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ANTONIO RUGGERI

UNITÀ-INDIVISIBILITÀ DELL’ORDINAMENTO, AUTONOMIA REGIONALE, TUTELA DEI DIRITTI FONDAMENTALI*

 

Sommario: 1. “Livello” (o “dimensione”) dei diritti e riparti di competenze. – 2. Il sistema dei diritti come “metacriterio” ordinatore delle fonti (rectius, delle norme), con specifico riguardo alla attitudine dei diritti stessi a ridefinire di continuo la linea di confine tra competenze statali e competenze regionali. – 3. La vessata questione concernente l’attitudine degli statuti regionali a disporre in tema di diritti: in ispecie, la tesi favorevole al suo riconoscimento, attratto dalla “forma di governo” ovvero dai “principi di funzionamento”, e la sua critica. – 4. Segue: Il fondamento della disciplina volta a dare (non già il riconoscimento ma) la tutela dei diritti va rinvenuto nella vocazione degli statuti a rappresentare, nel modo più immediato e genuino, l’identità regionale ed a dare dunque voce all’autonomia, intesa, ancora prima che come potere, come servizio alla comunità regionale. – 5. Le temute interferenze tra la disciplina statutaria e le discipline legislative sui diritti e i modi del loro possibile superamento. – 6. Norme statutarie sui diritti in materia di organizzazione e norme a questa estranee, idonee a valere nel rispetto delle norme statali poste a presidio dell’unità ovvero in via “sussidiaria”, in caso di mancanza delle stesse. – 7. I diritti nella prassi, ovverosia l’identità-autonomia ancora oggi all’affannosa, sofferta ricerca dei modi più adeguati per farsi valere.

 

1. “Livello” (o “dimensione”) dei diritti e riparti di competenze

 

Che vi sia un “livello” (o, forse meglio, una “dimensione”) regionale dei diritti è certo; il punto è però che non si sa come far luogo alla sua determinazione con sufficiente approssimazione al vero, tanto secondo modello quanto secondo esperienza[1]. Il livello infatti rimanda alle competenze, le quali poi – come si sa – si fissano e mettono a fuoco all’incrocio degli assi cartesiani delle materie, per un verso, e, per un altro verso, dei limiti all’esercizio delle competenze stesse. Solo che – come pure è assai noto – l’uno e l’altro piano, quello “orizzontale” e quello “verticale”, ricevono nel disegno costituzionale una rappresentazione assai sfocata ed incerta, da cui si sono alimentate e seguitano senza sosta ad alimentarsi pratiche (normative, giurisprudenziali e di altro genere ancora) non poco approssimative, discontinue, complessivamente congiunturali. E il vero è che il riparto delle competenze si fa e rinnova, di giorno in giorno, in ragione della natura degli interessi, laddove è il costante punto di riferimento nella (non di rado sofferta) ricerca di soluzioni quanto più possibile mediane e concilianti tra le pretese dell’unità-indivisibilità dell’ordinamento e quelle dell’autonomia: i due fini-valori usualmente visti come in una reciproca lotta senza fine e senza risparmio di colpi, non già – come, invece, a mia opinione è secondo modello e sempre dovrebbe essere secondo esperienza – quali i due profili di un unico, composito bene-valore, l’unità facendosi per il tramite dell’autonomia, la sua massima valorizzazione alle condizioni oggettive di contesto, così come, di rovescio, l’autonomia restando priva di senso alcuno al di fuori della cornice dell’unità.

Di più non può ora dirsi e deve al riguardo farsi necessariamente rinvio a sedi in cui la questione ha avuto la sua opportuna chiarificazione. Quel che importa, per tornare alla partenza del discorso, è che la stessa giurisprudenza si mostra ormai ferma nel considerare soggetto a mai finito movimento il riparto suddetto; e basti, al riguardo, solo evocare il criterio della c.d. “prevalenza”, con riferimento ai casi, peraltro il più delle volte ricorrenti, in cui una disciplina normativa si faccia simultaneamente attrarre sia dall’una che dall’altra “materia” o sfera di competenze, gli interessi di cui si fa cura presentando una struttura internamente composita e facendosi pertanto riportare sia al polo dell’unità che a quello dell’autonomia. Ed è solo laddove – a giudizio insindacabile della Corte costituzionale – si dimostri impossibile l’utilizzazione del criterio in parola che viene in soccorso – seguita a dire la Corte – il canone della “leale cooperazione”: formula magica che ricorda il deus ex machina delle antiche tragedie, peraltro dotato della straordinaria virtù di sapersi presentare ogni volta con volti diversi, la “cooperazione” stessa esibendo varietà di forme espressive e capacità graduata, ora più ed ora meno “intensa”, di appagamento delle istanze di autonomia[2].

Un quadro costituzionale, dunque, complessivamente opaco, che rimanda all’esperienza (normativa prima e giurisprudenziale poi) per la sua incessante, storicizzata, ridefinizione[3]; una opacità che si riflette ai due piani in cui il riparto delle competenze si articola e svolge: quello, per dir così, “esterno”, relativo ai rapporti Stato-Regioni per un verso e Regioni-enti infraregionali per un altro[4], e quello “interno”, riguardante i rapporti tra le fonti di uno stesso ente (qui, la Regione), l’apporto che può venire da ciascuna di esse e da tutte assieme alla cura degli interessi rimessi alla competenza dell’ente stesso (per ciò che qui specificamente importa, alla salvaguardia dei diritti).

Svolgo di seguito alcune succinte notazioni per ciò che attiene all’esercizio dei poteri di normazione, ponendosi oltre l’orizzonte di questa ricerca l’esame delle non poche, complesse questioni relative all’amministrazione, bisognose di separato e specifico esame; peraltro, anche con riguardo al piano della normazione nulla ora dirò quanto agli interventi in forma sublegislativa (e, segnatamente, regolamentare), essi pure connotati in modo peculiare. In breve, circoscrivo quest’analisi ai soli rapporti tra le leggi di Stato e Regione per un verso, ai rapporti tra statuto e leggi, sia statali che regionali, per un altro verso.

 

 

2. Il sistema dei diritti come “metacriterio” ordinatore delle fonti (rectius, delle norme), con specifico riguardo alla attitudine dei diritti stessi a ridefinire di continuo la linea di confine tra competenze statali e competenze regionali

 

Si diceva che i diritti rimandano alle competenze. Con ciò, tuttavia, non si è ancora raggiunta la prova certa di una competenza delle Regioni a farsene cura. Non poche volte, infatti, si assiste a ritagli, anche assai incisivi, in seno ad una data sfera di competenze, in ragione appunto della natura degli interessi che non darebbe modo al titolare della sfera stessa di poterne fare oggetto di regolazione. Ed allora si tratta di stabilire a che titolo le Regioni possano disciplinare i diritti fondamentali e, una volta che si sia data risposta affermativa al quesito, se la disciplina stessa possa spingersi fino al punto di dare il riconoscimento dei diritti (in particolare, di “nuovi” diritti[5]) ovvero solo concorrere, con norme aventi carattere meramente specificativo-attuativo, alla tutela di diritti che abbiano altrove (e, segnatamente, in Costituzione o in altre Carte) la fonte prima ed esclusiva del riconoscimento stesso.

La questione ora indicata, di cruciale rilievo, non è risolta dal disposto, frequentemente richiamato, di cui all’art. 117, II c., lett. m), cost., dal quale si può, sì, desumere una competenza delle Regioni in fatto di disciplina relativa ai diritti (segnatamente, secondo un’accreditata opinione, avallata dalla giurisprudenza[6], nel senso dell’innalzamento dei “livelli essenziali”, così come fissati dalle leggi statali) ma non è chiarita la natura della stessa, se cioè possa portarsi ulteriormente in avanti, fino appunto al riconoscimento di nuovi diritti, ovvero se debba restare circoscritta alla regolazione dei soli diritti già fatti oggetto di una normazione “a prima battuta” da parte dello Stato[7].

Quel che, ad ogni buon conto, è certo è che, proprio riguardando al riparto delle competenze tra Stato e Regioni dal punto di vista dei diritti, possono aversi le più espressive testimonianze di quella sua strutturale mobilità e fluidità, di cui si diceva poc’anzi. I diritti vantano, infatti, pretese crescenti di appagamento: ancora prima delle pretese stesse, cresce anzi proprio il numero dei diritti, allo stesso tempo facendosi via via più complessa la loro strutturale conformazione; e ciò, proprio perché aumentano sempre di più i bisogni elementari dell’uomo, a fronte peraltro di risorse che si vanno sempre più assottigliando[8]. Ed allora è chiaro che solo dallo sforzo congiunto di tutti gli operatori presenti sul territorio[9] possono aversi esiti in qualche modo idonei a venire incontro a tali bisogni. La qual cosa, poi, per la sua parte dimostra il carattere inevitabilmente recessivo della “logica” della separazione delle competenze, ormai soppiantata, in forza di una tendenza che si esprime altresì verso l’alto (fino a coinvolgere l’Unione europea e la stessa Comunità internazionale), dalla “logica” della integrazione delle competenze stesse.

Che le cose stiano così come qui sono viste e succintamente rappresentate se ne ha conferma dalla stessa giurisprudenza, che pure esibisce, a riguardo del modo con cui si atteggia il riparto delle competenze, remore non rimosse e sensibili oscillazioni tra il polo della separazione e quello della integrazione.

Ancora non molto tempo addietro, la Consulta ha tenuto a precisare che il riparto delle competenze va “bilanciato” con le aspettative di tutela dei diritti[10]. Se si va, tuttavia, a guardare il modo con cui si è pervenuti alla definizione del caso, ci si avvede che il “bilanciamento” in parola non è stato affatto paritario[11], essendosi risolto nella messa da canto del riparto stesso per dar voce ai diritti, in ultima istanza alla dignità della persona umana, che è – a me pare –, a un tempo, un diritto fondamentale e il fondamento dei diritti fondamentali restanti[12] o – come pure è stato felicemente detto – la bilancia su cui si dispongono i beni costituzionali bisognosi di bilanciamento[13].

Il vero è che – se ci si pensa – in nome dei diritti (e, più in genere, dei valori positivizzati) può “saltare” il canone ordinatore della competenza[14], al pari di ogni altro canone di sistemazione delle fonti[15]; e così, ad es., con riguardo al criterio della lex posterior, leggi anteriori possono resistere al tentativo di innovarvi posto in essere da leggi successivamente adottate, ogni qual volta si dimostri che, per effetto del mutamento normativo, dovesse risultare inciso il valore di “copertura” della fonte (rectius, della norma) anteriore, per il caso che solo questa goda di protezione costituzionale ovvero, qualora anche la posteriore risulti a sua volta protetta, l’una goda di una “copertura” preminente in sede di bilanciamento[16].

La clausola sui “livelli essenziali”, di cui alla cit. lett. m) del II c. dell’art. 117, non acquista infatti rilievo unicamente sul fronte del riparto delle competenze Stato-Regioni, segnando (sia pure in modo largamente approssimativo) la linea di confine tra le potestà di normazione dei due enti, ma possiede un’ancòra più denso e profondo significato, al piano dell’avvicendamento delle leggi nel tempo, la cui validità può infatti apprezzarsi – come si viene dicendo – in prospettiva assiologicamente orientata, ove si convenga che le leggi sui “livelli” (anche quelle regionali[17]) possono fissare i punti di “non ritorno” nel processo d’implementazione dei diritti[18]. Ciò che, nondimeno, non equivale a dire che le sole discipline possibili sono quelle che vanno nel verso dell’accrescimento della tutela riservata al singolo diritto. Nulla invero, in astratto, si oppone a che, nell’ambito dell’apprezzamento politico-discrezionale che gli è riservato, il legislatore (statale o locale che sia) possa determinarsi nel senso di ridurre le prestazioni offerte ad un diritto, purché – beninteso – ciò si risolva in un complessivo beneficio per l’intero patrimonio dei diritti (e, in genere, dei beni costituzionalmente protetti)[19].

La Costituzione insomma reclama che si tenda verso punti sempre più alti di sintesi assiologiche o, quanto meno, che si mantenga costante il livello dapprima raggiunto, di modo che la Costituzione stessa, per il modo con cui complessivamente si radica e svolge nell’esperienza, risulti sempre appagata al meglio di sé (magis ut valeat), alle pur difficili (e, alle volte, persino proibitive) condizioni di contesto.

Ora, a me pare chiaro che un lineare svolgimento delle premesse appena poste porti a considerare la stessa gerarchia secondo forma come non di rado obbligata a farsi da parte davanti ad una gerarchia secondo valore, anche atti di grado astrattamente inferiore rispetto a quello posseduto da altri atti sopravvenienti e coi primi contrastanti potendo infatti vantare protezione da parte di norme a tutti gli atti in campo sovraordinate, in quanto portatrici di valori indisponibili[20].

La conclusione è piana: i diritti (e, ancora più in alto o più a fondo, la dignità, quale autentico Grundwert dell’ordinamento) costituiscono, nell’insieme dagli stessi composto, un metacriterio ordinatore delle fonti (rectius, delle norme), davanti al quale sono obbligati ad inchinarsi i criteri restanti e con esso, ad ogni buon conto, a confrontarsi, ricevendo quindi le opportune verifiche della loro effettiva attitudine a far luogo alla composizione ed all’incessante rinnovo del sistema. Ed allora è di tutta evidenza che il confine tra i “livelli essenziali”, la cui posizione è rimessa alle leggi dello Stato, e i livelli “non essenziali” non può stabilirsi una volta per tutte, con criteri di formale fattura, richiedendo piuttosto di essere rimesso a punto caso per caso, per le esigenze della pratica giuridica, a mezzo di una complessiva considerazione del sistema dei valori, per il modo con cui si assesta per ciascun campo materiale di esperienza e per uno stesso campo nel tempo.

 

3. La vessata questione concernente l’attitudine degli statuti regionali a disporre in tema di diritti: in ispecie, la tesi favorevole al suo riconoscimento, attratto dalla “forma di governo” ovvero dai “principi di funzionamento”, e la sua critica

 

Quanto poi al riparto delle competenze in seno all’ordinamento regionale, molto agitata – come si sa – è stata (ed è) la questione relativa alla idoneità dello statuto a porre norme relative ai diritti.

Un tempo si pensava che porre norme sui diritti fosse come dire norme vincolanti o, come che sia, giuridicamente rilevanti. Una nota giurisprudenza, che seguito a trovare singolare e, a dirla tutta, francamente fuori centro, ha invece portato all’esito di dissociare l’effetto giuridico dalla sua fonte, assumendo che la seconda possa ugualmente aversi senza che tuttavia si abbia di necessità anche il primo, una volta che si assuma la inidoneità di alcune delle norme della fonte stessa a produrre giuridici effetti[21]. Ciò che è – a me pare – una palese contradictio in adiecto, dalla previa esistenza della norma potendosi (e dovendosi) quindi desumere l’effetto dalla stessa prodotto, così come da questo potendosi (e dovendosi) risalire a quella.

È nondimeno da chiedersi, nell’ordine: a) se lo statuto possa contenere enunciati riferiti ai diritti; b) se essi abbiano altresì valore vincolante, quanto meno appunto nei riguardi del solo legislatore regionale.

Una generosa dottrina ha ritenuto di agganciare le previsioni statutarie riguardanti i diritti, delle quali peraltro si ha – come si sa – largo riscontro (nei nuovi così come nei vecchi statuti), alla “forma di governo” (ampiamente intesa), assumendo pertanto la loro idoneità a comporre uno dei c.d. contenuti necessari dello statuto[22]. Allo stesso esito, ma con diverso percorso argomentativo, perviene un’altra, maggiormente diffusa opinione che individua la fonte della competenza statutaria nei “principi fondamentali di... funzionamento”, di cui si fa ugualmente parola nell’art. 123 della Carta[23].

Nell’uno e nell’altro modo di vedere v’è, a mia opinione, sia del vero che del falso.

Si ha l’una cosa già solo a considerare quante e quali mutue implicazioni si intrattengano tra le norme organizzative e le norme sostantive, le prime e più rilevanti delle quali ultime sono poi – come si sa – proprio quelle relative ai diritti, al punto che – si è fatto notare da una sensibile dottrina[24] – si rivela subito artificioso separare le une dalle altre a colpi d’accetta (e, prima ancora, le relative “materie”)[25]. Eppure ciò posto, altro sono i diritti ed altra cosa la forma di governo o, più largamente, l’organizzazione, i primi non esaurendo i loro effetti nell’hortus conclusus, per ampio che sia, in cui prende corpo la seconda né su questa sola dunque appuntandosi. Come si preciserà meglio più avanti, non v’è dubbio che i diritti afferenti l’organizzazione possano (e debbano) trovare posto nella disciplina statutaria; ha dunque ragione, per questo verso, la tesi patrocinata da quanti vedono nei “principi di funzionamento” il fondamento dei diritti così come statutariamente regolati. E invero tutto ciò che attiene al metodo dell’azione regionale (specie per ciò che concerne la partecipazione, la valorizzazione della sussidiarietà, anche “orizzontale”, l’apporto delle forze sociali e delle autonomie infraregionali all’attività regionale) non soltanto costituisce a pieno titolo parte integrante del tessuto statutario ma ne è, anzi, proprio il nucleo più qualificante ed espressivo. E, tuttavia, non in questo soltanto si esauriscono i diritti riguardati dagli statuti; ed allora si tratta di sapere se (e dove) si possa rinvenire un fondamento ancora più saldo della disciplina ad essi relativa.

Allo scopo, non occorre – a me pare – accedere alla tesi secondo cui lo statuto è fonte materialmente costituzionale dell’ordinamento regionale al fine di rinvenire giustificazione della previsione in esso di norme riguardanti i diritti.

In primo luogo, va rammentato che è ormai netta (e, a quanto pare, irreversibile) la rottura del rapporto di corrispondenza biunivoca tra Costituzione e diritti, l’una non possedendo più il monopolio del riconoscimento degli altri. La Costituzione, nell’accezione liberale del termine, è certamente, nella essenza, una Carta dei diritti ma non è, appunto, il solo documento normativo abilitato ad ospitarli. Può anche dispiacere che le cose stiano così[26] ma non si può non prendere atto del fatto in sé, inconfutabile[27]. E, invero, è venuta sempre più dilatandosi l’area coperta dalla “materia costituzionale”, in seno alla quale si dispongono atti di varia estrazione e fattura (provenienti sia ab extra, e segnatamente dalla Comunità internazionale e dall’Unione europea, e sia ab intra), coi quali si è fatto luogo ad un sensibile, vistoso allungamento del catalogo dei diritti (e, dunque, al riconoscimento di “nuovi”)[28].

In secondo luogo, va avvertito che, diversamente da quanto talora affermato in dottrina, il riconoscimento della competenza statutaria in ordine alla previsione dei diritti non può considerarsi implicito nel mero fatto che lo statuto stesso vede la luce con procedura aggravata.

Il sillogismo sarebbe il seguente. Se si vede nella legge regionale “comune” una fonte idonea a dare la disciplina dei diritti, sia pure nei limiti segnati dalla disciplina statale sui “livelli”, a maggior ragione lo sarebbe lo statuto, quale fonte apicale dell’ordinamento regionale, vincolante la legge stessa e, comunque, da essa non derogabile.

Nulla tuttavia esclude che la procedura peculiare stabilita per la formazione dello statuto (e le sue successive modifiche)[29] si debba agli oggetti parimenti peculiari che la fonte è chiamata a disciplinare, tra i quali non rientrano ex professo i diritti[30], né che il rapporto tra statuto e legge regionale sia, del tutto o in parte, di separazione delle competenze[31].

 

 

4. Segue: Il fondamento della disciplina volta a dare (non già il riconoscimento ma) la tutela dei diritti va rinvenuto nella vocazione degli statuti a rappresentare, nel modo più immediato e genuino, l’identità regionale ed a dare dunque voce all’autonomia, intesa, ancora prima che come potere, come servizio alla comunità regionale

 

In realtà, non si comprendono le norme regionali sui diritti (statutarie in primo luogo e, quindi, legislative) se non si fa costante e fermo riferimento all’identità della Regione: della Regione come istituto e della singola Regione[32].

L’identità fa infatti tutt’uno con l’autonomia: la prima è un prius della seconda, costituendone il sostrato che la sorregge e ne giustifica il riconoscimento; è, però, anche il posterius, dal momento che è l’autonomia, nelle sue più salienti manifestazioni giuridiche, a conformare e riconformare senza sosta l’identità stessa, a rimetterla a punto, realizzarla, salvaguardarla.

L’autonomia ha, dunque, la sua specifica ragion d’essere nel suo rendere testimonianza all’identità e, unitamente a ciò, nel consentirne l’incessante rigenerazione e la integra trasmissione nel tempo. V’è però un’ulteriore ragione, alla prima strettamente, inscindibilmente legata, che rimanda al modo stesso di essere e di divenire dell’autonomia. Quest’ultima, infatti, rileva non tanto al piano della organizzazione, dell’apparato governante, quanto a quello dell’attività, per il tramite della quale l’apparato stesso entra a contatto con la comunità governata[33]. Ed è proprio qui che si coglie l’essenza dell’autonomia: nel suo porsi, più (e prima ancora) che come potere, come servizio nei riguardi dei bisogni più largamente ed intensamente avvertiti in seno alla comunità[34], la quale poi – tengo a precisare – va intesa non già riduttivamente, quale communitas civium, bensì in senso largo, comprensivo anche dei non cittadini residenti nel territorio regionale, in ragione del vincolo che al territorio stesso li lega e che li rende partecipi delle vicende dell’istituzione regionale[35].

Al piano dei diritti fondamentali – non è superfluo qui precisare – non può aversi discriminazione alcuna su basi soggettive: i diritti stessi o sono riconosciuti in egual misura a tutti oppure, semplicemente, non sono[36]. Il tratto della “fondamentalità” implica l’eguaglianza del trattamento ed è allo stesso tempo da questa confermato ed avvalorato; ciò che si rende palese ed apprezza in modo esemplare sol che si pensi che è per il tramite del riconoscimento (e, più ancora, dell’effettivo godimento) dei diritti fondamentali che si realizza e tutela la dignità della persona umana[37]. È la comunanza di vita, insomma, che sostiene e giustifica il comune riconoscimento dei diritti (a mia opinione, anche di quelli c.d. “politici”[38]). L’esperienza offre, peraltro, ripetute, convergenti testimonianze del fatto che proprio questa è la strada giusta da imboccare con decisione, per quanto sia ancora assai lungo il tratto che manca per raggiungere la meta (ma, su ciò, a breve)[39].

Questo discorso porta naturalmente a distinguere – come già si avvertiva all’inizio di questa riflessione – tra il riconoscimento e la tutela (anche normativa) dei diritti. L’uno non può che venire da una fonte (costituzionale per antonomasia) idonea, per capacità di escursione di raggio e profondità di effetti, a coprire senza distinzione alcuna l’intero territorio della Repubblica: dunque, solo la Costituzione o altre Carte, esse pure dotate di generale valenza, possono darne la prima, essenziale, necessaria disciplina. L’altra, invece, in quanto volta a specificare-attuare la disciplina in parola può venire anche da altre fonti (per ciò che qui interessa, dagli statuti); ed è proprio grazie a quest’ultima che si fa e rinnova l’identità, si fa cioè l’autonomia, nella cornice insuperabile dell’unità[40].

La questione del riparto interno al sistema regionale delle fonti viene, poi, in un certo senso, dopo; per quanto, come qui pure s’è tenuto ad evidenziare, di notevole rilievo, è pur sempre di secondo piano rispetto alla questione cruciale relativa a ciò che è (e che fa), in sé e per sé, possiamo ormai dire, l’identità-autonomia.

Ora, per chiudere sul punto, appare invero a dir poco singolare che da taluno si dubiti che proprio la fonte per antonomasia espressiva dell’identità-autonomia della Regione, lo statuto, possa a pieno titolo e con centralità di posto immettersi nei processi di produzione giuridica in seno ai quali prendono forma, in ambito locale, i diritti. Altra cosa è poi ciò che s’è fatto e come lo si è fatto allo scopo di dare voce all’identità stessa; e su ciò di qui a breve si svolgeranno succinte notazioni a chiusura di questa riflessione.

Quel che è certo è che poco o nessun senso hanno – qui ha invero ragione una certa critica ricorrente fatta agli statuti – formule inutilmente ripetitive, alle volte per filo e per segno, del dettato costituzionale[41], afflitte da una retorica sconclusionata, complessivamente incapaci di cogliere e rappresentare la specificità dell’identità regionale. Cosa diversa è che invece si riesca a proporre una rilettura temporis ratione aggiornata degli enunciati costituzionali e adeguata al peculiare contesto della singola Regione. Ciò che poi potrebbe giovare a quella ricarica semantica degli enunciati relativi ai diritti che senza sosta si intrattiene pure con riguardo a documenti adottati a “livelli” diversi, provvisti di forma e di effetti parimenti diversi.

Il principio affermato dalla giurisprudenza (nel modo più efficace, da Corte cost. n. 388 del 1999), secondo cui Costituzione e Carte internazionali dei diritti “si integrano, completandosi reciprocamente nell’interpretazione”, può altresì valere – a me pare – anche con riguardo agli statuti, coinvolgendo gli statuti stessi nel circolo ermeneutico, sì da trarre frutti ancora più copiosi e succosi dal giardino in cui crescono le piante dei diritti, numerose e di varia natura, tutte nondimeno egualmente idonee a dare i frutti stessi, se coltivate come si conviene.

 

5. Le temute interferenze tra la disciplina statutaria e le discipline legislative sui diritti e i modi del loro possibile superamento

 

Si dispone ormai degli elementi sufficienti a giustificazione della disciplina statutaria sui diritti, come pure però dei suoi limiti. Occorre tuttavia ulteriormente approfondire proprio quest’ultimo punto, laddove a conti fatti si mette alla prova la capacità di tenuta del modello costituzionale, la sua effettiva attitudine a dare un orientamento (se non pure un ordine) alle più salienti espressioni della pratica giuridica.

La questione riguarda specificamente le possibili, temute interferenze tra statuti e leggi, statali in primo luogo e, a seguire, regionali.

Sul punto si è avuto, come si sa, un acceso dibattito, i cui termini essenziali non possono ora essere neppure in sunto rappresentati. Per la mia parte, vorrei tuttavia cominciare col dire che esso va largamente ridimensionato, l’interferenza suddetta apparendo invero di assai remoto riscontro quoad obiectum, sia teoricamente che praticamente.

Già all’indomani del varo dei primi statuti si è fatto notare da un’avvertita dottrina[42] come molte delle norme “programmatiche” – come al tempo ancora si chiamavano e che, forse, si farebbe ormai meglio a chiamarle “promozionali”) – costituissero la parte più “velleitaria ed improduttiva di tutta la disciplina statutaria”, mentre altri ha rilevato come molti enunciati fossero in realtà delle vuote espressioni, per loro natura prive dell’attributo della prescrittività[43]. Ed è bensì vero che, in via di principio, altro sono le norme c.d. programmatiche ed altra cosa le statuizioni relative ai diritti; e, tuttavia, per un verso, si ha una larga sovrapposizione delle une rispetto alle altre, le seconde risultando – perlomeno in molti casi – racchiuse nelle (e quodammodo assorbite dalle) prime, mentre, per un altro verso, tutte risultano accomunate appunto dal loro carattere (latamente) sostantivo, pur laddove si tratti di diritti riguardanti l’organizzazione.

Sta di fatto che il fitto contenzioso registratosi al piano dei rapporti Stato-Regioni (specie, ma non solo, per effetto dell’esercizio, da una parte e dall’altra, di actiones finium regundorum alimentate in modo vistoso dalle incerte e in qualche caso traballanti espressioni del nuovo Titolo V) è venuto a determinarsi principalmente in occasione della produzione delle leggi, gli statuti essendo, in buona sostanza, rimasti tagliati fuori dalle vicende processuali[44], proprio perché considerati a conti fatti innocui, ininfluenti. È vero che questo può spiegarsi, dal 2004 in avanti, col nuovo corso inaugurato dalla giurisprudenza, cui si è sopra accennato, che ha fatto luogo alla “denormativizzazione” – come ho ritenuto altrove di chiamarla –, per l’aspetto ora considerato, degli statuti[45]. E, tuttavia, si tratterebbe di una spiegazione comunque parziale, non in tutto persuasiva: vuoi per la ragione che la giurisprudenza può mutare orientamento, sotto la pressione di operatori che in esso non si riconoscano, sempre che ovviamente si abbia da parte di questi ultimi una ferma e convinta opposizione nei riguardi dei verdetti della Consulta, e vuoi perché – è qui il nocciolo della questione – nei fatti non si rinviene negli statuti il terreno sul quale far svolgere il confronto (e, se del caso, lo scontro) politico tra le ragioni dell’unità e quelle dell’autonomia. La partita da cui dipendono le sorti del riparto delle competenze, al piano del diritto vivente, non la si gioca insomma coinvolgendo in campo gli statuti bensì lasciando che il tiro alla fune lo facciano le sole leggi (ed altri atti ancora).

In astratto, ad ogni buon conto l’interferenza della disciplina statutaria con quella delle leggi statali potrebbe ugualmente aversi; ed è proprio in considerazione di essa che si sono quindi ricostruiti i rapporti tra gli statuti stessi e le leggi regionali.

Ammettendosi infatti, in premessa, che i soli vincoli per le fonti di autonomia sono quelli discendenti dalle leggi statali a ciò espressamente abilitate, è venuto naturale distinguere tra potestà concorrente e potestà “piena” (o, meglio “residuale”): per la prima, il limite resterebbe dunque circoscritto alla osservanza dei soli “principi fondamentali” delle leggi statali, davanti ai quali la disciplina statutaria sarebbe pertanto tenuta, in caso d’incompatibilità, a recedere (per difetto di competenza[46]); per la seconda, di contro, le leggi regionali si troverebbero obbligate a conformarsi alle sole indicazioni statutarie, se non altro per la ragione che si assisterebbe altrimenti ad una deroga di fatto dello statuto stesso, in violazione della procedura aggravata stabilita nell’art. 123.

La sovraordinazione dello statuto sulle leggi regionali è poi certa con riguardo agli oggetti di esclusiva spettanza dello statuto stesso (in una parola, all’organizzazione), oggetti che non potendo essere minutamente disciplinati dalla fonte statutaria è naturale che quindi lo siano, in svolgimento delle scarne ed essenziali indicazioni da essa date, dalla legge (o da altri atti ancora, quali i regolamenti appunto di organizzazione[47]).

Non persuade al riguardo l’opinione, pure finemente argomentata[48], secondo cui essendo agli statuti espressamente rimessa la posizione dei “principi fondamentali” di organizzazione e funzionamento, se ne avrebbe un rapporto di separazione delle competenze tra i principi stessi e le regole quindi fissate con legge.

In disparte infatti la circostanza per cui è, in via generale, assai scivoloso l’accertamento del punto in cui dai principi si trapassa alle regole ovvero dalle seconde si ascende ai primi, nessuna separazione di competenze può al riguardo intravedersi tra gli atti in discorso proprio perché entrambi afferenti a quell’organizzazione la cui complessiva conformazione è rimessa in prima battuta allo statuto. Più semplicemente, è qui da prendere atto del fatto che le previsioni statutarie non possono, per loro natura, spingersi in eccessivi dettagli, di cui è altra la sede: il limite, insomma, come vado dicendo da tempo, è – semmai[49] – di ragionevolezza, non di competenza.

Il vero è che la tesi che fa leva sulla articolazione in tipi delle potestà legislative regionali, ora affermando ed ora invece negando la sussistenza del vincolo discendente dalle norme statutarie sostantive, pur racchiudendo – a me pare – un fondo di verità, espone il fianco ad almeno due facili, inoppugnabili rilievi, peraltro ampiamente avvalorati dall’esperienza.

Per un verso, infatti, l’articolazione in parola, benché senza dubbio fondata in Costituzione (tanto per l’impianto originario quanto per quello rifatto nel 2001), versa ormai in uno stato di palese sofferenza[50], una volta che si convenga – come devesi – che l’unico, effettivo piano al quale si apprezza e verifica la rispondenza delle leggi (sia statali che regionali) alla competenza di cui sono tenute a farsi espressione è quello degli interessi, dalla loro effettiva (e però continuamente cangiante) natura a conti fatti dipendendo la validità degli atti che ad essa si conformino (e, di riflesso, l’invalidità di quelli che da essa si discostino o che, peggio ancora, ad essa frontalmente si oppongano).

Per un altro verso, poi, la stessa potestà “piena” – come si è tentato di mostrare in altri luoghi – veramente piena non è, a motivo della diffusione sopra gli ambiti in cui essa si svolge delle norme statali espressive di competenza trasversale, con la cui disciplina la disciplina statutaria può, in astratto, interferire. E poiché il valore di unità informa di sé l’intero ordinamento, ecco che in via di principio non v’è campo materiale di esperienza normativa che possa considerarsi immune dagli interventi delle leggi statali che, per loro indeclinabile vocazione, offrono prestazioni di unità, interventi che, peraltro, possono spiegarsi anche in forme significativamente incisive (tanto a mezzo di norme di principio quanto con norme di dettaglio, insomma) e che nondimeno – si faccia caso – non possono, per la loro parte, mostrarsi insensibili ai frutti normativi più maturi e succosi della cultura giuridica in fatto di salvaguardia dei diritti, alla cui formazione gli stessi statuti sono chiamati a dare il loro fattivo apporto[51].

Per un altro verso ancora, il valore di unità, che è – si badi – cosa ben diversa da una piatta, incolore uniformità delle discipline, piuttosto l’unità stessa costruendosi e senza sosta rinnovandosi all’insegna di una ragionevole diversificazione[52], non è estraneo, proprio a motivo della sua attitudine ad attraversare e pervadere ogni ambito di esperienza, alla stessa disciplina dell’organizzazione regionale. La qual cosa poi, ovviamente, non sta a significare che le norme statali possano assumere quest’ultima ad oggetto di regolazione in modo diretto e specifico ma solo che esse, laddove immediatamente e necessariamente serventi il valore di unità[53], vadano ugualmente tenute presenti al momento della definizione, in autonomia, dell’organizzazione suddetta. Non si spiegherebbe altrimenti il riferimento al limite dell’“armonia” con la Costituzione, di cui è fatta parola nell’art. 123, limite che – senza riprendere ora neppure per un momento le vessate questioni che l’hanno riguardato, rese peraltro ancora più complesse, inestricabili, da una discussa (e discutibile) giurisprudenza[54] – rimanda di certo, per la sua parte, all’osservanza delle norme riguardanti i diritti, valevoli per l’intero territorio della Repubblica.

L’unità – s’è qui pure tenuto a precisare – non è infatti neppure concepibile qualora i componenti l’intera collettività dovessero disporre di un patrimonio differenziato di diritti fondamentali e di doveri ugualmente fondamentali[55], per questo verso avendosi così conferma del fatto che i principi di base dell’ordinamento (e, tra questi, in ispecie, quelli di cui agli artt. 2, 3 e 5 cost.), proprio perché tali, sono concettualmente e positivamente inautonomi, ciascuno di essi rimandando agli altri e tutti assieme prendendo appunto forma col fatto stesso di alimentarsi semanticamente l’un l’altro, dandosi così mutuo sostegno specie nel corso delle più sofferte esperienze dell’ordinamento stesso.

 

6. Norme statutarie sui diritti in materia di organizzazione e norme a questa estranee, idonee a valere nel rispetto delle norme statali poste a presidio dell’unità ovvero in via “sussidiaria”, in caso di mancanza delle stesse

 

Vediamo dunque di tirare le fila dalle notazioni fin qui svolte.

La competenza statutaria a porre, nel limite dell’“armonia” sopra indicato (e, perciò, nella cornice dell’unità), norme sui diritti relativamente agli ambiti dell’organizzazione è fuori discussione, altrimenti la stessa organizzazione resterebbe monca di alcuni suoi elementi essenziali (si pensi, sopra ogni cosa, alle garanzie in ordine alla partecipazione politica, che danno sostanza al valore democratico[56]); e, per questa parte, parimenti fuori discussione è il vincolo dalle norme stesse espresso a carico delle leggi regionali chiamate a dare svolgimento alle indicazioni statutarie.

Al di fuori dell’ambito dell’organizzazione (pur largamente inteso) le norme sostantive degli statuti hanno ugualmente modo di affermarsi e farsi valere, in quanto per la loro parte serventi l’identità-autonomia, a condizione che non incrocino norme statali adottate a presidio dell’unità, quali che siano gli ambiti materiali dalle une e dalle altre norme coperti, nonché i tipi di potestà legislativa in esercizio della quale le norme stesse siano prodotte. Nel rispetto ovvero in difetto delle norme statali serventi l’unità, l’indirizzo per la normazione locale può poi venire di certo dagli statuti, sempre che questi ultimi si dotino di enunciati strutturalmente idonei a darlo e non si esprimano dunque con un linguaggio fin troppo cauto e sibillino, sostanzialmente incapace d’incidere sui processi politico-normativi che s’impiantano e svolgono in ambito locale, di “mordere” cioè una politica che va facendosi sempre più smaliziata ed aggressiva, tutta protesa ad assecondare la propria irresistibile vocazione a debordare da ogni regola, persino da quelle che essa stessa si dà.

Insomma, perlomeno un ruolo “sussidiario” sembra doversi riconoscere a beneficio della disciplina statutaria sui diritti, secondo quanto peraltro già una risalente giurisprudenza considerava adeguato a tale disciplina[57]. Ed è bensì vero che, al tempo, gli statuti erano approvati con legge dello Stato, tant’è che una risalente (ma complessivamente deformante) ricostruzione, di marcato taglio formalistico, annoverava gli statuti tra le leggi statali tout court, nel mentre secondo un’altra, assai nota, raffigurazione essi erano piuttosto da considerare atti sostanzialmente “complessi”, siccome frutto dell’incontro delle volontà di Stato e Regione. Non si trascuri tuttavia l’opposta visione di quanti (e, come si sa, si trattava di un nutrito drappello di studiosi) piuttosto li annoverava tra le “leggi” regionali, seppure espressive di una competenza complessivamente tipizzata sia per l’aspetto formale-procedimentale che per quello sostanziale. Oggi, comunque, che gli statuti sono stati pleno iure “regionalizzati”, sembra esclusa l’eventualità che ai loro “principi fondamentali” possa attingersi in sede di esercizio della competenza concorrente. A rigore, anzi, parrebbe doversi distinguere tra vecchi e nuovi statuti: gli uni, siccome già riconosciuti idonei ad esprimere i “principi” in parola, potrebbero seguitare a costituire punto di riferimento delle leggi regionali, diversamente dagli altri che, sopravvenuti alla riscrittura dell’art. 123, non potrebbero più esserlo.

Ci si avvede tuttavia subito di quanto sia arduo proseguire lungo quest’itinerario argomentativo.

In un contesto ormai profondamente segnato, ad ogni livello di esperienza (anche a quello delle relazioni interordinamentali, e segnatamente con l’Unione europea), dalla fluidità e mobilità dei riparti delle competenze, soggetti a continuo rifacimento in ragione della parimenti mobile natura degli interessi, all’insegna dei principi di sussidiarietà e cooperazione (che, poi, nei fatti si traducono proprio in quella integrazione delle competenze, cui si è sopra fatto cenno), non concedere agli statuti l’opportunità di porsi a parametro (sia culturale che positivo) della normazione regionale appare essere un’operazione di retroguardia, votata a sicuro insuccesso.

V’è di più. Proprio perché l’unità si fa e rinnova – come suol dirsi – dal basso, attraverso la valorizzazione, nella misura massima consentita dalle condizioni oggettive di contesto, dell’autonomia, la stessa legislazione statale specificamente adottata al servizio dell’unità non può ignorare – come si è dietro avvertito – le “tradizioni statutarie comuni[58], per il cui tramite dunque si esprime una complessiva tendenza culturale nella quale si rispecchia una lettura aggiornata della tavola dei valori costituzionali, frutto della sofferta ricerca di sintesi ad ogni modo appaganti tra unità ed autonomia.

È qui, dunque, la radice da cui si tengono ed alimentano le norme statutarie sui diritti, ciò che – al di là di ogni, diversamente orientato, discorso – ne dà la prima, più genuina e salda giustificazione.

 

 

7. I diritti nella prassi, ovverosia l’identità-autonomia ancora oggi all’affannosa, sofferta ricerca dei modi più adeguati per farsi valere

 

 Gli esiti offerti dalla pratica – anche andando oltre le pur innegabili carenze esibite, sia per espressione linguistica che per contenuti, dagli statuti – sono tuttavia assai deludenti, in qualche caso persino sconfortanti. Se ci si chiede a cosa sono, in buona sostanza, serviti gli statuti, quale l’orientamento da essi dato alla normazione (ed alla stessa amministrazione), è difficile rimuovere il senso di profondo disagio e vero e proprio avvilimento che affligge a seguito della osservazione dell’esperienza[59].

Un’avvertenza va però subito fatta; e, per quanto non sia di consolazione alcuna, ugualmente induce ad una generale, disincantata riflessione sul senso complessivo dell’autonomia regionale, di quella di ieri come pure di quella di oggi[60]. Ed è che lo scarto tra il disegno statutario e la prassi ad esso relativa è vistoso pure con riguardo a norme di sicura spettanza dello statuto, a norme di organizzazione appunto[61]. Non c’è, d’altronde, da meravigliarsi. Quanta parte dello stesso disegno costituzionale, sia per ciò che attiene alla forma di governo e sia pure (e più ancora) per ciò che attiene alla forma di Stato, ha avuto modo di specchiarsi fedelmente nell’esperienza? La risposta è già nella domanda. E, ancora, è da chiedersi perché mai, a dieci anni dal varo della riforma del Titolo V, tardi a venire alla luce l’adeguamento degli statuti speciali, per effetto del quale la specialità stessa potrebbe rimettersi in testa nella corsa dell’autonomia.

Molti segni ormai si hanno, da più parti ed a più “livelli”, che proprio le norme apicali dei vari sistemi normativi, quali gli statuti per quelli regionali, si considerino da una politica smaliziata (ma miope e irresponsabile), a conti fatti, inutili. Il paradosso della nostra complessiva vicenda politico-istituzionale, rivista nel suo insieme, sta proprio qui: che le riforme hanno, ormai da trent’anni, un posto fisso (anzi, proprio il primo) nell’agenda politica, essendo a parole contrabbandate come necessarie e non più rinviabili, e però, nei fatti, sono poi giudicate come buone a nulla[62].

Limitando ora il discorso alle norme relative ai diritti prodotte in ambito locale, va preso atto del fatto che alle iniziali, gravi carenze al riguardo esibite dagli statuti si sommano quelle, forse ancora maggiori, delle leggi e, in genere, delle pratiche poste in essere allo scopo di dare attuazione agli enunciati statutari. Manca, sopra ogni cosa, la capacità di progettare lo sviluppo della società, a qualunque “livello” o ambito di esperienza, la normazione presentandosi come fortemente frammentata, strutturalmente incapace di comporsi in indirizzo politico (nell’accezione propria del termine[63]), siccome prodotta secondo occasione e viziata da non poca approssimazione, visibilmente inadeguata rispetto ad una domanda sociale fattasi vieppiù pressante ed esigente, specie da parte di quanti versano in condizioni di particolare difficoltà, se non di vera e propria indigenza[64].

Le Regioni, poi, per ciò che specificamente le riguarda, hanno dato e quotidianamente danno ripetute prove della loro incapacità di portare il peso, particolarmente gravoso, delle responsabilità di governo della società a loro ascrivibili, ulteriormente accresciute per effetto della riscrittura del Titolo V. Va peraltro tenuto conto del fatto che le clausole di flessibilità del sistema dei rapporti Stato-Regioni, in special modo quelle espressive di competenze “trasversali”, sono state (e sono) strumentalmente piegate allo scopo di soffocare l’autonomia, senza che abbiano dunque giocato – come pure avrebbero potuto (e dovuto) – a beneficio dell’autonomia stessa (nella sua densa accezione, qui accolta, che la vede come strumento di diversificazione, nella cornice dell’unità, costantemente e fermamente protesa ad offrire un adeguato servizio ai bisogni della collettività stanziata sul territorio). Su di esse ha poi fatto leva una giurisprudenza troppo di frequente e in eccessiva misura preoccupata più delle ragioni dell’unità (peraltro, non di rado distortamente intese, siccome innaturalmente convertite in una piatta ed indistinta uniformità) che delle ragioni dell’autonomia[65].

Certo, non dappertutto le cose sono andate così, essendosi registrata qualche isolata, lodevole eccezione, specie in alcune Regioni del Centro-Nord, dove invero le numerose buone intenzioni sono state accompagnate da qualche parimenti buona realizzazione.

Proprio riguardando all’esperienza regionale dall’angolo visuale privilegiato, particolarmente illuminante, dei diritti, si ha, in conclusione, conferma del fatto che le Regioni sono ancora oggi alla ricerca della loro identità, di un’autonomia non raggiunta (anche, e in primo luogo, per responsabilità imputabili alla stessa classe politica locale), forse – temo – non più raggiungibile, definitivamente perduta insomma. La qual cosa, poi, come pure si avvertiva, deve indurre ad una seria, disincantata, complessiva riconsiderazione dello stesso istituto regionale che, “inventato” da un Costituente illuminato e generoso ma a conti fatti ingenuo, si è in buona sostanza dimostrato essere una “sovrastruttura”, in modo posticcio sovrapposta ad un sostrato sociale e politico inadeguato a sorreggerla, inscritta insomma in un contesto non disponibile ad accogliere l’autonomia, ad allevarla, a farla crescere e prosperare, al servizio della comunità.

Non è di qui dire se e cosa possa ancora farsi per porre, sia pure in parte, rimedio a questo stato di cose non più tollerabile. Riguardando alla complessiva vicenda del nostro ordinamento dal punto di vista dei diritti, mi pare però che possa dirsi che le Regioni avrebbero dovuto essere uno dei luoghi più adeguati a far valere i diritti stessi, senza che ciò sia, al tirar delle somme, avvenuto. Un istituto regionale che, a conti fatti, si è perciò rivoltato contro… se stesso, la propria identità-autonomia; un istituto pensato come necessario a far vivere i diritti e però, allo stesso tempo, rivelatosi di pressoché impossibile utilizzo al loro servizio.



* I tratti maggiormente salienti di questa riflessione sono stati anticipati, in forma meno estesa ed argomentata, in uno scritto dal titolo Regioni e diritti fondamentali, in corso di stampa in Giur. it., n. 6/2011.

[1] Tengo a rimarcare che il riferimento è qui circoscritto ai soli diritti fondamentali; non tratterò tuttavia la questione, fatta oggetto ab antiquo di animate e tuttora non sopite controversie, circa ciò che è o che fa la “fondamentalità” di un diritto, la sua problematica distinzione, da alcuni ammessa e da altri invece negata, rispetto alla “inviolabilità” o ad altre proprietà ancora dei diritti in parola. Mi limito solo a rinnovare qui la mia preferenza, già altrove argomentata, a favore della prima qualifica, che in modo emblematico rispecchia la indeclinabile vocazione dei diritti medesimi, proprio in ragione della loro “fondamentalità”, a porsi a “fondamento” dell’intero ordinamento. Ciò posto, rimane poi aperta la questione circa il concreto riconoscimento dei diritti in parola, specie ove si convenga a riguardo del carattere non “chiuso” del relativo catalogo in Costituzione.

[2] Su ciò, per tutti, l’attento studio di S. Agosta, La leale collaborazione tra Stato e Regioni, Milano 2008.

[3] Una esperienza che poi si è dimostrata essere non esaltante (e, in qualche caso, diciamo pure sconfortante) per l’autonomia, secondo quanto risulta dalle molte analisi sul campo (da ultimo, dai contributi al convegno di Bologna del 27 e 28 gennaio 2011 su su Dieci anni dopo. Più o meno autonomia regionale?, molti dei quali possono vedersi in www.astrid-online.it).

[4] Di questo secondo “livello” ora non si dirà, la sua trattazione essendo demandata ad altro studio ad esso specificamente dedicato.

[5] Spinosa appare essere la questione relativa al carattere autenticamente innovativo dei c.d. “nuovi” diritti, alcuni costituendo in realtà mera esplicitazione di contenuti già desumibili dagli enunciati costituzionali in vigore, altri invece solo in modo oggettivamente forzato facendosi riportare agli enunciati stessi. Di tutto ciò, con specifico riguardo alle tecniche interpretative utilizzabili al fine di far luogo in modo acconcio a siffatta verifica, nondimeno gravata da molte incertezze, non è tuttavia possibile ora dire.

[6] Tra le molte altre, di recente, v. Corte cost. nn. 67, 101, 315 e 373 del 2010; 151 del 2011. La Corte nondimeno limita l’intervento regionale ai soli ambiti riservati alle Regioni stesse, pur se connessi a quelli di competenza statale.

[7] È da studiare poi l’ipotesi che, anche per ciò che attiene alla fissazione dei “livelli essenziali” in parola, possa attivarsi la “delega” ai regolamenti regionali, di cui all’art. 117, VI c., in via generale prevista per la disciplina delle materie di esclusiva spettanza dello Stato. D’altronde, la determinazione dei livelli stessi in buona sostanza risulta, specie in materia sanitaria, a mezzo di regolamenti statali, pur se adottati nell’ambito di una (… essenziale) disciplina legislativa volta a stabilire la cornice entro cui la normativa regolamentare può quindi essere convenientemente ambientata e svolta; di modo che – ferma la cornice stessa – si potrebbe ipotizzare che il suo riempimento possa venire ad opera della stessa Regione. Nel qual caso, ammesso che si consideri precluso alle leggi regionali di far luogo alla “invenzione” di nuovi diritti, potrebbe ugualmente assistersi alla loro disciplina addirittura a mezzo di regolamenti. Indefettibile sarebbe, ad ogni buon conto, una prima, essenziale disciplina di base con legge dello Stato, la “delega” di cui è parola nel VI c. dell’art. 117 non potendosi qui, a motivo del suo peculiare oggetto e della sua parimenti peculiare funzione, non dotare di un apparato di norme ancora più consistente di quello che ordinariamente si ha in altri casi in cui se ne faccia utilizzo.

Il punto, nondimeno, richiede un supplemento di riflessione.

[8] La forbice tra bisogni e risorse si allarga in modo particolarmente vistoso man mano che si porta sempre più avanti il progresso scientifico e tecnologico, sulla cui capacità complessiva di riconformazione dei vecchi e conformazione di nuovi diritti nulla tuttavia è possibile ora dire.

[9] Qui, dunque, come si vede, il riferimento si dirige altresì agli enti territoriali minori e ad altri enti ancora.

[10] V., part., sentt. nn. 10 e 121 del 2010. In quest’ultima, in ispecie, la Corte dichiara che “si è in presenza di potestà legislative, dello Stato e delle Regioni, entrambe di livello primario, che trovano il loro fondamento, la prima, nella tutela uniforme dei diritti fondamentali delle persone, e la seconda, nella salvaguardia delle autonomie costituzionalmente sancite. Una equilibrata soluzione delle possibili contraddizioni tra le due potestà legislative deve tenere conto dell’impossibilità di far prevalere in modo assoluto il principio di tutela o quello competenziale. Sarebbe ugualmente inaccettabile che lo Stato dovesse rinunciare ad ogni politica concreta di protezione dei diritti sociali, limitandosi a proclamare astratti livelli di tutela, disinteressandosi della realtà effettiva, o che le Regioni vedessero sacrificata la loro potestà legislativa piena, che sarebbe facilmente svuotata da leggi statali ispirate ad una logica centralistica di tutela sociale”.

[11] Ancora nella pronunzia da ultimo cit., poco più sotto del brano sopra fedelmente trascritto, la Corte fa significativamente appello alle “imperiose necessità sociali, indotte anche dalla attuale grave crisi economica nazionale e internazionale, che questa Corte ha ritenuto essere giustificazioni sufficienti, ma contingenti, per leggi statali di tutela di diritti sociali limitative della competenza legislativa residuale delle Regioni nella materia dei ‘servizi sociali’” (segue il richiamo a Corte cost. n. 10 del 2010, cit. Mie, ovviamente, le sottolineature).

In generale, che possano darsi bilanciamenti che non si traducono nel paritario sacrificio tra i valori o beni della vita in campo, piuttosto portando non di rado alla messa da canto di uno di essi a beneficio dell’altro (o degli altri), non costituisce affatto una stranezza; forse, anzi, è proprio ciò che il più delle volte accade.

[12] È bensì vero che, senza la dignità, i diritti non hanno senso alcuno; è però pure vero l’inverso, al di fuori del godimento effettivo di questi quella restando una pura astrazione. E, per quest’aspetto, può dirsi che dignità e diritti si tengono ed alimentano a vicenda. Maggiori ragguagli sul punto possono, volendo, aversi da miei Appunti per uno studio sulla dignità dell’uomo, secondo diritto costituzionale, e Dignità versus vita?, entrambi in www.associazionedeicostituzionalisti.it. V., inoltre, utilmente, F. Fernández Segado, La dignità della persona come valore supremo dell’ordinamento giuridico spagnolo e come fonte di tutti i diritti, in www.forumcostituzionale.it.

[13] L’immagine della bilancia è di G. Silvestri, Considerazioni sul valore costituzionale della dignità della persona, in www.associazionedeicostituzionalisti.it; di contro, considera la dignità soggetta essa pure a bilanciamento M. Luciani, Positività, metapositività e parapositività dei diritti fondamentali, in Scritti in onore di L. Carlassare. Il diritto costituzionale come regola e limite al potere, III, Dei diritti e dell’eguaglianza, a cura di G. Brunelli-A. Pugiotto-P. Veronesi, Napoli 2009, 1060 ss. In argomento, di recente, U. Vincenti, Diritti e dignità umana, Bari-Roma 2009; P. Ridola, Diritto comparato e diritto costituzionale europeo, Torino 2010, 77 ss., spec. 108 ss. (con ampî richiami alla dottrina tedesca); M. Di Ciommo, Dignità umana e Stato costituzionale. La dignità umana nel costituzionalismo europeo, nella Costituzione italiana e nelle giurisprudenze europee, Firenze 2010; G. Resta, La dignità, in Trattato di biodiritto, diretto da S. Rodotà e P. Zatti, Ambito e fonti del biodiritto, a cura di S. Rodotà e M. Tallacchini, Milano 2010, 259 ss.; T. Pasquino, Dignità della persona e diritti del malato, in Trattato di biodiritto, cit., I diritti in medicina, a cura di L. Lenti-E. Palermo Fabris-P. Zatti, Milano 2010, 543 ss.; A. Oehling de los Reyes, La dignitad de la persona, Madrid 2010 e M. Borowsky, Würde des Menschen, in AA.VV., Charta der Grundrechte der Europäischen Union, a cura di J. Meyer, Nomos, Baden-Baden 2011, 85 ss.; L. Sitzia, Pari dignità e discriminazione, Napoli 2011.

[14] A giudizio della Corte, tuttavia, parrebbe che ciò possa aversi solo a senso unico, non ammettendosi in alcun caso interventi regolatori con legge regionale in sostituzione di discipline statali mancanti [sent. n. 373 del 2010, cit., e, su di essa, la mia nota dal titolo A proposito di (impossibili) discipline regionali adottate in provvisoria sostituzione di discipline statali mancanti (nota a Corte cost. n. 373 del 2010), in www.federalismi.it, 1/2011].

[15] Mi rifaccio ora ad una generale ricostruzione del sistema delle fonti, nella quale da tempo mi riconosco: un sistema che poi, come qui pure si viene dicendo, è in realtà di norme, più (o piuttosto) che di fonti, la composizione di queste ultime essendo infatti determinata dai loro contenuti, per il modo con cui rilevano nei singoli casi ed alla luce dei valori (su ciò, un quadro di sintesi può, volendo, aversi dal mio È possibile parlare ancora di un sistema delle fonti?, in www.associazionedeicostituzionalisti.it. Diverso l’ordine di idee in cui si dispone la più accreditata dottrina: per tutti, ora, A. Pizzorusso, Fonti del diritto2, in Commentario del Codice civile Scialoja-Branca, a cura di F. Galgano, Disposizioni sulla legge in generale art. 1-9, Bologna-Roma 2011).

[16] Sta qui, ad es., la ragion d’essere della giurisprudenza (in merito alla quale, di recente e per tutti, A. Pertici, Il Giudice delle leggi e il giudizio di ammissibilità del referendum abrogativo, Torino 2010, 153 ss.) che si oppone alla celebrazione di consultazioni referendarie aventi ad oggetto norme legislative che danno una “tutela minima” a interessi costituzionalmente protetti; ed è di tutta evidenza che ciò che è inibito al popolo-legislatore non può che esserlo, per l’aspetto ora considerato, anche ai rappresentanti del popolo stesso.

[17] Il discorso che si va ora facendo ha infatti portata generale; e la circostanza per cui le leggi regionali possono portare ancora più in alto il… livello dei livelli stabiliti dalle leggi dello Stato non toglie che, dal punto di vista dello stesso ordinamento regionale, anche le norme adottate in ambito locale possano ugualmente presentarsi come “essenziali”. In altri termini, le norme stesse possono dividersi, in relazione all’oggetto della loro regolazione, in “essenziali” e “non essenziali”. Se e quando le cose stanno davvero così non può che stabilirsi di volta in volta, avuto cioè riguardo alle norme ed al loro modo complessivo di volgersi, a un tempo, verso gli interessi, di cui si fanno cura, e verso i valori.

[18] Anticipazioni sul punto nel mio Lineamenti di uno studio sui livelli essenziali delle prestazioni, dal punto di vista della teoria della normazione e della teoria della giustizia costituzionale, in AA.VV., Diritto costituzionale e diritto amministrativo: un confronto giurisprudenziale, a cura di G. Campanelli, M. Carducci, N. Grasso, V. Tondi della Mura, Torino 2010, 496 ss. e, pure ivi, A.S. Bruno, La identificazione dei LEP come clausola di “non retrocessione”, 247 ss. Sulla disciplina legislativa relativa ai “livelli essenziali delle prestazioni”, da ultimo, A. Guazzarotti, L’autoapplicabilità delle norme. Un percorso costituzionale, Napoli 2011, 97 ss.

[19] Mi parrebbe utile, al riguardo, il richiamo ad un’indicazione che è in Corte cost. n. 317 del 2009, laddove si ragiona della più “intensa” tutela apprestata ai diritti, rispettivamente, da norme nazionali e da norme della CEDU, autorizzandosi pertanto gli operatori a fare ugualmente luogo all’applicazione delle prime, ancorché incompatibili con le seconde, ogni qual volta siano proprio esse ad offrire la tutela medesima (come poi misurare o “pesare” quest’ultima è cosa ad oggi controversa: in argomento, ora, AA.VV., Corti costituzionali e Corti europee dopo il Trattato di Lisbona, a cura di M. Pedrazza Gorlero, Napoli 2010; D. Butturini, La partecipazione paritaria della Costituzione e della norma sovranazionale all’elaborazione del contenuto indefettibile del diritto fondamentale. Osservazioni a margine di Corte cost. n. 317 del 2009, in Giur. cost., 2/2010, 1816 ss., e A. Randazzo, Alla ricerca della tutela più intensa dei diritti fondamentali, attraverso il “dialogo” tra le Corti, in www.giurcost.org e in corso di stampa negli Atti relativi al Convegno del Gruppo di Pisa su Corte costituzionale e sistema istituzionale, Pisa 4-5 giugno 2010, nonché, volendo, anche il mio Rapporti tra Corte costituzionale e Corti europee, bilanciamenti interordinamentali e “controlimiti” mobili, a garanzia dei diritti fondamentali, in www.associazionedeicostituzionalisti.it.). Non si è inoltre ben capito se l’applicazione in parola possa aversi solo a seguito di un previo accertamento in tal senso fatto dal giudice delle leggi, allo scopo prontamente adito, ovvero se si renda possibile direttamente ai giudici comuni. La prima soluzione parrebbe invero essere maggiormente in linea con l’indirizzo della Consulta favorevole ad attrarre a sé le questioni di “convenzionalità-costituzionalità”, per quanto vi sia chi [I. Carlotto, I giudici comuni e gli obblighi internazionali dopo le sentenze n. 348 e n. 349 del 2007 della Corte costituzionale: un’analisi sul seguito giurisprudenziale (Parte I), in Pol. dir., 1/2010, 41 ss., spec. 66] ha ipotizzato che, perlomeno nel caso che il giudice si faccia persuaso della incostituzionalità della stessa norma convenzionale e della conformità a Costituzione della norma legislativa con la prima in contrasto, possa farsi subito luogo all’applicazione della fonte nazionale. Ciò che, nondimeno, importa, ai fini del discorso che si va ora facendo, è che, a giudizio della Corte, debba guardarsi all’intero sistema dei diritti ed ai modi del loro appagamento, in ragione dei quali possono “saltare”, ed effettivamente “saltano”, le quiete ordinazioni delle fonti di formale fattura. Diverso invece l’orientamento al riguardo manifestato dalla Corte EDU, propensa a guardare al singolo diritto in gioco (E. Lamarque, Gli effetti delle sentenze della Corte di Strasburgo secondo la Corte costituzionale italiana, in Corr. giur. 7/2010, 955 ss., spec. 961). La qual cosa, poi, può portare a complesse questioni e a sofferti sviluppi al piano delle relazioni tra le Corti, rendendone ardua una bonaria composizione.

[20] Un solo esempio per tutti, ancora una volta tratto da una ormai copiosa, stabile giurisprudenza. Si pensi, dunque, alle norme prodotte in ambito interno al fine di dare attuazione a norme dell’Unione, le prime (pur laddove contenute in fonti regolamentari) potendo resistere davanti a leggi sopravvenienti ogni qual volta si dimostri che la loro rimozione o modifica in genere ridondi in una (inammissibile) incisione della fonte sovranazionale. Cosa diversa è che le leggi stesse si pongano esse pure al servizio di principi-valori fondamentali dell’ordinamento (o magari – e perché no? – dello stesso valore della pace e della giustizia tra le Nazioni); nel qual caso l’antinomia si risolve ipso iure in un conflitto tra valori ugualmente fondamentali (o in un conflitto di un valore con… se stesso), come tale bisognoso di essere ripianato – a me pare – con la logica usuale del bilanciamento, non già facendo appello ai c.d. “controlimiti” (ma le dinamiche della normazione coinvolgenti i valori, anche sul fronte delle relazioni interordinamentali, richiedono ben altri, assai articolati e complessi, svolgimenti argomentativi, non consentiti a questa sede).

[21] Mi riferisco – com’è chiaro – alle pronunzie nn. 372, 374 e 378 del 2004, largamente commentate, che hanno assegnato alle norme statutarie c.d. “programmatiche” (etichetta che, come pure è noto, la Corte giudica però impropria) valenza meramente politico-culturale, non pure giuridica.

[22] La tesi è stata con vigore patrocinata da M. Olivetti, Nuovi statuti e forma di governo delle Regioni. Verso le Costituzioni regionali?, Bologna 2002, spec. 125 ss. e 137 ss.; v. anche le precisazioni al riguardo fatte da R. Bifulco, Nuovi statuti regionali e (“nuovi”) diritti regionali, in Giur. it., 2001, 1757 ss.

Sulla controversa nozione di forma di governo, indicazioni in A. Spadaro, La forma di governo regionale calabrese, in AA.VV., Istituzioni e proposte di riforma (Un “progetto” per la Calabria), a cura dello stesso S., Napoli 2010, 3 ss. (e già in altri scritti). Gli studi più recenti, nondimeno, seguitano a porre l’accento più sui tratti tradizionalmente ritenuti tipici dell’organizzazione, quali riferiti ai rapporti tra gli organi di vertice dell’ente, che al modo di operare dell’ente stesso, al servizio e in vista dell’appagamento dei bisogni della comunità [v., con specifico riferimento alla forma di governo regionale, gli studi di N. Viceconte, La forma di governo nelle regioni ad autonomia ordinaria. Il parlamentarismo iper-razionalizzato e l’autonomia statutaria, Napoli 2010; A. Buratti, Rappresentanza e responsabilità politica nella forma di governo regionale, Napoli 2010; S. Catalano, La “presunzione di consonanza”. Esecutivo e Consiglio nelle Regioni a statuto ordinario, Milano 2010; M. Rubechi, La forma di governo regionale fra regole e decisioni, Roma 2010. Molto importante è oggi, per l’inquadramento metodico-teorico, il saggio di M. Luciani, Governo (forme di), in Enc. dir., Ann., III (2010), 538 ss. e 578 ss., per la forma di governo regionale].

[23] Ex plurimis, E. Rinaldi, Corte costituzionale, riforme e statuti regionali: dall’inefficacia giuridica delle norme programmatiche al superamento dell’ambigua distinzione tra contenuto “necessario” e contenuto “eventuale”, in Giur. cost., 6/2004, 4073 ss., spec. 4081; E. Rossi, Principi e diritti nei nuovi Statuti regionali, in Riv. dir. cost., 2005, 60; M. Rosini, Le norme programmatiche dei nuovi statuti, in AA.VV., I nuovi statuti delle Regioni ordinarie. Problemi e prospettive, a cura di M. Carli-G. Carpani-A. Siniscalchi, Bologna 2006, 35. Contra: L. Pegoraro-S. Ragone, I diritti negli statuti regionali: norme o principi?, in Il dir. della Reg., 3-4/2009, 181.

[24] Un solo nome per tutti: M. Luciani, La “Costituzione dei diritti” e la “Costituzione dei poteri”. Noterelle brevi su un modello interpretativo ricorrente, in Scritti in onore di V. Crisafulli, II, Padova 1985, 497 ss.

[25] Ricordo che la questione è stata molto agitata ai tempi della Bicamerale ed è stata quindi ripresa anche dopo il nuovo Titolo V, a motivo della presenza in esso di norme di carattere sostantivo (segnatamente, riguardanti i diritti), tra le quali quella di cui all’art. 117, VII c.

[26] V., al riguardo, l’“amara” constatazione di recente fatta da E. Gianfrancesco, Incroci pericolosi: Cedu, Carta dei diritti fondamentali e Costituzione italiana tra Corte costituzionale, Corte di Giustizia e Corte di Strasburgo, in AA.VV., Corti costituzionali e Corti europee, cit., 152, nella parte in cui rileva che, senza il sussidio venuto dalle Carte internazionali dei diritti (e dalle relative Corti), molti diritti non sarebbero stati adeguatamente protetti con le sole forze di cui la Costituzione dispone.

[27] A parer mio, il riconoscimento dei diritti ad opera delle Carte internazionali, pur non essendo scevro di inconvenienti anche assai gravi, va comunque salutato con favore, vuoi per l’effetto di liberalizzazione e, per riprender la formula dell’art. 11, “pacificazione” che se ne può avere al piano delle relazioni internazionali e vuoi per la sana competizione che esso può alimentare tra legislatore e legislatore, nonché tra questi e i giudici, nella gara a chi offre di più e di meglio al servizio dei diritti stessi. Il fatto poi che possano crescere le occasioni di conflitto con gli stessi diritti costituzionali, pur richiedendo di non essere sottovalutato, può ugualmente tradursi in un loro maggiore appagamento (e, in fin dei conti, come si diceva, nella salvaguardia della dignità), nella pur sofferta ricerca delle soluzioni più adeguate ai singoli casi.

[28] Ed è anche in considerazione di ciò che, riprendendo ora una tesi a me cara, rinnovo qui l’invito a recepire le Carte internazionali con legge costituzionale, ricongiungendo in tal modo forma e materia costituzionale. L’inconveniente di maggior peso che infatti può aversi dall’affollamento crescente delle Carte è che esse acquistino giuridico rilievo in ambito interno per effetto della volontà politico-normativa manifestata, in via di principio, dalla sola maggioranza di turno, laddove è da presumere che la nascita delle leggi costituzionali si debba all’incontro delle volontà di maggioranza ed opposizioni (sappiamo che non sempre è stato così ma così – ad opinione mia e di molti – sempre invece dovrebbe essere, secondo modello). Una volta poi che le Carte siano state rese esecutive con le forme stabilite nell’art. 138, potrà pianamente ammettersi (anche dalla più cauta o diffidente dottrina) che esse possano partecipare ad armi pari ad operazioni di bilanciamento coi diritti originari, stabiliti in Costituzione.

[29] Neppure un cenno può qui farsi ai non pochi né lievi problemi che la procedura stessa ha posto (specie per l’aspetto dei controlli), in relazione ai quali è venuta a formarsi una giurisprudenza fortemente discussa ed a mia opinione ancora in via di assestamento.

[30] … salvo appunto ad accedere alle tesi, sopra richiamate, che li riportano, rispettivamente, alla forma di governo ed ai principi di funzionamento.

[31] Su ciò, un cenno a breve.

[32] Numerosi negli statuti i riferimenti all’identità (indicazioni in A. Bertelli, Cultura, culture, identità negli statuti regionali, in AA.VV., L’attuazione statutaria delle Regioni. Un lungo cammino, a cura di E. Catelani, Torino 2008, 33 ss.). Vede nella promozione e salvaguardia di quest’ultima il modo più adeguato al fine della “costruzione di un’identità nazionale plurale” E. Rossi, Principi e diritti nei nuovi Statuti regionali, cit., 62.

[33] … per quanto – come si sa – l’organizzazione si ponga come condizione dell’attività, per come l’una è fatta avendosi poi riflessi immediati in occasione dello svolgimento dell’altra.

[34] Mi sono sforzato di declinare l’autonomia non già in chiave meramente soggettivo-istituzionale bensì anche (e soprattutto) in chiave assiologico-oggettivo, nei termini del servizio di cui si fa qui pure parola, nel mio Neoregionalismo, dinamiche della normazione, diritti fondamentali, in “Itinerari” di una ricerca sul sistema delle fonti, VI, 2, Studi dell’anno 2002, Torino 2003, 307 ss.

[35] Sul significato del territorio, specie nella presente congiuntura segnata dalla globalizzazione, v., di recente, il corposo studio di A. Di Martino, Il territorio: dallo Stato-nazione alla globalizzazione. Sfide e prospettive dello Stato costituzionale aperto, Milano 2010; con specifico riguardo alla sua rappresentanza, v., poi, I. Ciolli, Il territorio rappresentato. Profili costituzionali, Napoli 2010.

[36] Ce lo rammenta, ancora di recente, Corte cost. n. 61 del 2011, dove nondimeno, in linea con un consolidato indirizzo della stessa giurisprudenza, si distingue il trattamento riservato ai cittadini ed agli stranieri regolari da un canto, agli irregolari dall’altro, ai quali ultimi i diritti fondamentali sono garantiti unicamente nel loro “nucleo duro”. Su ciò, ora, la densa riflessione di C. Salazar, Leggi statali, leggi regionali e politiche per gli immigrati: i diritti dei “clandestini” e degli “irregolari” in due recenti decisioni della Corte costituzionale (sentt. nn. 134 e 269/2010), in Studi in onore di F. Modugno, IV, Napoli 2011, cui si deve un’argomentata disamina critica della giurisprudenza costituzionale.

[37] Si tenga a mente, al riguardo, quanto si è dietro osservato in merito alla natura della dignità quale diritto fondamentale e, a un tempo, fondamento dei diritti fondamentali restanti.

[38] La questione è – come si sa – animatamente discussa (hanno fatto, ancora non molto tempo addietro, il punto su di essa G. Bascherini, Immigrazione e diritti fondamentali. L’esperienza italiana tra storia costituzionale e prospettive europee, Napoli 2007, 392 ss. e C. Lucioni, Cittadinanza e diritti politici. Studio storico-comparistico sui confini della comunità politica, Roma 2008, spec. 312 ss.; v., inoltre, il dibattito svoltosi in occasione del convegno di Cagliari del 2009 su Lo statuto costituzionale del non cittadino, a cura dell’AIC, Napoli 2010, ed ivi, part., la relazione di B. Caravita di Toritto, I diritti politici dei “non cittadini”. Ripensare la cittadinanza: comunità e diritti politici, 133 ss.; adde T.F. Giupponi, Stranieri e diritti politici, in Scritti in memoria di F. Fenucci, I, a cura di A. Barbera, A. Loiodice, M. Scudiero e P. Stanzione, Soveria Mannelli 2010, 217 ss.; A. Algostino, Il ritorno dei meteci: migranti e diritto di voto, in AA.VV., Immigrazione e diritti fondamentali fra Costituzioni nazionali, Unione europea e diritto internazionale, a cura di S. Gambino e G. D’Ignazio, Milano 2010, 427 ss.; D. Sardo, Il dibattito sul riconoscimento del diritto di voto agli stranieri residenti, in AA.VV., Dossier Immigrazione, in www.associazionedeicostituzionalisti.it; A. Sciortino, Migrazioni e trasformazioni della partecipazione politica. Una riflessione sul riconoscimento del diritto di voto ai non cittadini stabilmente residenti, in Studi in onore di L. Arcidiacono, VI, Milano 2010, 3025 ss.); ed è invero tutta da verificare la congruità interna della soluzione che spiana la via al riconoscimento dell’elettorato attivo e passivo in ambito locale e invece lo nega per l’ambito regionale e nazionale, ove si convenga a riguardo del fatto che il rapporto che viene a costituirsi tra elettore ed eletto è, in ogni caso, di rappresentanza politica.

[39] Indicazioni a riguardo dei diritti riconosciuti dalla legislazione regionale ai non cittadini, specie agli extracomunitari, in F. Biondi Dal Monte, I diritti sociali degli stranieri tra frammentazione e non discriminazione. Alcune questioni problematiche, in Ist. fed., 5/2008, 557 ss.; R. Arena-C. Salazar, I “soggetti deboli” nella legislazione regionale calabrese, in AA.VV., Istituzioni e proposte di riforma, cit., 185 ss. e ancora C. Salazar, Leggi regionali sui “diritti degli immigrati”, Corte costituzionale e “vertigine della lista”: considerazioni su alcune recenti questioni di costituzionalità proposte dal Governo in via principale, in AA.VV., Immigrazione e diritti fondamentali, cit., 392 ss. In giurisprudenza, di recente, oltre alla sent. n. 61 del 2011, sopra richiamata, v. Corte cost. n. 40 del 2011.

[40] Ammette che unicamente al piano dell’attuazione dei diritti costituzionali possano costruirsi “solide e percepibili identità regionali diverse” P. Caretti, La disciplina dei diritti fondamentali è materia riservata alla Costituzione, in Le Regioni, 1-2/2005, 27 ss. (e 29 per il riferimento testuale).

[41] Di “cloni statutari di norme costituzionali” e veri e propri “plagi” discorre A. D’Atena, I nuovi statuti regionali e i loro contenuti programmatici, in AA.VV., I nuovi Statuti delle Regioni ad autonomia ordinaria, a cura dello stesso D’A., Milano 2008, rispettivamente, 62 e 65, ma trattasi di avviso, nella sostanza, largamente diffuso, dividendosi quindi gli studiosi tra coloro che giudicano la cosa meramente inopportuna e coloro che invece la vedono come pericolosa (ex plurimis, R. Tosi, Le “leggi statutarie” delle Regioni ordinarie e speciali: problemi di competenza e di procedimento, in AA.VV., Le fonti di diritto regionale alla ricerca di una nuova identità, a cura di A. Ruggeri e G. Silvestri, Milano 2001, 64 ss. e R. Bin, Nuovi statuti e garanzie dei diritti, in Ist. fed., 2/2003, 195 ss.).

[42] L. Paladin, Diritto regionale, Padova 1973, 40.

[43] A. D’Atena, I nuovi statuti, cit., 59 s.

[44] … al di fuori dei pochi casi in cui sono stati espressamente impugnati, in occasione della loro adozione (su queste esperienze, per tutti, A. Cardone, La “terza via” al giudizio di legittimità costituzionale. Contributo allo studio del controllo di costituzionalità degli statuti regionali, Milano 2007, e I. Carlotto, Il procedimento di formazione degli Statuti delle Regioni ordinarie, Padova 2007). Non si sono tuttavia avute dichiarazioni d’illegittimità derivata, conseguenti alla caducazione di leggi, in quanto a loro volta attuative degli statuti. Il punto mi parrebbe degno di nota.

[45] Riprendo qui, ancora una volta, un’espressione da me coniata in sede di primo commento alle pronunzie in parola (v., dunque, il mio La Corte, la “denormativizzazione” degli statuti regionali e il primato del diritto politico sul diritto costituzionale, in Le Regioni, 1-2/2005, 41 ss.).

[46] Quest’inquadramento non è stato – come si sa – fatto proprio da quella giurisprudenza, sopra già richiamata, che ha ritenuto prive di rilievo giuridico le norme statutarie “programmatiche”, malgrado che fossero giudicate come esorbitanti dalla competenza degli statuti stessi (tornano ora ad intrattenersi sul punto anche G. D’Elia e L. Panzeri, I contenuti ulteriori degli Statuti d’autonomia delle Regioni italiane e delle Comunidades Autónomas, in Dir. pubbl. comp. eur., 4/2009, 1581 ss.).

[47] Non è poi di qui riprendere la vessata questione circa il fondamento e i limiti della disciplina statutaria dell’ordine regionale delle fonti, in ispecie della eventuale posizione di riserve di regolamento, segnatamente nella materia dell’organizzazione.

[48] Sopra tutti, A. D’Atena, La nuova autonomia statutaria delle Regioni, in Id., L’Italia verso il federalismo. Taccuini di viaggio, Milano 2001, 190.

[49] Dubito nondimeno che abbia mai modo di farsi concretamente valere, che possa cioè un domani assistersi alla caducazione di norma statutaria per il mero fatto di essere affetta dal vizio di… eccesso di norme.

[50] Basti solo pensare al lento ma inesorabile declino cui sembra ormai condannata da una impietosa giurisprudenza la potestà legislativa regionale cui fa riferimento il IV c. dell’art. 117 [su ciò, tra i molti altri, S. Parisi, Potestà residuale e “neutralizzazione” della riforma del Titolo V, in Scritti in onore di M. Scudiero, III, Napoli 2008, 1597 ss. e, pure ivi, IV, M. Ruotolo, Le esigenze unitarie nel riparto delle competenze legislative tra Stato e Regioni: attuazione giurisprudenziale del Titolo V e prospettive di (ulteriore) riforma, 2055 ss.; F. Benelli-R. Bin, Prevalenza e “rimaterializzazione delle materie”: scacco matto alle Regioni, in Le Regioni, 6/2009, 1185 ss. Notazioni di vario segno, poi, in molte delle relazioni e degli interventi al convegno su Dieci anni dopo, cit., e spec. nei contributi di S. Parisi, La competenza residuale. Compiti normativi nelle materie statali, e F. Benelli, La costruzione delle materie e le materie esclusive statali, nonché in altri ancora consultabili  in www.astrid-online.it].

[51] Su questo terreno (e per l’aspetto ora considerato) la circolarità dell’esperienza giuridica trova una delle sue più espressive testimonianze, le “tradizioni statutarie comuni” – per dir così, mutuando ed adattando una formula, come si sa, in altro contesto e ad altri fini coniata –, e non già ovviamente i singoli statuti, ponendosi per la loro parte a punto di riferimento e d’ispirazione della progettazione normativa in ambito statale volta a limitare l’autonomia regionale. 

[52] Sulle strutturali differenze tra unità (ed omogeneità) da un canto, uniformità dall’altro, indicazioni possono aversi, oltre che da M. Olivetti, Nuovi statuti, cit., spec. 44 ss., da E. Griglio, Principio unitario e neo-policentrismo. Le esperienze italiana e spagnola a confronto, Padova 2008.

[53] Come poi individuare le norme che presentino siffatta destinazione di scopo è una somma questione di ordine teorico-pratico, alla quale non può adesso farsi cenno; è certo, nondimeno, che, come sempre, in ultima istanza è affare della giurisprudenza rispondere alla domanda: a conferma del fatto che le vicende della normazione sono refrattarie a lasciarsi ingabbiare entro schemi di formale fattura, quale quello usuale della separazione, piuttosto affidandosi alla loro storicizzazione complessiva.

[54] Mi riferisco ora in special modo alla sibillina (diffusamente e variamente commentata) affermazione fatta da Corte cost. n. 304 del 2002, nella parte in cui ha chiamato gli statuti all’osservanza, oltre che delle singole disposizioni della Carta costituzionale, del suo (non meglio precisato) “spirito”.

[55] In ciò le vicende di casa nostra convergono, nelle loro più salienti espressioni, con quelle che si affermano altrove (rammento qui, per tutte, la recente giurisprudenza del tribunale costituzionale spagnolo sullo statuto catalano, dove con molta fermezza e chiarezza si è tenuto a ribadire essere uno per l’intero territorio statale il patrimonio dei diritti fondamentali costituzionalmente riconosciuti).

[56] In merito a ciò che è stato fatto nella legislazione regionale per dar voce al bisogno di partecipazione, indicazioni possono aversi da A. Valastro, Gli strumenti e le procedure di partecipazione nella fase di attuazione degli statuti regionali, in Le Regioni, 1/2009, 77 ss. e, della stessa, Partecipazione, politiche pubbliche, diritti, in AA.VV., Le regole della democrazia partecipativa. Itinerari per la costruzione di un metodo di governo, a cura della stessa V., Napoli 2010, 38 ss. Va nondimeno avvertito che, malgrado talune realizzazioni al riguardo avutesi, i risultati – come si dirà meglio a breve – appaiono essere complessivamente deludenti. D’altronde, non sempre un metodo buono porta frutti parimenti buoni, laddove faccia poi difetto la capacità di risolvere problemi annosi e, in genere, di progettare lo sviluppo della società.

[57] Si rammenti, ad es., quanto affermato da Corte cost. n. 10 del 1980.

[58] Riferimenti a riguardo delle formule statutarie maggiormente ricorrenti possono, tra gli altri, aversi da E. Longo, Regioni e diritti. La tutela dei diritti nelle leggi e negli statuti regionali, Macerata 2007, spec. 255 ss.

[59] È dunque vero che “la stragrande maggioranza dei cittadini” – come fa giustamente notare P. Carrozza, Il welfare regionale tra uniformità e differenziazione: la salute delle Regioni, in AA.VV., I principi negli statuti regionali, a cura di E. Catelani ed E. Cheli, Bologna 2008, 22 – “non si aspettano dagli statuti (regionali o locali che siano) norme decisive per la sua esistenza”.

[60] Indicativo di un malessere generale il titolo di una riflessione non molto tempo addietro fatta da G. Tarli Barbieri, con riguardo ad una questione apparentemente circoscritta ma in realtà dalle implicazioni a largo raggio: v., dunque, di quest’A., La sentenza 322/2009 della Corte costituzionale: cosa rimane dell’autonomia regionale?, in Le Regioni, 4/2010, 826 ss. V., poi, nuovamente i contributi al convegno di Bologna su Dieci anni dopo, cit.

[61] Indicazioni in AA.VV., L’attuazione statutaria delle Regioni, cit., nonché in AA.VV., Osservatorio sulle fonti 2009. L’attuazione degli statuti regionali, a cura di P. Caretti e E. Rossi, Torino 2010.

[62] Mi convinco ogni giorno che passa di più che, dietro il mancato decollo delle riforme (eccezion fatta proprio di quella del Titolo V, peraltro venuta alla luce – come si sa – in modo assai fortunoso), stia non tanto il paradosso del cappone, che nessuno può obbligare a che prenda proprio lui l’iniziativa per essere messo a tavola per il pranzo di Natale, quanto il sentimento diffuso tra le forze politiche della loro sostanziale inservibilità, dal momento che, qualunque cosa le regole (costituzionali e non) abbiano quindi a disporre, le regolarità della politica troveranno pur sempre il modo per aggirarle. La qual cosa, poi, una volta di più rimanda alla questione, di cruciale rilievo, relativa al drafting costituzionale (e statutario), alla estensione degli enunciati formalmente e/o materialmente costituzionali, alla loro complessiva, autentica vis prescrittiva. Non mi stancherò di ripetere, infatti, che la malizia del potere si combatte anche (seppure, ovviamente, non solo) con la malizia della Costituzione (e, possiamo ora aggiungere, degli statuti), a mezzo cioè di enunciati fatti in modo tale da mettere gli operatori politico-istituzionali con le spalle al muro, obbligarli insomma, ove intendano deviare dalle regole, ad uscire allo scoperto, senza contrabbandare – come sono soliti fare – per interpretazione-applicazione la violazione delle regole stesse.

[63] … per la quale mi limito qui a rimandare alla magistrale lezione teorica di T. Martines, Indirizzo politico, in Enc. dir., XXI (1971), 134 ss.

[64] Con specifico riferimento a ciò che le Regioni hanno fatto e (soprattutto) non fatto a tutela dei c.d. “soggetti deboli”, v. E.A. Ferioli, Le disposizioni dei nuovi statuti regionali sulla tutela dei diritti sociali: tanti “proclami” e scarsa efficacia, in AA.VV., I principi negli statuti regionali, cit., 45 ss., spec. 55 ss. e R. Arena-C. Salazar, I “soggetti deboli”, cit., 161 ss. (dov’è un chiaro quadro di sintesi specificamente riguardante l’esperienza della Regione Calabria ma sorretto da pertinenti, generali rilievi di ordine teorico-ricostruttivo).

[65] Non sono, tuttavia, mancati i casi in cui la “trasversalità” ha giocato a vantaggio delle stesse norme regionali: si pensi, ad es., agli interventi in “materia” d’immigrazione, ai quali la giurisprudenza ha talora prestato avallo (per tutte, v. Corte cost. n. 269 del 2010 e, su di essa, la nota di C. Salazar, Leggi statali, leggi regionali e politiche per gli immigrati, cit.).