Le zone d'ombra della giustizia costituzionale

I giudizi sulle leggi - Il procedimento in via incidentale

Genova, 10 marzo 2006

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La nozione di giudice a quo

Alessandro Oddi

(versione provvisoria)

 

 

 

1. L'art. 1 della l.c. 1/1948 prevede che «La questione di legittimità costituzionale di una legge o di un atto avente forza di legge della Repubblica, rilevata d'ufficio o sollevata da una delle parti nel corso di un giudizio e non ritenuta dal giudice manifestamente infondata, è rimessa alla Corte costituzionale per la sua decisione». A sua volta, l'art. 23 della l. 87/1953 stabilisce che «Nel corso di un giudizio dinanzi ad una autorità giurisdizionale una delle parti o il pubblico ministero possono sollevare questione di legittimità costituzionale». Infine, l'art. 1 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale individua nel «giudice, individuale o collegiale, davanti al quale pende la causa» il soggetto legittimato a promuovere il giudizio di costituzionalità in via incidentale.

Per quanto testualmente non coincidenti, tutte e tre le disposizioni appena ricordate fanno leva sulla ricorrenza di due elementi: uno soggettivo (un «giudice», ovvero una «autorità giurisdizionale») ed uno oggettivo (un «giudizio», ovvero una «causa»). Esse, dunque, indicano inequivocabilmente nella «giurisdizione» la sola sede dalla quale può trarre origine una questione di legittimità costituzionale in via incidentale.

Ma - ed è qui che risiede il problema - che cosa s'intende, propriamente, per giurisdizione? E qual è la differenza che passa fra questa e l'amministrazione?

Com'è noto, sul piano della teoria generale tale duplice interrogativo ha ricevuto risposte tutt'altro che univoche ([1]). Dagli autori che hanno avuto modo di occuparsi del problema si è variamente posto l'accento - per limitarci alle ricostruzioni dottrinali maggiormente diffuse - ora sulla estraneità del soggetto decidente rispetto agli interessi in gioco, e cioè sulla sua «terzietà» ed «imparzialità»; ora sull'autorità di cosa giudicata che le pronunce giurisdizionali sono suscettibili di assumere; ora sulle peculiari modalità procedimentali (a cominciare dal contraddittorio fra le parti) attraverso le quali si perviene alla decisione; ora sull'oggetto di quest'ultima, essenzialmente costituito da conflitti, controversie o liti giuridiche ([2]).

Riguardate nell'ottica del diritto positivo, nessuna di queste ricostruzioni appare tuttavia pienamente soddisfacente ([3]). Per un verso, infatti, tanto l'imparzialità quanto il contraddittorio sono elementi che, nel nostro ordinamento, caratterizzano pure l'attività amministrativa, la quale - anche per effetto delle riforme introdotte con le leggi n. 241 del 1990 e n. 15 del 2005 - tende ormai sempre di più a svolgersi secondo moduli spiccatamente «processuali», piuttosto che procedimentali in senso stretto ([4]); e l'esperienza delle autorità amministrative indipendenti ne costituisce la migliore riprova ([5]). Per un altro verso, il carattere contenzioso non appare di per sé idoneo ad essere assunto quale valido criterio discretivo, ben potendo darsi casi di amministrazione contenziosa (basti solo pensare alla materia dei ricorsi amministrativi) ovvero, all'opposto, casi di giurisdizione non contenziosa (come nella c.d. volontaria giurisdizione). D'altra parte, anche la forza del giudicato (in senso sostanziale) non costituisce affatto un elemento indefettibile della funzione giurisdizionale: esso manca, ad esempio, nei provvedimenti camerali di giurisdizione volontaria, i quali possono essere «in ogni tempo modificati o revocati» ([6]).

A ben vedere, il carattere problematico che da noi assume l'individuazione del concetto di «giurisdizione» deriva da ragioni che sono, ad un tempo, storiche e giuridiche.

Da un lato, infatti, il nostro ordinamento non accoglie integralmente, ma soltanto in linea tendenziale (e preferenziale), il principio dell'unicità della giurisdizione, onde non esiste un solo apparato giurisdizionale, bensì una pluralità di «magistrature»: accanto ai giudici comuni si riscontra, infatti, una pluralità di giudici lato sensu speciali (il Consiglio di Stato, la Corte dei conti, i tribunali militari), contemplati dalla stessa Costituzione o ad essa sopravvissuti in forza della VI Disposizione transitoria, ai quali per di più sono spesso intestate funzioni ibride o fortemente eterogenee (basti solo pensare alla Corte dei conti). Dall'altro lato, neppure il principio della separazione dei poteri è stato da noi recepito in maniera rigida; con la conseguenza che, talvolta, funzioni giurisdizionali vengono esercitate da soggetti che non rientrano nell'apparato giudiziario, ovvero che soggetti che appartengono a quest'ultimo siano investiti di funzioni che non rivestono (o non rivestono sicuramente) natura giurisdizionale. Così, ci si trova spesso dinanzi a due fenomeni reciproci: la giurisdizionalizzazione dell'amministrazione, ovvero l'amministrativizzazione della giurisdizione.

Il vero è che la distinzione fra giurisdizione ed amministrazione non è altro che un «arbitrio storico» ([7]). Ontologicamente, infatti, entrambe le funzioni rientrano nel più ampio genus della esecuzione (o attuazione) della legge, vale a dire del diritto oggettivo ([8]).

Di qui, per l'appunto, l'esistenza di vere e proprie «zone grigie» ([9]), rispetto alle quali l'individuazione dei requisiti necessari e sufficienti per sollevare questioni di legittimità costituzionale risulta - da sempre - oltremodo controversa.

 

2. Ciò premesso, deve innanzitutto rilevarsi come, in tutti questi anni, la Corte costituzionale, nell'individuare la nozione di giudice e giudizio a quo, abbia sempre evitato di legarsi a «precostituite ed unilaterali impostazioni dogmatiche» ([10]) ed abbia preferito piuttosto procedere caso per caso, non di rado ponendo espressamente l'accento sulla necessità di evitare la formazione di inaccettabili «zone franche», vale a dire di settori dell'ordinamento sottratti al controllo di costituzionalità ([11]).

Questo approccio - per così dire «pragmatico» - ha consentito alla giurisprudenza costituzionale di elaborare nel tempo soluzioni non prive di originalità, che a stretto rigore appaiono difficilmente riconducibili all'angusta formulazione degli artt. 1 della l.c. 1/1948 e 23 della l. 87/1953 (nonché dell'art. 1 delle Norme integrative), la cui terminologia sembra fare riferimento «ai soli giudizi "contenziosi", se non addirittura ai soli giudizi civili e penali, svolgentisi, cioè, davanti all'autorità giudiziaria ordinaria» ([12]).

 

3. Tutto ciò spiega bene come mai tale giurisprudenza non sia priva di oscillazioni ed incertezze (nonché, talora, di vere e proprie incongruenze); e spiega altresì come mai, accanto a pronunce che appaiono più «largheggianti», se ne rinvengano altre nelle quali, invece, la valutazione della sussistenza dei requisiti di cui si discute appare condotta con particolare severità.

Così, la Corte ha avuto occasione di affermare che «i due requisiti, soggettivo ed oggettivo, non debbono necessariamente concorrere affinché si realizzi il presupposto processuale richiesto dalle norme richiamate», e che queste ultime «consentano una determinazione dei requisiti necessari alla valida proposizione delle questioni stesse, tale da condurre, per una parte, a far considerare "autorità giurisdizionale" anche organi che, pur estranei all'organizzazione della giurisdizione ed istituzionalmente adibiti a compiti di diversa natura, siano tuttavia investiti, anche in via eccezionale, di funzioni giudicanti per l'obiettiva applicazione della legge, ed all'uopo posti in posizione super partes, e per un'altra a conferire carattere di "giudizio" a procedimenti che, quale che sia la loro natura e le modalità di svolgimento, si compiano però alla presenza e sotto la direzione del titolare di un ufficio giurisdizionale» ([13]).

Si tratta, all'evidenza, di un orientamento interpretativo finalizzato ad ampliare quanto più possibile le vie di accesso a Palazzo della Consulta. Orientamento che la stessa Corte ha espressamente giustificato con una duplice esigenza, essenzialmente riconducibile alla stessa ratio del sindacato di legittimità costituzionale in via incidentale: da un lato, che tale sindacato abbia luogo non già in astratto, ma in relazione a concrete situazioni di fatto, rispetto alle quali debbano trovare applicazione norme di dubbia costituzionalità; dall'altro lato, che i giudici, in quanto soggetti solo alla legge (art. 101, comma 2, Cost.), che essi non possono disapplicare, non si trovino costretti ad emettere decisioni sulla base di leggi della cui costituzionalità dubitino, ma debbano in tal caso richiedere l'intervento della Corte, sospendendo il procedimento (quale che ne sia la natura) che si svolge dinanzi ad essi. Per la Corte, dunque, è il «preminente interesse pubblico alla certezza del diritto (che i dubbi di costituzionalità insidierebbero), insieme con l'altro della osservanza della Costituzione», che impone di interpretare in senso estensivo le disposizioni di legge poc'anzi richiamate, prescindendo dalla distinzione, sul piano concettuale, fra le diverse categorie di giudizi e di processi ([14]).

È per l'appunto sulla base di tale orientamento che la Corte ha riconosciuto, ad esempio, la legittimazione del giudice tutelare ([15]); del giudice dell'esecuzione immobiliare esattoriale ([16]); del giudice dell'esecuzione penale ([17]); del giudice di sorveglianza ([18]); del tribunale nel corso del procedimento per il ricovero dell'alienato ([19]); della sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura ([20]); dei commissari regionali per la liquidazione degli usi civici ([21]); della Commissione dei ricorsi in materia di brevetti e marchi ([22]); dei Consigli comunali in sede di contenzioso elettorale ([23]); dei Comandanti di porto ([24]); dei Consigli di prefettura ([25]); del Consiglio della Magistratura militare in sede disciplinare ([26]); del Consiglio nazionale dei ragionieri e periti commerciali e, in genere, dei Collegi e Consigli nazionali degli ordini professionali ([27]).

È peraltro accaduto che la Corte abbia ammesso le questioni sollevate da taluni giudici speciali, per poi colpire questi ultimi con una declaratoria d'incostituzionalità per difetto di indipendenza e/o imparzialità. Onde si giustamente rilevato che «il riferimento soggettivo [...] può svolgere, ed ha svolto in pratica, un ruolo bivalente: atteggiandosi a momento definitorio (vale a dire, a sintomo o connotato della natura giurisdizionale del procedimento); a volte, invece, come requisito di costituzionalità dello stesso procedimento (e del giudice - non istituzionalmente tale - che ne è investito)» ([28]). Ciò si è verificato, ad esempio, nel caso dei Comandanti di porto ([29]), degli intendenti di finanza ([30]), delle Giunte provinciali amministrative ([31]), dei Consigli di prefettura ([32]), dei Consigli comunali in sede di contenzioso elettorale ([33]). Un caso a parte è invece rappresentato dalle Commissioni tributarie, ritenute dalla Corte dapprima organi giurisdizionali ([34]), poi organi amministrativi - in quanto tali privi della legittimazione a sollevare questioni di costituzionalità ([35]) - e poi, dopo che esse erano state riformate dal legislatore, di nuovo organi giurisdizionali speciali ([36]).

Vero è che, però, l'anzidetto indirizzo interpretativo non sempre ha trovato effettivo riscontro nella giurisprudenza costituzionale ([37]). Sono assai più numerose, infatti, le pronunce in cui la Corte si è espressa nel senso della necessaria ricorrenza di entrambi i requisiti. In ogni caso, anche quando ha mantenuto fermo il criterio della alternatività, essa ha attribuito prevalenza al requisito oggettivo (piuttosto che a quello soggettivo dell'appartenenza ad una magistratura), facendo leva sulla natura della funzione effettivamente svolta (sovente individuata alla stregua di criteri puramente formali, come la terminologia impiegata dal legislatore, la disciplina nel codice di rito, ecc.) ovvero sulla titolarità (in concreto) di «poteri decisori» ([38]). Così, solo per citare alcuni esempi, è stata esclusa la legittimazione del pubblico ministero ([39]); del presidente del tribunale in sede di registrazione di un periodico ([40]) ovvero in sede di designazione di coloro che potranno essere chiamati a comporre il collegio arbitrale di disciplina di cui all'art. 2 l. 23 ottobre 1992, n. 421 ([41]); del pretore in sede di apposizione del visto di esecutività ad un'ingiunzione fiscale ([42]); dei notai ([43]); della Corte dei conti in sede di controllo successivo sulla gestione ([44]). Ed è accaduto che siffatto tipo di valutazione finisse in realtà col sovrapporsi a quella sulla rilevanza della questione ([45]): è il caso, ad esempio, del giudice istruttore in sede civile ([46]); del giudice dell'esecuzione ([47]); del giudice istruttore nel procedimento di opposizione allo stato passivo del fallimento rispetto a norme applicabili esclusivamente dal collegio in fase decisoria ([48]).

A riprova della «elasticità» della interpretazione accolta dalla giurisprudenza costituzionale, sta il fatto che fra i soggetti legittimati a sollevare questioni di legittimità costituzionale la Corte ha annoverato anche se stessa ([49]); e ciò, nonostante che la Corte medesima abbia espressamente negato di poter «essere inclusa fra gli organi giudiziari, ordinari o speciali che siano» ([50]). Ma analoghe considerazioni valgono pure per il riconoscimento della legittimazione della Corte dei conti in sede di controllo preventivo di legittimità degli atti del Governo ([51]). Non a caso, in dottrina si è giustamente osservato che tali «vie di instaurazione al processo incidentale [...] sembrano avvicinarsi a forme di impugnazione in via principale» ([52]).

 

4. Il carattere problematico che talora presenta l'opera di individuazione dei soggetti legittimati a sollevare questioni di costituzionalità può essere meglio colto e spiegato alla luce di tre casi concreti, due dei quali recentemente passati al vaglio dei giudici di palazzo della Consulta, mentre il terzo costituisce, allo stato attuale, un'ipotesi meramente dottrinale.

 

A) Gli arbitri rituali.

Con la sent. 376/2001, la Corte ha per la prima volta riconosciuto agli arbitri la legittimazione a sollevare questioni di legittimità costituzionale in sede di arbitrato rituale ([53]).

Prima di passare ad esaminare nel dettaglio gli argomenti posti a fondamento di tale controversa pronuncia, giova ricordare che - se si eccettua qualche autorevole voce dissenziente ([54]) - la gran parte della dottrina si era espressa nel senso della impossibilità di riconoscere all'arbitro la qualifica di «autorità giurisdizionale», in ragione della natura essenzialmente «privata» (di origine contrattuale) delle funzioni da esso esercitate ([55]). In particolare, si era rilevato che la «trasmissione diretta degli arbitri alla Corte costituzionale urta contro la chiara portata dell'art. 23 della legge 87/1953, che non solo riserva la legittimazione a esercitare questo controllo incidentale e a promuovere la questione di costituzionalità ad un'"autorità giurisdizionale", con un'endiadi che non può riferirsi genericamente a qualunque soggetto esercente la funzione di "giudice", giacché richiama espressamente le "autorità", cioè gli organi dello Stato, che sono investiti istituzionalmente della funzione giurisdizionale, siano questi organi di giurisdizione ordinaria o speciale e ancora di giurisdizione contenziosa, ovvero volontaria, ma prevede un modus procedendi, che comporta l'intervento di organi - Pubblico Ministero, Cancelliere - e l'utilizzazione di forme - comunicazioni del Cancelliere, etc. - proprie dell'organizzazione giurisdizionale dello Stato» ([56]).

L'impossibilità di riconoscere all'arbitro la qualifica di giudice a quo aveva indotto la dottrina ad elaborare diverse soluzioni del problema in esame; soluzioni che qui appare opportuno richiamare brevemente:

a) ad avviso di alcuni, gli arbitri, di fronte ad una pregiudiziale di costituzionalità (prospettata dalle parti oppure rilevata d'ufficio), non avrebbero potuto far altro che dichiararsi incompetenti rispetto all'intera controversia, rinunciando al proprio incarico, onde consentire alle parti di rivolgersi al giudice togato ([57]). Sennonché, tale tesi si prestava all'ovvia obiezione che essa avrebbe sostanzialmente finito per vanificare la stessa funzione dell'arbitrato, offrendo alle parti un comodo escamotage per sottrarsi in qualunque momento agli effetti vincolanti del patto compromissorio ([58]);

b) secondo altri, di fronte ad una pregiudiziale di costituzionalità ritenuta rilevante, gli arbitri avrebbero dovuto sospendere il giudizio ai sensi dell'art. 819 c.p.c. ed invitare le parti a rivolgersi al giudice togato (ordinariamente competente in assenza di patto compromissorio), il quale si sarebbe dovuto limitare a valutare la non manifesta infondatezza della questione e, nel caso, avrebbe dovuto rimettere la questione alla Consulta, dopo la cui pronuncia sarebbe ripreso il giudizio arbitrale ([59]). Ma neppure questa soluzione risultava esente da critiche, come del resto rilevato dalla stessa Corte nella pronuncia in esame ([60]). Ed invero, se si muove dal presupposto che la domanda rivolta al giudice togato di rimettere la questione alla Corte costituisce una domanda di merito, allora questa non può che essere la medesima domanda già deferita in arbitri, il che comporta una «vanificazione dell'accordo compromissorio, perché non si vede come il giudice statuale, ottenuto il responso pregiudiziale, potrebbe evitare la pronuncia sul merito e restituire la palla agli arbitri» ([61]); senza considerare che la parte che si rivolge al giudice togato ben potrebbe sentirsi opporre dalla controparte l'eccezione di compromesso ([62]). Se, invece, si muove dal diverso presupposto che la domanda in parola concerne esclusivamente il dubbio di legittimità costituzionale, allora essa è da ritenersi inammissibile, difettando di quel carattere pregiudiziale, rispetto alla soluzione di una domanda di merito rivolta al medesimo giudice, che è richiesta dal nostro ordinamento ([63]);

c) secondo altri ancora, gli arbitri non potrebbero mai porsi il problema della legittimità costituzionale delle norme di cui sono chiamati a fare applicazione, trattandosi di questione sottratta alla disponibilità delle parti e, quindi, al giudizio arbitrale; con la conseguenza che essi sarebbero sempre e comunque tenuti ad applicare la legge, la cui incostituzionalità potrebbe semmai costituire oggetto di valutazione soltanto successivamente, in sede d'impugnazione del lodo dinanzi al giudice statale ([64]). A tale tesi, però, si è obiettato che essa «ci porta indietro di decenni nell'evoluzione della teoria costituzionale, al tempo cioè quando la Costituzione era considerata non come norma, ma come semplice proclamazione filosofica o politica, non veramente vincolante» ([65]);

d) infine, altri riteneva che gli arbitri, in quanto privati cittadini, si sarebbero dovuti limitare a disapplicare le leggi di cui avessero ritenuto incidenter tantum l'incostituzionalità, mentre la parte risultata soccombente avrebbe potuto impugnare per nullità la sentenza arbitrale, deducendo - sub specie di violazione delle regole di diritto - la disapplicazione della legge ritenuta incostituzionale ovvero l'erronea applicazione della legge ritenuta costituzionalmente legittima (dagli arbitri), sempreché nel compromesso le parti non avessero escluso tale tipo d'impugnazione o avessero abilitato gli arbitri a giudicare secondo equità ([66]).

Nessuna di queste ricostruzioni è stata accolta dalla Corte.

Muovendo infatti dal presupposto che, per aversi giudizio a quo, è sufficiente - secondo quanto più volte già affermato dalla giurisprudenza costituzionale - che sussista l'esercizio di «funzioni giudicanti per l'obiettiva applicazione della legge» da parte di soggetti che, «pure estranei all'organizzazione della giurisdizione», siano «posti in posizione super partes», i giudici di Palazzo della Consulta hanno rilevato che «l'arbitrato costituisce un procedimento previsto e disciplinato dal codice di procedura civile per l'applicazione obiettiva del diritto nel caso concreto, ai fini della risoluzione di una controversia, con le garanzie di contraddittorio e di imparzialità tipiche della giurisdizione civile ordinaria» ([67]); sicché esso, sotto tale profilo, «non si differenzia da quello che si svolge davanti agli organi statali della giurisdizione, anche per quanto riguarda la ricerca e l'interpretazione delle norme applicabili alla fattispecie». D'altro canto - si legge ancora nella motivazione della sentenza - «[i]l dubbio sulla legittimità costituzionale della legge da applicare non è diverso, in linea di principio, da ogni altro problema che si ponga nell'itinerario logico del decidente al fine di pervenire ad una decisione giuridicamente corretta: anche le norme costituzionali, con i loro effetti eventualmente invalidanti delle norme di legge ordinaria con esse contrastanti, fanno parte del diritto che deve essere applicato dagli arbitri i quali - come ogni giudice - sono vincolati al dovere di interpretare le leggi secundum Constitutionem» ([68]). E poiché nel nostro assetto costituzionale agli organi giudicanti è precluso tanto di disapplicare le leggi ritenute incostituzionali, quanto di definire il giudizio applicando leggi di dubbia costituzionalità, «anche gli arbitri rituali possono e debbono sollevare incidentalmente questione di legittimità costituzionale delle norme di legge che sono chiamati ad applicare, quando risulti impossibile superare il dubbio attraverso l'opera interpretativa».

Anche in questo caso, dunque, l'orientamento della Corte si regge sulla valorizzazione dell'elemento oggettivo, vale a dire sulla natura di «giudizio» dell'attività svolta dagli arbitri in sede di arbitrato rituale; giudizio che «è potenzialmente fungibile con quello degli organi della giurisdizione». Ed anche in questo caso, come più volte accaduto in passato, la Corte si fa carico di precisare che tale valutazione avviene ai limitati fini del riconoscimento della legittimazione a sollevare questione di costituzionalità, senza che ciò le imponga di «addentrarsi nella complessa problematica relativa alla natura giuridica dell'arbitrato rituale» ([69]).

Sotto questo profilo, merita di essere sottolineato come nella motivazione della pronuncia in esame la legittimazione degli arbitri venga espressamente riconosciuta «ai sensi dell'art. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1», e come invece non venga fatto alcun richiamo all'art. 23 della l. 87/1953, la cui più restrittiva formulazione appare in effetti difficilmente compatibile con il riconoscimento della legittimazione in parola a soggetti che non soltanto non sono inquadrati in alcun apparato giudiziario, ma che neppure rientrano nell'ambito di qualunque altro pubblico potere soggettivamente inteso. Il che rappresenta una novità di non poco momento rispetto a tutte le precedenti decisioni in cui la Corte costituzionale aveva ritenuto di dover accogliere il criterio della alternatività dei due requisiti oggettivo e soggettivo.

Tutto ciò avrebbe forse reso necessario ed opportuno, sul punto, un «considerato in diritto» un po' meno sbrigativo di quello adottato nella specie; e, soprattutto, avrebbe richiesto, a rigore, una chiara presa di posizione - a cui la Corte si è invece volutamente sottratta - sulla natura giuridica dell'arbitrato rituale, costituendo tale problema un ineludibile prius, sul piano logico-giuridico, rispetto a quello della legittimazione a sollevare questione di costituzionalità. Né la circostanza che, in dottrina, tale natura sia da sempre controversa ([70]) può in qualche modo valere come giustificazione, dal momento che siffatta opinabilità si riscontra per buona parte delle questioni - non soltanto squisitamente teoriche - che si pongono all'esame della Corte; sicché, se essa dovesse costituire di per sé motivo sufficiente per non fare proprio alcun orientamento, allora la Corte stessa non potrebbe pronunciarsi su quasi nulla.

Va detto, peraltro, che ormai l'indirizzo interpretativo della Corte è stato da poco recepito dallo stesso legislatore, il quale, nel modificare le disposizioni del codice di procedura civile in materia, ha espressamente previsto che gli arbitri possano sospendere il procedimento arbitrale con ordinanza motivata «quando rimettono alla Corte costituzionale una questione di legittimità costituzionale ai sensi dell'articolo 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87» ([71]).

Tuttavia, tale previsione legislativa non toglie definitivamente di mezzo né dubbi né problemi.

Per un verso, infatti, in dottrina si è giustamente rilevato che il giudizio arbitrale ben si presta ad essere utilizzato per sottoporre alla Corte costituzionale una questione di legittimità senza farla passare per il vaglio (dagli esiti sempre incerti) di un organo giurisdizionale, essendo a tal fine sufficiente l'instaurazione di una lite immaginaria davanti ad un arbitro «compiacente» per poi ottenere la rimessione degli atti alla Corte ([72]). E si tratta di un problema che non appare suscettibile di trovare soluzione neppure attraverso un controllo particolarmente rigoroso sulla rilevanza della quaestio da parte della stessa Corte.

Per un altro verso, poi, viene da chiedersi se, nel compromesso, le parti non possano legittimamente precludere agli arbitri di sollevare questioni di costituzionalità, anche in vista di una sollecita definizione della controversia ([73]); e ciò, a pena di nullità del lodo ([74]). Un interrogativo, questo, la cui soluzione non può che dipendere (anche) dalla natura giuridica che s'intenda attribuire all'arbitrato rituale.

 

B) Il Consiglio di Stato in sede di ricorso straordinario al Presidente della Repubblica.

Con la sent. 254/2004, la Corte costituzionale - deludendo le attese di molti - ha invece negato al Consiglio di Stato la legittimazione a sollevare questione di costituzionalità in sede di emissione del parere su ricorso straordinario al Presidente della Repubblica ([75]).

Nell'ordinanza di rimessione, i giudici di Palazzo Spada facevano leva su un duplice ordine di argomentazioni:

a) in primo luogo, essi si richiamano ad una sentenza con la quale, qualche anno prima, la Corte di giustizia delle Comunità Europee aveva ritenuto che il Consiglio di Stato, allorché emette un parere nell'ambito di un ricorso straordinario, costituisce una «giurisdizione» ai sensi dell'art. 177 (ora art. 234) del Trattato CE ([76]) ed è, in quanto tale, legittimato a sollevare questioni pregiudiziali comunitarie. In tale occasione, la Corte di giustizia aveva individuato il requisito della «giurisdizionalità» alla stregua di alcuni «indici rivelatori», quali l'origine legale dell'organo, il suo carattere permanente, l'obbligatorietà della sua giurisdizione, la garanzia del contraddittorio fra le parti, il fatto che tale organo è chiamato ad applicare norme giuridiche in posizione d'indipendenza, nonché l'alternatività del rimedio rispetto alla tutela in sede giurisdizionale ([77]);

b) in secondo luogo, essi sottolineavano come nel caso di specie ricorressero elementi del tutto analoghi a quelli sulla base dei quali la Consulta aveva già ammesso la Corte dei conti a sollevare questioni di costituzionalità in sede di controllo di legittimità degli atti del Governo ([78]), atteso che l'attività svolta dal Consiglio di Stato nel procedimento in parola è svolta da magistrati che offrono garanzie di imparzialità ed indipendenza, si risolve in una valutazione di conformità degli atti impugnati rispetto alle norme di diritto oggettivo, e si conclude con pareri aventi contenuto decisorio; il che sarebbe comprovato sia dall'impugnabilità per revocazione ex art. 395 c.p.c. dei decreti presidenziali che decidono il ricorso (art. 15 d.P.R. 1199/1971), sia dalla possibilità di esperire nei confronti di questi - secondo quanto statuito dalla giurisprudenza amministrativa - il giudizio di ottemperanza per ottenerne l'esecuzione.

Sennonché, nel dichiarare inammissibile la questione, la Corte costituzionale ha innanzitutto osservato - in maniera alquanto perentoria - come nella decisione richiamata dal Consiglio di Stato il riconoscimento della natura giurisdizionale di quest'ultimo «non è avvenuto ai fini della proponibilità del giudizio incidentale, retto da norme e principi su cui la Corte di giustizia CE, nella sentenza indicata, non ha avuto da pronunciarsi». Quindi, dopo aver escluso la pertinenza dei richiami ai precedenti riguardanti la Corte dei conti in sede di controllo ([79]), il giudice delle leggi ha ribadito - sulla scorta della giurisprudenza della Corte di cassazione ([80]) - la natura essenzialmente amministrativa del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica ([81]), ritenendo siffatta conclusione «ineludibile» alla luce dell'art. 14, comma 1, d.P.R. 1199/1971, laddove «stabilisce che, ove il ministro competente intenda proporre (al Presidente della Repubblica) una decisione difforme dal parere del Consiglio di Stato, deve sottoporre l'affare alla deliberazione del Consiglio dei ministri, provvedimento quest'ultimo, per la natura dell'organo da cui promana, all'evidenza non giurisdizionale».

La pronuncia in esame conferma per l'ennesima volta - semmai ve ne fosse stato bisogno - una dato che, nella giurisprudenza costituzionale, appare ormai del tutto pacifico: e cioè il carattere eminentemente relativo del requisito della giurisdizionalità, non soltanto rispetto al diritto interno, ma anche rispetto al diritto comunitario. Accade così che gli arbitri si vedano negare dalla Corte di giustizia la legittimazione a sollevare dinanzi ad essa questioni pregiudiziali ([82]), ed invece si vedano riconoscere dalla Consulta la legittimazione a sollevare questioni di legittimità costituzionale; oppure che il Consiglio di Stato in sede di ricorso straordinario al Presidente della Repubblica si veda riconoscere la prima e negare la seconda. Allo stesso modo, accade pure che la Corte costituzionale escluda di poter essere qualificata «giurisdizione nazionale» ai sensi dell'art. 234 (già 177) del Trattato CE ([83]), ma si ritenga legittimata a sollevare dinanzi a se stessa questioni di legittimità costituzionale.

La decisione in esame solleva diversi interrogativi, non appena la si ponga a raffronto sia, in generale, con le altre pronunce che si sono espresse nel senso della alternatività dei requisiti soggettivo ed oggettivo, sia, in particolare, con quella che ha ammesso la legittimazione degli arbitri rituali.

In particolare, come si concilia questa pronuncia con l'affermazione - ricorrente nella giurisprudenza costituzionale - secondo la quale i giudici non possono essere costretti ad adottare decisioni sulla base di leggi della cui costituzionalità essi dubitano? E come si concilia con l'esigenza - anch'essa più volte affermata dalla Corte - di ampliare quam maxime i canali di accesso alla giustizia costituzionale? Sotto questo profilo, non si può non ravvisare una palese incongruenza con le motivazione sulla base delle quali la Corte ha ammesso la legittimazione della Corte dei conti in sede di controllo preventivo di legittimità degli atti del Governo: in quella occasione, infatti, i giudici della Consulta avevano argomentato, per un verso, che la funzione di controllo in parola «è, sotto molteplici aspetti, analoga alla funzione giurisdizionale», e, per un altro verso, che, «sul piano sostanziale», la legittimazione della Corte dei conti si giustifica «anche con l'esigenza di ammettere al sindacato della Corte costituzionale leggi che [...] più difficilmente verrebbero, per altra via, ad essa sottoposte» ([84]).

D'altro canto, non si può ignorare che - riguardato nella prospettiva che qui ci occupa - il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica presenta svariati «punti di contatto» con l'arbitrato rituale ([85]): tanto l'uno quanto altro costituiscono strumenti di tutela alternativi a quelli giurisdizionali ([86]); tanto l'uno quanto l'altro si reggono sull'accordo delle parti ([87]); tanto l'uno quanto l'altro assicurano la garanzia del contraddittorio; e tanto l'uno quanto l'altro si realizzano attraverso l'applicazione di norme di diritto da parte di soggetti terzi ed indipendenti ([88]). A ciò si aggiunga che il decreto con cui il Presidente della Repubblica decide il ricorso presenta gli stessi caratteri di definitività, irrevocabilità ed immodificabilità che sono propri della sentenza passata in giudicato ([89]). E tutto ciò non può non deporre nel senso della natura sostanzialmente giurisdizionale del ricorso in parola, quanto meno nella fase pendente dinanzi al Consiglio di Stato ([90]).

In definitiva, delle due l'una: o si ammette che il Consiglio di Stato, in sede di ricorso straordinario, sia legittimato a sollevare la questione di costituzionalità; oppure tale tipo di ricorso, in quanto alternativo a quello giurisdizionale, deve ritenersi costituzionalmente illegittimo ([91]).

 

C) La giunta delle elezioni in sede di verifica dei poteri.

Un caso di particolare interesse - che tuttavia non è mai giunto, finora, all'esame della Consulta - è quello della Giunta delle elezioni ([92]) in sede di verifica dei poteri ai sensi dell'art. 66 Cost. ([93]).

Va da sé che riconoscere a tale organo la qualifica di giudice a quo consentirebbe di sottoporre al vaglio della Corte costituzionale - a differenza di quanto accade oggi ([94]) - le leggi elettorali relative alle due Camere: sia nella parte in cui disciplinano il sistema ed il procedimento elettorale, sia nella parte in cui prevedono cause di ineleggibilità e di incompatibilità.

Il tema è quanto mai attuale. Basti solo pensare, per un verso, alla ben nota vicenda delle c.d. «liste civetta» e alla mancata copertura, nel corso dell'attuale legislatura, di ben undici seggi della Camera dei deputati, per «incapienza» delle candidature presenti all'interno della lista di «Forza Italia»; per un altro verso, ai molteplici dubbi di legittimità costituzionale da più parti avanzati nei confronti della recente legge di riforma dei sistemi elettorali di Camera e Senato (l. 270/2005).

In effetti, la dottrina ha evidenziato come il procedimento che si svolge dinanzi alla Giunta delle elezioni sia «marcatamente di tipo giurisdizionale», trattandosi di controversie che, da un lato, hanno per oggetto diritti politici e che, dall'altro, si svolgono secondo moduli tipicamente processuali, come dimostrano, fra l'altro, le garanzie del contraddittorio (scritto e orale), dell'udienza pubblica e della motivazione delle decisioni ([95]). Nella medesima prospettiva, si è inoltre sottolineata la volontà del legislatore costituente «(manifestata soprattutto negli art. 24, 113 e 134) di non lasciar scoperto nessun settore della vita del diritto rispetto alla tutela giurisdizionale, di non sottrarre al giudizio nessun atto e, particolarmente, quegli atti che costituiscono applicazione di una legge. Non essendo stabiliti altri giudici per valutare l'applicazione delle leggi elettorali politiche [...], non si può ridurre il "giudica" dell'art. 66 cost. ad una definizione sbagliata del costituente, ma bisogna invece riconoscere in questo termine una carica precettiva, che impone alle Camere di funzionare "da giudici", con procedure e garanzie giurisdizionali e non come corpo politico» ([96]).

Non v'è dubbio, dunque, che ci troviamo in presenza di elementi strutturali e funzionali che, riguardati alla luce della giurisprudenza costituzionale poc'anzi richiamata, inducono a concludere nel senso che la Giunta ben possa sollevare questioni di legittimità costituzionale di leggi di cui essa è chiamata a fare applicazione in sede di verifica dei poteri.

Sennonché, sarebbe ingenuo non fare i conti con la realtà.

È innegabile, infatti, che la verifica dei poteri, a prescindere dalle formalità con cui si svolge, assume inesorabilmente - per il solo fatto di essere affidata ad un organo parlamentare - una connotazione squisitamente politica, con tutto ciò che ne consegue (anche in termini di abusi, come l'esperienza insegna).

In altre parole, qui il problema sta non tanto nella possibilità di individuare un «giudice» ed un «giudizio», sia pure ai soli fini della proposizione di una quaestio legitimitatis, quanto piuttosto nella intrinseca mancanza, in capo alla Giunta, di quella neutralità e di quella indifferenza rispetto agli interessi in gioco che costituiscono un presupposto indefettibile affinché un organo comunque qualificabile come «giudicante» possa effettivamente essere indotto a rivolgersi alla Corte costituzionale.

Sicché, stando così le cose, l'unica via per rimediare all'esistenza di questa vera e propria «zona franca» sembra essere costituita da una riforma costituzionale: o nel senso di attribuire tout court la cognizione delle controversie in parola ai giudici ordinari, o nel senso di consentire agli interessati di impugnare direttamente dinanzi alla Corte costituzionale le decisioni adottate dalla Giunta o dalle Assemblee ([97]).

 

5. Da quanto siamo venuti finora dicendo è possibile trarre alcune conclusioni ed alcuni spunti di riflessione.

Va da sé, innanzitutto, che il controllo sulla legittimazione dell'organo rimettente - non diversamente da quello sulla rilevanza della quaestio - ben si presta ad essere «strumentalizzato» per fini che trascendono la logica del giudizio in via incidentale: e cioè per evitare di pronunciarsi sul merito ovvero, all'opposto, per consentire di sottoporre al vaglio di legittimità costituzionale previsioni legislative che, altrimenti, ne sarebbero irrimediabilmente sottratte ([98]).

Allo stesso modo, non v'è dubbio che le modalità ed i criteri di un siffatto tipo di controllo siano influenzate anche dal diverso modo d'intendere la giustizia costituzionale ed il ruolo del giudice delle leggi nel sistema complessivo, e quindi a seconda che si ritenga di dover porre l'accento sulla garanzia della lex o, piuttosto, su quella degli iura ([99]). Sotto questo profilo, è innegabile, ad esempio, che le pronunce ammissive della legittimazione della Corte dei conti in sede di controllo preventivo di legittimità degli atti del Governo si giustifichino alla luce della prima esigenza (garanzia della lex), laddove quelle che hanno riconosciuto la legittimazione del giudice di sorveglianza appaiono piuttosto volte ad assicurare la seconda (garanzia degli iura) ([100]). Il che non significa, peraltro, che fra questi due momenti - che pure sono concettualmente distinguibili - non esista un'intima correlazione: atteso che, dinanzi alla Corte, la tutela degli iura passa attraverso la riaffermazione della preminenza della lex, e la seconda implica anche la prima.

È per l'appunto in quest'ottica che si spiegano quelle oscillazioni giurisprudenziali alle quali si faceva riferimento poc'anzi. Non è un caso, infatti, che la giurisprudenza più «largheggiante» si registri proprio nei primi anni di attività della Corte, ossia quando questa è alla ricerca di una sua legittimazione (e l'individuazione dei suoi «portieri» costituisce un momento fondamentale di tale ricerca); e che quella più «severa» si registri invece negli anni a noi più vicini ([101]), contemporaneamente all'affermarsi di quell'orientamento che impone ora ai giudici, a pena di inammissibilità delle questioni da essi sollevate, di dare delle leggi una interpretazione quanto più possibile conforme a Costituzione e, quindi, di svolgere un compito che è assai vicino al controllo diffuso di costituzionalità ([102]).

La circostanza che la Corte abbia spesso individuato un giudice ed un giudizio «ai limitati fini» della proposizione di questioni di legittimità costituzionale ([103]) mostra chiaramente come essa abbia ritenuto di dover accedere ad una nozione «relativa» di giurisdizionalità ([104]), superando così gli ostacoli derivanti dalla difficoltà - alla quale si faceva prima riferimento - di individuare una nozione univoca di giudice e di giudizio, da utilizzare in ogni circostanza, e di tracciare una volta per tutte la linea di confine tra giurisdizione ed amministrazione.

Da ciò deriva la difficoltà (per non dire l'impossibilità) di una ricostruzione teorica che sia in grado di ricondurre a sistema la giurisprudenza costituzionale in materia. Se non altro perché questa appare non di rado guidata da un criterio che è per così dire esterno ad una nozione puramente teorica di giurisdizione: e cioè dal preminente interesse pubblico alla eliminazione delle leggi incostituzionali. Un criterio, questo, che inevitabilmente sottende vere e proprie scelte di valore, e che spesso induce la Corte ad ignorare gli aspetti squisitamente formali ed individuare in concreto un giudice ed un giudizio guardando direttamente all'importanza (o alla prevalenza) dell'interesse sottostante: come nel caso - davvero emblematico - del riconoscimento della legittimazione del magistrato di sorveglianza in sede di reclamo del detenuto, ovverosia in un procedimento pacificamente considerato di natura amministrativa ([105]).

Non v'è dubbio che tutto questo ha un prezzo da pagare; e questo prezzo è costituito da una certa incoerenza della giurisprudenza costituzionale, dalle sue oscillazioni, dalle sue non poche incertezze. Ma è un prezzo inevitabile. Perché è per l'appunto il «pregio dell'incoerenza» ciò che consente alla giustizia costituzionale di conservare quella vitalità e quel contatto con la mutevole realtà di cui essa ha bisogno per assolvere costantemente ed in maniera efficace alla delicata funzione di garanzia che le è propria.



([1]) Cfr. C. Esposito, La validità delle leggi (1934), Milano, 1964, 113.

([2]) Cfr. E. Allorio, Nuove riflessioni critiche in tema di giurisdizione e giudicato, in Riv. dir. civ., 1957, I, 1 ss.; F. Carnelutti, La Corte costituzionale sopra lo Stato?, in Riv. dir. proc. civ., 1960, 668; M. Cappelletti, Il controllo di costituzionalità delle leggi nel quadro delle funzioni dello Stato, ibidem, 402 ss.; V. Onida, Note critiche in tema di legittimazione del giudice «a quo» nel giudizio incidentale di costituzionalità delle leggi (con particolare riferimento alla Corte dei conti in sede di controllo), in Giur. it., 1968, IV, 254 ss.; A.M. Sandulli, Funzioni pubbliche neutrali e giurisdizione, in Riv. dir. proc. civ., 1964, 200 ss., ora in Scritti giuridici, II, Napoli, 1990, 261 ss.

([3]) Cfr. A. Pace, Problematica delle libertà costituzionali. Parte generale, Padova, 2003, 192 ss., ad avviso del quale la differenza fra giurisdizione ed amministrazione va individuata, in linea di principio, in elementi di carattere strutturale, e cioè nella diversità degli apparati istituzionalmente preposti all'una e all'altra.

([4]) Sotto questo profilo, giova ricordare che, ad avviso di autorevole dottrina, la differenza fra «procedimento» e «processo» sarebbe data dalla mancanza (nel primo) ovvero dalla presenza (nel secondo) del contraddittorio fra le parti: v. E. Fazzalari, voce Procedimento (teoria generale), in Enc. dir., XXXV, Milano, 1986, 827; Id., Diffusione del processo e compiti della dottrina, in Riv. dir. proc. civ., 1958, 869 s.

([5]) Sulla differenza tra imparzialità della Pubblica Amministrazione ed imparzialità del giudice, v. A. Cerri, Imparzialità ed indirizzo politico nella Pubblica Amministrazione, Padova, 1973, 55 ss.

([6]) Art. 742 c.p.c. Al riguardo, v., fra gli altri, A. Chizzini, La revoca dei provvedimenti di volontaria giurisdizione, Padova, 1994; A. Jannuzzi - P. Lorefice, Manuale della volontaria giurisdizione, Milano, 2004, 82 ss.; N. Neri Bernardi, Volontaria giurisdizione. Profili processuali, Torino, 1999, 122 ss.; G. Santarcangelo, La volontaria giurisdizione, I, Milano, 2003, 12 s.

([7]) «La separazione tra autorità giudiziaria e autorità amministrativa si spiega in primo luogo sul terreno storico. Fra i vari motivi che in tutti gli stati moderni hanno condotto a questo sviluppo c'è stato, fra l'altro, probabilmente, anche il fatto che in quelle materie la cui concretizzazione giuridica è stata affidata ai tribunali l'interesse dei sudditi era più forte di quello dei principi assoluti. Si tratta di ciò che viene chiamato diritto penale e civile, cioè della tutela della vita, dell'onore e della proprietà privata. Per il resto, il confine tra questioni giudiziarie e questioni amministrative è più o meno un arbitrio storico. Per ciò che riguarda specificamente la separazione tra questioni giudiziarie e questioni amministrative penali, queste ultime sono delitti insignificanti e quindi non si tratta di pene infamanti. Neppure qui, tuttavia, è possibile tracciare una linea di demarcazione concettuale»: così H. Kelsen, La dottrina dei tre poteri o funzioni dello Stato, ne Il primato del parlamento, Milano, 1982, 97.

([8]) Cfr. G. Zagrebelsky, La giustizia costituzionale, Bologna, 1988, 176.

([9]) L'espressione è usata da G. Zagrebelsky, La giustizia, cit., 177.

([10]) Così L. Paladin, Diritto costituzionale, Padova, 1998, 721.

([11]) Particolarmente significativa, al riguardo, è la sent. 129/1957, con cui la Corte ha riconosciuto la possibilità di sollevare questione di legittimità costituzionale nell'ambito di un procedimento di giurisdizione volontaria: «Non si dubita» - si legge nella motivazione - «che il procedimento di omologazione previsto dall'art. 2330 del Codice civile sia di quelli che usa ricomprendere sotto la categoria della giurisdizione volontaria, né che l'attività del giudice sia, in questo caso, giurisdizionale, anche se manchi la lite e non vi sia contraddittorio fra le parti. Perciò anche nel corso di questo procedimento può essere sollevata una questione di legittimità costituzionale o su istanza di chi sottopone l'atto negoziale all'accertamento di legalità o dal P.M. o di ufficio dal giudice. // D'altra parte niente c'è nella Costituzione e nelle leggi che regolano la competenza della Corte costituzionale (leggi costituzionali e legge ordinaria), che imponga di escludere i procedimenti di giurisdizione volontaria dal novero di quelli nel corso dei quali possa sorgere una questione di legittimità costituzionale. A prescindere dalla esatta osservazione che il termine "controversie" del quale si serve l'art. 134 della Costituzione è da riferire non già al giudizio nel quale sorge la questione di legittimità costituzionale (per le quali questioni, del resto, il termine nemmeno è da interpretare necessariamente come espressione di un caso di giurisdizione contenziosa), e a prescindere altresì dall'altra osservazione, che i termini "giudizio" e "causa" tanto nella legge cost. 9 febbraio 1948, n. 1, quanto nella legge 11 marzo 1953, n. 87 (art. 23) e nelle norme integrative per i giudizi davanti a questa Corte, vengono adoperati in maniera generica e con vario significato, è fondamentale la considerazione che il sistema costruito dalla Costituzione e dalle leggi che per questa parte la integrano o le danno esecuzione, comporta che tutte le volte che l'autorità giurisdizionale chiamata ad attuare la legge nel caso concreto, cioè ad esercitare giurisdizione, dubiti fondatamente della legittimità costituzionale di questa, deve sospendere il procedimento e trasmettere gli atti all'organo costituzionale, che è il solo competente a risolvere il dubbio. Se è vero che il nostro ordinamento ha condizionato la proponibilità della questione di legittimità costituzionale alla esistenza di un procedimento o di un giudizio, è vero altresì che il preminente interesse pubblico della certezza del diritto (che i dubbi di costituzionalità insidierebbero), insieme con l'altro dell'osservanza della Costituzione, vieta che dalla distinzione tra le varie categorie di giudizi e processi (categorie del resto dai confini sovente incerti e contestati), si traggano conseguenze così gravi. Si può dire, anche, che la proponibilità alla Corte costituzionale di una questione di legittimità costituzionale dipenda non dalla qualificazione del procedimento in corso, ma dalla circostanza che il giudice (contenzioso o volontario che sia il processo) ritenga fondato il dubbio della legittimità costituzionale della legge che egli deve attuare. Del che, del resto, è riprova la inaccettabile conseguenza dell'opposta interpretazione, che sarebbe quella di un giudice costretto (incompetente come egli è a giudicare della costituzionalità della legge) ad applicare una legge, rispetto alla quale egli ritiene manifestamente fondata la questione di legittimità costituzionale». Nel medesimo ordine di idee, v., ad es., sentt. 121/1966, 226/1976, 406/1989 e 384/1991.

([12]) Così V. Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale, II, 2, Padova, 1984, 268. V. anche S. Satta, Osservazioni alla sent. n. 109/1962 della Corte costituzionale, in Giur. cost., 1962, 1468.

([13]) Così sent. 83/1966. V. anche sentt. 226/1976 e 387/1996.

([14]) In senso favorevole all'interpretazione estensiva adottata dalla Consulta si esprimeva C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, II, Padova, 1969, 1257 s., nota 3: «il giudice non adempirebbe bene al suo compito se agisse sempre con il paraocchi dei dogmi, se non avesse il coraggio di adattare le norme, nei limiti del possibile, alle esigenze della realtà e non risalisse alla ratio della funzione affidatagli. La costituente (nella quale era largamente rappresentata una parte ostile all'introduzione di un organo capace di arrestare l'opera del parlamento) ha, compromissoriamente, consentito il controllo ma, respinta la proposta di accesso diretto alla corte dei cittadini lesi da atti incostituzionali, ha richiesto un rigido sbarramento preventivo, e questo ha operato in molti casi [...] nel senso di fare venire meno la possibilità del suo intervento anche quando indizi più che fondati avrebbero dovuto indurre ad invocarlo. In questa situazione (aggravata dal fatto della permanenza in vita di tutta la legislazione dell'epoca fascista, in gran parte contraria allo spirito informatore della nuova costituzione) deve ritenersi che la corte abbia compiuto opera altamente benemerita nell'interpretare con larghezza le norme sulla legittimazione dell'organo di proposizione delle questioni, perché ha così concorso a dare certezza al diritto, liberando l'ordinamento dalle incrostazioni di vecchie disposizioni ripugnanti alla costituzione repubblicana, che la classe politica non ha saputo né voluto sostituire con altre a questa conformi».

([15]) Cfr. sentt. 440/2005 e 464/1997, nonché ordd. 293/1993, 65/1991 e 133/1990.

([16]) Cfr. sent. 83/1966.

([17]) Cfr. sentt. 29/1962, 69/1964 e 23/1968.

([18]) Cfr. sentt. 72/1968, 53/1968 e 212/1997. La Corte ha peraltro escluso la legittimazione del magistrato di sorveglianza allorché esplichi una funzione meramente consultiva e non decisoria (cfr. sent. 8/1979, nonché ord. 382/1991), ovvero sia comunque sprovvisto di potere decisorio in ordine all'applicazione della norma della cui costituzionalità egli dubiti (cfr. sent. 109/1983), ovvero intervenga in funzione meramente istruttoria o servente rispetto ad un giudizio attribuito ad altro giudice (cfr. ordd. 207/1990 e 290/1990).

([19]) Cfr. sent. 74/1968.

([20]) Cfr. sent. 12/1971. Ma v. anche, nel senso opposto, sent. 44/1968.

([21]) Cfr. sent. 78/1971.

([22]) Cfr. sentt. 37/1957, 42/1958, 77/1971, 20/1978, 158/1995, 271/2002 e 345/2005.

([23]) Cfr. sent. 44/1961.

([24]) Cfr. sent. 41/1960.

([25]) Cfr. sent. 17/1965.

([26]) Cfr. ord. 116/2000.

([27]) Cfr. ordd. 103/2000 e 387/1995. La Corte ha invece ritenuto il difetto di legittimazione dei collegi e consigli locali: v., ad es., sent. 387/1995.

([28]) Così V. Crisafulli, Lezioni, cit., 271.

([29]) Cfr. sentt. 121/1970 e 153/1970.

([30]) Cfr. sent. 60/1969.

([31]) Cfr. sent. 30/1967.

([32]) Cfr. sent. 55/1966.

([33]) Cfr. sentt. 52/1962, 92/1965, 16/1966, 17/1966, 58/1966, 116/1966 e 19/1967.

([34]) Cfr. sentt. 12/1957, 41/1957, 42/1957, 81/1958, 123/1963 e 103/1964.

([35]) Cfr. sentt. 10/1969, 41/1969, 42/1969, 43/1969, 44/1969, 123/1970, 53/1971, 116/1971 e 61/1972.

([36]) Cfr., fra le tante, sentt. 287/1974, 214/1976 e 215/1976.

([37]) Cfr. A. Cerri, Corso di giustizia costituzionale, Milano, 2004, 127.

([38]) Cfr., a titolo puramente esemplificativo, le sentt. 387/1996, 158/1995, 492/1991, 17/1980, 224/1974 e 12/1971, nonché l'ord. 104/1998. In dottrina, v. F. Rigano, Rimane chiusa la porta della Corte costituzionale agli organi che non esercitano la giurisdizione, in Giur. cost., 1996, 3611 s.

([39]) Cfr. sentt. 40/1963, 41/1963, 42/1963 e 415/1995, nonché ordd. 86/2002, 249/1990, 285/1989 e 163/1981. Ma v. anche l'ord. 138/2003, con cui la Corte ordina la restituzione degli atti al Pubblico Ministrero rimettente per ius superveniens.

([40]) ... sulla base del rilievo che tale procedura «è esclusivamente volta alla verifica della regolarità dei documenti presentati», e dunque «il presidente o il magistrato da lui delegato è chiamato a svolgere "una semplice funzione di carattere formale attribuitagli per una finalità garantistica", sicché che l'intervento di un magistrato non può "da solo essere ritenuto idoneo ad alterare la struttura di un procedimento meramente amministrativo"»: cfr. sent. 96/1976 e ord. 170/2005.

([41]) Cfr. ord. 437/2000.

([42]) Cfr. sent. 132/1973.

([43]) Cfr. ord. 52/2003, con indicazione di altri precedenti.

([44]) ... in ragione del fatto che siffatto tipo di controllo, «così come risulta oggi positivamente configurato, non è tale da poter assumere le connotazioni di un controllo assimilabile alla funzione giurisdizionale, cioè preordinato alla tutela del diritto oggettivo con "esclusione di qualsiasi apprezzamento che non sia di ordine strettamente giuridico": e questo quand'anche il controllo stesso venga, incidentalmente od occasionalmente, a comportare un giudizio sulla legittimità di singoli atti. Il fatto è che il controllo sulla gestione - per i suoi scopi, per i suoi effetti e per le sue modalità di esercizio - viene a configurarsi essenzialmente come un controllo di carattere empirico ispirato, più che a precisi parametri normativi, a canoni di comune esperienza che trovano la loro razionalizzazione nelle conoscenze tecnico-scientifiche proprie delle varie discipline utilizzabili ai fini della valutazione dei risultati dell'azione amministrativa»: così sent. 335/1995.

([45]) Cfr. V. Crisafulli, Lezioni, cit., 274; M. Luciani, Le decisioni processuali e la logica del giudizio costituzionale incidentale, Padova, 1984, 99 ss.; A. Pizzorusso, Art. 137, in G. Branca (a cura di), Commentario della Costituzione, Bologna-Roma, 1981, 221 s.; Id., Legittimazione del giudice a quo e valutazione della rilevanza, in Giur. cost., 1964, 1145 ss.

([46]) Cfr. sentt. 109/1962, 44/1963 e 204/1997.

([47]) Cfr. sent. 109/1964.

([48]) Cfr. ord. 23/2002.

([49]) Cfr. ordd. 22/1960, 258/1982 e 73/1965.

([50]) Così sent. 13/1960. V. anche ord. 536/1995.

([51]) Cfr. sent. 226/1976. Eguale legittimazione è stata riconosciuta alla Corte dei conti - oltreché nei giudizi di responsabilità, di conto ed in materia di pensioni, stante la loro natura pacificamente giurisdizionale - in sede di giudizio di parificazione dei rendiconti (sulla base del rilievo che tale giudizio «si svolge con le formalità della giurisdizione contenziosa, con la partecipazione del Procuratore generale, in contraddittorio con i rappresentanti dell'amministrazione e si conclude con una pronunzia adottata in esito a pubblica udienza»), sia pure, in un primo tempo, negando tale legittimazione rispetto alla legge di bilancio o a leggi di spesa («attesa la loro irrilevanza ai fini del decidere, in relazione al peculiare ambito di cognizione affidato alla Corte dei conti, consistente essenzialmente nel verificare - a mente dell'art. 39 del regio decreto 12 luglio 1934, n. 1214 - se le entrate riscosse e versate ed i resti da riscuotere e da versare, risultanti dal rendiconto redatto dal Governo, siano conformi ai dati esposti nei conti periodici e nei riassunti generali trasmessi alla Corte dei conti dai singoli ministeri e se le spese ordinate e pagate durante l'esercizio concordino con le scritture tenute o controllate dalla stessa Corte, nonché nell'accertare i residui passivi in base alle dimostrazioni allegate ai decreti ministeriali di impegno e alle scritture tenute dalla Corte dei conti») (cfr. sentt. 165/1963, 121/1966, 142/1968 e 143/1968, nonché ord. 139/1969), per poi ammetterla a seguito della riforma introdotta dalla l. 5 agosto 1978, n. 468 (successivamente modificata dalla l, 23 agosto 1988, n. 362), sulla base del rilievo che, «là dove vengano denunciate, per contrarietà con l'art. 81, quarto comma, della Costituzione, leggi che determinino veri e propri effetti modificativi dell'articolazione del bilancio dello Stato, per il fatto stesso di incidere, in senso globale, sulle unità elementari dello stesso, vale a dire sui capitoli, con riflessi sugli equilibri di gestione disegnati con il sistema dei risultati differenziali di cui all'art. 6 della legge n. 468 del 1978, le questioni sollevate non possono non assumere rilevanza ai fini della decisione di competenza della Corte dei conti» (cfr. sent. 244/1995).

([52]) Così A. Pizzorusso, Art. 137, cit., 223.

([53]) In senso conforme, v. le ordd. 298/2005 e 11/2003. Ma v. anche l'ord. 410/1997, che, nel dichiarare la manifesta inammissibilità di una questione relativa ad una disposizione di legge già ritenuta incostituzionale, aveva lasciato «impregiudicata ogni valutazione circa la legittimazione» di un collegio arbitrale «a sollevare questione incidentale di legittimità costituzionale».

([54]) Cfr. V. Andrioli, Commento al codice di procedura civile, IV, Napoli, 1964, 388; Id., Questioni di incostituzionalità e affari non contenziosi, in Giur. cost., 1958, 404; P. Giocoli Nacci, L'iniziativa nel processo incidentale, Napoli, 1963, 330 ss.; G. Schizzerotto, La questione di legittimità costituzionale nel giudizio arbitrale, in Giur. it., 1961, IV, 65.

([55]) Cfr., tra gli altri, F. Auletta, L'arbitro giudice a quo rispetto alla Corte costituzionale, in Riv. arbitrato, 2000, 821; F. Baraldi, La questione di legittimità costituzionale nell'arbitrato rituale, in Giur. it., 1960, IV, 38 s.; F. Danovi, La pregiudizialità nell'arbitrato rituale, Padova, 1999, 178; D. Giacobbe, Il giuramento e la questione di legittimità costituzionale nel procedimento arbitrale, in Giust. civ., 1996, I, 1189; F. Pierandrei, voce Corte costituzionale, in Enc. dir., X, Milano, 1962, 945 s.; C. Punzi, Disegno sistematico dell'arbitrato, I, Padova, 2000, 617; Id., voce Arbitrato, I) Arbitrato rituale ed irrituale, in Enc. giur., I, Roma, 1995, 24.

([56]) Così C. Punzi, Disegno sistematico, cit., 617.

([57]) Cfr. F. Baraldi, La questione, cit., 40; F. Pierandrei, voce Corte costituzionale, cit., 946 s.

([58]) Cfr. M. Cappelletti, La pregiudizialità costituzionale nel processo civile, Milano, 1957, 75; A. Cerri, Corso, cit., 142; C. Punzi, Disegno sistematico, cit., 614.

([59]) Cfr. T. Carnacini, voce Arbitrato rituale, in Nov.mo dig. it., I, Torino, 1958, 899 s.; Id., Le questioni di legittimità costituzionale nell'arbitrato rituale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1958, 884 ss.; A. Levoni, La pregiudizialità nel processo arbitrale, Torino, 1975, 183 ss.

([60]) «La tesi della sospensione del giudizio arbitrale al fine di consentire alle parti di sottoporre il dubbio di legittimità costituzionale al giudice ordinario, è solo apparentemente coerente con la disciplina dettata dall'art. 819 c.p.c. in tema di questioni incidentali. La norma codicistica, infatti, postula che - una volta sospeso il procedimento arbitrale - il giudice competente adito dalle parti decida la questione incidentale; mentre, nel caso della questione di costituzionalità, al giudice ordinario sarebbe demandato solo il compito di reiterare la valutazione di rilevanza e di non manifesta infondatezza, già effettuata dagli arbitri, al fine di sollevare davanti a questa Corte una questione pregiudiziale rispetto ad una decisione di merito che non spetta al giudice medesimo ma agli arbitri» (§ 2 del «Considerato in diritto»).

([61]) Così A. Briguglio, La pregiudizialità costituzionale nell'arbitrato rituale e la efficacia del lodo, in Riv. arbitrato, 2000, 649; E. Fazzalari, Art. 819 c.p.c., in A. Briguglio - E. Fazzalari - R. Marengo, La nuova disciplina dell'arbitrato, Milano, 1994, 140 s.

([62]) Cfr. M. Cappelletti, La pregiudizialità, cit., 75 s.; C. Punzi, Disegno sistematico, cit., 615 s.

([63]) Cfr. A. Cerri, Corso, cit., 142; C. Punzi, Disegno sistematico, cit., 615; G. Schizzerotto, La questione, cit., 80.

([64]) Cfr. L. Montesano, Questioni incidentali nel giudizio arbitrale e sospensioni di processi, in Riv. dir. proc., 2000, 5 ss.; F. Danovi, La pregiudizialità, cit., 183 s.

([65]) Così M. Cappelletti, Questioni nuove (e vecchie) sulla giustizia costituzionale, in AA.VV., Giudizio "a quo" e promovimento del processo costituzionale, Milano, 1990, 36. V. anche A. Briguglio, La pregiudizialità, cit., 653 s.; P. Giocoli Nacci, L'iniziativa, cit., 1963, 331; G. Schizzerotto, La questione, cit., 79.

([66]) Cfr. F. Auletta, Le questioni incidentali, cit., 202; P. Barile, L'arbitrato rituale e la Corte costituzionale, in Riv. arbitrato, 1992, 229 ss.; M. Cappelletti, La pregiudizialità, cit., 70 ss.; E. Fazzalari, L'arbitrato, Torino, 1997, 78; A. Pizzorusso, Art. 137, cit., 231; C. Punzi, Disegno sistematico, cit., 618 ss.

([67]) Critico sulla effettiva terzietà degli arbitri è A. Pace, Problematica, cit., 201.

([68]) Traspare in maniera evidente, qui, la preoccupazione della Corte di ribadire la natura giuridicamente vincolante della Costituzione, in quanto atto posto al vertice della gerarchia delle fonti, e la preminenza dell'interesse pubblico alla espulsione dall'ordinamento delle leggi incostituzionali rispetto agli interessi privati che animano le parti litiganti.

([69]) Cfr. R. Pinardi, Quando l'arbitro diventa portiere (della Corte): notazioni minime sulla "naturale" elasticità della nozione di giudice a quo, in Giur. cost., 2001, 3753 s. Come si vedrà più avanti, la Corte ha invece ritenuto di dover prendere posizione sulla natura giuridica del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, facendo propria la tesi secondo cui esso costituisce un rimedio di carattere amministrativo.

([70]) Peraltro, la dottrina prevalente si è espressa nel senso della natura privatistica dell'arbitrato: v., per tutti, E. Fazzalari, L'arbitrato, Torino, 1997, 15 ss. Nel medesimo ordine di idee, v., ad es., Cass. civ., sez. un., 3 agosto 2000, n. 527.

([71]) Art. 819-bis, comma 1, n. 3), c.p.c., introdotto dall'art. 22 del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 («Modifiche al codice di procedura civile in materia di processo di cassazione in funzione nomofilattica e di arbitrato, a norma dell'articolo 1, comma 2, della legge 14 maggio 2005, n. 80»).

([72]) Cfr. M. Cappelletti, La pregiudizialità, cit., 74, nota 124; C. Punzi, Disegno sistematico, cit., 617.

([73]) Cfr. gli Autori citati supra, alla nota 63.

([74]) Va tenuto presente, infatti, che, ai sensi dell'art. 829 c.p.c., nel testo introdotto dall'art. 24 del d.lgs. 40/2006, il lodo può essere impugnato per nullità quando esso «ha pronunciato fuori dei limiti della convenzione d'arbitrato, ferma la disposizione dell'articolo 817, quarto comma [recte: terzo comma - n.d.r.], o ha deciso il merito della controversia in ogni altro caso in cui il merito non poteva essere deciso».

([75]) In senso conforme, v. le ordd. 357/2004 e 392/2004. Sulla possibilità di sollevare questioni di costituzionalità in sede di ricorso straordinario, v. C.d.S., sez. I, 19 maggio 1999, n. 650.

([76]) Cfr. la sent. 16 ottobre 1997, resa dalla sez. V nelle cause riunite da C-69/96 a C-79/96.

([77]) In particolare, la Corte di giustizia aveva osservato: a) che il ricorso straordinario è un ricorso amministrativo contenzioso disciplinato da una legge (d.P.R. 1199/1971); b) che il soggetto il quale si proponga di ottenere l'annullamento di un atto amministrativo italiano può scegliere tra due rimedi, il ricorso straordinario e il ricorso giurisdizionale al Tribunale amministrativo regionale, entrambi dotati delle comuni caratteristiche giurisdizionali fondamentali e ciascuno alternativo rispetto all'altro; c) che, tranne il termine d'impugnazione e alcune caratteristiche secondarie, sono innanzi tutto identiche le condizioni per esperire l'uno o l'altro ricorso; è poi equivalente l'oggetto della domanda, vale a dire l'annullamento di un atto amministrativo lesivo di un interesse legittimo; infine, i motivi sui quali può fondarsi tale domanda sono gli stessi in entrambi i casi; d) che sia il ricorso straordinario sia il ricorso amministrativo giurisdizionale ordinario prevedono un contraddittorio e garantiscono l'osservanza dei principi d'imparzialità e di parità fra le parti; e) che la consultazione del Consiglio di Stato è obbligatoria e che il suo parere, esclusivamente basato sull'applicazione delle norme di legge, costituisce il progetto della decisione che verrà formalmente emanata dal Presidente della Repubblica italiana; f) che tale parere, comprensivo di motivazione e dispositivo, è parte integrante di un procedimento che è l'unico che possa consentire, in quella sede, la risoluzione del conflitto sorto tra un singolo e la pubblica amministrazione; g) che decisione difforme da tale parere può essere pronunciata solo previa deliberazione del Consiglio dei Ministri e dev'essere debitamente motivata; h) che il Consiglio di Stato è un organo permanente, imparziale e indipendente poiché i suoi membri, tanto nelle sezioni consultive quanto in quelle giurisdizionali, offrono garanzie legali d'indipendenza e d'imparzialità e non possono far parte contemporaneamente delle due sezioni.

([78]) Cfr. le sentt. 226/1976, 384/1991 e 168/1992.

([79]) «Per quanto riguarda il valore di precedente da attribuire, per ciò che ora interessa, alle sentenze ammissive di questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte dei conti in sede di controllo preventivo di legittimità, si rileva che esse sono state motivate anzitutto dall'esigenza di sottoporre a scrutinio di costituzionalità leggi che altrimenti ad esso sfuggirebbero (v. sentenza n. 226 del 1976, par. 3 del Considerato in diritto, parte finale). Successivamente questa Corte ha ritenuto la Corte dei conti in sede di controllo organo idoneo a sollevare questioni di legittimità costituzionale in ipotesi concernenti l'asserita violazione delle prescrizioni dell'art. 81 della Costituzione, ragione in precedenza soltanto genericamente indicata (v. sentenze n. 384 del 1991 e n. 25 del 1993). Ciò a prescindere da ogni notazione sulle differenze tra funzione di controllo della Corte dei conti e funzione consultiva del Consiglio di Stato».

([80]) Cfr. Cass. civ., sez. un., 18 dicembre 2001, n. 15978, la quale ha annullato - ai sensi dell'art. 111, ultimo comma, Cost. - una decisione del Consiglio di Stato che aveva pronunciato in sede di ottemperanza per l'esecuzione di provvedimento emesso a seguito di ricorso straordinario.

([81]) Cfr. le sentt. 78/1966, 31/1975 e 298/1986, nonché le ordd. 56/2001 e 301/2001. In dottrina, v. L. Mazzarolli, Riflessioni sul ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, in Dir. amm., 2004, 691 ss. (spec. 703).

([82]) Cfr. la sent. 23 marzo 1982, resa nella causa n. 120/1981. In dottrina, v. A. Briguglio, Pregiudiziale comunitaria e processo civile, Padova, 1996, 781 ss.

([83]) Cfr. le ordd. 22/1960 e 536/1995. Giova peraltro ricordare come tale consolidato orientamento sia stato in qualche modo posto in dubbio dall'ord. n. 165 del 2004, con cui la Corte - per la prima volta nella sua giurisprudenza - ha ritenuto di dover sospendere il giudizio sulla costituzionalità di talune disposizioni contenute nel d.lgs. n. 61 del 2002 (in materia di reati societari, ed in particolare di «falso in bilancio») e di rinviare le relative cause a nuovo ruolo, «stante la sostanziale coincidenza fra il quesito di costituzionalità, attinente all'asserito contrasto delle norme impugnate con il diritto comunitario, e quello che costituisce oggetto delle [...] cause» già instaurate dinanzi alla Corte di giustizia per iniziativa di alcuni giudici italiani. Il che ha indotto a chiedersi se una tale scelta preludesse ad una riconsiderazione, da parte della Consulta, della c.d. «dottrina Granital».

([84]) Così la già citata sent. 226/1976 (corsivo non testuale). V. anche sent. 384/1991.

([85]) Cfr. P. Giocoli Nacci, L'iniziativa, cit., 344; G. Paleologo, voce Ricorso straordinario, in Enc. giur., XXVII, Roma, 1991, 3.

([86]) Giova ricordare che il decreto col quale il Presidente della Repubblica decide il ricorso straordinario può essere impugnato dinanzi al giudice amministrativo per soli vizi di forma e di procedura, peraltro successivi al parere del Consiglio di Stato.

([87]) Sia il controinteressato al quale sia stato notificato il ricorso straordinario sia il controinteressato che abbia impugnato il medesimo provvedimento dinanzi al giudice amministrativo possono, infatti, chiedere che il ricorso sia trasposto in sede giurisdizionale (art. 10 d.P.R. 1199/1971). Sul punto, v. Corte cost., sent. 78/1966.

([88]) La rilevata distonia appare ancor più evidente, ove si consideri che, in pendenza del ricorso straordinario, il ministro competente, su conforme parere del Consiglio di Stato, può disporre la sospensione del provvedimento impugnato (cfr. art. 28 l. 1034/1971, come modificato dall'art. 3 l. 205/2000), mentre agli arbitri è di regola preclusa la possibilità di adottare qualunque misura cautelare (cfr. art. 818 c.p.c., come modificato dall'art. 22 del d.lgs. 40/2006).

([89]) Cfr. R.E. Ianigro - G. Mescia, L'inottemperanza ai decreti del Capo dello Stato decisori dei ricorsi straordinari, in C.d.S., 2002, II, 1302 ss. (spec. 1313).

([90]) Cfr. C.d.S., sez. IV, 15 dicembre 2000, n. 6695; C.g.a. Sicilia, 19 ottobre 2005, n. 695. In dottrina, cfr. C. Mortati, Istituzioni, cit., 1222: «L'atto di decisione del ricorso nella forma del decreto presidenziale, controfirmato dal Ministro competente, viene ad assumere carattere ibrido, poiché, mentre sotto l'aspetto formale può assimilarsi ad un atto amministrativo, sostanzialmente viene ad assumere carattere giurisdizionale». V. anche C.E. Gallo, Il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica tra presente e futuro, in Foro it., 1987, I, 677; M. Immordino, La tutela non giurisdizionale, in F.G. Scoca (a cura di), Giustizia amministrativa, Torino, 2003, 536; S. Lariccia, Diritto amministrativo, Padova, 2000, 631; M. Nigro, voce Decisione amministrativa, in Enc. dir., XI, Milano, 1962, ad vocem.

([91]) Cfr. C. Mortati, Istituzioni, cit., 1223.

([92]) Più precisamente, la denominazione ufficiale è «Giunta delle elezioni» alla Camera dei deputati (cfr. art. 17 Reg. Camera), e «Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari» al Senato (cfr. art. 19 Reg. Senato).

([93]) «Ciascuna Camera giudica dei titoli di ammissione dei suoi componenti e delle cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità».

([94]) Cfr. art. 87, comma 1, d.P.R. 361/1957.

([95]) Così A. Manzella, Il parlamento, Bologna, 2003, 232.

([96]) Così L. Elia, voce Elezioni politiche (contenzioso), in Enc. dir., XIV, Milano, 1965, 786. V. anche R. Chieppa, Ancora sulle questioni di legittimità costituzionale sollevabili incidentalmente dalla Corte dei conti (sezione di controllo), in Giur. cost., 1976, I, 2014 s. Contra, . Buzzelli, Giunta delle elezioni e Corte costituzionale, in Rass. dir. pubbl., 1959, 500 ss.; V. Lippolis, Art. 66, in G. Branca (a cura di), Commentario della Costituzione, Bologna-Roma, 1986; F. Pierandrei, voce Corte costituzionale, cit., 944, nota 242.

([97]) Quest'ultima soluzione era stata accolta nel progetto elaborato dalla Commissione bicamerale per le riforme istituzionali.

([98]) Ciò non significa, tuttavia, che le valutazioni compiute al riguardo dalla Corte siano necessariamente influenzate dalla questione sottostante: ben può darsi, infatti, che la Corte riconosca la legittimazione di un dato organo quale giudice a quo, per poi dichiarare l'infondatezza della questione che esso le ha sottoposto (è quanto accaduto, ad esempio, nella sentenza sugli arbitri rituali).

([99]) Sull'ambiguità che caratterizza il modello di sindacato di costituzionalità accolto nel nostro ordinamento, v. M. Luciani, Le decisioni processuali, cit., 215 ss.

([100]) Cfr. sentt. 212/1997 e 53/1968. V. anche sent. 26/1999.

([101]) Cfr. R. Pinardi, Quando l'arbitro diventa portiere (della Corte): notazioni minime sulla "naturale" elasticità della nozione di giudice a quo, in Giur. cost., 2001, 3748.

([102]) V., ad es., ordd. 64/2006, 57/2006, 427/2005, 420/2005, 19/2003 e 517/2000. Sul tema, v. G. Sorrenti, L'interpretazione conforme a Costituzione, Milano, 2006.

([103]) Cfr. sent. 12/1971.

([104]) Cfr. L. Paladin, Diritto costituzionale, cit., 721; G. Zagrebelsky, La giustizia, cit., 180.

([105]) Cfr. sent. 26/1999. Sul punto, v. C. Pinelli, Prospettive di accesso alla giustizia costituzionale e nozione di giudice a quo, in A. Anzon - P. Caretti - S. Grassi (a cura di), Prospettive di accesso alla giustizia costituzionale, Torino, 2000, 628.