Sentenza n. 28 del 1957
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SENTENZA N. 28

ANNO 1957

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Avv. Enrico DE NICOLA, Presidente

Dott. Gaetano AZZARITI

Prof. Tomaso PERASSI

Prof. Gaspare AMBROSINI

Dott. Mario COSATTI

Prof. Francesco PANTALEO GABRIELI

Prof. Giuseppe CASTELLI AVOLIO

Prof. Antonino PAPALDO

Prof. Mario BRACCI

Prof. Nicola JAEGER

Prof. Giovanni CASSANDRO

Prof. Biagio PETROCELLI

Dott. Antonio MANCA,

ha pronunziato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 10 della legge 23 maggio 1950, n. 253, promosso con ordinanza 10 luglio 1956 del Pretore di Milano emessa nel procedimento civile tra la Società Immobiliare San Giorgio e la Società a r. l. Santo Giacalone, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 227 dell'8 settembre 1956 ed iscritta al n. 262 del Reg. ord. 1956.

Vista la dichiarazione di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

udita nell'udienza pubblica del 28 novembre 1956 la relazione del Giudice Nicola Jaeger;

uditi gli avvocati Ferruccio Carboni e Luigi De Pompeis e il sostituto avvocato generale dello Stato Nicola Catalano.

 

Ritenuto in fatto

 

Con atto di citazione 26 novembre 1955 la Società p. a. Immobiliare San Giorgio, proprietaria di uno stabile in Milano, conveniva davanti al Pretore di Milano la Società Santo Giacalone, per far dichiarare cessata la proroga del contratto di locazione, soggetto a regime vincolistico, relativo ad alcuni locali ad uso industriale siti nello stabile stesso, ai sensi dell'art. 10, n. 2, della legge 23 maggio 1950, n. 253. Esponeva di voler demolire lo stabile per provvedere a una nuova costruzione avente un numero più che doppio di vani; non offriva in cambio altri locali idonei, a norma del secondo comma del suddetto articolo, dichiarando di non considerarsi tenuta a ciò, in base alla interpretazione di tale disposizione adottata dalla giurisprudenza più autorevole, secondo la quale l'obbligo é imposto soltanto nei casi di locazione per abitazione.

La convenuta Società Giacalone, costituitasi in giudizio, formulava vari mezzi di difesa ed eccezioni, contestando tra l'altro l'esattezza della interpretazione suddetta: sosteneva anzitutto che la disposizione dell'art. 10, n. 2, della legge del 1950 é applicabile soltanto agli immobili destinati ad uso di abitazione; poiché, se così non fosse, anche il proprietario di locali destinati ad uso diverso dovrebbe offrire in cambio al conduttore altri locali idonei, a norma del secondo comma dello stesso articolo.

Nell'ipotesi che il giudice non avesse accolto né l'una né l'altra delle due interpretazioni proposte, dichiarava di sollevare formalmente la questione di illegittimità costituzionale dell'art. 10 della legge 23 maggio 1950, n. 253, per violazione dell'art. 3 della Costituzione, chiedendo la sospensione del giudizio e la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale.

Con ordinanza 8 luglio 1956 il Pretore accoglieva la conclusione suddetta, motivando testualmente: "Effettivamente l'articolo 10 della predetta legge non appare chiaro per una esatta interpretazione circa la volontà del legislatore, che in tale disposizione non ha voluto o saputo specificare se le disposizioni del predetto articolo debbano o meno applicarsi anche ai contratti aventi per oggetto locali ad uso diverso da abitazione; poiché ancora dalla interpretazione letterale della norma appare che l'offerta di altro alloggio idoneo debba essere effettuata solamente nelle fattispecie aventi per oggetto locali ad uso abitazione, come la Suprema Corte ha deciso con le sentenze n. 561/53, n. 4486/54, n. 1981/55; che pertanto questo Pretore ritiene che la questione sollevata sia fondata e meritevole di disamina da parte di questa Ecc. ma Corte, avendo la difesa della convenuta sollevata la questione di trattamento anche economico, da una parte dei proprietari di locali ad uso di abitazione e non di abitazione e dall'altra dei conduttori per i medesimi motivi e col grave disagio economico per i conduttori di locali ad uso diverso da abitazione e disagio sociale per i lavoratori di quelle aziende che dovrebbero cessare l'attività per l'improvviso sloggio, il tutto in riflesso dell'art. 3 della Costituzione".

Successivamente alla pronuncia dell'ordinanza, ma prima che essa fosse notificata e comunicata, l'attrice presentava ricorso al Pretore chiedendo la revoca dell'ordinanza stessa e insistendo anche sul danno che essa avrebbe sofferto per il ritardo nel conseguimento del titolo esecutivo per lo sloggio della conduttrice (in quanto, non iniziando i lavori di ricostruzione entro il 31 dicembre 1956, avrebbe perduto i benefici della legge 18 luglio 1949 - c. d. legge Tupini - valutabili nella specie a varie decine di milioni); ma con provvedimento in data 27 luglio 1956 il Consigliere Pretore dirigente rigettava il reclamo, rilevando "che l'ordinanza emessa dal giudice, relativa alla trasmissione degli atti civili per incostituzionalità di una norma che ha influenza nella fattispecie da decidersi, é per sua natura irrevocabile e immediatamente esecutiva; per cui rimane l'obbligo assoluto dell'ufficio della trasmissione degli atti alla Corte costituzionale per l'esame delle questioni prospettate, e ciò indipendentemente dall'esito favorevole o meno delle stesse".

L'ordinanza veniva notificata il 9 agosto 1956, comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica.

Nel presente giudizio si costituivano, mediante deposito di deduzioni in cancelleria, il 28 agosto il Presidente del Consiglio dei Ministri, a mezzo dell'Avvocatura generale dello Stato, e la Società Immobiliare San Giorgio; il 30 agosto la Società SantoGiacalone. Quest' ultima e l'Avvocatura dello Stato depositavano poi le loro memorie il 13 e il 15 novembre 1956.

La Immobiliare San Giorgio concludeva perché fosse respinta la eccezione sottoposta al Pretore sulla legittimità costituzionale dell'art. 10 della legge del 1950; l'Avvocatura generale dello Stato perché la Corte, in via principale, dichiarasse che non v'ha luogo a giudizio di legittimità costituzionale nei riguardi della questione dedotta; in subordine, perché dichiarasse non sussistere illegittimità costituzionale della norma denunciata e, conseguentemente, dichiarasse la legittimità costituzionale della disposizione stessa. La Società Immobiliare Santo Giacalone concludeva, al contrario, perché fosse dichiarata la illegittimità costituzionale dell'art. 10, per violazione dell'art. 3 della Costituzione.

In quanto ai motivi addotti a sostegno delle conclusioni indicate, si deve rilevare che l'Avvocatura dello Stato ha proposto anzitutto una eccezione di inammissibilità, per nullità del rapporto processuale conseguente a un vizio sostanziale dell'atto giurisdizionale, che ne forma un presupposto; e ciò perché dall'ordinanza del Pretore non risulta se la pretesa violazione rifletta il disposto del primo, ovvero del secondo comma del art. 3 della Costituzione, tanto più che la portata dei precetti contenuti rispettivamente nell'uno e nell'altro comma é non solo differente, ma perfino in un certo senso divergente. Vi sarebbe pertanto incertezza assoluta in ordine sia all'oggetto sostanziale della questione, sia alla identificazione formale delle disposizioni violate, con conseguenze rilevanti anche rispetto all'apprezzamento sulla fondatezza della questione.

Nel merito l'Avvocato dello Stato ha osservato:

1) che dal complesso della legge n. 253 del 1950 si ricava che il legislatore ha voluto dettare una disciplina diversa per le locazioni di case e le altre, in considerazione della funzione sociale della casa;

2) che l'art. 3 della Costituzione non ha natura precettiva;

3) che il primo comma dell'art. 3 proclama l'uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, ma non l'uguaglianza della legge per situazioni diverse, rimesse al libero apprezzamento del legislatore;

4) che il secondo comma deve essere inteso in coordinazione con altre norme della Costituzione, quale l'art. 42, secondo comma, che prevede i limiti alla proprietà privata "allo scopo di assicurarne la funzione sociale", limiti destinati a venir meno in relazione a mutamenti verificatisi nell'economia generale del paese;

5) che la ricostruzione con un numero di vani almeno doppio offre maggiori possibilità di nuove installazioni agli sloggiati, e occasioni di lavoro alle maestranze edilizie.

La Immobiliare San Giorgio (locatrice) aggiungeva che la stessa legislazione vincolistica é informata a principi di disparità di trattamento fra alcune persone ed altre; che essa ha contemperato in modo vario gli interessi delle categorie commerciali e industriali e di quelle dei proprietari - locatori; che, in definitiva, essa risolve problemi di opportunità politico - sociale, che non pongono questioni di legittimità costituzionale.

La Società Santo Giacalone (conduttrice), dopo aver svolto ampie considerazioni intorno al concetto di eguaglianza, da riferire anche al momento formativo della legge, oltre che a quello della sua applicazione, affermava che per l'art. 3 della Costituzione "la creazione di uno squilibrio é sempre vietata", mentre nella norma denunziata si riscontra tale squilibrio, per la diversa disciplina, a cui sono sottoposti i proprietari di immobili locati ad uso di abitazione e quelli di immobili locati ad uso diverso, come pure i conduttori rispettivi.

 

Considerato in diritto

 

In ordine alla eccezione di inammissibilità sollevata dall'Avvocatura generale dello Stato, la Corte ritiene che non si possa dichiarare nella specie la nullità del rapporto processuale per incertezza assoluta sull'oggetto sostanziale della questione e sulle disposizioni violate.

Nei riguardi della sommaria motivazione dell'ordinanza del vice Pretore di Milano, che fu depositata quasi quattro mesi dopo la discussione della causa, la Corte non può non osservare che la proposizione di una questione di legittimità costituzionale é un provvedimento di notevole gravità, anche perché la pubblicazione di esso sulla Gazzetta Ufficiale determina una situazione di incertezza del diritto, che si riflette su tutta una serie di rapporti e di controversie.

Tuttavia la menzione dell'art. 3 della Costituzione, seppure non precisa, non può essere considerata motivo di nullità del rapporto processuale, perché sufficiente al fine di identificare l'oggetto del giudizio.

Nel merito, la Corte ritiene che la proposta questione di legittimità costituzionale dell'art. 10 della legge 23 maggio 1950, n. 253, debba dichiararsi infondata; e perviene a tale conclusione non perché consideri le norme contenute nell'art. 3 della Costituzione quali meramente programmatiche, come é stato sostenuto dall'Avvocatura generale dello Stato, avendo la Corte già avuto occasione di esprimere il proprio giudizio sul valore delle distinzioni correnti fra le norme costituzionali, ai fini della soluzione delle questioni di legittimità costituzionale.

La questione proposta é infondata perché non é concepibile che il principio di eguaglianza dei cittadini davanti alla legge, sancito dall'art. 3 della Costituzione, debba intendersi nel senso che il legislatore non possa dettare norme diverse per regolare situazioni che esso considera diverse, adeguando così la disciplina giuridica agli svariati aspetti della vita sociale, anche al fine di conseguire i risultati additati dal secondo comma dello stesso art. 3.

La valutazione della rilevanza delle diversità di situazioni in cui si trovano i soggetti dei rapporti da disciplinare non può non essere riservata al potere discrezionale del legislatore, salva l'osservanza dei limiti stabiliti nel primo comma dell'art. 3 della Costituzione, ai sensi del quale le distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche e di condizioni personali e sociali non possono essere assunte quali criteri validi per la adozione di una disciplina diversa. Fino a quando tali limiti siano osservati e le norme siano dettate per categorie di destinatari e non ad personam, ogni indagine sulla corrispondenza della diversità di regolamento alla diversità delle situazioni regolate implicherebbe valutazioni di natura politica, o quanto meno un sindacato sull'uso del potere discrezionale del Parlamento, che alla Corte costituzionale non spetta esercitare, anche a norma dell'art. 28 della legge 11 marzo 1953, n. 87.

Nella specie, l'art. 10 della legge 23 maggio 1950, n. 253, se interpretato come ha ritenuto esatto la giurisprudenza più autorevole, dimostra soltanto che il legislatore ha valutato diversamente i rapporti di locazione di immobili adibiti ad abitazione da quelli concernenti immobili adibiti ad altri usi e ha perciò disciplinato la prima categoria di rapporti con regole diverse da quelle applicabili alle altre. Poiché esso ha dettato inoltre tale disciplina in modo esclusivamente obiettivo, senza alcun riferimento alle persone, la tesi della illegittimità costituzionale della norma per violazione dell'art. 3 della Costituzione non può essere accolta.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

respinta la eccezione di inammissibilità sollevata dall'Avvocatura generale dello Stato:

dichiara non fondata la questione proposta con l'ordinanza del Pretore di Milano in data 8 luglio 1956 sulla legittimità costituzionale della norma contenuta nell'art. 10 della legge 23 maggio 1950, n. 253, per la disciplina delle locazioni e sublocazioni di immobili urbani, in riferimento alla norma dell'art. 3 della Costituzione.  

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 gennaio 1957.

 

 Enrico DE NICOLA - Gaetano AZZARITI - Tomaso PERASSI - Gaspare AMBROSINI - Mario COSATTI - Francesco PANTALEO GABRIELI - Giuseppe CASTELLI AVOLIO - Antonino PAPALDO - Mario BRACCI - Nicola JAEGER - Giovanni CASSANDRO - Biagio PETROCELLI - Antonio MANCA

 

Depositata in cancelleria il 26 gennaio 1957.