trattamento.

 

Il che appare evidente, ove si consideri che la valutazione demandata al Ministro della giustizia ha per oggetto il promovimento o la prosecuzione dell'azione penale per determinati reati, chiunque ne sia l'autore.

 

E questa Corte ha ripetutamente affermato che il principio di "eguaglianza davanti alla legge" va inteso nel senso che deve essere assicurata ad ognuno eguaglianza di trattamento, quando eguali siano le condizioni soggettive cui la norma si riferisce per la sua applicazione (sent. n. 3 del 16 gennaio 1957; sent. n. 28 del 22 gennaio 1957; sent. n. 105 del 26 giugno 1957; sent. n. 53 del 9 luglio 1958).

 

Infondato é anche l'assunto, che l'istituto in parola costituirebbe violazione della norma dell'art. 112 della Costituzione, secondo la quale "il pubblico ministero ha l'obbligo di esercitare l'azione penale".

 

Con tale norma la Costituzione ha dichiarato in modo espresso il principio della obbligatorietà, escludendo quello opposto di una discrezionale valutazione del pubblico ministero circa la opportunità o meno del promovimento dell'azione penale. Ma la riaffermazione del principio della obbligatorietà non vale ad escludere che l'ordinamento possa in via generale stabilire che, indipendentemente dall'obbligo del pubblico ministero, determinate condizioni concorrano perché l'azione penale possa essere promossa o proseguita. Né l'art. 112 autorizza a ritenere che si sia inteso svincolare il ripetuto obbligo dalla necessità, nei casi stabiliti dalla legge, del verificarsi di determinate condizioni. In particolare, per ciò che riguarda i delitti contro la personalità dello Stato preveduti dall'art. 313 Cod. pen., é da considerare che l'istituto dell'autorizzazione a procedere trova fondamento nello stesso interesse pubblico tutelato dalle norme penali, in ordine al quale il procedimento penale potrebbe qualche volta risolversi in un danno più grave dell'offesa stessa.

 

Si sostiene inoltre che l'art. 313, nella parte relativa all'autorizzazione a procedere, sarebbe in contrasto con il primo comma dell'art. 25 della Costituzione in quanto, se "nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge", a maggior ragione, nessuno potrebbe essere sottratto del tutto alla giurisdizione della magistratura ordinaria o speciale.

 

In contrario é da rilevare, che l'art. 313 non incide nella materia regolata dall'art. 25, il quale ha lo scopo di dare al cittadino la certezza circa il giudice che lo deve giudicare.

 

Né vale il richiamo dell'art. 68, secondo comma, della Costituzione per argomentare, come si fa nell'ordinanza pretoria, che quando il Costituente ha voluto stabilire una eccezione lo ha fatto con norma non estensibile oltre i casi indicati. Infatti l'autorizzazione a procedere contro i membri del Parlamento, giustificata dalla esigenza di garantire il funzionamento di un organo costituzionale, non si riferisce al reato, come quella preveduta dall'art. 313, bensì al suo autore. E il motivo di tale espressa previsione sta nel fatto che l'autorizzazione riguarda i membri del Parlamento.

 

Da ultimo é infondata la censura che l'autorizzazione a procedere, violando gli artt. 101, secondo comma, e 104, primo comma, della Costituzione, porrebbe i magistrati, in materia strettamente giurisdizionale, in stato di soggezione nei confronti del Ministro della giustizia alla cui competenza l'art. 110 della Costituzione ha attribuito soltanto l'organizzazione ed il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia.

 

Invero l'art. 101 ("il giudice é soggetto soltanto alla legge"), enunciando il principio della indipendenza del singolo giudice, ha inteso indicare che il magistrato nell'esercizio della sua funzione non ha altro vincolo che quello della legge.

 

L'art. 104, infine, ("la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere") pone il principio della indipendenza della organizzazione giudiziaria nel suo complesso, nel senso che, come risulta dai lavori preparatori della Costituzione, l'ordine della magistratura non deve dipendere da altro potere e deve esso disporre per ciò che riguarda il suo stato, come personale ecc.

 

Pertanto é da escludere che l'indipendenza e l'autonomia della magistratura possano essere menomate dall'autorizzazione a procedere prescritta dall'art. 313, terzo comma, del Codice penale in quanto l'autorizzazione stessa non opera, come si é visto, sul modo in cui il giudice deve esercitare la propria funzione.

 

 

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

 

 

dichiara non fondata la questione proposta dal Pretore di S. Daniele del Friuli con ordinanza 18 dicembre 1957 sulla legittimità costituzionale dell'art. 313, terzo comma, Codice penale in riferimento agli artt. 3, primo comma; 25, primo comma; 101, secondo comma; 104, primo comma; 112 della Costituzione.

 

 

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 16 aprile 1959.

 

Gaetano AZZARITI - Giuseppe CAPPI - Tomaso PERASSI - Gaspare AMBROSINI - Ernesto BATTAGLINI  - Mario COSATTI - Francesco PANTALEO GABRIELI - Giuseppe CASTELLI AVOLIO - Antonino PAPALDO - Nicola JAEGER - Giovanni CASSANDRO - Biagio PETROCELLI - Antonio MANCA.

 

 

 

Depositata in cancelleria il 5 maggio 1959.