Stelio Mangiameli

 

Il contributo dell’esperienza costituzionale italiana alla dommatica europea della tutela dei diritti fondamentali.

 

 

Sommario: 1. Alla ricerca dei diritti fondamentali nell’ordinamento europeo e nel sistema costituzionale italiano. – 2. Segue: il ruolo delle due Corti e la circolarità del processo di tutela dei diritti fondamentali. – 3. L’art. 2 Cost. fra teoria e prassi giurisprudenziale. – 4. Segue: l’art. 2 Cost. come fattispecie “chiusa” o “aperta”. – 5. Segue: la giurisprudenza della Corte costituzionale. – 6. Le tecniche di tutela dei diritti fondamentali nella concreta esperienza costituzionale italiana: l’affermazione del carattere normativo della Costituzione, la “legislazione a rime obbligate” e le sentenze “monito”. – 7. Segue: lo Stato sociale e i diritti fondamentali, dalla “legittimità costituzionale provvisoria” alle “sentenze additive di principio”. – 8. Segue: i diritti di fronte all’emergenza dell’ordine democratico. – 9. Segue: i diritti e il principio d’eguaglianza, la legge tra coerenza e ragionevolezza. – 10. Segue: il bilanciamento dei diritti. – 11. I diritti fondamentali e i principi supremi dell’ordinamento costituzionale.

 

 

1.         Alla ricerca dei diritti fondamentali nell’ordinamento europeo e nel sistema costituzionale italiano

 

È difficile definire con esattezza quale sia il contributo che al tema della protezione dei diritti fondamentali in Europa abbia dato l’esperienza costituzionale in materia di diritti fondamentali di uno Stato membro dell’Unione europea, anche se fondatore del sistema europeo, come l’Italia. I sei Stati che diedero vita alla Comunità economica europea nel 1957 erano stati pesantemente coinvolti nel secondo conflitto mondiale e, nel caso dell’Italia, la tradizione dei diritti pubblici subiettivi ([1]), risalente alla Carta costituzionale concessa da Carlo Alberto di Savoia (lo Statuto Albertino) il 4 marzo 1848 ([2]), era stata interrotta dal ventennio fascista, che, propugnando un modello di Stato totalitario, aveva posto nel nulla le garanzie statutarie sulle libertà e, in particolare, sulla stampa ([3]).

La Costituzione repubblicana, perciò, ha rappresentato un momento di frattura rispetto al passato, non solo per il carattere democratico su cui fonda la Repubblica ([4]), ma anche perché dota l’ordinamento italiano di un catalogo dei diritti fondamentali tra i più completi e significativi del mondo occidentale, dove accanto ad un insieme di principi, come il riconoscimento e la garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo (art. 2 Cost.), la promozione del pieno sviluppo della persona umana (art. 3, comma 2, Cost.) e il ripudio della guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali (art. 11 Cost.), si trovano disciplinati puntualmente i diritti di libertà classici ([5]) e le libertà politiche ([6]), come pure le libertà e i diritti della sfera etico-sociale ([7]) e di quella economica ([8]); e questi diritti, oltre a godere della tutela giudiziaria, anche nei confronti dello Stato e delle autorità pubbliche, davanti ai giudici ordinari e amministrativi, secondo i canoni dello Stato di diritto ([9]), hanno conosciuto una concreta salvaguardia, a partire dal 1956, nei confronti degli atti legislativi, per opera del giudice costituzionale ([10]).

Il carattere innovativo della Costituzione repubblicana ha comportato, peraltro, la formazione di una corrispondente e “nuova” dommatica dei diritti fondamentali, la cui elaborazione, lenta e difficile, è risultata, oltre che dalle progressive acquisizioni della scienza del diritto costituzionale ([11]), proprio dall’opera della Corte costituzionale, depositaria – nel tempo – di un significativo contributo per la valorizzazione e la concretizzazione dei diritti costituzionalmente previsti ([12]).

Per converso, il diritto europeo, nato dai trattati di Roma, aveva in origine un carattere molto particolare, limitato dall’attribuzione alla Comunità di competenze riferite al mercato comune e alle quattro libertà fondamentali, collegate funzionalmente alla realizzazione del primo ([13]). Si trattava, cioè, di un ordinamento sopranazionale, sprovvisto di fini generali e, ancor di più, del compito di tutelare un sistema di diritti fondamentali, collegato al riconoscimento di uno status civitatis. Solo con l’evoluzione successiva si è realizzata, da un lato, l’espansione dei poteri europei e la crescita delle competenze e del diritto europeo e, dall’altro, soprattutto per l’opera della Corte di giustizia, l’affermazione di un sistema di diritti fondamentali europei. Infatti, il giudice comunitario, colmando il vuoto iniziale che caratterizzava la Comunità in materia, ha approntato una propria tutela ai diritti fondamentali ([14]) e ha sostenuto che fanno parte dell’ordinamento comunitario quei diritti che possono essere dedotti dalle “tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri” e che devono essere protetti come parte integrante dei “principi generali dell’ordinamento comunitario”, vincolando così al loro rispetto le istituzioni comunitarie ([15]). E l’apertura dell’ordinamento comunitario ai diritti non ha riguardato solo quelli disciplinati nelle diverse Costituzioni nazionali, ma anche quelli tutelati nelle convenzioni internazionali stipulati dagli Stati membri, come il diritto alla riservatezza o al rispetto della vita privata, tutelato dall’art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali ([16]).

È bene ricordare che, per un verso, l’evoluzione segnata dalla giurisprudenza della Corte di giustizia ha contraddistinto le tappe successive del diritto europeo: prima con l’inclusione dei capisaldi della giurisprudenza medesima nell’art. 6 del TUE ([17]) e successivamente con la codificazione della Carta di Nizza, ora inclusa nella parte seconda del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa ([18]); e, per l’altro, che espansione del diritto europeo e riconoscimento dei diritti fondamentali hanno rappresentato il passaggio dal “Marktbürger” ([19]) al “Unionsbürger” ([20]), e ciò importa una diversa qualificazione dello status dei singoli individui all’interno del sistema europeo, che ha trovato il suo culmine nella istituzione della cittadinanza europea ([21]).

 

 

2.         Segue: il ruolo delle due Corti e la circolarità del processo di tutela dei diritti fondamentali

 

Vista a posteriori, perciò, l’esperienza dei diritti fondamentali in Italia, con l’attività di concretizzazione della giurisprudenza della Corte costituzionale, ha avuto un percorso quasi parallelo a quella dei diritti fondamentali in Europa, dove attiva è stata l’opera della Corte di Giustizia, e le reciproche interferenze sono divenute manifeste solo in una fase di molto successiva al consolidarsi, ognuno nel proprio ambito, dei rispettivi ordinamenti: quello repubblicano in Italia e quello comunitario in Europa, e ciò anche perché – come è stato osservato – per un lungo periodo, rispetto all’ordinamento europeo, ogni Stato membro, e l’Italia in modo particolare, “viveva una sorta di doppia vita: in piccola parte rivolta all’esterno, nei rapporti con gli organi comunitari, e in larga misura ispirata dal permanente primato delle scelte di competenza nazionale” ([22]).

Peraltro, le due Corti, che hanno operato in condizioni gius-costituzionali differenti, anche quando avevano compreso l’esistenza di interferenze tra le reciproche giurisprudenze, hanno mantenuto per un lungo periodo – sia pure nell’ambito di relazioni istituzionali soft e di alto livello – un comportamento di contrapposizione. Così, se da un lato la Corte costituzionale italiana affermava che, nonostante la netta distinzione tra i due ordinamenti, quello interno e quello comunitario, i rapporti regolati dal diritto europeo non sono sottratti in modo assoluto alla competenza del giudice costituzionale, in quanto la “coordinazione” tra i due ordinamenti può riguardare unicamente “le limitazioni di sovranità”, ma mai la rinuncia ad essa, per cui la legge di esecuzione del Trattato di Roma ben potrebbe essere assoggettata al vaglio di costituzionalità, per violazione dell’art. 11 Cost., qualora la normativa comunitaria si ponesse in violazione dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e dei diritti inalienabili della persona umana ([23]); dall’altro, la Corte di giustizia, spinta dalle riserve enunciate inizialmente dai giudici costituzionali nazionali (in particolare, da quello italiano), ha agito per assicurare l’efficacia e la prevalenza del diritto europeo, rispetto al diritto nazionale. Infatti, il giudice comunitario ha superato i limiti che potevano derivare all’efficacia del diritto europeo negli ordinamenti degli Stati membri, soprattutto allorché poteva incidere sulle situazioni soggettive da questi tutelate, affermando che “il richiamo a norme o nozioni di diritto nazionale nel valutare la legittimità di atti emananti dalle Istituzioni della Comunità menomerebbe l’unità e l’efficacia del diritto comunitario. La validità di detti atti può essere stabilita unicamente alla luce del diritto comunitario. Il diritto nato dal Trattato, che ha una fonte autonoma, per sua natura non può infatti trovare un limite in qualsivoglia norma di diritto nazionale senza perdere il proprio carattere comunitario e senza che sia posto in discussione il fondamento giuridico della stessa Comunità” ([24]); con la conseguenza ulteriore che il giudice nazionale avrebbe sempre “l’obbligo di garantire la piena efficacia del diritto comunitario disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legge nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere o attendere la rimozione in via legislativa e mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale” ([25]).

Tuttavia, nonostante le differenze strutturali tra i due livelli di ordinamento e la diversità dei ruoli che ha contraddistinto la posizione delle due Corti, non può dirsi che sia mancata (e manchi), sul tema dei diritti fondamentali, una osmosi culturale, di metodo e di contenuti dall’ordinamento nazionale a quello europeo e, viceversa, da quello europeo a quello nazionale ([26]).

Nel caso del sistema dei diritti fondamentali, in particolare, sembrano sussistere almeno due aspetti che ne hanno caratterizzato l’evoluzione e che possono rivelare, se non l’unitarietà, almeno la circolarità del processo di crescita della salvaguardia dei diritti fondamentali, che si svolge tra l’ordinamento europeo e gli ordinamenti degli Stati membri: il primo riguarda l’individuazione dei diritti fondamentali, che nonostante la presenza di un catalogo costituzionale, che segna la diversità rispetto all’ordinamento europeo originario, ha visto lo stesso una definizione dei diritti fondamentali, o di facoltà inerenti a questi, attraverso la creativa giurisprudenza della Corte costituzionale ([27]); il secondo, invece, attiene alle tecniche e, per certi aspetti, ai metodi di delimitazione delle diverse fattispecie dei diritti fondamentali ([28]); e il momento di chiusura di questi elementi è dato dalla posizione istituzionale rivestita dal sistema dei diritti fondamentali nazionali nei due ordinamenti ([29]).

In questa sede, ovviamente, non saranno riesaminate nei particolari tutte le decisioni della Corte costituzionale italiana, per verificare le interpretazioni e le applicazioni cui sono andati incontro i diritti fondamentali nel corso della loro elaborazione dommatica, ma saranno rilevati gli elementi che hanno contribuito a delineare la costruzione complessiva del sistema italiano, in modo da offrire un modello, per quanto possibile, valido ai fini della comparazione con la dommatica dei diritti fondamentali nell’ordine europeo.

 

 

3.         L’art. 2 Cost. fra teoria e prassi giurisprudenziale.

 

Si può cominciare dal primo aspetto, per dire subito che l’opera “creatrice” della giurisprudenza della Corte, chiamata più volte ad intervenire per “adeguare” il testo costituzionale alle esigenze reali, si connota come una costante dell’esperienza italiana. La Corte costituzionale ha avuto, infatti, il merito di estrarre nuove fattispecie dal testo della Costituzione, ampliando gli spazi di tutela dei cittadini e degli individui, come testimoniano le numerose decisioni in cui si è occupata del “diritto alla vita” (sentenze nn. 27 del 1975; 35 del 1997; 223 del 1996), del diritto “all’identità personale” definito come “diritto ad essere se stessi” (sentenza n. 13 del 1994), della libertà personale, intesa non solo come garanzia da forme di coercizione fisica della persona, ma che comprende anche la libertà di autodeterminazione del soggetto (sentenza n. 30 del 1962) ([30]), del diritto d’informazione (sentenze n. 84 del 1969 e n. 348 del 1990), dell’obiezione di coscienza (sentenze n. 164 del 1985; n. 470 del 1989; e n. 467 del 1991), ecc.

In questo contesto, si colloca anche l’emersione dei c.d. “nuovi diritti”, che la Corte costituzionale ha variamente enucleato dal tronco di disposizioni e norme della Carta, con la definizione anche di limiti e vincoli per il legislatore (si pensi ad esempio al principio della tutela dell’ambiente derivato dal combinato disposto degli artt. 9 e 32 Cost.).

La vicenda, che presenta delle affinità rispetto alla problematica dell’enucleazione dei diritti nell’ordinamento europeo, è legata alla determinazione dei “diritti inviolabili” ([31]).

Nell’ordinamento giuridico italiano, come è noto, il sistema dei diritti fondamentali trova fondamento nella norma di principio, contenuta nell’art. 2 Cost., per la quale “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, (…)”. Il senso e la portata di questa disposizione può ben comprendersi solo se si considera il clima storico-culturale dell’Assemblea Costituente, frutto dell’incontro (e dell’accordo) di tre diverse ispirazioni di pensiero: quello liberale, quello cattolico e quello socialista ([32]). La discussione in Assemblea Costituente sull’art. 2, infatti, fu particolarmente sentita e vide emergere istanze giusnaturalistiche, espressione del personalismo di matrice cattolica ([33]), istanze giuspositiviste proprie della cultura di sinistra, che sottolineavano il ruolo dello Stato nel rendere efficaci i diritti e istanze garantistiche di matrice liberale, orientate a sottolineare la dimensione individualista dei diritti.

Il compromesso tra le diverse posizioni fu rappresentato dalla condivisione, da parte di Togliatti, dell’impostazione sui diritti fondamentali formulata da Dossetti, che culminò nella presentazione di un ordine del giorno, in cui trovarono espressione quei principi che poi furono recepiti nella formula dell’art. 2 Cost. e riguardanti: a) il riconoscimento dell’anteriorità della persona rispetto allo Stato; b) il riconoscimento della socialità della persona, destinata a completarsi e a perfezionarsi mediante una reciproca solidarietà economica e spirituale; c) l’affermazione dei diritti fondamentali della persona e dei diritti delle comunità anteriormente ad ogni concessione da parte dello Stato ([34]).

L’impostazione rifletteva, indubbiamente, la maturata consapevolezza di ritenere il riconoscimento dei diritti fondamentali connotato assiologico della nuova forma di Stato, in cui si sarebbe dovuto affermare il superamento di quel rapporto Stato-individuo che, specie nelle costituzioni liberali dell’ottocento, aveva – secondo la teoria dei diritti pubblici soggettivi – negato rilevanza all’individuo in quanto tale, venendo quest’ultimo in considerazione solo ed esclusivamente come cittadino ovvero in rapporto allo Stato ([35]).

La proclamazione dell’art. 2 Cost. segna, perciò, il definitivo superamento dell’impostazione statocentrica e, riconoscendo il primato della persona rispetto allo Stato, assume il principio personalista come punto fermo della regolazione del nuovo rapporto individuo-comunità statale ([36]). La persona in quanto “fine del sistema delle libertà” ([37]) diviene titolare di quei diritti fondamentali costituenti il patrimonio irriducibile della dignità umana che la Repubblica s’impegna a salvaguardare. E se da un lato l’accoglimento del principio personalistico porta con sé il riconoscimento di diritti individuali, in quanto riconosciuti al singolo “per l’appagamento egoistico dei suoi bisogni e desideri individuali” ([38]), dall’altro considera l’individuo anche nella sua dimensione di essere sociale, riconoscendo a questi – quale cittadino, o membro di formazioni sociali – diritti “funzionali”, e cioè diritti attribuiti non per il soddisfacimento dei propri egoistici bisogni, ma nell’interesse della comunità ([39]).

Al di là di questa premessa, generalmente condivisa, però, attorno alla formula dell’art. 2 Cost. ha iniziato a ruotare la riflessione sul sistema dei diritti fondamentali e la quaestio interpretativa si è incentrata su due letture alternative: quella secondo cui la disposizione richiamata dovrebbe leggersi come norma “riassuntiva” dei soli diritti enumerati nel testo costituzionale, i quali sarebbero, in definitiva, un catalogo chiuso; e quella, invece, per la quale questa consentirebbe l’apertura del catalogo costituzionale, ricomprendendo anche diritti non enumerati espressamente.

 

 

4.         Segue: l’art. 2 Cost. come fattispecie “chiusa” o “aperta”.

 

La questione interpretativa dell’art. 2 Cost. non è stata fine a se stessa, ma ha comportato una serie di conseguenze, di ordine teorico e pratico, che – come si vedrà subito oltre – hanno inciso variamente sul modo di operare del giudice costituzionale. È bene precisare che le due impostazioni, che si sono fronteggiate, hanno affrontato anche il tema dei c.d. “nuovi diritti”, proprio della dinamica di ogni sistema dei diritti fondamentali, risolvendolo in modo diverso.

La prima preoccupazione che porta la dottrina italiana a sposare la tesi della fattispecie “chiusa” è quella avverso la concezione dell’art. 2 come clausola di apertura al “diritto naturale”, giacché “gli istituti della libertà, ancorati ad un diritto naturale, estraneo all’esperienza giuridica contemporanea, assumerebbero connotati talmente labili e soggettivi da scomparire nella nebbia dell’incertezza del diritto”; di qui il rifiuto della tesi estensiva “sia per il difetto di ogni base positiva (né la lettera dell’art. 2 né altre norme costituzionali la sorreggono), sia e soprattutto perché tutte le libertà che abbiamo chiamato aggiuntive rampollano dal tronco di quelle che si leggono in Costituzione” ([40]).

A questa stregua, la dottrina italiana ha inteso porre un limite, non tanto al riconoscimento di pretese e diritti, quanto al modo di riconoscere l’estensione della garanzia costituzionale, la quale assumerebbe un rilievo particolare nel caso di collisione tra i diritti medesimi ([41]). In tal senso, la tesi dell’art. 2 come clausola chiusa non ha escluso che questa norma sia stata vista come un rinvio ai “diritti che la tradizione ha tramandato”, ma semplicemente che tali diritti formerebbero “oggetto del richiamo di cui all’art. 2 Cost. solamente se ed in quanto, siano stati costituzionalmente positivizzati se ed in quanto, cioè, attraverso una formale previsione in Costituzione, siano entrati a comporre in modo rigido la fisionomia del sistema vigente” ([42]).

Quanto, poi, alle “nuove pretese di libertà”, che possono incessantemente sorgere, in quanto “strettamente annesse al libero sviluppo della persona umana”, ciò non implicherebbe come logica conseguenza una lettura “aperta” dell’art. 2. Più precisamente, il problema della collocazione delle nuove pretese che si possano configurare come libertà, andrebbe risolto “dal concreto modo in cui gli specifici diritti inviolabili sono riconosciuti nelle disposizioni costituzionali positive che li riguardano” ([43]). Infatti, le disposizioni costituzionali che disciplinano i diritti fondamentali nella nostra Carta avrebbero una potenzialità normativa ampia ed elastica che comprenderebbe “qualsiasi ipotesi che lo sviluppo della coscienza sociale o della civiltà giuridica (…) propongono come ‘nuovi diritti’ ”. Pertanto, questi nuovi diritti sarebbero, per un verso, “diritti impliciti” essendo inclusi nel contenuto semantico di diritti già espressamente riconosciuti in Costituzione; per l’altro, “diritti strumentali” ovvero, diritti definiti per dare concreto significato e garanzia ai diritti specificamente previsti ([44]).

In questa prospettiva, pur tuttavia, il ruolo dell’art. 2 Cost., in sede di interpretazione, non sarebbe affatto secondario, in quanto rappresenterebbe un “principio espansivo dotato di grande forza maieutica, nell’opera di individuazione dei diritti conseguenti a quelli enumerati” ([45]). Infatti, “l’art. 2 non (aggiungerebbe) nuove situazioni soggettive a quelle concretamente previste dalle successive particolari disposizioni, ma (potrebbe) riferirsi anche ad altre potenziali e suscettibili di essere tradotte in (nuove) situazioni giuridiche positive. L’art. 2 sotto il profilo qui considerato (andrebbe) inteso perciò come avente la sola – anche se fondamentale – funzione di conferire il crisma dell’inviolabilità ai diritti menzionati in Costituzione: diritti peraltro da identificare (…) non solo in quelli dichiaratamente enunciati in Costituzione, ma anche in quelli ad essi conseguenti”. Esso sarebbe “in una parola matrice e garante dei diritti di libertà, non fonte di altri diritti al di là di quelli contenuti in Costituzione” ([46]).

Concordemente alle tesi sin qui esaminate, anche l’impostazione dell’art. 2 come clausola “aperta” non intenderebbe interpretare la disposizione sui “diritti inviolabili” come affermazione di un generale diritto di libertà ([47]), oppure come una forma di apertura al diritto naturale ([48]), ma semplicemente come uno strumento ermeneutico idoneo a legittimare sul piano costituzionale l’enucleazione di nuove fattispecie. Infatti, “una volta abbandonato il campo delle fattispecie giuridiche analitiche, puntualmente espresse dal testo costituzionale, non si può non operare di fatto, (…) un rinvio alla Costituzione materiale e ai principi di regime quali assunti dalla coscienza del giudice o dall’interprete” ([49]).

Per chi crede in questa impostazione la problematica dell’art. 2 Cost. non andrebbe affrontata discutendo il valore ricognitivo o costitutivo del rinvio ai diritti inviolabili e non più come il dilemma della fattispecie aperta o chiusa, ma diventerebbe una questione da porre in termini di politica del diritto ([50]).

Lo schema che l’orientamento riferito intenderebbe proporre è quello del libero sviluppo della persona, come compito da realizzare e non solo come dato da rispettare, per cui i valori della persona non avrebbero una funzione solo di garanzia, ma anche di sviluppo ([51]). Di conseguenza, è rispetto a questa prospettiva, legata all’affermazione dello “Stato democratico”, che si sosterrebbe, una volta avvertita la necessità di “abbandonare il tentativo defatigante di ingabbiare le libertà costituzionali in rigide situazioni giuridiche, quali appunto i diritti subiettivi”, come sia giocoforza accogliere le “posizioni di chi invece attraverso detto articolo apre l’ordinamento ad altri valori non esplicitamente richiamati dal costituente”, per cui si verrebbe a creare un effetto espansivo delle libertà che “non potrà non trovare un punto di sostegno, e nello stesso tempo un limite nella Costituzione materiale e nelle forze politiche, sociali e culturali che la determinano” ([52]).

I tentativi di sganciare il riconoscimento di ulteriori diritti fondamentali dalle fattispecie costituzionalmente previste sono paralleli alle posizioni di chi, attraverso l’art. 2 Cost., affronta il tema del fondamento dei diritti, prescindendo dal riferimento alle singole espresse disposizioni costituzionali. Secondo tale opinione, deve ritenersi che il Costituente, pur nel silenzio del testo costituzionale, abbia voluto implicitamente tutelare nella Carta anche quei diritti (come ad es. il diritto alla vita) che costituiscono, in qualche modo, il presupposto, o il fondamento naturale di quelli esplicitati e circondati di protezione giuridica ([53]).

L’art. 2 rappresenterebbe, in tal senso, la garanzia costituzionale di questi diritti inespressi e comunque inviolabili, ma affinché non diventi “un involucro disponibile ad ogni contenuto”, occorrerebbe delimitare la cornice entro cui ammettere l’esistenza di tali diritti. La disposizione richiamata rappresenterebbe perciò una clausola aperta, ma assiologicamente delimitata.

Detta clausola, tuttavia, opererebbe verso una duplice direzione, e cioè tanto nei confronti dei c.d. “diritti impliciti”, quanto nei confronti dei c.d. “nuovi diritti”; in entrambi i casi l’effettività dei diritti sarebbe vincolata al quadro culturale di riferimento espresso originariamente dal Costituente ([54]). L’art. 2 Cost. rappresenterebbe, pertanto, la fonte di legittimazione di tali diritti fondamentali e, benché la loro nascita vada collocata al di fuori del testo costituzionale, attraverso siffatta disposizione essi verrebbero ad essere tutelati giuridicamente, e cioè diventerebbero diritti in senso giuridico oltre che ontologico ([55]).

Rispetto a questa prospettiva “espansiva”, più limitativa sembra essere, invece, la posizione di chi, pur ritenendo che i diritti costituiscano dei valori ([56]), riconduce la determinazione delle fattispecie a una sorta di combinato disposto tra le singole disposizioni sui diritti e l’art. 2 Cost., sul presupposto che in tale ultima disposizione sia consacrata la vera e primigenia norma sul libero sviluppo della persona umana. Il valore di fondo che si tutelerebbe attraverso questa norma sarebbe, perciò, il libero sviluppo della personalità ([57]).

Di conseguenza, secondo quest’orientamento, sembrerebbe inaccettabile la concezione dell’art. 2 come fattispecie chiusa, se in tal modo si intende la norma come ricognitiva dei diritti enumerati, in quanto “la tipizzazione-enumerazione costituzionale dei diritti è sufficiente a ricoprire potenzialmente tutte le direzioni o aree di libertà praticamente possibili”, mentre “l’art. 2 come generale statuizione sul riconoscimento-garanzia dei diritti inviolabili, (…) può significare (…) che la libertà come valore non può essere circoscritta a previsioni determinate e specifiche delle esplicazioni e direzioni in cui esso si realizza” ([58]) e che, perciò, “il riconoscimento-garanzia globale dell’art. 2” avrebbe “per oggetto precisamente i diritti enucleabili dal contesto della Costituzione positiva” ([59]).

Se si può trarre una conclusione dal dibattito italiano sui diritti inviolabili, che – è bene ricordarlo – li situerebbe tra i principi supremi dell’ordinamento costituzionale ([60]), è che l’assunzione della posizione, in relazione al sistema dei diritti come chiuso o aperto, dipende dal modo di intendere la Costituzione medesima: se come atto normativo, avente, perciò, carattere valutativo e prescrittivo; oppure, come espressione (sia pure ricognitiva) di valori (pregiuridici) da dovere tradurre, di volta in volta, in prescrizioni di carattere giuridico.

Questo rilievo sulla determinazione della “norma costituzionale”, peraltro, non è senza effetti in ordine alla valutazione stessa dell’attività del giudice costituzionale, soprattutto nei casi in cui questa ha dato luogo sulle medesime figure a cambiamenti giurisprudenziali. Se è vero, infatti, che ogni tesi della dottrina trova il suo banco di prova nel concreto svolgersi dell’interpretazione giudiziale ([61]), è altrettanto chiaro che la differenza tra coloro che vedono nell’art. 2 una fattispecie chiusa e coloro che la considerano una fattispecie aperta si situa, non solo nella circostanza che i primi ritengono essenziale una interpretazione secondo i canoni classici dell’ermeneutica giuridica, e specificamente in base al principio di specialità ([62]), mentre i secondi tendono ad aprire ad una interpretazione dei diritti fondamentali in termini di “valori” ([63]), anziché di “diritto soggettivo” ([64]), quanto soprattutto nel modo di considerare la stessa azione di concretizzazione della Costituzione compiuta dal giudice costituzionale.

La diversa impostazione seguita, peraltro, non implicherebbe semplicemente di prendere atto del diverso modo di operare del giudice, per gli uni la riconduzione delle fattispecie, in via estensiva, alle singole disposizioni sui diritti ([65]), per gli altri il dare ingresso, attraverso l’art. 2 Cost., ai valori da cui si desumerebbero i diritti non espressamente contemplati ([66]), ma di considerare, o meno, la possibilità di mettere in relazione il pronunciamento giurisprudenziale alla stessa norma costituzionale, per cui la stessa sentenza della Corte costituzionale, oltre a essere la decisione che chiude il caso, appare valutabile in termini giuridici. Infatti, il limite ultimo della tesi dell’art. 2 come fattispecie aperta è che conduce a decisioni in cui l’aspetto fattuale (e politico) finisce con l’essere prevalente rispetto alla norma costituzionale e in una tale situazione non tranquillizza affatto, ai fini dell’effettiva tutela dei diritti previsti dalla Costituzione, l’affermazione che l’art. 2 Cost. farebbe fronte alle domande di libertà espresse dalla società, la quale farebbe affidamento sul ruolo del giudice costituzionale come “interprete chiamato a dar voce alla coscienza sociale” ([67]).

 

 

5.         Segue: la giurisprudenza della Corte costituzionale.

 

Nella sua prima giurisprudenza la Corte aveva accolto un’impostazione restrittiva dell’art. 2, asserendo che il principio espresso dalla disposizione richiamata “indica chiaramente che la Costituzione eleva a regola fondamentale dello Stato, per tutto quanto attiene ai rapporti tra la collettività e i singoli, il riconoscimento di quei diritti che formano il patrimonio irretrattabile della persona umana: che appartengono all’uomo inteso come essere libero” e, “alla generica formula di tale principio, fa seguire una specifica indicazione dei singoli diritti inviolabili” ([68]).

L’impostazione dell’art. 2 Cost. come fattispecie “chiusa” è facilmente riconoscibile anche in altre pronunce in cui si afferma che “nel riconoscere e garantire in genere i diritti inviolabili dell’uomo, necessariamente si riporta alle norme successive in cui tali diritti sono particolarmente presi in considerazione”, con la conseguenza, sul piano del processo costituzionale, che non potrebbero porsi “questioni di legittimità costituzionale in riferimento all’art. 2 Cost., ma solo alle norme costituzionali in cui i singoli diritti inviolabili sono enunciati” ([69]).

Su queste basi il giudice costituzionale o escludeva la violazione dell’art. 2, in quanto era diversa la norma in cui rientrava la fattispecie evidenziata ([70]); oppure, ove valutava l’impossibilità di ricondurre una fattispecie ad un diritto costituzionale, escludeva l’esistenza stessa del diritto, come nelle ipotesi della prima decisione sull’identità sessuale ([71]), e della prima sul diritto all’abitazione ([72]). Non a caso, in questa fase, con riferimento, anche in questa ipotesi, ad una prima decisione sul diritto di riservatezza, si osservava che “l’art. 2 prevede una particolare tutela per alcuni fra gli altri diritti riconosciuti dalla Costituzione, ma non è suscettibile di generare ulteriori situazioni subiettive tutelabili oltre a quelle espressamente previste, neppure se riguardato in connessione con trattati internazionali; perché, inoltre, lo sviluppo completo della persona umana è fine troppo vago e generico per fondare precisi diritti costituzionali” ([73]).

In tutte le sentenze richiamate la Corte ha ritenuto che l’inviolabilità dei diritti di libertà di cui all’art. 2 Cost. costituisca solo una disposizione di carattere generale e ricognitiva dei diritti fondamentali successivamente previsti nella Carta. Più precisamente, solo ed in quanto singolarmente previsti e tutelati, i diritti di libertà potrebbero operare direttamente come parametri di legittimità. Pertanto, l’art. 2 – questa era la conclusione – non avrebbe avuto carattere precettivo e da questa disposizione non sarebbe stato possibile dedurre la tutela di diritti fondamentali impliciti.

Eppure già in questa fase la giurisprudenza della Corte appare tutt’altro che omogenea, in quanto riconduce all’art. 2 Cost. delle facoltà che pure rientrerebbero in altre più specifiche prescrizioni, come il diritto al lavoro ([74]); o come il diritto alla tutela giurisdizionale, intimamente connesso con lo stesso principio di democrazia, che consiste nell’assicurare a tutti e sempre, per qualsiasi controversia, un giudice e un giudizio ([75]); o il diritto alla riparazione dell’errore giudiziario, per cui “l’ultimo comma dell’art. 24 Cost. enuncia un principio di altissimo valore etico e sociale che va riguardato quale coerente sviluppo del più generale principio di tutela dei ‘diritti inviolabili dell’uomo’ (art. 2) assunto in Costituzione tra quelli che stanno a fondamento dell’intero ordinamento repubblicano” ([76]); od ancora, la libertà di contrarre matrimonio ([77]). In tal modo, la Corte sembra abbandonare l’iniziale impostazione restrittiva dell’art. 2 Cost., per abbracciare un orientamento che, pur non ancorando alla norma suddetta una fonte autonoma di diritti, ne riconosce il “sostegno qualificatorio rispetto a diritti esplicitamente o implicitamente riconducibili ad altre norme costituzionali” ([78]).

A ciò segue, sia pure solo in qualche decisione, l’affermazione di un diritto in relazione all’art. 2 Cost., come nel caso della sentenza n. 28 del 1969, con la quale si è dichiarato che, “fra i diritti inviolabili garantiti dall’art. 2 Cost., vi è quello dell’innocente di ottenere la revisione della sentenza di condanna” ([79]). Inoltre, progressivamente la Corte estende la qualifica di diritto inviolabile anche a fattispecie per le quali le disposizioni costituzionali non ripetono la previsione dell’inviolabilità come la libertà di religione e quella di manifestazione del pensiero, riconoscendo così al requisito di cui all’art. 2 la capacità di qualificare le diverse fattispecie costituzionalmente previste ([80]).

La scelta della Corte costituzionale di non rimanere strettamente ancorata alla sua prima giurisprudenza, che non dava un significato prescrittivo alla disposizione sui “diritti inviolabili” dell’art. 2 Cost., appare così superata. Gli schemi entro cui si muove la problematica dei diritti inviolabili, al fine di ampliare i margini di tutela sono così, nelle loro linee essenziali, definibili in tre figure: a) la combinazione di un diritto costituzionale specifico con l’art. 2 Cost., che serve a rafforzare il diritto come tipizzante la forma dello Stato democratico-repubblicano; b) la riconduzione di una fattispecie riguardante una particolare facoltà ad un diritto costituzionale specifico e all’art. 2, al fine di ricondurre dette facoltà all’ambito normativo di un diritto costituzionale, intensificandone la tutela con la previsione dell’inviolabilità; c) l’autonoma individuazione di fattispecie, definite come diritti inviolabili in relazione diretta ed esclusiva con l’art. 2 Cost.

Una volta metabolizzati detti schemi qualificatori nell’ambito dei diritti inviolabili dell’uomo garantiti dall’art. 2 Cost., la giurisprudenza costituzionale inizia a riconoscere i c.d. “nuovi diritti”, come quelli al proprio decoro, onore, rispettabilità, riservatezza, intimità e reputazione ([81]), e – particolarmente significativo, in relazione alla problematica dell’aborto – il diritto alla vita del concepito ([82]); ed anche il “diritto alla vita” ([83]).

Le occasioni che consentono alla Corte di pronunciare l’affermazione della tutela dell’art. 2 riguardano le più diverse fattispecie, cui non è estranea anche una certa dose di opzione politica che il giudice costituzionale compie, a volte in sintonia con il Parlamento, secondo la regola law making majority, a volte superando i confini posti dalla legislazione; ma è comunque difficile, oltre che improprio, riconnettere (il perseguimento di) un pensiero politico alla giurisprudenza costituzionale, per cui l’unica lettura possibile dei diversi enunciati che si rinvengono nelle decisioni della Corte non può non essere che di tipo costituzionale: questo vale allorquando essa si pronuncia sulla libertà di adesione (o di non adesione) alle comunità israelitiche, che va tutelata come diritto inviolabile anche nei confronti delle confessioni religiose ([84]); così come quando in relazione alla famiglia proclama, da una parte, che quella di origine è il luogo più idoneo per la promozione della personalità e l’educazione del soggetto umano in formazione ([85]); e, dall’altra, che il diritto del minore ad essere adottato rientra tra i diritti fondamentali tutelati dall’art. 2 Cost. ([86]). Infatti, anche se diverse sono le figure che la giurisprudenza costituzionale tocca, in relazione all’art. 2 Cost., unico è il campo privilegiato che la Corte tende a salvaguardare e questo è rappresentato dall’individuo-persona ([87]); e, in questa prospettiva, le diverse pronunce assumono una dimensione unificante ed anche sistematica: sia che si faccia riferimento al diritto alla salute dell’art. 32 Cost. ([88]), sia che vengano in discussione i diritti previdenziali dell’art. 38 Cost. ([89]), l’art. 2 fonda, anche direttamente, un diritto al risarcimento del danno all’integrità fisica, senza che ciò comporti “di dischiudere la sfera dell’art. 2 Cost. a situazioni soggettive che il testo fondamentale manca di prevedere” ([90]).

In questo modo di utilizzare la disposizione sui diritti inviolabili dell’uomo, da parte del giudice costituzionale, è evidente come possa diventare secondario ed occasionale il collegamento con le altre previsioni costituzionali in tema di diritti fondamentali, e non perché un collegamento con le singole fattispecie normate non sia, in via interpretativa, pur sempre possibile, ma in quanto la riconduzione della fattispecie all’art. 2 appare di più immediata efficacia anche simbolica, come nel caso del diritto all’identità e alla libertà sessuale. Infatti, la Corte, pur potendo fare intervenire altri parametri, assume la verifica della censura “in riferimento al solo art. 2 Cost.”, dichiarando che “tale disposto non è violato quando e per il fatto che sia assicurato a ciascuno il diritto di realizzare, nella vita di relazione, la propria identità sessuale, da ritenere aspetto e fattore di svolgimento della personalità” ([91]); così, con riferimento alla violenza carnale, afferma che nell’ordinamento giuridico penale “costituisce la più grave violazione del fondamentale diritto alla libertà sessuale” e, “essendo la sessualità uno degli essenziali modi di espressione della persona umana, il diritto di disporne liberamente è senza dubbio un diritto soggettivo assoluto, che va ricompreso tra le posizioni soggettive direttamente tutelate dalla Costituzione ed inquadrato tra i diritti inviolabili della persona umana che l’art. 2 Cost. impone di garantire” ([92]).

Su queste basi la Corte, in alcuni casi, preferisce individuare diritti qualificati inviolabili in assenza o in concorso di una puntuale previsione e, in tal modo, oscilla tra l’innovazione al sistema dei diritti fondamentali, riconoscendo nuove fattispecie autonome, e l’estensione dell’inviolabilità a diritti previsti dalla Costituzione, ma per cui questa non contempla espressamente detta qualificazione.

A questa stregua, in una prima decisione, la Corte afferma “che nella vigente Costituzione la libertà di emigrazione è un diritto fondamentale che lo Stato riconosce e non attribuisce (e che, pertanto, può essere fatto valere anche nei confronti dello Stato)” ([93]) e, successivamente, con altra decisione, rafforzando il precedente assunto, dichiara il principio che “tra i diritti inviolabili dell’uomo di cui all’art. 2 della Costituzione della Repubblica sia da individuarsi anche il diritto di abbandonare il proprio paese” ([94]).

Inoltre, se in alcune ipotesi all’inclusione di una fattispecie nell’ambito dell’art. 2 Cost. si fa seguire una tutela commisurata a quella propria di altre figure di diritto fondamentale disciplinato dalla Costituzione, come nei casi dell’elettorato passivo, come diritto politico fondamentale ([95]), e della proclamazione della libertà di coscienza, che godrebbe di una “protezione costituzionale” commisurata alla necessità di tutela dei diritti fondamentali cui risulta connessa ([96]); in altre la disciplina costituzionale dei diversi diritti rappresenterebbe – con un singolare rovesciamento dello schema – una integrazione rispetto ai diritti fondamentali fondati sull’art. 2 Cost.; così, ad esempio, le garanzie della libertà della coscienza religiosa e di quella di manifestazione del pensiero, contenute negli art. 19 e 21 Cost. sarebbero assunte come complementari rispetto alla tutela dei diritti inviolabili dell’uomo garantiti dall’art. 2 Cost. ([97]); o anche il diritto sociale dei lavoratori “a che siano preveduti e assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di disoccupazione involontaria”, in relazione all’art. 38, comma 2, Cost., si collegherebbe “alla tutela dei diritti fondamentali della persona sancita dall’art. 2 Cost.” ([98]).

Sulla base di questo indirizzo il giudice costituzionale non ha mancato, poi, di rinvenire nell’art. 2 Cost. diritti più estesi, incidenti su una fattispecie limitatamente regolata dalla Carta, in relazione ad un aspetto peculiare. Infatti, è in questo modo che il giudice delle leggi, integrando la fattispecie disciplinata dall’art. 22 Cost. ([99]), dà il via al riconoscimento del “diritto al nome” “dovendosi ormai ritenere principio consolidato (…) quello per cui il diritto al nome – inteso come primo e più immediato segno distintivo che caratterizza l’identità personale – costituisce uno dei diritti inviolabili protetti” dall’art. 2 Cost. ([100]).

Una sintesi dei diversi comportamenti tenuti dal giudice costituzionale in sede di interpretazione dell’art. 2 può rinvenirsi nel riconoscimento del “diritto all’abitazione” ([101]). In proposito, la Corte, manifestava un primo indirizzo giurisprudenziale ([102]), ritenendo “l’abitazione (…), un bene primario”, ma che “non (poteva) essere considerata come l’indispensabile presupposto dei diritti inviolabili garantiti dall’art. 2 Cost.”; e, successivamente, invece, ha riconosciuto che “il diritto all’abitazione”, previsto dall’art. 25 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (del 1948) e nell’art. 11 del Patto internazionale dei diritti economici, sociali e culturali (del 1966), è un “diritto sociale”, “collocabile fra i diritti inviolabili dell’uomo di cui all’art. 2 Cost.” ([103]).

Peraltro, la Corte costituzionale ha assegnato all’art. 2 Cost. anche un carattere sistematico rispetto all’ordinamento generale, in quanto ha fatto discendere dalle pronunce costituzionali su questa disposizione: in primo luogo, la relazione tra individuo e formazioni sociali ([104]); in secondo luogo, quella tra ordinamento statale, ordinamenti autonomi e speciali, con riferimento al rispetto dei diritti fondamentali ([105]); in terzo luogo, quella tra l’art. 2, sui diritti inviolabili dell’uomo, e l’art. 3 comma 2, che “richiede il superamento delle sperequazioni di situazioni sia economiche che sociali suscettibili di ostacolare il pieno sviluppo delle persone dei cittadini” ([106]); ed infine, quella tra cittadini e stranieri, per la quale l’art. 2 Cost. garantisce i diritti fondamentali anche riguardo allo straniero ([107]).

Non v’è dubbio che la Corte abbia mostrato un orientamento, nell’utilizzo dell’art. 2 come parametro dei giudizi costituzionali, capace di attribuire a questo il carattere di norma di principio autonoma, in grado di ricondurre alla tutela costituzionale “nuovi” diritti fondamentali. Sembra doversi escludere, però, che la Corte, in questo modo, abbia inteso riferire all’art. 2 il significato di fattispecie “aperta”, in quanto più semplicemente può dirsi che essa abbia operato un’interpretazione estensiva delle norme costituzionali sui diritti di libertà. Infatti, anche allorquando è mancato il riferimento a una disposizione puntuale, ha fatto discendere pur sempre i diritti impliciti dall’ordine costituzionale, e, attraverso il richiamo all’art. 2, ha inteso conferire loro il crisma dell’inviolabilità.

 

 

6.         Le tecniche di tutela dei diritti fondamentali nella concreta esperienza costituzionale italiana: l’affermazione del carattere normativo della Costituzione, la “legislazione a rime obbligate” e le sentenze “monito”

 

Certamente la collocazione della Corte costituzionale nella forma di governo e in un contesto statuale sottoposto ad una Costituzione rigida e dotata di un catalogo di diritti costituzionali sia pure aperto dalle potenzialità dell’interpretazione costituzionale, sembra diversa da quella della Corte di giustizia, atteso che questa è stata posta a salvaguardia di un ordinamento sopranazionale, originariamente caratterizzato dall’essere una unione di scopo, che ha dovuto sviluppare un sistema di tutela dei diritti fondamentali, per potere assicurare la prevalenza del proprio ordinamento.

Ciononostante l’esperienza costituzionale italiana appare comparabile con l’ordinamento concreto dei diritti fondamentali nel sistema europeo, proprio in quanto attraverso la loro tutela ha potuto garantirsi lo stesso ordinamento repubblicano e, così come la Corte di giustizia ha seguito l’affermazione e l’evoluzione dell’ordinamento europeo, la Corte costituzionale italiana ha seguito quella dell’ordinamento repubblicano-democratico, anche esprimendo una giurisprudenza condizionata dal particolare momento storico nel quale le sue sentenze venivano pronunciate.

La prima questione che ha toccato la vicenda dei diritti fondamentali in Italia nasceva dalla situazione che la Repubblica, dotatasi di una sua propria e nuova Costituzione si è ritrovata ad ereditare l’ordinamento legislativo del passato. Questa circostanza toccava in modo particolare i diritti fondamentali, in quanto la legislazione precedente, frutto dell’ordinamento statutario e fascista, non era stata orientata al rispetto delle libertà. Inoltre, nel lasso di tempo intercorso tra l’entrata in vigore della Costituzione e l’insediamento della Corte costituzionale, si era affermato, per opera anche della giurisdizione ordinaria, un orientamento che, in relazione alle disposizioni della Carta, distingueva tra “norme precettive” e “norme programmatiche”: le prime sarebbero state in grado di abrogare direttamente la precedente legislazione in contrasto con esse; le seconde invece, essendo intese come un rinvio al legislatore futuro, non avrebbero avuto la capacità di inficiare l’efficacia delle norme legislative contrastanti ([108]). La distinzione tracciata toccava in modo particolare l’ambito dei diritti di libertà e dei diritti costituzionali, in genere, in quanto la tecnica adoperata dal Costituente nella previsione e garanzia di questi era fondata sull’enunciato del diritto in Costituzione, accompagnato dalla previsione di una riserva di legge, per cui di fatto proprio nel campo dei diritti costituzionali, ossia in quello che maggiormente necessitava di innovazioni legislative, si finiva con il conservare la precedente legislazione, anche quando questa poteva non apparire coerente con le proclamazioni dei diritti contenute nella Carta ([109]).

È di tutta evidenza come un simile modo di procedere aveva depotenziato le disposizioni costituzionali e affievolito sensibilmente la garanzia costituzionale dei diritti fondamentali; tanto più che la dottrina costituzionalistica italiana aveva prontamente elaborato una ricca teorica sul contenuto delle prescrizioni costituzionali ([110]) e sulla Costituzione medesima, non solo al fine di affermarne i caratteri propri di questa, come la rigidità e la capacità di invalidare le leggi ordinarie difformi, ma soprattutto per propugnare una puntuale interpretazione di carattere normativo ([111]). Infatti, in contrapposto all’idea del carattere programmatico della Costituzione, che negava il contenuto normativo di questa o lo rinviava alla sola legislazione successiva all’entrata in vigore della Carta, si affermava che “una Costituzione, come qualsiasi altra legge, è anzitutto e sempre un atto normativo e che perciò le sue disposizioni debbono essere intese di regola … come disposizioni normative: enunciati, dunque, vere e proprie norme giuridiche”, con la logica conseguenza che “una Costituzione deve essere intesa ed interpretata, in tutte le sue parti magis ut valeat, perché così vogliono la sua natura e la sua funzione, che sono e non potrebbero non essere … di atto normativo, diretto a disciplinare obbligatoriamente comportamenti pubblici e privati” ([112]).

Se ne poteva dedurre, perciò, che la Costituzione, anche nella sua parte programmatica e lì dove rinviava alla legge, come nel caso dei diritti fondamentali, era immediatamente in grado di svolgere effetti giuridici, il più importante dei quali era quello di rendere invalide le leggi già in vigore, e cioè anteriori alla Costituzione medesima, in contrasto con le disposizioni costituzionali sui diritti, per illegittimità costituzionale sopravvenuta ([113]).

La questione del rapporto tra “leggi vecchie e costituzione nuova” non poteva non proporsi in modo concreto nel momento in cui la Corte costituzionale doveva cominciare la sua opera nell’ordinamento italiano. Infatti, nella sua prima storica decisione il giudice costituzionale, assumendo l’orientamento della dottrina costituzionale, ritenne che la diversità delle norme costituzionali consentiva la coesistenza di due diversi istituti: quello dell’abrogazione e quello della illegittimità costituzionale (successiva), i quali “si muovono su piani diversi, con effetti diversi e con competenze diverse”. Il riconoscimento dell’abrogazione, infatti, sarebbe rimesso a tutti gli operatori giuridici, mentre l’accertamento dell’illegittimità costituzionale sarebbe proprio del giudice costituzionale e se “la nota distinzione fra norme precettive e norme programmatiche può essere … determinante per decidere della abrogazione o non di una legge, … non è decisiva nei giudizi di legittimità costituzionale” ([114]).

Con questa sentenza la Costituzione e, in particolare, le disposizioni sui diritti fondamentali recuperano pienamente il loro valore normativo ([115]). Comincia così una lunga attività del giudice costituzionale, volta ad adeguare la legislazione al rispetto dei diritti costituzionali. In questa attività, peraltro, la Corte, una volta affermata la propria posizione istituzionale, ha operato con saggezza e prudenza, spingendo, per un verso, il legislatore repubblicano, con la sua opera legislativa, alla realizzazione delle riforme costituzionali, e, per l’altro, i giudici comuni ad adoperare, sino alla massima estensione possibile, la tecnica dell’interpretazione adeguatrice alla Costituzione, riservandosi in tal modo il compito di intervenire nei casi di inadempimento del legislatore e in quelli in cui, su sollecitazione dei giudici, la possibilità di interpretazioni adeguatrici delle leggi diventava incompatibile con il loro stesso tenore letterale. In questi casi, infatti, la tutela dei diritti fondamentali e dei precetti costituzionali non poteva realizzarsi senza un espressa sentenza di accoglimento della Corte costituzionale.

Già in una delle sue prime decisioni, dovendo considerare la legittimità costituzionale dell’art. 2 del TULPS del 1931, attributivo al prefetto del potere di adottare, in casi di urgenza e necessità, i provvedimenti necessari per assicurare l’ordine pubblico, che potevano risultare anche limitativi di libertà costituzionali, al di fuori dei casi previsti dalle leggi di disciplina dei singoli diritti, la Corte dichiarava la questione non fondata. Essa, tuttavia, interpretava il potere d’ordinanza del prefetto in modo riduttivo, e cioè ritenendo che la norma denunciata dovesse essere intesa, non già nel significato rivestito nel sistema che le dette vita, bensì in quello acquistato sulla base dell’interpretazione che avrebbe dovuto avere in conformità alla Costituzione, e cioè che i provvedimenti previsti avrebbero avuto il carattere di atti amministrativi adottati dal Prefetto nell’esercizio dei compiti del suo ufficio, strettamente limitati nel tempo, in relazione ai dettami della necessità e dell’urgenza, e vincolati ai principi dell’ordinamento giuridico.

Quanto, poi, alla possibilità che detti atti avrebbero potuto toccare le libertà costituzionali la Corte osservava che “i provvedimenti emanati sulla base dell’art. 2 possono, in ipotesi, toccare tutti i campi nei quali si esercitano i diritti dei cittadini, garantititi dalla Costituzione (libertà di pensiero, di religione, di circolazione, ecc.). Ma il giudicare se l’ordinanza prefettizia leda tali diritti è indagine da farsi di volta in volta dal giudice, ordinario o amministrativo, competente” ([116]).

La pronuncia costituzionale aveva la forma, perciò, di una sentenza di rigetto, sia pure interpretativa, e rinviava la tutela concreta dei diritti costituzionali ai giudici comuni. La Corte, però, sapeva bene che la stessa dizione dell’art. 2 TULPS poteva risultare difficile da restringere nei confini di una interpretazione costituzionalmente conforme e, per questa ragione, da un lato, avvertiva i giudici di merito che, qualora avessero constatato arbitrarie applicazioni della norma, frutto di interpretazioni diverse da quella rilevata dalla Corte stessa, la questione poteva essere riesaminata, non sussistendo alcun effetto preclusivo della pronuncia; dall’altro, auspicava, nell’intento di evitare ogni interpretazione contraria alla Costituzione, che il legislatore provvedesse ad inserire nel testo della disposizione l’espressa enunciazione dei canoni indicati nella sentenza, ai quali i provvedimenti avrebbero dovuto conformarsi, augurandosi, altresì, che, nella nuova formulazione, si enunciasse l’obbligo della motivazione ed anche quello della pubblicazione nel caso in cui il provvedimento non avesse avuto carattere individuale ([117]).

Successivamente, essendo il testo legislativo rimasto inalterato e, in diverse occasioni, avendo emesso i Prefetti provvedimenti che tendevano ad avere carattere di permanenza, parecchi giudici riproponevano la medesima questione di legittimità sul potere di ordinanza del Prefetto, in quanto effettivamente tendevano a menomare l’esercizio dei diritti garantiti dalla Costituzione. La Corte, in questa occasione, sulla base della constatazione delle prassi che si realizzavano nell’applicazione dell’art. 2, cit., ha ribaltato il precedente giudizio e ha riaffermato che “i provvedimenti prefettizi non possono mai essere in contrasto con i … principi [dell’ordinamento giuridico], dovunque tali principi siano espressi o comunque essi risultino, e precisamente non possono essere in contrasto con quei precetti della Costituzione che, rappresentando gli elementi cardinali dell’ordinamento, non consentono alcuna possibilità di deroga nemmeno ad opera della legge ordinaria” ([118]), concludendo “che la omessa prescrizione, nel testo dell’art. 2, del rispetto dei principi dell’ordinamento giuridico renderebbe possibile – ed in realtà ha reso, di recente, possibile – un’applicazione della norma, tale da violare i diritti dei cittadini e da menomare la tutela giurisdizionale” ([119]). Su queste basi, pertanto, è stata ritenuta sussistente l’illegittimità dell’art. 2 nei limiti in cui esso attribuisce ai Prefetti il potere di emettere ordinanze senza il rispetto dei principi dell’ordinamento giuridico.

Con riferimento al significato non solo giuridico, ma anche istituzionale, del compito assolto nell’ordinamento dei diritti di libertà dalla Corte costituzionale, le sentenze sull’art. 2 del TULPS sono sicuramente le più note, ma il giudice costituzionale ha adoperato la tecnica della doppia sentenza (interpretativa di rigetto/interpretativa di accoglimento) tantissime volte e sempre per definire questioni rispetto alle quali, o il legislatore si era mostrato inadempiente, o i giudici aveva richiesto l’intervento risolutore della Corte, non riuscendo con gli strumenti dell’ermeneutica giuridica a sciogliere la questione di costituzionalità.

Accanto a questa forma di salvaguardia dei diritti di libertà, il giudice costituzionale, a seconda della questione prospettata e del modo in cui può raggiungere la salvaguardia dei diritti di libertà, ha adottato anche pronunce che anziché operare sul significato normativo della disposizione hanno posto mano alla stessa statuizione legislativa, modificandola (rectius: manipolandola) in modo da poterne trarre una norma diversa da quella originariamente possibile. Esemplare è in proposito la sentenza sull’interrogatorio reso dall’imputato dinnanzi al giudice istruttore ([120]). La normativa del codice di procedura penale, a tal riguardo, prevedeva che poteva presenziare il pubblico ministero, ma non il difensore dell’imputato, e il giudice a quo, nel rimettere la questione, movendo dal carattere “kelseniano” del giudice costituzionale come legislatore negativo, chiedeva alla Corte di pronunciare l’illegittimità della disposizione che prevedeva la partecipazione del pubblico ministero, in modo da riportare la parità tra le parti nel processo penale. Invece, il giudice costituzionale, superando l’impostazione del legislatore negativo e prendendo in considerazione una disposizione diversa da quella denunciata, al fine di rendere effettivo il diritto di difesa nel processo penale, ha ritenuto di dovere censurare l’assenza del difensore dalla fase processuale considerata. Il ragionamento della Corte si è basato sostanzialmente su due passaggi logici: a) che la denunziata disparità di trattamento fra pubblico ministero e difensore, ove venisse riconosciuta come contrastante con il diritto di difesa, garantito dall’art. 24 della Costituzione, potrebbe essere rimossa sia escludendo il primo dall’assistenza all’interrogatorio (attraverso una pronunzia di parziale illegittimità costituzionale dell’art. 303 c.p.p.) sia ammettendovi il secondo (attraverso una pronunzia di parziale illegittimità costituzionale dell’articolo 304 bis dello stesso codice); b) che la scelta fra l’una e l’altra soluzione non potrebbe dipendere dal modo in cui la questione viene fissata dall’ordinanza di rimessione, ma dovrebbe essere operata tenendo conto sia dei principi generali ai quali risulta ispirata la struttura del processo penale sia delle direttive desumibili dalla norma costituzionale di raffronto.

Su queste basi, la Corte accerta, in primo luogo l’esistenza di una disparità tra imputato e pubblico ministero non giustificata costituzionalmente nel compimento di un atto processuale così importante come l’interrogatario dell’imputato e, atteso che questo deve essere considerato, oltre che come mezzo di prova, anche come mezzo di difesa, ha ritenuto che la parità di contraddittorio, nel quadro della legislazione vigente, debba essere assicurata attraverso la dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale della norma nella parte in cui vieta al difensore di prendere parte all’interrogatorio dell’imputato, in quanto “proprio la rimozione di questo divieto è la soluzione più idonea a realizzare la parità di contraddittorio attraverso una disciplina che, conformemente alle direttive imposte dall’art. 24 della Costituzione, consente un più efficiente esercizio del diritto di difesa” ([121]).

Le decisioni manipolative che la Corte ha adottato, soprattutto in occasioni in cui venivano in discussione la tutela dei diritti costituzionali, sono state considerate dalla dottrina italiana ampiamente giustificate dal punto di vista del merito costituzionale, ma hanno suscitato non poche obiezioni di carattere istituzionale. Infatti, a questa giurisprudenza, che risponderebbe essenzialmente a ragioni pratiche di realizzazione del dettato costituzionale, è stato riconosciuto un carattere paralegislativo e costituirebbe il segno evidente del ruolo di supplenza svolto dalla Corte nei confronti del Parlamento. Di qui la critica che queste pronunce avrebbero rappresentato una invasione della discrezionalità del legislatore e una violazione del precetto dell’art. 28 della legge n. 87 del 1953, per il quale “il controllo di legittimità della Corte costituzionale su una legge o un atto avente forza di legge esclude ogni valutazione di natura politica e ogni sindacato sull’uso del potere discrezionale del Parlamento”.

A tal riguardo, è stato giustamente replicato che “non è esatto che la Corte … finisca per esercitare una funzione legislativa, che non le spetta, sostituendosi agli organi a questa costituzionalmente preposti”. Infatti, “la Corte non crea, essa, liberamente (come farebbe il legislatore) la norma, ma si limita a individuare quella – già implicata nel sistema, e magari addirittura ricavabile dalle stesse disposizioni costituzionali di cui ha fatto applicazione – mediante la quale riempire immediatamente la lacuna che altrimenti resterebbe aperta nella disciplina della materia, così conferendo alla pronuncia adottata capacità autoapplicativa. Una legislazione, se proprio così vuol dirsi (ma descrittivamente) ‘a rime obbligate’ ” ([122]).

Invero, la Corte nella sua giurisprudenza ha curato la realizzazione dei diritti costituzionali senza togliere terreno al Parlamento, che è sempre rimasto in grado di intervenire dopo le pronunce del giudice costituzionale; anzi in molte occasioni la stessa Corte, nelle pronunce di accoglimento, ha specificato principi e regole derivati dalle norme costituzionali e immediatamente applicabili, ma al contempo rivolgendole, come “monito”, anche al legislatore, affinché intervenisse a riordinare la materia nella direzione indicata.

Emblematica è, al riguardo, una sentenza in materia di monopolio televisivo pubblico, con la quale la Corte, oltre a giustificare, in ragione dell’allora limitatezza delle frequenze radiotelevisive utilizzabili, l’istituzione del monopolio pubblico, rilevava che “la sottrazione del mezzo radiotelevisivo” può ritenersi legittima, e cioè compatibile con l’art. 21 Cost., “solo se si assicuri che il suo esercizio sia preordinato a due fondamentali obbiettivi: a trasmissioni che rispondano alla esigenza di offrire al pubblico una gamma di servizi caratterizzata da obbiettività e completezza di informazione, da ampia apertura a tutte le correnti culturali, da imparziale rappresentazione delle idee che si esprimono nella società; a favorire, a rendere effettivo ed a garantire il diritto di accesso nella misura massima consentita dai mezzi tecnici” ([123]).

Su queste basi la Corte avvertiva che, salva “la discrezionalità del legislatore di scegliere gli strumenti più appropriati ad assicurare il conseguimento dei due fondamentali obbiettivi di cui innanzi si è discorso”, la legge debba almeno prevedere determinate caratteristiche e traccia così un catalogo di ben sette principi da applicare direttamente nella gestione del servizio radiotelevisivo pubblico ([124]) e dichiarava l’illegittimità della “legislazione vigente, nella quale … nulla si (rinveniva) che (potesse) corrispondere a quel minimo di regolamentazione a cui innanzi si (era) fatto cenno” ([125]).

 

 

7.         Segue: lo Stato sociale e i diritti fondamentali, dalla legittimità costituzionale provvisoria alle sentenze additive di principio

 

L’affermazione dell’ordinamento repubblicano ha posto questioni particolari in relazione al carattere programmatico di molte disposizioni costituzionali, anche in tema di diritti fondamentali, come nel caso dei diritti sociali ([126]). Il destinatario di queste disposizioni è il legislatore per il quale la Costituzione, oltre che un limite da rispettare, è un programma da attuare. Ma la realizzazione dei diritti sociali è qualitativamente diversa dai diritti di libertà: se per questi ultimi è sufficiente il rispetto da parte della legislazione dei limiti costituzionali, per i primi occorre che la legislazione sia costruita in modo da disporre l’organizzazione e le risorse per la realizzazione delle prestazioni in cui il diritto sociale medesimo consiste ([127]).

Nella sentenza n. 455 del 1990 ([128]), con riferimento al diritto a ricevere prestazioni sanitarie, la Corte osserva che “quest’ultima dimensione del diritto alla salute … comporta che, al pari di ogni diritto a prestazioni positive, il diritto a ottenere trattamenti sanitari, essendo basato su norme costituzionali di carattere programmatico impositive di un determinato fine da raggiungere, è garantito ad ogni persona come un diritto costituzionale condizionato dall’attuazione che il legislatore ordinario ne dà …, tenuto conto dei limiti oggettivi che lo stesso legislatore incontra nella sua opera di attuazione in relazione alle risorse organizzative e finanziarie di cui dispone al momento” ([129]). Il giudice costituzionale ritiene che questo principio, comune ad ogni altro diritto costituzionale a prestazioni positive, “non implica certo una degradazione della tutela primaria assicurata dalla Costituzione a una puramente legislativa, ma comporta che l’attuazione della tutela, costituzionalmente obbligatoria, di un determinato bene (la salute) avvenga gradualmente … e con la possibilità reale e obiettiva di disporre delle risorse necessarie per la medesima attuazione” ([130]).

La questione come è facile immaginare è collegata alla realizzazione dello Stato sociale, che richiede l’impegno delle finanze pubbliche e articolate politiche territoriali ed economiche ([131]).

La tutela dei diritti costituzionali in questo contesto tende a diventare più complessa e la dottrina ha parlato, a tal riguardo, di diritti costituzionali condizionati ([132]), dal momento che l’opera del legislatore (e dell’amministrazione) non appare sostituibile dalla pronuncia del giudice costituzionale e, per di più, la loro proclamazione importa oneri alla finanza pubblica, in quanto il loro effettivo godimento ha per conseguenza nuove spese a carico del bilancio dello Stato.

Questo spiega come mai il giudice costituzionale abbia qui esercitato il proprio magistero con una particolare prudenza, nascente dalla consapevolezza che il processo costituzionale non è costruito in modo da potere sanzionare le omissioni del legislatore. Ma sicuramente, accanto a questa problematica dovuta alla tecnica del processo costituzionale, si colloca anche l’esigenza di tenere conto delle difficoltà concrete, di ordine finanziario, in cui l’affermazione del principio dello Stato sociale metteva la Repubblica ([133]).

Così, se di fronte a lesioni dei diritti costituzionali, per via di omissioni del legislatore, la Corte tenta di individuare alcuni criteri in base ai quali può svolgersi il controllo di costituzionalità delle leggi, come il principio di gradualità delle riforme legislative ([134]); e se in alcune circostanze adopera ancora sentenze manipolative, come nel caso dell’inserimento nelle scuole secondarie dei portatori di handicap ([135]), con la crisi dello Stato sociale e della finanza pubblica, tende a fare degradare la tutela costituzionale dei diritti fondamentali e a farne le spese sono tanto i diritti sociali, quanto e soprattutto i diritti economici ([136]).

In situazioni di crisi finanziaria e di fronte a crescenti difficoltà sociali che il legislatore non riesce a fronteggiare, la Corte accetta normative nelle quali essa stessa intravede dei limiti di legittimità costituzionale, giustificandoli sulla base della circostanza che, essendo dovute a situazioni straordinarie e di carattere temporaneo, la compressione dei diritti non sarebbe tale da pregiudicare in modo definitivo le situazioni soggettive. La dottrina italiana ha coniato per questa giurisprudenza l’espressione “legittimità costituzionale provvisoria” ([137]). In molte di queste sentenze sono contenuti comunque degli “avvertimenti” al legislatore, non solo ad adoperare con estrema cautela discipline che comprimono i diritti costituzionali, ma anche a rimuoverli non appena cessate le ragioni straordinarie che ne determinano l’adozione, pena la possibilità di una diversa pronuncia da parte del giudice costituzionale ([138]).

Un caso singolare è offerto dalla giurisprudenza costituzionale sul c.d. “tetto pensionistico”. La Corte, chiamata in causa, allorché, in sede di legge finanziaria, venne prevista tra le misure di contenimento l’istituto in discorso, al fine di giustificare la legislazione sospettata di illegittimità costituzionale ha affermato che “le discipline più restrittive sono durate solo alcuni anni, sicché, anche per questo carattere contingente e temporaneo, si è portati ad escludere la fondatezza delle censure” ([139]).

Un ulteriore settore in cui ha trovato posto la legittimità costituzionale provvisoria concerne la legislazione di proroga dei contratti di locazione: in una decisione del 1976 ([140]) la Corte osservava “che l’eventuale alterazione dell’equilibrio (il quale deve pure sussistere) tra interessi dei conduttori ed interessi dei proprietari locatori non viene in rilievo (e la Corte si esime dall’esaminarla), in ragione dei riconosciuti caratteri di straordinarietà e temporaneità della disciplina, che giustificano un intervento per fini sociali in favore delle classi meno abbienti, realizzato senza una definitiva ed irreversibile compressione delle facoltà di godimento del proprietario” ([141]).

Infine, viene nuovamente in rilievo una decisione sul settore radiotelevisivo, in cui il giudizio su una legislazione che di fatto permette, per l’assenza di disciplina normativa specifica, la trasmissione su scala nazionale delle emittenti private, senza le garanzie atte ad assicurare il pluralismo dell’informazione (art. 21 Cost.) e la trasparenza dell’attività d’impresa (art. 41 Cost.), e cioè non in grado di impedire il realizzarsi di concentrazioni monopolistiche od oligopolistiche private, viene risolto tenendo conto che l’“intervento legislativo ha natura chiaramente provvisoria, perché nella sua complessiva impostazione appare proiettato verso la futura riforma del sistema radiotelevisivo” e la legge sarebbe “intesa a dettare una disciplina solo parziale e limitata nel tempo, destinata in tempi brevi … ad essere sostituita dalla legge di riassetto dell’intero settore”, per cui “si può allora ammettere che una legge siffatta possa nella sua provvisorietà trovare una base giustificativa” ([142]).

Questa giurisprudenza costituzionale ha avuto numerose repliche, nel senso che a più riprese nei settori e, persino, sulle medesime disposizioni si sono ripetute pronunce costituzionali, le quali, ancorché ricche di indicazioni e moniti, hanno rigettato la questione di costituzionalità, se non addirittura dichiarata la stessa inammissibile. Tuttavia, non appena la questione finanziaria ha allentato la sua morsa, il self restraint della Corte ha trovato una pausa e, constatato il ricorrente inadempimento del legislatore a regolare in modo costituzionalmente conforme le pretese individuali, si fa strada una nuova modalità per assicurare anche ai diritti sociali e a quelli economici una più adeguata tutela. La chiave di volta è data da un peculiare tipo di decisioni che prende il nome di “sentenze additive di principio” ([143]).

Si tratta di decisioni attraverso le quali la Corte pronuncia l’illegittimità di omissioni legislative, indicando quale è l’elemento che manca nella disposizione censurata, ma senza aggiungere alcun frammento testuale, come nelle sentenze manipolative classiche, poiché si limitano ad indicare il canone che deve essere rispettato dalla legislazione per potersi considerare conforme alla Costituzione.

In questa maniera, è sembrato che la Corte abbia richiesto, in modo stringente, l’intervento del legislatore, producendo una lacuna ancora più ampia rispetto al suo stesso inadempimento, non determinando però per l’interessato un reale vantaggio. Di qui la circostanza che, al primo impatto di queste sentenze che si concludevano con il rinvio alla discrezionalità del legislatore per determinare la norma di adeguamento, gli stessi giudici di merito non sapessero esattamente come definire le pretese sottoposte al loro esame e sollevassero nuovamente la questione e la Corte aggiungeva che “la dichiarazione di illegittimità costituzionale di un’omissione legislativa (…) mentre lascia al legislatore, riconoscendone l’innegabile competenza, di introdurre e di disciplinare, anche retroattivamente tale meccanismo in via di normazione astratta, somministra essa stessa un principio cui il giudice comune è abilitato a fare riferimento per porre frattanto rimedio all’omissione in via di individuazione della regola del caso concreto” ([144]).

Nelle sue successive pronunce costituzionali l’invito ai giudici a provvedere sul principio enunciato nella decisione costituzionale si trova congiunto nella medesima sentenza con la quale viene censurata la disposizione illegittima per omissione di un determinato principio (rectius: canone) costituzionalmente necessario ([145]) e come è stato successivamente affermato, “con esse si dichiara l’illegittimità costituzionale della mancata previsione di un meccanismo idoneo a rendere effettivi i diritti (…) lasciando però al legislatore il potere di individuare tale meccanismo in via astratta ed abilitando il giudice comune a reperire le regole del caso concreto nel principio espresso dalla Corte” ([146]).

Peraltro, se è vero che “il terreno proprio di questo tipo di decisioni è il campo dei diritti sociali” ([147]), in particolare di quelli previdenziali ([148]), altrettanto vero è che la Corte si è pronunciata con le sentenze additive di principio anche per i diritti economici ([149]) e persino nel campo dei diritti civili e di libertà ([150]).

 

 

8.         Segue: i diritti di fronte all’emergenza dell’ordine democratico

 

Prima di considerare le ulteriori tecniche di tutela dei diritti fondamentali che l’ordinamento italiano ha sperimentato, particolarmente attraverso le pronunce del giudice costituzionale, appare necessario prendere in considerazione, sia pure brevemente, la vicenda dei diritti di fronte alla prova del terrorismo. L’Italia è uno dei paesi che in Europa, sino ai più recenti accadimenti, ha sperimentato il peso di un terrorismo, peraltro, di matrice interna ed ideologica, feroce e simbolico. La situazione di emergenza che questo fenomeno ha generato, toccava direttamente i diritti costituzionali, dando vita, sotto la spinta della legislazione speciale, a una compressione delle garanzie che il corpo sociale ha sopportato sotto l’egida della paura di una minaccia oscura.

Il terrorismo genera emergenza e l’emergenza crea uno stato di tensione tra la sicurezza e le garanzie apprestate dalla Costituzione a salvaguardia della dignità umana, le quali devono risultare efficaci proprio nel momento in cui la forza dello Stato si esercita nei confronti del singolo individuo. Nella Costituzione italiana, peraltro, mancano disposizioni idonee che disciplinino lo stato d’emergenza e i diritti costituzionali non conoscono – salvo ipotesi particolari (come nella libertà di riunione (art. 17 Cost.) – la possibilità di una maggiore limitazione per particolari ragioni di sicurezza.

Per queste ragioni, nacquero anche molte perplessità, allorquando il legislatore iniziò a disciplinare l’emergenza dell’ordine democratico, con disposizioni che ampliavano i poteri di polizia e la discrezionalità giudiziaria; e furono toccati istituti come la carcerazione preventiva e la libertà provvisoria, l’acquisizione di prove con perquisizioni e intercettazioni e la stessa valutazione della pena nel processo penale, nonché la portata e il significato dei principi costituzionali di non colpevolezza e di irretroattività della legge penale ([151]).

La Corte fu investita, a più riprese, del compito di provare la compatibilità costituzionale delle “misure urgenti” poste a salvaguardia “dell’ordine democratico e della sicurezza pubblica” ([152]).

Nella decisione più significativa, da questo punto di vista, la sentenza n. 15 del 1982, benché il giudice costituzionale avvertisse che le questioni poste suscitavano “immediato e profondo turbamento”, le dichiarava non fondate, in quanto le disposizioni denunciate andavano rapportate ragionevolmente alla causa occasionale “esplicitamente indicata dallo stesso legislatore nella necessità di tutelare l’ordine democratico e la sicurezza pubblica contro il terrorismo e l’eversione”, per cui, non potendosi dubitare dell’esistenza e consistenza, della peculiarità e gravità del fenomeno che si intende combattere ([153]), “di fronte ad una situazione d’emergenza, quale risulta quella in argomento …, Parlamento e Governo hanno non solo il diritto e potere, ma anche il preciso ed indeclinabile dovere di provvedere, adottando una apposita legislazione d’emergenza” ([154]).

Anche in quella occasione, però, la Corte ha considerato che “se si deve ammettere che un ordinamento, nel quale il terrorismo semina morte – anche mediante lo spietato assassinio di ‘ostaggi’ innocenti – e distruzioni, determinando insicurezza …, versa in uno stato di emergenza, si deve, tuttavia, convenire che l’emergenza, nella sua accezione più propria, è una condizione certamente anomala e grave, ma anche essenzialmente temporanea”; con la conseguenza che, pur permettendo l’emergenza di “misure insolite”, “queste perdono legittimità, se ingiustificatamente protratte nel tempo” ([155]).

La straordinarietà della situazione, da un lato, e la previsione di temporaneità della legislazione d’emergenza, dall’altro, sono state gli strumenti con cui sul piano costituzionale è stato affrontato anche il terrorismo, e la Corte ha inserito, in questo contesto, una chiara sollecitazione al legislatore a ristrutturare in modo adeguato l’azione concreta dello Stato ([156]).

 

 

9.         Segue: i diritti e il principio d’eguaglianza, la legge tra coerenza e ragionevolezza

 

I continui rinvii al legislatore con cui il giudice costituzionale nelle sue decisioni prevede che siano attuate le disposizioni sulle libertà costituzionali o la rimessione a questo di decisioni necessarie per realizzare il contenuto delle prescrizioni sui diritti, soprattutto allorquando possano avere soluzioni diverse, hanno dato vita ad una dialettica tra Corte e Parlamento al cui centro si situa la discrezionalità legislativa e l’esercizio della relativa funzione.

È stato già ricordato come il giudizio di legittimità del giudice costituzionale, sulle leggi precluda, per disposto positivo, un sindacato “sull’uso del potere discrezionale del Parlamento” (art. 28 Legge n. 87 del 1953) e una dottrina autorevole, ancor prima che la Corte costituzionale iniziasse a svolgere la propria azione nell’ordinamento italiano, aveva persino escluso che il giudice costituzionale potesse operare, nel caso delle leggi, quel particolare riscontro della legittimità che va sotto il nome di “eccesso di potere”, in quanto, in primo luogo, il sindacato della Corte, previsto dalla Costituzione, dovrebbe essere esercitato sull’atto o sulla norma, ma non sull’attività del legislatore e, inoltre, nel caso della legge, come “manifestazione obiettiva e impersonale di volontà”, non potrebbero avere rilievo “i motivi subiettivi, transeunti, puntuali, della emissione dell’atto” ([157]).

Questo orientamento è stato disatteso dalla giurisprudenza costituzionale, nel momento in cui si è ritenuto insito nel riscontro di legittimità delle leggi il compito di “identificare di volta in volta il fine della disciplina legislativa, per valutarne il non contrasto con il fine costituzionale” ([158]).

Il giudizio sui risultati dell’azione del legislatore, e cioè sui fini della legge, è nato essenzialmente (se non esclusivamente) dalle questioni che i giudici di merito hanno sollevato in relazione alle disposizioni sui diritti fondamentali. Infatti, questi, anche per ragioni argomentative, hanno visto nelle disposizioni legislative limitative dei diritti una condizione di disparità di trattamento dei soggetti a queste sottoposti, rispetto a quanti, non sottoposti alla specifica disposizione denunciata, avrebbero potuto godere del diritto o della libertà costituzionalmente tutelata. Ne è nata una tecnica di rinvio dei giudici a quibus che hanno invocato, insieme alla specifica disposizione sui diritti, anche la violazione del principio d’eguaglianza, di cui all’art. 3, comma 1, Cost., la quale ha comportato, da parte del giudice costituzionale, un riscontro delle giustificazioni dei trattamenti differenziati effettuati dalla legge in termini di ragionevolezza, anche con l’ausilio di massime di esperienza, di dati della realtà economico-sociale e di conoscenze di ordine extragiuridico ([159]).

In questo modo la Corte costituzionale, attraverso il principio d’eguaglianza, verificando che la legge disponga un trattamento pari, per posizioni eguali, e differenziato per situazioni diverse, ha tratto dalla Costituzione un “canone di coerenza dell’ordinamento giuridico” ([160]), incentrato sulla clausola generale della ragionevolezza, grazie al quale ha progressivamente esteso il proprio giudizio sull’azione del legislatore, in termini di logicità interna della normativa, razionalità delle deroghe apportate, giustificazione delle differenze di trattamento, ecc. ([161]).

Le sentenze sull’art. 3 Cost. e sulla ragionevolezza rappresentano, così, ormai la parte più consistente della giurisprudenza costituzionale; la quantità di decisioni, in proposito, è tale che gli aspetti concernenti i singoli diritti costituzionali possono essere costruiti con un certo grado di generalità e sarebbe, perciò, possibile effettuare una rassegna delle decisioni della Corte in relazione per ognuno di essi, ad esempio: l’eguaglianza in tema di lavoro (artt. 4 e 35 Cost.), di libertà personale (art. 13 Cost.), di difesa giudiziale (art. 24), di diritti sociali (art. 38), di proprietà (art. 42), di organizzazione dei pubblici uffici (art. 97), e così via per ogni diritto contemplato nella Carta costituzionale ([162]).

Quello che occorre evidenziare, ai fini di questa ricostruzione, è che il controllo di ragionevolezza delle disposizioni legislative, in relazione ai diritti costituzionalmente garantiti, ha conosciuto – proprio per la sua estensione – una molteplicità di schemi nella giurisprudenza costituzionale della quale se ne possono qui, in modo esemplificativo, richiamare due principali: quello che può definirsi “onere di coerenza” della legislazione, che sarebbe evidenziato da un procedimento comparativo, con “un controllo volto a stabilire se tra le varie manifestazioni normative nella stessa materia (tertia comparationis) e quella denunziata esista una congruità dispositiva o, invece, vi siano contraddizioni insanabili” ([163]); e quello relativo alla ragionevolezza, o all’arbitrarietà della legge, in cui questa dipenderebbe essenzialmente da un giudizio sulla ratio delle disposizioni che “prescinde da raffronti con termini di paragone (i quali, al più, assumono solo un valore sintomatico), per esaminare la rispondenza degli interessi tutelati dalla legge ai valori ricavabili dalla tavola costituzionale o al bilanciamento tra gli stessi, inferendo una contrarietà a Costituzione solo quando non sia possibile ricondurre la disciplina ad alcuna esigenza protetta in via primaria o vi sia una evidente sproporzione tra i mezzi approntati ed il fine asseritamente perseguito” ([164]) ([165]).

Al primo genere si può ascrivere la sentenza n. 254 del 1994 ([166]), con la quale la Corte ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 60, secondo comma, della legge 24 novembre 1981, n. 689, nella parte in cui escludeva la possibilità di applicare pene sostitutive per i reati previsti dagli artt. 21 e 22 della legge 10 maggio 1976, n. 319, a tutela delle acque dall’inquinamento. La Corte è giunta a questa decisione dopo avere messo a confronto la disciplina denunciata con le altre normative del settore e avere riscontrato che si dava vita “ad un sistema assolutamente squilibrato, restando assoggettate al trattamento preclusivo soltanto le previsioni espressamente indicate dalla norma denunciata” ([167]).

Al secondo schema, che ricostruisce il giudizio come esame della ragionevolezza della legge, risponderebbe la sentenza n. 78 del 1994 ([168]), che ha riguardato l’art. 39 del d.P.R. 11 luglio 1980, n. 382 che prevede un assegno aggiuntivo non pensionabile per i professori universitari a tempo pieno. La questione era stata sollevata con riferimento agli artt. 3 e 38 Cost. e la disparità denunciata dal giudice a quo farebbe riferimento alla previsione per altri pubblici dipendenti, nella specie il personale sanitario, che godono di assegni aggiuntivi pensionabili ([169]).

La pronunzia, che respinge la richiesta estensione, ritiene che l’esclusione dalla pensionabilità dell’assegno aggiuntivo non sia “manifestamente incongrua o irragionevole”, alla luce dell’evoluzione storica della legislazione del settore, che dimostrerebbe come il legislatore non abbia agito arbitrariamente, e della considerazione che “l’art. 38 della Costituzione non garantisce … una integrale corrispondenza tra retribuzione e pensione”, per cui non sussisterebbe il vulnus della norma costituzionale ([170]).

Occorre sottolineare che la distinzione tra giudizio per disparità, in cui prevale l’esigenza paritaria, e giudizio per ragionevolezza, incentrata sulla sistematica della legge, non è sempre agevole, e la stessa Corte costituzionale ha mostrato di non sapere sempre distinguere bene le due ipotesi di riscontro che spesso tendono a sovrapporsi e a confondersi ([171]); a ciò si aggiunga che, a prescindere dalla distinzione dei diversi livelli di discrezionalità del legislatore, nel valutare la coerenza e la ragionevolezza, entrambi questi criteri si possono risolvere in un riesame assai penetrante dell’attività legislativa, per cui sono state paventate possibili sovrapposizioni di scelte operate dai giudici costituzionali a scelte compiute dal Parlamento, rispetto alle quali l’unica eventuale limitazione sarebbe data dalla “virtus del Collegio” o, se si preferisce, dal “suo self restraint” nel “modulare il giudizio d’eguaglianza” ([172]).

In ogni caso, la compatibilità con il giudizio di legittimità di una così penetrante, pervasiva e non strettamente determinata valutazione della coerenza e della ragionevolezza, tale da rasentare il confine della discrezionalità legislativa, è stata comunque ritenuta sussistente, in quanto appare strettamente funzionale a chiarire la portata stessa dei diritti costituzionali ([173]), per cui non vi sarebbe una sovrapposizione di scelte (politiche) della Corte, rispetto a quelle operate dal legislatore ([174]), ma semplicemente un controllo su “quel minimum di razionalità necessaria a dare fondamento a tali scelte, mancando le quali esse appaiono vere e proprie discriminazioni” ([175]).

 

 

10.      Segue: il bilanciamento dei diritti

 

Direttamente derivata dal criterio di ragionevolezza è anche la tecnica del c.d. “bilanciamento dei diritti”, che si determinerebbe allorquando vengono in collisione due pretese costituzionalmente fondate che tendono a realizzarsi una a discapito dell’altra; di qui – secondo un linguaggio più descrittivo, che prescrittivo – la necessità di “bilanciare”. La differenza rispetto al giudizio di ragionevolezza risiederebbe nella circostanza che la valutazione, con il bilanciamento, non sarebbe effettuata sulla base del parametro dell’eguaglianza dell’art. 3 Cost., ma verrebbero direttamente in considerazione le disposizioni sui diritti costituzionali, ognuna delle quali potrebbe assumere il carattere di principio di comparazione ([176]).

È bene fare subito due avvertenze sulla tecnica di bilanciamento elaborata in Italia: a) questa è diversa dal balancing test della Corte suprema statunitense e dal bilanciamento di cui parla il Bundesverfassungsgericht, non fosse altro, perché diverse sono le Costituzioni di riferimento e i sistemi che ne discendono ([177]); b) nel nostro paese l’elaborazione sul bilanciamento è trascesa dall’ambito scientifico e ha assunto, dal punto di vista del diritto costituzionale, un carattere ideologico, in quanto, anziché essere considerato – come dovrebbe essere – uno degli strumenti forgiati per assumere decisioni concrete, limitato a determinati casi concreti che presentano caratteristiche particolari e da valutare, perciò, sempre in modo critico ([178]), è stato considerato la via principale per affermare una particolare concezione della Costituzione e un singolare metodo di interpretazione di questa, collegato alla c.d. “teoria dei valori” ([179]).

Ne è nato una sorta di movimento ([180]), volto a propugnarne l’accoglimento, che ha avuto una certa presa sulla stessa giurisprudenza della Corte costituzionale, la quale ha finito, in parte, col modificare il suo stesso linguaggio ([181]), adoperando il lessico dei valori e chiamando “bilanciamento” anche operazioni ermeneutiche di natura sillogistica ([182]).

In proposito, peraltro, parte della dottrina ha ipotizzato “diversi modi di relazione e di valutazione-comparazione, che presupporrebbero la conservazione di quello che può considerarsi il nucleo duro, il Wesensgehalt, delle disposizioni costituzionali da cui si ricava ciascun principio supremo e che spetta, in definitiva, alla giurisprudenza costituzionale di enucleare”; si osserva, infatti, che “le norme ricavabili dai principi presuppongono la elaborata opera di individuazione e ricostruzione (bilanciamento) dei medesimi intesi come valori” e che “è in definitiva alla Corte costituzionale che spetta quella scelta fondamentale che consente di graduare i valori costituzionali positivi e di enucleare quelli supremi costruendo il sistema dei valori costituzionali non a priori o in astratto, ma con riferimento alle particolari fattispecie legislative che sono sottoposte al controllo di costituzionalità” ([183]).

Ora, è di tutta evidenza che con la regressione dalle norme sui diritti della Costituzione (sotto forma di principi), ai valori si fa un percorso perfettamente opposto a quello compiuto dall’ordinamento attraverso la Verrechtlichung, per cui sembra da condividere l’osservazione di chi rileva che “quando si afferma che la libertà, la democrazia e l’uguaglianza sono valori costituzionali ci si ferma alla soglia della prescrittività” e che “per varcare tale soglia, è necessario riferirsi alle norme ed ai principi costituzionali che conferiscono ai valori predetti rilevanza giuridica, calandoli in fattispecie al cui verificarsi collegano determinate conseguenze giuridiche” ([184]), giacché, “se si crede nell’importanza che la scrittura della Costituzione e degli altri testi normativi riveste in un sistema che, come quello italiano, è un sistema a ‘diritto scritto’ (...) non si potrà non convenire che i valori non hanno altra rilevanza per il giurista che quella che ad essi si può assegnare sulla base delle norme del diritto” ([185]).

Ma, a prescindere da questa osservazione, dovrebbe essere facilmente comprensibile come la nozione di bilanciamento non possa essere dilatata, bensì, al contrario, contenuta entro ambiti molto stretti. In senso lato, infatti, si potrebbe parlare di “bilanciamento” per ogni controversia, in quanto, contrapponendosi ad una pretesa una resistenza, l’intervento del giudice bilancia e definisce le aspettative processuali delle parti ([186]), e ciò può dirsi che accada anche nel processo costituzionale con le questioni di costituzionalità attinenti ai diritti. Però, la nozione, così intesa, non avrebbe un significato, ai fini della comprensione dell’operazione che compie il giudice costituzionale quando effettua realmente il bilanciamento.

Di conseguenza, non si ha bilanciamento ogni qual volta le pretese in conflitto, riconducibili, ovviamente, a disposizioni costituzionali, possono trovare una graduazione, in quanto è la Costituzione medesima che prevede una configurazione particolare del particolare diritto. Infatti, l’applicazione dei diritti, secondo i limiti opponibili in base alla Costituzione non importano un bilanciamento, e ciò vale anche quando detti limiti sono rimessi all’apprezzamento del giudice o dell’amministrazione e consistono in vere e proprie clausole generali, come il “buon costume” o l’“utilità sociale” ([187]).

Neppure può invocarsi il bilanciamento, quando la collisione tra pretese che possono essere ordinate secondo il criterio della specialità, grazie al quale la fattispecie è ricondotta sotto l’egida di una norma della Carta, piuttosto che di un’altra ([188]).

Lo stesso dicasi per quei casi in cui, pur potendosi addivenire ad una soluzione attraverso l’interpretazione sistematica, che viene anche espressa, la decisione della Corte adotta una soluzione diversa del conflitto, in ragione del carattere temporaneo o straordinario della legislazione. Infatti, in ipotesi del genere, non c’è un bilanciamento di diritti o interessi, ma semplicemente una valutazione concreta, se si vuole, di opportunità, dalla quale risulta evidente solo la necessità di sospendere l’applicazione di una norma della Costituzione ([189]).

Infine, non si ricorre al bilanciamento tutte le volte in cui esista una legislazione ordinaria che regola oggetti riconducibili alle previsioni delle norme costituzionali e adotti una disciplina che contemperi l’esercizio di diritti e pretese eventualmente in collisione. Infatti, in questi casi, in cui il legislatore ha, secondo la sua funzione, previsto il conflitto tra le diverse pretese, il giudizio della Corte avrà ad oggetto il bilanciamento effettuato dal legislatore e il suo riscontro si effettua in termini di costituzionalità della legge, potendosi sospingere sino a valutarne la ragionevolezza, ma non potrà dirsi che sia un giudizio di bilanciamento, neppure allorquando la Corte capovolga il dato legislativo ([190]), lo estenda ([191]) o lo deroghi ([192]), con la creazione di una norma (di legge) non prevista dal legislatore, ma costituzionalmente necessaria.

Per aversi bilanciamento dei diritti costituzionali, nel senso che sembra più proprio, occorre che il giudizio sia effettivamente su pretese costituzionali assolute, cioè costituzionalmente non altrimenti organizzabili in modo gerarchico ([193]), e non risolte in via normativa dal legislatore, o rispetto alle quali la disciplina legislativa vigente non gioca un ruolo in relazione alla fattispecie concreta ([194]).

In questa ipotesi, le tensioni derivate dal contesto sociale, rispetto alle quali non si tratta più di adeguare le leggi alla Costituzione, o di verificare l’attività di attuazione del legislatore ordinario, si riflettono direttamente sulla Costituzione che – nonostante l’aporia descritta – diventa la legge ultima da applicare per risolvere la controversia. La tutela dei diritti costituzionali, però, tende a diventare più sfuggente e a vivere forme di tensioni inedite, in quanto sono in discussione pretese che si condizionano socialmente e/o con riferimento alle relazioni intersubiettive e che non hanno trovato nella legge una disciplina corrispondente.

Una caso emblematico, non il solo ([195]) di questo tipo, in cui con chiarezza risulta che è stato effettuato un bilanciamento, per via della collisione di diritti costituzionali, senza che peraltro la Corte abbia adoperato il linguaggio à la page della giurisprudenza dei valori, è dato nella sentenza n. 27 del 1975, relativa alla fattispecie dell’aborto di donna consenziente, prevista dall’art. 546 c.p. ([196]). Questa disposizione era inserita nel titolo del Codice penale relativo ai “Delitti contro la integrità e la sanità della stirpe” e nella “Relazione al Re”, che accompagnava il codice, si specificava che il bene protetto dalla disposizione in parola era “l’interesse demografico dello Stato”. Esulava, cioè, dalla legge penale la configurazione, che invece era presente nel codice Zanardelli, dell’aborto come “delitto contro la persona” ([197]).

La Corte ritiene, dal punto di vista costituzionale, del tutto insufficiente la qualificazione della fattispecie fornita dal codice, per il quale né il concepito, né la donna avrebbero rilievo autonomo. Non si trattava, perciò, di verificare alcuna ragionevolezza della norma legislativa, anzi l’articolo del codice penale non poteva essere affatto il punto di riferimento del ragionamento della Corte, nel momento in cui si sosteneva che “la tutela del concepito avrebbe fondamento costituzionale”, in quanto “l’art. 31, secondo comma, della Costituzione impone espressamente la ‘protezione della maternità e, più in generale, l’art. 2 Cost. riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, fra i quali non può non collocarsi, sia pure con le particolari caratteristiche sue proprie, la situazione giuridica del concepito”.

Questa premessa di per sé giustificherebbe la previsione di sanzioni penali da parte del legislatore, ovviamente con fondamenti diversi da quelli fatti propri dal codice Rocco, ma questa previsione legislativa non potrebbe considerarsi esaustiva della problematica dell’aborto, in quanto “l’interesse costituzionalmente protetto relativo al concepito può venire in collisione con altri beni che godano pur essi di tutela costituzionale”, per cui non si potrebbe “dare al primo una prevalenza totale ed assoluta, negando ai secondi adeguata protezione”.

Per questa ragione sussisterebbe il vizio di legittimità costituzionale, che inficerebbe comunque la disciplina penale dell’aborto. Infatti, movendo dalla considerazione che “la condizione della donna gestante è del tutto particolare”, la Corte perviene alla conclusione che questa non troverebbe adeguata tutela in una norma di carattere generale come l’art. 54 c.p., relativa allo stato di necessità, “che esige non soltanto la gravità e l’assoluta inevitabilità del danno o del pericolo, ma anche la sua attualità, mentre il danno o pericolo conseguente al protrarsi di una gravidanza può essere previsto, ma non è sempre immediato”.

La Corte ritiene peraltro inadeguata la norma del codice sullo stato di necessità, perché si fonderebbe sull’equivalenza del bene offeso dal fatto dell’autore rispetto al bene che si vuole salvare, mentre non esisterebbe – ad avviso del giudice costituzionale – una “equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell’embrione che persona deve ancora diventare”. I diritti del concepito e della gestante, entrambi costituzionali, così, sono stati posti, per opera del giudice costituzionale, in una relazione gerarchica, in una Wertordnung che risolve la collisione. La statuizione della Corte, infatti, riguarda le norme costituzionali e si risolve nel porre una decisione concreta che definisce quale tra i due diritti in conflitto debba prevalere.

La conseguenza concreta della sentenza è stata di giustificare l’aborto “anche quando sia accertata la pericolosità della gravidanza per il benessere fisico e per l’equilibrio psichico della gestante, ma senza che ricorrano tutti gli estremi dello stato di necessità previsto nell’art. 54 del codice penale” ([198]).

Come ben può comprendersi, si tratta di una ipotesi estrema e di chiusura del sistema, nella quale il giudice costituzionale è abilitato ad intervenire, non per la sua competenza, ma per la posizione che occupa nell’ordinamento e che lo rende arbitro non solo della decisione sulla legittimità costituzionale della legge, ma – in una qualche misura – anche della possibilità di regolare, al posto (rectius: in difetto) del legislatore, diritti affiancati senza una gerarchia nelle norme della Costituzione ([199]).

Dal punto di vista degli strumenti pratici di decisione, peraltro, la tecnica di bilanciamento comporta che la pronuncia della Corte costituzionale non possa elevare una pretesa assoluta di validità. Infatti, se la sentenza può vincolare il legislatore con riferimento all’esistenza di un particolare diritto salvaguardato dalla norma costituzionale, non altrettanto può dirsi per il modo in cui ha determinato, in sostituzione del legislatore, il bilanciamento delle diverse pretese, che appare, perciò, successivamente rivedibile da parte del legislatore medesimo ([200]).

 

 

11.      I diritti fondamentali e i principi supremi dell’ordinamento costituzionale

 

Occorre, a questo punto, prendere in considerazione la posizione che i diritti fondamentali rivestono nel sistema costituzionale, formatasi e consolidatasi per effetto della ricostruzione effettuata dalla Corte costituzionale sui principi supremi dell’ordinamento costituzionale.

Questi ultimi rappresentano un tema particolarmente complesso nel quale confluiscono una molteplicità di aspetti del diritto costituzionale, scientificamente e dommaticamente controversi ([201]). A ciò si aggiunga che una quantità non indifferente di incertezza è causata – come sempre – dal linguaggio dello stesso giudice costituzionale, che in alcune pronunce ha parlato, anziché di “principi supremi”, di “valori supremi”, così passando da un ordine normativo ad un ordine assiologico ([202]), e quella parte della dottrina, che, nella sua opera di concettualizzazione, ha finito col giustificare il sindacato sulla base dei principi supremi, pur considerando questi non riconducibili all’ordine giuridico ([203]).

In questa sede, però, ciò che rileva è che i diritti fondamentali sono collocati in un ambito dell’ordinamento che condiziona necessariamente l’evoluzione del sistema interno, anche in prospettiva di eventuali riforme costituzionali ([204]), ma anche gli apporti di ordinamenti esterni in relazione con il diritto italiano che da questo si possono considerare accettabili.

Nella sentenza n. 1146 del 1988, la Corte afferma che “la Costituzione italiana contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali” e che “tali sono tanto i principi che la stessa Costituzione esplicitamente prevede come limiti assoluti al potere di revisione costituzionale, quale la forma repubblicana (art. 139 Cost.), quanto i principi che, pur non essendo espressamente menzionati fra quelli non assoggettabili al procedimento di revisione costituzionale, appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana” ([205]).

L’effetto prodotto dall’individuazione del limite dei “principi supremi” (o almeno del loro contenuto essenziale) consisterebbe nel riconoscimento di “una valenza superiore rispetto alle altre norme o leggi di rango costituzionale”, che, per di più, renderebbe possibile un sindacato sulle leggi di revisione costituzionale e sulle altre leggi costituzionali, approvate con il procedimento aggravato dell’art. 138 Cost., da parte della stessa Corte costituzionale, la quale assumerebbe anche il compito, sia di individuare i principi supremi, sia di determinare quale possa essere il loro contenuto essenziale, immodificabile e irrivedibile. Altrimenti, “se così non fosse, (…) si perverrebbe – secondo l’assunto della Corte – all’assurdo di considerare il sistema di garanzie giurisdizionali della Costituzione come difettoso o non effettivo proprio in relazione alle sue norme di più elevato valore” ([206]).

Questa sentenza, però, non esplicita quali siano i principi supremi, né – tanto meno – indica la consistenza del loro contenuto essenziale, e neppure enuncia un modo per la loro definizione e delimitazione. Ne risulterebbe, perciò, un sistema di garanzia costituzionale astrattamente e concettualmente comprensibile, anche in relazione ad una certa tradizione costituzionale che ha da sempre cercato di porre limiti alla revisione costituzionale ([207]), ma concretamente oscuro, se non arbitrario, in quanto, al di fuori del limite della forma repubblicana ([208]), il testo costituzionale non indica altre ipotesi di sottrazione delle norme della Carta alla revisione costituzionale; e, seguendo l’orientamento più coerente, a questo proposito, bisognerebbe dire che “il potere ‘costituente’ (in sé inesauribile) … continua e permane, in costanza di ordinamento, come potere ‘costituito’ (sia questo il potere legislativo ordinario, come negli ordinamenti a costituzione flessibile, sia l’apposito potere di revisione, come in quelli a costituzione rigida) ([209]).

Tuttavia, la sentenza n. 1146, cit., per quanto possa essere considerata non idonea a delimitare il tema dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale, che pure tratta, non va letta isolatamente, ma nel contesto di una ricca giurisprudenza che vede al proprio centro i diritti fondamentali, che ha dato già i suoi frutti, se è vero che ha impedito, in sede di riforme costituzionali, l’ipotesi di rimaneggiare i principi fondamentali e i diritti e doveri dei cittadini ([210]).

La stessa sentenza citata, richiama espressamente la giurisprudenza dei “principi supremi” o “fondamentali”, che origina, non con riguardo alle leggi di revisione costituzionale, ma in relazione a particolari leggi ordinarie rinforzate, in quanto dotate di una specifica copertura costituzionale, come l’ordine di esecuzione dei Patti del Laterano (art. 7 Cost.) ([211]) e quello dei trattati comunitari (art. 11 Cost.) ([212]) e le norme corrispondenti a norme generalmente riconosciute del diritto internazionale prodotte dal rinvio di cui all’art.10 Cost. ([213]), i quali potevano lasciare entrare nell’ordinamento italiano anche disposizioni derogatorie rispetto alle pretese e ai diritti costituzionalmente garantiti, purché fossero stati salvaguardati i principi supremi e i diritti inalienabili della persona umana.

È, peraltro, noto che oltre ai principi determinati nelle sentenze sul concordato, sul diritto comunitario e sulle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute ([214]), la giurisprudenza della Corte ha individuato dei principi supremi nel diritto al lavoro ([215]), nel principio d’eguaglianza ([216]), nel diritto alla libertà e segretezza delle comunicazioni ([217]), nel diritto alla salute ([218]), nel diritto all’identità personale ([219]) e a quella sessuale ([220]), nel diritto alla tutela giurisdizionale ([221]), nella libertà di religione collegata al principio di laicità dello Stato ([222]), nella protezione della famiglia ([223]), nella tutela dell’ambiente ([224]).

Alla luce di queste considerazioni appare convincente che “i diritti inviolabili costituiscono senza dubbio la più ricca costellazione di principi supremi, la cui esistenza possa desumersi dalla giurisprudenza della Corte” ([225]). Tuttavia, la giurisprudenza costituzionale sembra porre almeno due problemi: in primo luogo, poiché la Corte avverte che la non derogabilità dei principi supremi non sembra essere assoluta, ma limitata al loro contenuto essenziale, non si comprende con chiarezza la distinzione tra parte derogabile e parte non derogabile dei diritti costituzionali. In secondo luogo, atteso che sussiste l’occasionalità delle pronunce della Corte, la tipologia dei diritti definibili come principi supremi, individuati dalla giurisprudenza costituzionale, non può dirsi esaustiva.

Resta, perciò, da comprendere secondo quale criterio un diritto può essere definito principio supremo e, una volta accertato questo, entro quali limiti sia effettivamente immodificabile per opera delle leggi di revisione costituzionale e delle leggi ordinarie dotate di una copertura costituzionale.

Nella sentenza n. 366 del 1991 ([226]) la Corte sembra fornire qualche indicazione al riguardo. Il giudice costituzionale esordisce, dando per scontato che “sin dalla sentenza n. 34 del 1973 … la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altro mezzo di comunicazione costituiscano un diritto dell’individuo rientrante tra i valori supremi costituzionali, tanto da essere espressamente qualificato dall’art. 15 della Costituzione come diritto inviolabile” ([227]). In realtà, la sentenza richiamata, pur riguardando lo stesso oggetto e la medesima norma della Costituzione, nulla dice in proposito. Si afferma semplicemente che “nel precetto costituzionale (dell’art. 15) trovano … protezione due distinti interessi; quello inerente alla libertà ed alla segretezza delle comunicazioni, riconosciuto come connaturale ai diritti della personalità definiti inviolabili dall’art. 2 Cost., e quello connesso all’esigenza di prevenire e reprimere i reati, vale a dire ad un bene anch’esso oggetto di protezione costituzionale” ([228]), e anche nella sentenza n. 366, cit., si afferma “la stretta attinenza di tale diritto al nucleo essenziale dei valori di personalità – che inducono a qualificarlo come parte necessaria di quello spazio vitale che circonda la persona e senza il quale questa non può esistere e svilupparsi in armonia con i postulati della dignità umana”, traendo così la conclusione che l’inviolabilità comporterebbe “una duplice caratterizzazione” di questo.

Per un verso, in base all’art. 2 Cost., il diritto sarebbe inviolabile, “nel senso generale che il suo contenuto essenziale non può essere oggetto di revisione costituzionale” ([229]). Per l’altro, in base all’art. 15 Cost., il diritto alla libertà e alla segretezza della comunicazione sarebbe inviolabile “nel senso che il suo contenuto di valore non può subire restrizioni o limitazioni da alcuno dei poteri costituiti se non in ragione dell’inderogabile soddisfacimento di un interesse pubblico primario costituzionalmente rilevante, sempreché l’intervento limitativo posto in essere sia strettamente necessario alla tutela di quell’interesse e sia rispettata la duplice garanzia che la disciplina prevista risponda ai requisiti propri della riserva assoluta di legge e la misura limitativa sia disposta con atto motivato dell’autorità giudiziaria” ([230]).

La sentenza richiamata è stata ampiamente apprezzata ([231]), ma, pur elevando la determinazione di una definizione, in quanto sembrerebbe considerare “principi supremi” tutti i “diritti inviolabili”, e precisando la portata dei limiti costituzionali, dal momento che occorre un profilo materiale (rappresentato dall’interesse pubblico primario costituzionalmente rilevante) e uno formale (connesso alla riserva assoluta di legge e al conseguente atto motivato dell’autorità giudiziaria), lascia aperti tutti i varchi possibili, soprattutto con riferimento al Wesensgehalt, sia per restringere, che per ampliare i margini di tutela, anche rimanendo all’interno della stessa categoria dei principi supremi, la quale perciò risulta sfuggente e, in definitiva, “legata ad un processo di concretizzazione che è in sostanza nelle mani della stessa Corte” ([232]).

I diritti, considerati come principi supremi, non sono perciò realmente più garantiti di quelli che, pur costituzionali, non rientrerebbero in detta qualificazione, per cui l’inclusione tra i principi supremi di un diritto, scarsamente utilizzabile da parte dei destinatari, serve solo dal punto di vista del sistema costituzionale, in quanto evidenzierebbe il ruolo dei diritti, quale limite dell’ordinamento della Repubblica, che non è declinabile neppure in forza delle clausole costituzionali di apertura della sovranità (artt. 7, 10 e 11 Cost.), e, con la sentenza n. 1146, cit., neanche derogabile in nome dell’innovazione costituzionale, che pure può riguardare la parte prima della Carta ([233]).

Per quanto non del tutto definiti, pertanto, i diritti, come principi supremi dell’ordinamento costituzionale, sono stati giustamente ricondotti all’identità della Repubblica italiana, soprattutto paventando pericoli di stravolgimenti per opera del legislatore di revisione costituzionale ([234]), ma proprio questa collocazione dei diritti consente di richiamare quella circolarità – cui si è fatto riferimento all’inizio di questo contributo – tra ordinamento nazionale e ordinamento europeo, che chiude e mantiene, anche qualora la Costituzione europea dovesse entrare in vigore, la dialettica tra le due Corti. Infatti, i diritti fondamentali, quale che ne possa essere la codificazione europea, continueranno ad essere un prodotto frutto dello scambio e delle interferenze tra il livello interno e quello sopranazionale ([235]), ma in questa dialettica i diritti scritti nella Carta e interpretati dalla Corte costituzionale saranno, non solo la base dei diritti fondamentali europei, in quanto sono parte della tradizione costituzionale comune ([236]), ma anche il limite dell’ordinamento europeo chiamato a rispettare l’identità nazionale dei suoi Stati membri ([237]).

 

 

 



([1]) v. Santi Romano, La teoria dei diritti pubblici subiettivi, in Trattato di diritto amministrativo, a cura di V.E. Orlando, vol. I, Roma 1897.

([2]) Sulle vicende di formazione e di applicazione dello Statuto v. G. Arangio-Ruiz, Storia costituzionale del Regno d’Italia, 1848-1898, Firenze, 1898; C. Ghisalberti, Storia costituzionale d’Italia, 1848-1948, Roma - Bari, 1977.

([3]) v. sui fondamenti dello Stato fascista G. Gentile - B. Mussolini, Fascismo, in Encicl. Treccani, Roma 1929, XIV, ad vocem; sugli aspetti costituzionali v. L. Paladin, Fascismo (diritto costituzionale), in Encicl. Dir., XVI, Milano, 1967, 887 ss.

([4]) v. C. Esposito, Commento all’art. 1 della Costituzione, in La Costituzione italiana - Saggi, Padova, 1954, 1 ss.; C. Mortati, Art. 1, in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, Bologna, 1975, 1 ss.

([5]) Libertà personale [art. 13], di domicilio [art. 14], di corrispondenza e comunicazione [art. 15], di circolazione e soggiorno [art. 16], di riunione [art. 17], di associazione [art. 18], di religione [art. 19], di manifestazione del pensiero e di stampa [art. 21], di identità giuridica [art. 22], e ancora la libertà dalle imposizioni [art. 23], il diritto di difesa [art. 24], il principio del giudice naturale [art. 25], il diritto di non essere estradato [art. 26], il principio di non colpevolezza sino alla condanna definitiva [art. 27], la tutela nei confronti dello Stato e dei suoi funzionari e dipendenti [art. 28].

([6]) Il diritto di voto [art. 48], la libertà di associarsi in partiti politici [art. 49], il diritto di petizione [art. 50] e il diritto di accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive [art. 51].

([7]) La famiglia [articoli 29, 30 e 31], la tutela della salute [art. 32], la scuola, l’arte la scienza e l’Università [articoli 33 e 34].

([8]) La tutela del lavoro, con la formazione e l’elevazione professionale e la libertà di emigrazione [art. 35], il diritto alla retribuzione, all’orario di lavoro, e quello irrinunciabile al riposo settimanale e alle ferie annuali retribuite [art. 36], la tutela della donna lavoratrice e quella dei lavoratori minori di età [art. 37], i diritti di previdenza sociale e la libertà di assistenza [art. 38], la libertà sindacale [art. 39] e il diritto di sciopero [art. 40], la libertà di iniziativa economica privata [art. 41] e la garanzia della proprietà privata [art. 42], la collettivizzazione delle imprese di utilità generale per i servizi l’energia e i monopoli [art. 43], la proprietà fondiaria [art. 44], la cooperazione [art. 45], la cogestione [art. 46], la tutela del risparmio e le proprietà favorite [art. 47].

([9]) v. gli articoli 111 e 113 della Costituzione.

([10]) v. l’art. 134 Cost., che prevede il controllo di legittimità delle leggi e degli atti aventi forza di legge dello Stato e delle Regioni per opera della Corte costituzionale che è stata insediata nel 1956.

([11]) Ciò vale tanto più se si considera che il nostro testo costituzionale in materia di diritti fondamentali – benché contenente un catalogo tra i più lunghi e dettagliati – appariva già all’epoca della Costituente contornato di una certa arretratezza culturale “tanto da far ritenere che gli occhi dei costituenti fossero rivolti più al passato che all’avvenire” (A. Barbera, Art. 2, in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, Bologna 1975, 50 (53)).

([12]) Con la sua giurisprudenza la Corte costituzionale ha assunto progressivamente il ruolo di “giudice delle libertà” (in proposito v. i contributi raccolti nel volume La Corte costituzionale tra norma giuridica e realtà sociale, a cura di N. Occhiocupo, Bologna, 1978; v. anche E. Cheli, Il giudice delle leggi, Bologna, 1996). È stato sottolineato, peraltro, come «dove non esiste un apposito mezzo di tutela dei diritti fondamentali, sia l’istituto del controllo di costituzionalità a poter supplire a tale carenza» (F. Modugno, La Corte costituzionale oggi, in Scritti in onore di Vezio Crisafulli, vol. I, Padova 1985, 536, nota 17)

([13]) Sul punto, v. S. Mangiameli, Integrazione europea e Diritto costituzionale, in Annuario di Diritto tedesco 2000, Milano 2001, 25 ss.

([14]) V. T. Ballarino, Il diritto privato della Comunità Europea, in Lineamenti di diritto comunitario e dell’Unione Europea, Padova 1997, 145 ss.; L. Deflorian, Interpretazione e rule of law nella Giurisprudenza della Corte di Giustizia, in Riv. Crit. Dir. Priv. 1997, 359 ss.; A. Adinolfi, I principi generali nella giurisprudenza comunitaria e la loro influenza sugli ordinamenti degli Stati membri, in Riv. It. Dir. Pubbl. Com. 1994, 521 ss.; C. Di Felice, La tutela giurisdizionale dei diritti fondamentali nel sistema comunitario, in Nuova Rass. 1997, 1 ss.; G. Tesauro, I diritti fondamentali nella giurisprudenza della Corte di Giustizia, in Riv. Int. Dir. Uomo 1992, 434 ss.; J. Boulouis, Droit Institutionnel de l’Union Européenne, 5 ed., Paris 1995, 226 ss..

([15]) Cfr.: Corte di giustizia, sentenza 12 novembre 1969, causa 29/69, Stuader, in Racc. Uff. 1969, 419; sentenza 17 dicembre 1970, causa 11/70, Internationale Handelsgesellschaft, in Racc. Uff. 1970, 1125; sentenza 14 maggio 1974, causa 4/73, Nold, in Racc. Uff. 1974, 491; sentenza 13 dicembre 1979, causa 44/79, Hauer, in Racc. Uff. 1979, 3727; sentenza 13 luglio 1989, causa C-5/88, Wachauf, in Racc. Uff. 1989, 2609.

([16]) Cfr.: Corte di giustizia, sentenza 7 novembre 1975, causa 145/73, Stanley Adams, in Racc. Uff. 1975, 339; sentenza 18 maggio 1989, causa 249/86, Commissione c. Rep. Fed. di Germania, in Racc. Uff. 1989, 1263.

([17]) È bene precisare che la previsione dell’art. 6 TUE non ha avuto un carattere meramente ricognitivo, in quanto ha aggiunto un autonomo fondamento alla tutela dei diritti fondamentali nell’ordinamento comunitario e ha offerto spunti ulteriori e diversi per una ricostruzione di carattere dommatico delle relazioni e della concorrenza tra garanzie nascenti dal catalogo costituzionale (interno) dei diritti e tutela comunitaria dei medesimi (v. sul punto S. Mangiameli, Integrazione europea e diritto costituzionale, in Annuario di Diritto tedesco 2000, Milano 2001).

([18]) Sul tema, v. R. Bifulco - M. Cartabia - A. Celotto, L’Europa dei diritti. Commento alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, Bologna 2001; M.P. Chiti, La Carta europea dei diritti fondamentali: una carta di carattere funzionale?, in RTDP 2002, 1; U. De Siervo, I diritti fondamentali europei ed i diritti costituzionali italiani, in DPCE 2001, 1; L. Ferrari Bravo - F. M. Di Majo - A. Rizzo, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, Milano 2001; S. Mangiameli, La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in Studi politici 2002, 89 ss; A. Manzella - P. Melograni - E. Paciotti - S. Rodotà, Riscrivere i diritti in Europa, Bologna 2001; A. Pizzorusso  - R. Romboli - A. Ruggeri - A. Saitta - G. Silvestri (a cura di), Riflessi della Carta europea dei diritti sulla giustizia e la giurisprudenza costituzionale: Italia e Spagna a confronto, Milano 2003; M. Siclari (a cura di), Contributi allo studio della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, Torino 2003; P. Bilancia – E. De Marco (a cura di), La tutela multilivello dei diritti, Milano 2004.

([19]) V. H. P. Ipsen – G. Nicolaysen, Europäisches Gemeinschaftsrecht, in NJW 1964, 339 ss.;   Grabitz, Europäisches Bürgerrecht zwischen marktbürgerschaft und Staatsburgerschaft, Köln, 1970, ove si critica la nozione di “Marktbürgerschaft” conosciuta dal Trattato di Roma, in quanto legandosi essa agli obiettivi di natura economica della Comunità, non avrebbe potuto accordare un reale diritto di cittadinanza europea ai cittadini degli stati membri.

([20]) Chr. Tomuschat, Staatsbürgerschaft – Unionsbürgerschaft – Weltbürgerschaft, in J. Drexl – F. Kreuzer – D.H. Scheuing – U. Sieber, Europäisches Demokratie, Baden-Baden 1999, 73 ss.

([21]) La cittadinanza dell’Unione è indicata tra gli scopi del Trattato dell’Unione europea all’art. 2, per il quale l’Unione si prefigge di “rafforzare la tutela dei diritti e degli interessi dei cittadini dei suoi Stati membri mediante l’istituzione di una cittadinanza dell’Unione”, ed è disciplinata nelle disposizioni della parte seconda del Trattato della Comunità europea; v. F. Cuocolo, La cittadinanza europea (prospettive costituzionali), in Pol. Dir. 1991, 659 ss.; A. Pierangeli, La cittadinaza europea. Un nuovo status per il soggetto comunitario, in Aff. Soc. intern., 1993, 181 ss.; V. Lippolis, La cittadinanza europea, Bologna 1994; A. Cassese, La cittadinanza europea e le prospettive di sviluppo dell’Europa, in Riv. It. Dir. Pubbl. Com., 1996, 869 ss.; M. Cartabia, Cittadinanza europea, in Enc. giur., Aggiorn., 1996; L. Azzena, L’integrazione attraverso i diritti. Dal cittadino italiano al cittadino europeo, Torino 1998, 49 ss.; S. Bartole, La cittadinanza e l’identità europea, in Quad. Cost., 2000.

([22]) L. Paladin, Per una storia costituzionale dell’Italia repubblicana, Bologna, 2004, 159.

([23]) Corte costituzionale, sentenza n. 183 del 1973, in Giur. cost., 1973, 2401 ss., in part. 2420.

([24]) … e “di conseguenza, il fatto che siano menomati vuoi i diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione di uno Stato membro, vuoi i principi di una Costituzione nazionale, non può sminuire la validità di un atto della Comunità ne la sua efficacia nel territorio dello stesso Stato” (Corte di giustizia, sentenza 17 dicembre 1970, causa 11/70, Internazionale Handelsgesellschaft, in Racc. 1970, 1125).

([25]) Corte di giustizia, sentenza 9 marzo 1978, causa 106/77, Amministrazione delle finanze dello Stato/Simmenthal, in Racc. 1978, I 629 ss.; a commento della decisione, v., per tutti, L. Condorelli, Il caso Simmenthal e il primato del diritto comunitario: due Corti a confronto, in Giur. cost., 1978, 669 ss.

([26]) Questo processo, sicuramente unidirezionale all’inizio dell’esperienza europea, può dirsi ormai caratterizzato di una certa reciprocità, per cui anche la giurisprudenza costituzionale italiana ormai risente dell’elaborazione e delle acquisizioni della giurisprudenza europea (v. sul punto F. Salmoni, La Corte costituzionale, la Corte di Giustizia delle Comunità europee e la tutela dei diritti fondamentali, in La Corte costituzionale e le Corti d’Europa, a cura di P. Falzea, A. Spadaro, L. Ventura, Torino 2003, 289 ss.).

([27]) v. infra parr. 3-4-5.

([28]) v. infra parr. 6-7-8-9-10.

([29]) v. infra par. 11.

([30]) Sul contenuto della libertà personale intesa anche come libertà psichica o morale, v., P. Grossi, Libertà personale, libertà di circolazione e obbligo di residenza dell’imprenditore fallito, in Giur. cost., 1962, 205; secondo A. Barbera, I principi costituzionali della libertà personale, Milano 1967, l’art. 13 avrebbe ad oggetto il libero sviluppo della persona umana. La tesi restrittiva della libertà personale è sostenuta da A. Pace, Libertà personale (diritto costituzionale), in Enc. dir., Milano 1974, vol. XXIV.

([31]) Si badi che la Costituzione italiana parla di “diritti inviolabili” e non di “diritti fondamentali” e le due nozioni non sono tecnicamente coincidenti, essendo l’inviolabilità una qualità particolare di determinati diritti fondamentali e potendosi accogliere, semmai, il termine “diritti fondamentali”, proprio della letteratura di altri ordinamenti, con riferimento ai “diritti costituzionali”; pur tuttavia, è dare riscontrare una certa confusione di linguaggio nel dibattito italiano che equiparerebbe diritti fondamentali e diritti inviolabili (sul punto v. P.F. Grossi, Diritti fondamentali e Diritti inviolabili nella Costituzione italiana, in Il Diritto costituzionale tra principi di libertà e istituzioni, Padova 2005, 1 ss.; P. Ridola, Libertà e diritti nello sviluppo storico del costituzionalismo, in I Diritti costituzionali, a cura di R. Nania - P. Ridola, I, Torino 2001, 51).

([32]) v. P. Calamandrei, Cenni introduttivi sulla Costituente e i suoi lavori, in, Commentario sistematico alla Costituzione italiana, a cura di P. Calamandrei - A. Levi, Firenze, 1950, ove si afferma che “(…) come l’Assemblea da cui fu approvata, così anche la Costituzione fu necessariamente ispirata da quella politica di coalizione dei tre partiti cosiddetti ‘di massa’, che nel periodo della Costituente fu la base del Governo De Gasperi: fu, cioè, anch’essa, ‘tripartita’ (p. CXXVIII); Id., La Costituzione e le leggi per attuarla, ora in Opere giuridiche, a cura di M. Cappelletti, vol. III, Napoli, 1968, 511 (514 s.).

([33]) Le dottrine a tendenza giusnaturalista insistono particolarmente sul significato da attribuire  all’espressione “riconosce” utilizzata dall’art. 2 Cost., nel senso che questi diritti che l’ordinamento statale riconosce, sono preesistenti allo Stato, antecedenti allo stesso ordinamento positivo, dei “dati” recepiti dall’ordine statale che il diritto regola (sul punto v. M. Mazziotti di Celso, La nuova Costituzione italiana. Principi fondamentali e diritti e doveri dei cittadini, in Arch. Giur., 1948, 138 s.; Id., Il diritto al lavoro, Milano 1956, 88-91).

([34]) v. Prima Sottocommissione, 9-10 settembre 1946, in La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori della Assemblea costituente, a cura della Camera dei deputati – Segretariato generale, Roma, 1971, VI, 322 ss.; il punto sub c, relativo ai diritti delle formazioni sociali, lo si ritiene per tradizione ricompresso nell’art. 2 Cost., proprio alla luce dei lavori preparatori, anche se la formulazione adottata alla fine non vi farebbe espressamente menzione, dal momento che – secondo questa – le formazioni sociali avrebbero rilievo solo in quanto luogo ove si svolge la personalità dell’uomo, per cui dovrebbe derivarsi: a) che il riconoscimento di diritti alla formazione dovrebbe essere sempre strumentale rispetto a quello effettuato nei confronti del singolo; b) che il conflitto tra pretese della formazione e diritti dell’individuo può avere un esito diverso a seconda della natura della formazione medesima. Infatti, qualora, l’adesione a questa sia il frutto di una libera scelta del singolo, questo può recedere e non può chiedere, in nome del proprio diritto, una tutela che modifichi o delimiti la natura e l’azione della formazione sociale; se, invece, l’appartenenza alla formazione è giuridicamente obbligatoria la tutela del diritto del singolo individuo può comportare, quanto meno, la delimitazione delle pretese della formazione.

([35]) v. V. Crisafulli, Individuo e società nella Costituzione italiana, in Riv. dir. lav. 1954, 73 (75).

([36]) v. A. Pace, Problematica delle libertà costituzionali, Parte generale, III ed., Padova 2003, 5; A. Baldassarre, Diritti inviolabili, in Encicl. Giuridica Treccani, XI, Roma 1989, ad vocem; e Id., Proprietà, in Encicl. Giuridica Treccani, XXV, Roma 1991, ad vocem.; P. Caretti, I diritti fondamentali. Libertà e Diritti sociali, Torino 2002, 136 s. 

([37]) G. Guarino, Lezioni di diritto pubblico, Milano, 1967, 88.

([38]) C. Esposito, La libertà di manifestazione del pensiero nell’ordinamento italiano, Milano 1958, 8.

([39]) v. in tal senso A. Pace, La libertà di riunione nella Costituzione italiana, Milano, 1967, 37-38; Id., Problematica delle libertà costituzionali, cit., 16; P. Grossi, Introduzione ad uno studio sui diritti inviolabili nella Costituzione italiana, Padova, 1972, 50 ss.; nonché, sia pure in termini diversi A. Barbera, Art. 2, cit., 80.

([40]) P. Barile, Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, Bologna 1984, 54.

([41]) Osserva A. Pace, Problematica delle libertà costituzionali, cit., 4, “Le ipotesi di diritti non previsti in Costituzione sono assai più limitate di quel che a prima vista potrebbe pensarsi: o perché tali ipotesi rientrano in fattispecie normative concernenti i diritti espressamente riconosciuti dalla stessa Costituzione (…) oppure perché un loro eventuale riconoscimento porrebbe delle insanabili antinomie con altre norme costituzionali”.

([42]) P. Grossi, Introduzione ad uno studio sui diritti inviolabili nella Costituzione italiana, cit., 160, per il quale “i diritti proclamati inviolabili dalla disposizione suddetta sarebbero, quindi, in una prima approssimazione, quelli che la coscienza giuridica ha da tempo ormai saldamente acquisito come diritti dell’uomo senza i quali altre affermazioni come quelle sul principio della sovranità popolare o sulla democrazia (…) costituirebbero mere espressioni verbali prive di un effettivo e coerente significato”. In questa prospettiva, pertanto, il riconoscimento di eventuali nuovi diritti da parte del legislatore costituzionale s’intende circoscritto ai soli diritti elaborati e maturati nella coscienza sociale che vengono espressamente codificati nel sistema attraverso la legge costituzionale. Infatti, “il rinvio di cui all’art. 2 cost. non dovrebbe intendersi come fisso, ma mobile in senso unilaterale e garantistico; non chiuso e concluso in riferimento, cioè, ai soli diritti originariamente accolti nella Carta costituzionale, ma aperto anche agli altri che successive leggi costituzionali o di revisione costituzionale eventualmente introducano” (172).

([43]) A. Baldassarre, Diritti inviolabili, in Enc. Giur. Treccani, 20 s.

([44]) v. A. Baldassarre, Diritti inviolabili, cit., 20 s.

([45]) A. Baldassarre, Diritti inviolabili, cit., 20 s.

([46]) P. Barile, Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, cit., 56.

([47]) v. C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, Padova, 1969, II, p. 949 (“si potrebbe interpretare l’art. 2 cost. nel senso che si sia voluto affermare non già un diritto generale di libertà, ma piuttosto un principio che non si esaurisce interamente nelle singole fattispecie previste, e perciò consente all’interprete di desumerne dal sistema altre non contemplate specificamente”).

([48]) v. A. Barbera, Art. 2, cit., 83 ss. che sulla polemica tra diritto naturale e diritto positivo afferma: “una questione – questa fin troppo sopravvalutata; quale che sia il significato politico-filosofico del diritto naturale, per poter esso esprimersi come forza normativa nell’ordinamento non può che appoggiarsi su forze politiche e culturali, su gruppi cioè in grado di affermare la loro egemonia politico culturale in grado di determinare la Costituzione materiale”. Il diritto naturale in questa prospettiva converge con il giuspersonalismo o con il giusrazionalismo, esprimendo niente altro che “valori storicamente rilevabili” (85).

([49]) A. Barbera, Art. 2, cit., 85, per il quale si tratterebbe, sia nel caso di “rinvio a valori di diritto naturale”, che di “rinvio a valori emergenti nella costituzione materiale”, di “un problema di scelta culturale e politica” (90).

([50]) A. Barbera, Art. 2, cit., 83 esclude in maniera tassativa il valore ricognitivo dell’art. 2, richiamandosi all’insegnamento di Esposito, secondo il quale, se è vero che la sovranità nel nostro ordinamento spetta al popolo, tutto il diritto si fonda sulla volontà popolare, la quale ha valore costitutivo di qualsiasi diritto v. C. Esposito, La Costituzione italiana, Saggi, Padova, 1954, 22. Il rinvio che l’art. in questione fa ai diritti inviolabili avrebbe, quindi, un valore “costitutivo” e di “apertura” “ad altre libertà e ad altri valori personali non espressamente tutelati dal testo costituzionale” (84).

([51]) v. A. Barbera, Art. 2, cit., 90.

([52]) A. Barbera, Art. 2, cit., 91, il quale parla della “forza espansiva che le libertà, divenute dei valori laddove erano puntuali schemi soggettivi, acquisteranno”.

([53]) A. Spadaro, Il problema del fondamento dei diritti “fondamentali”, in I diritti fondamentali oggi, Atti del V Convegno dell’Associazione italiana dei Costituzionalisti, Taormina, 1990, Milano 1995, 235 ss.

([54]) A. Spadaro, Il problema del fondamento dei diritti “fondamentali”, cit., “finché faremo i conti con l’attuale testo positivo non potremo stravolgerlo a piacimento, o adattarlo alle mutate esigenze dei tempi fino a sottrarlo a un sotterraneo svuotamento di senso”.

([55]) v. A. Spadaro, Il problema del fondamento dei diritti “fondamentali”, cit., il quale in questo modo vena la sua posizione in senso giusnaturalista e, criticamente verso la tesi della fattispecie chiusa afferma: “quella dottrina che riconduce ogni ‘nuovo diritto’ agli art. 13 ss. Cost., spesso ricomprende tra i diritti espressamente enunciati tali e tante situazioni giuridiche soggettive che a malapena possono essere definite attive alterando in tal modo i valori effettivamente protetti dalla costituzione”.

([56]) v. F. Modugno, I “nuovi diritti” nella Giurisprudenza Costituzionale, Torino 1995, 3 s., per il quale “in realtà quello che sembra sfuggire alla concezione della ‘fattispecie chiusa’ è che i diritti inviolabili, prima ancora di essere situazioni giuridiche soggettive, sono valori  - tale a me sembra il seno specifico dell’art. 2 Cost. – e che nella logica dei valori – che non è la logica del tutto o niente, del sì o del no –essi tendono alla relativizzazione reciproca, al bilanciamento e alla composizione, secondo le regole della fondazione, dell’opposizione e della complementarità”.

([57]) v. F. Modugno, I “nuovi diritti” nella Giurisprudenza Costituzionale, cit., 2, 8.

([58]) F. Modugno, I “nuovi diritti” nella Giurisprudenza Costituzionale, cit., 8.

([59]) Per il vero la posizione di F. Modugno (I “nuovi diritti” nella Giurisprudenza Costituzionale, cit., 8) non è univoca. Infatti, al contempo, afferma che la Costituzione italiana, contenendo una ricca sistematica dei diritti, non favorirebbe l’emersione di diritti nuovi non ricompresi già tra quelli enumerati, ma consentirebbe l’individuazione di diritti impliciti, come necessarie o possibile conseguenze dei diritti enumerati (“Assumo che il catalogo costituzionale positivo, nella parte relativa alle libertà, se correttamente inteso, è onnicomprensivo” [p. 9]), il quale per quest’aspetto esprime la stessa posizione già espressa nella dottrina italiana da P. Barile, Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, cit., 55 s.

([60]) v. infra par. 11.

([61]) In tal senso, è agevole convenire con chi ritiene che, in definitiva, il problema dei diritti fondamentali “investe in primo luogo il ruolo stesso del giudice di costituzionalità” (A. Barbera, Art. 2, cit., 92); infatti, il problema diventerebbe quello “dei soggetti cui verrebbe affidato il compito di interpretare, e quindi maneggiare, dette clausole generali di libertà, il compito in pratica di operare quali produttori del diritto delle libertà”.

([62]) Sul tema v. P. Grossi, Diritti fondamentali e Diritti inviolabili nella Costituzione italiana, cit. 4; S. Mangiameli, La “libertà di coscienza” di fronte all’indeclinabilità delle funzioni pubbliche. (A proposito dell’autorizzazione del giudice tutelare all’interruzione della gravidanza della minore), in Giur. Cost., 1988.

([63]) v. infra par. 10.

([64]) Per cui configurerebbero l’art. 2 come una clausola generale dagli incerti contorni. Non a caso è stato osservato che, in questo modo, “i diritti costituzionalmente previsti incorrono in una serie di limiti, mentre questi presunti nuovi diritti non essendo espressamente positivizzati, avrebbero un regime privilegiato” (P. Caretti, I diritti fondamentali, cit. 139) e di conseguenza che, quando si enucleano nuovi diritti, “non si medita a sufficienza sul fatto che all’affermazione di un ‘diritto’ spesso consegue automaticamente l’imposizione di un corrispondente ‘obbligo’ a carico di un altro soggetto privato, titolare anch’egli di diritti costituzionali” (A. Pace, Problematica delle libertà costituzionali, cit., 26-27).

([65]) In quanto l’art. 2 Cost. consentirebbe la più ampia interpretazione e permetterebbe la lettura estensiva degli articoli 13 ss. Cost., per cui i nuovi, ulteriori diritti emergenti possono considerarsi una specificazione di quelli enumerati; si parlerebbe, a tal proposito, di “Giuspositivismo temperato” (P. Ridola, Libertà e diritti nello sviluppo storico del costituzionalismo, cit., 54).

([66]) v. R. Bin, Diritti e argomenti. Il bilanciamento degli interessi nella giurisprudenza costituzionale, Milano 1992; G. Zagrebelsky, Il diritto mite, Torino 1992; F. Modugno, I “nuovi diritti” nella Giurisprudenza Costituzionale, cit.; L. Mengoni, Ermeneutica e dogmatica giuridica, Milano 1996.

([67]) P. Ridola, Libertà e diritti nello sviluppo storico del costituzionalismo, cit., 55.

([68]) Corte costituzionale, sentenza n. 11 del 1956, in Giur. Cost., 1956, 612 (corsivo ns.) l’affermazione dei diritti come patrimonio irretrattabile della persona umana rappresenta una costante della giurisprudenza costituzionale, anche se si avverte che l’art. 2 rimetterebbe “la tutela specifica ad altre norme costituzionali o a leggi ordinarie” (v. anche sentenza n. 33 del 1974, in Giur. Cost., 1974, 123; sentenza n. 252 del 1983, ivi, 1983, 2628).

([69]) Corte costituzionale, sentenza n. 29 del 1962, in Giur. Cost., 1962, 225 (227); ed anche sentenza n. 238 del 1975, ivi, 1975, 2853.

([70]) v. Corte costituzionale, sentenza n. 16 del 1968, in Giur. Cost., 1968, 369, in cui si afferma che “è da escludere che tra i ‘diritti inviolabili dell’uomo’ si possa far rientrare quello relativo all’autonomia contrattuale degli imprenditori agricoli che qui si pretende leso, giacché tale diritto, operando nell’ambito di quelli più generali della libertà di iniziativa economica e del diritto di proprietà terriera, è specificamente tutelato, da altre norme costituzionali (…)”

([71]) Corte costituzionale, sentenza n. 98 del 1979, in Giur. Cost., 1979, 719. La Corte, infatti, chiamata a verificare se il diritto all’identità sessuale rientri tra quei diritti fondamentali ed inviolabili che l’art. 2 Cost. riconosce e garantisce a tutti, afferma: “nella costante interpretazione della Corte, l’invocato art. 2 della Costituzione, nel riconoscere i diritti inviolabili dell’uomo, che costituiscono patrimonio irretrattabile della sua personalità, deve essere ricollegato alle norme costituzionali concernenti singoli diritti e garanzie fondamentali, quanto meno nel senso che non esistono altri diritti fondamentali inviolabili che non siano necessariamente conseguenti a quelli costituzionalmente previsti”.

([72]) Corte costituzionale, sentenza n. 252 del 1983, in Giur. Cost., 1983, 1516, in cui il giudice costituzionale, pur ammettendo che “indubbiamente l’abitazione costituisce, per la sua fondamentale importanza nella vita dell’individuo, un bene primario il quale deve essere adeguatamente e concretamente tutelato dalla legge”, rileva “come non possa convenirsi con l’ordinanza di rimessione nel considerare l’abitazione come l’indispensabile presupposto dei diritti inviolabili previsti dalla prima parte dell’art. 2 della Costituzione, trattandosi di una costruzione giuridica del tutto estranea al nostro ordinamento positivo. Se, invero, sono, per giurisprudenza costante, quei diritti che formano il patrimonio irretrattabile della personalità umana, non è logicamente possibile ammettere altre figure giuridiche, le quali sarebbero dirette a funzionare da ‘presupposti’ e dovrebbero avere un’imprecisata, maggiore tutela”

([73]) A. Cerri, Regime delle questue: violazione del principio di eguaglianza e tutela del diritto alla riservatezza, in Giur cost. 1972, 48 (in relazione alla sentenza n. 12 del 1972, ivi, 1972, 45).

([74]) Corte costituzionale, sentenza n. 45 del 1965, in Giur. Cost., 1965, 665 ss., nella quale si afferma che “dal complessivo contesto del comma 1 dell’art. 4, si ricava che il diritto al lavoro, riconosciuto ad ogni cittadino, è da considerare quale fondamentale diritto di libertà della persona umana, che si estrinseca nella scelta e nel modo di esercizio dell’attività lavorativa”.

([75]) Corte costituzionale, sentenza n. 98 del 1965, in Giur. Cost., 1965, 1322 ss.

([76]) Corte costituzionale, sentenza n. 1 del 1969, in Giur. Cost., 1969, 1 ss.

([77]) Corte costituzionale, sentenza n. 27 del 1969, in Giur. Cost., 1969, 546 ss.; su questo diritto v. anche sentenza n. 766 del 1988, ivi, 1988, I, 2471 ss., con la quale sono state ritenute pienamente legittime le disposizioni sul “divieto di licenziamento delle lavoratrici per causa di matrimonio.

([78]) A. Baldassarre, Diritti inviolabili, cit., 21.

([79]) Corte costituzionale, sentenza n. 28 del 1969, in Giur. Cost., 1969, 571 ss.

([80]) Corte costituzionale, sentenza n. 14 del 1973, in Giur. Cost., 1973, 69 ss., sulla tutela penale del sentimento religioso; ma anche successivamente sentenza n. 196 del 1987, ivi, I, 1460.

([81]) Corte costituzionale, sentenza n. 38 del 1973, in Giur. Cost., 1973, 354 ss.; con osservazione di G. Pugliese, Diritto all’immagine e libertà di stampa, in Giur. cost., 1973, 355.

([82]) Corte costituzionale, sentenza n. 27 del 1975, in Giur. Cost., 1975, 117 (119) ss., con osservazione di R. D’Alessio, L’aborto nella prospettiva della Corte costituzionale e di C. Chiola, Incertezze sul paramentro costituzionale per l’aborto, ivi, 1975, 1098; sul tema dell’aborto e del diritto alla vita del concepito la Corte si pronunciava, definendo il c.d. “bilanciamento” dei diritti, peraltro in assenza di una specifica legislazione che sarebbe arrivata solo con la legge n. 194 del 1978, sul punto v. anche infra par. 10.

([83]) Corte costituzionale, sentenza n. 54 del 1979, in Giur. Cost., 1979, 413 (426).

([84]) Corte costituzionale, sentenza n. 239 del 1984, in Giur. Cost., 1984, I, 1727.

([85]) Corte costituzionale, sentenza n. 11 del 1981, in Giur. Cost., 1981, 44 (61); ed anche sentenza n. 183 del 1988, in Giur. Cost., 1988, I, 687, sulla base del combinato disposto degli art. 2 e 30, comma 1 e 2, Cost., ed ammettendo solo in caso di incapacità della famiglia di origine la possibilità di una famiglia sostitutiva; nonché sentenza n. 27 del 1991, in Giur. Cost., 1991, 175, in cui si dice che “a norma dell’art. 2 e 30 Cost l’istituto dell’adozione deve avere il proprio centro di gravità  nella tutela delel preminente interesse del minore, rispetto al quale devono essere subordinati  tanto gli interessi degli adottandi  (o aspiranti tali), quanto quelli della famiglia di origine”.

([86]) Corte costituzionale, sentenza n. 199 del 1986, in Giur. Cost., 1986, I, 1568, pur riconoscendo che è garantito dall’art. 30, comma 2, Cost.

([87]) v. Corte costituzionale, sentenza n. 132 del 1985, in Giur. Cost., 1985, I, 934, dove si afferma che “è sempre la persona che troviamo circondata dalle garanzie configurate dall’art. 2 Cost.” (pag. 946).

([88]) v. Corte costituzionale, sentenza n. 132 del 1985, cit., I, 946 ss., e si tenga conto che per il diritto alla salute, di cui all’art. 32 Cost., la Corte avrà modo di sostenere comunque che “il valore costituzionale della salute, esplicitamente garantito dall’art. 32 Cost.”, rappresenta un “diritto fondamentale e inviolabile” (sentenza n. 227 del 1987, in Giur. Cost., 1987, I, 1710).

([89]) v. Corte costituzionale, sentenza n. 319 del 1989, in Giur. Cost., 1989, I, 1442 e, in particolare, 1450 ss.

([90]) Corte costituzionale, sentenza n. 132 del 1985, cit., 1985, I, 946; di particolare rilievo appare peraltro che il giudice costituzionale utilizzi l’art. 2 per riconoscere il medesimo diritto al risarcimento ai familiari della vittima sulla base della considerazione che si tratta di “diritti che s’inquadrano nello schema di questa disposizione costituzionale (…) riconosciuti non solo al singolo, ma all’uomo nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”.

([91]) Corte costituzionale, sentenza n. 161 del 1985, in Giur. Cost., 1985, I, 1173 ss., in particolare 1186-87 dove prevede anche che “correlativamente gli altri membri della collettività sono tenuti a riconoscerlo (il diritto all’identità sessuale), per dovere di solidarietà sociale”.

([92]) C. Cost., 18 dicembre 1987, n. 561, in Giur. cost., 1987, I, 3535, in particolare 3539, ed aggiunge, combinando anche la sua giurisprudenza sulla risarcibilità diretta, ex art. 32 Cost., del “danno biologico” (sentenza n. 184 del 1986), che “la violenza carnale comporta, invero, di per sé, la lesione di fondamentali valori di libertà e dignità della persona, e può inoltre dar luogo a pregiudizi alla vita di relazione. Tali lesioni hanno autonomo rilievo sia rispetto alle sofferenze ed ai perturbamenti psichici che la violenza carnale naturalmente comporta, sia rispetto agli eventuali danni patrimoniali a questa conseguenti: e la loro riparazione è doverosa, in quanto i suddetti valori sono, appunto, oggetto di diretta protezione” (pag. 3540).

([93]) Corte costituzionale, sentenza n. 269 del 1986, in Giur. Cost. 1986, I, 2208, dove muove dalla “significatività del termine ‘riconosce’, di cui all’art. 35, comma 4, Cost.”, posta “in relazione allo stesso termine usato nell’art. 2 Cost.”.

([94]) Continuando: “Sicché una legislazione che ostacolasse l’esercizio di questo diritto fondamentale si porrebbe fuori dall’attuale contesto di valori giuridici internazionali e costituzionali” (Corte costituzionale, sentenza n. 278 del 1992, in Giur. Cost., 1992, 2116). Il giudice costituzionale si avvale, ai fini della decisone, anche di norme derivate da atti di diritto internazionale, nel caso di specie, l’art. 13 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948.

([95]) “… riconosciuto e garantito a tutti i cittadini in condizione di eguaglianza dall’art. 51 Cost. e riconducibile nell’ambito dei diritti inviolabili di cui all’art. 2 Cost.”, Corte costituzionale, sentenza n. 571 del 1989, in Giur. Cost., 1989, I, 2635.

([96]) In particolare, “la libertà di manifestazione dei propri convincimenti morali e filosofici (art. 21 Cost.) o della propria fede religiosa (art. 19)” (Corte costituzionale, sentenza n. 467 del 1991, in Giur. Cost., 1991, 3813-14).

([97]) v. Corte costituzionale, sentenza n. 196 del 1987, in Giur. cost., 1987, I, 1460-64.

([98]) v. Corte costituzionale, sentenza n. 497 del 1988, in Giur. cost., 1988, I, 2216.

([99]) che dispone: “Nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome”.

([100]) Corte costituzionale, sentenza n. 120, in Giur. Cost., 2001, 976; nella sentenza n. 13 del 1994 in Giur. cost., 1994, 101, la Corte riconosce che il cognome “gode di una distinta tutela anche nella sua funzione di strumento identificativo della persona, e che, in quanto tale, costituisce parte essenziale ed irrinunciabile della personalità”, tutela che è di rilievo costituzionale perché il nome, che “costituisce il primo e più immediato elemento che caratterizza l’identità personale, (corsivo nostro) è riconosciuto come bene oggetto di autonomo diritto (corsivo nostro) dall’art. 2 della Costituzione”. “D’altra parte il diritto all’identità personale costituisce tipico diritto fondamentale, rientrando esse tra i diritti che formano il patrimonio irretrattabile della persona umana sicché la sua lesione integra la violazione dell’art. 2”, Corte costituzionale, sentenza n. 297 del 1996, in Giur. cost., 1996, 2476-77.

([101]) v. Corte costituzionale, sentenza n. 404 del 1988, in Giur. cost., 1988, I, 1789 ss.

([102]) Corte costituzionale, sentenza n. 252 del 1983, in Giur. cost., 1983, I 2628; e nello stesso senso le decisioni Corte costituzionale, sentenza n. 274 del 1984, in ivi, 1984, I 2071; sentenza n. 19 del 1985, in ivi, 1985, I, 52; sentenza n. 344 del 1985, ivi, 2396.

([103]) Corte costituzionale, sentenza n. 404 del 1988, cit., 1793; v., inoltre, Corte costituzionale, sentenza n. 559 del 1989, in Giur. cost., 1989, I, 2565. 

([104]) v. Corte costituzionale, sentenza n. 215 del 1987, in Giur. cost., 1987, I, 1615, ove la Corte enuclea il “diritto all’istruzione”, “statuendo che la scuola è aperta a tutti (corsivo nostro) e con ciò riconoscendo in via generale l’istruzione come diritto di tutti i cittadini, l’art. 34, primo comma, Cost. pone un principio nel quale la basilare garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità (corsivo nostro) apprestata dall’art. 2 Cost. trova espressione in riferimento a quella formazione sociale che è la comunità scolastica” (pag. 1625).

([105]) Infatti, “in forza dell’art. 2 Cost., è proprio dei diritti inviolabili di essere automaticamente incorporati, quantomeno nel loro contenuto essenziale, anche negli ordinamenti giuridici autonomi, speciali o comunque diversi dall’ordinamento statale” (Corte costituzionale, sentenza n. 235 del 1988, in Giur. Cost., 1988, I, 1020).

([106]) Corte costituzionale, sentenza n. 215 del 1987, cit., 1625.

([107]) v. Corte costituzionale, sentenza n. 199 del 1986, in Giur. Cost., 1988, I, 1568.

([108]) Sul punto e in merito all’orientamento della giurisdizione ordinaria v. Rassegna di giurisprudenza sulla Costituzione e sugli Statuti regionali (dal 1948 al 1955), in Giur. cost., 1956, 272 ss.; A. D’Atena, Lezioni di diritto costituzionale, Torino 2001, 12 s.; può aggiungersi, sia pure a posteriori, che di tutte le possibili interpretazioni che il comma 2 della VII disp. trans. e fin. avrebbero potuto autorizzare, quella dell’abrogazione, per opera delle norme precettive della Costituzione, appare sicuramente la più debole, in quanto, più che un modo di “decisione delle controversie indicate nell’art. 134”, questa dovrebbe considerarsi, nel caso di antinomie tra norme, un effetto dell’applicazione del principio cronologico(v. anche le considerazioni di M. Siclari, L’illegittimità costituzionale sopravvenuta, ed. [purtroppo ancora] provv., Roma 2001, 32 ss.).

([109]) In realtà, proprio il congegno della riserva di legge avrebbe dovuto rendere possibile il rinnovamento, per via parlamentare e non giurisdizionale, della legislazione anteriore, ma l’attuazione della Costituzione si arrestò o quanto meno rallentò sensibilmente a partire dalla seconda metà degli anni ’50 (v. P. Calamandrei, La Costituzione e le leggi per attuarla (1955), Milano 2000, 127 ss.).

([110]) P. Virga, Libertà giuridica e diritti fondamentali, Milano 1947, 273; Id., Origine, contenuto e valore delle dichiarazioni costituzionali, in Rass. dir. pubbl., 1948, I, 243; M. Mazziotti, Il diritto al lavoro, Milano 1956, 1 ss.; C. Mortati, Questioni sul controllo di costituzionalità sostanziale delle leggi, in Foro amm., 1948, I, 320; C. Esposito, Leggi vecchie e Costituzione nuova, in Giur. it., 1948, III, 81 ss.; Id., Efficacia delle regole della nuova Costituzione, in Giur. it., 1948, III, 145.

([111]) P. Barile, La Costituzione come norma giuridica, Firenze 1951, 65.

([112]) V. Crisafulli, La Costituzione e le sue disposizioni di principio, Milano 1952, 11.

([113]) v. V. Crisafulli, La Costituzione e le sue disposizioni di principio, cit., 52- 55.

([114]) Corte costituzionale, sentenza 14 giugno 1956, n. 1, in Giur. Cost. 1956, 1 (7).

([115]) Osserva, infatti, la Corte come “L’assunto che il nuovo istituto della “illegittimità costituzionale” si riferisca solo alle leggi posteriori alla Costituzione e non anche a quelle anteriori non può essere accolto, sia perché, dal lato testuale, tanto l’art. 134 della Costituzione quanto l’art. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, parlano di questioni di legittimità costituzionale delle leggi, senza fare alcuna distinzione, sia perché, dal lato logico, è innegabile che il rapporto tra leggi ordinarie e leggi costituzionali e il grado che ad esse rispettivamente spetta nella gerarchia delle fonti non mutano affatto, siano le leggi ordinarie anteriori, siano posteriori a quelle costituzionali. Tanto nell’uno quanto nell’altro caso la legge costituzionale, per la sua intrinseca natura nel sistema di Costituzione rigida, deve prevalere sulla legge ordinaria”. La questione decisa con la sentenza n. 1, cit., peraltro, riguardava il contrasto tra l’art. 113 del TULPS (testo unico delle leggi di pubblica sicurezza) e l’art. 21 Cost. concernente la libertà di manifestazione del pensiero; in particolare la Corte annulla le disposizioni che prevedevano l’autorizzazione dell’autorità di pubblica sicurezza per la distribuzione o affissione degli stampati e sanzionavano penalmente la mancanza di questa, in quanto la disciplina costituzionale della libertà in parola esclude direttamente la possibilità di “autorizzazioni o censure”.

([116]) Corte costituzionale, sentenza n. 8, del 1956, in Giur. Cost. 1956, 602 (606).

([117]) Corte costituzionale, sentenza n. 8, del 1956, cit., 606-607.

([118]) “È, infatti, ovvio che l’art. 2 della legge di pubblica sicurezza non potrebbe disporre che, in un campo in cui il precetto costituzionale è inderogabile anche di fronte al legislatore ordinario, intervengano provvedimenti amministrativi in senso difforme” (Corte costituzionale, sentenza n. 26, del 1961, in Giur. Cost. 1961, 525, part. 535); il riferimento espresso era all’art. 13, comma 3, Cost., in tema di libertà personale, ove è statuita una riserva di legge rinforzata che preveda i casi di necessità ed urgenza in cui l’autorità di pubblica sicurezza possa adottare provvedimenti limitativi della libertà personale, aventi carattere provvisorio, da rimettere alla convalida dell’autorità giudiziaria (c.d. fermo di polizia).

([119]) Corte costituzionale, sentenza n. 26, del 1961, cit., 535. 

([120]) Corte costituzionale, sentenza n. 190 del 1970, in Giur. Cost. 1970, 2179.

([121]) Corte costituzionale, sentenza n. 190 del 1970, cit., 2198.

([122]) V. Crisafulli, Lezioni di Diritto costituzionale, II, La Corte costituzionale, IV ed. Padova 1984, 407-408 (corsivo ns.).

([123]) Corte costituzionale, sentenza n. 225 del 1974, in Giur. Cost. 1974, 1175 (1789).

([124]) “La Corte … ritiene che la legge debba almeno prevedere: a) che gli organi direttivi dell’ente gestore (si tratti di ente pubblico o di concessionario privato purché appartenente alla mano pubblica) non siano costituiti in modo da rappresentare direttamente o indirettamente espressione, esclusiva o preponderante, del potere esecutivo e che la loro struttura sia tale da garantirne l’obbiettività; b) che vi siano direttive idonee a garantire che i programmi di informazione siano ispirati a criteri di imparzialità e che i programmi culturali, nel rispetto dei valori fondamentali della Costituzione, rispecchino la ricchezza e la molteplicità delle correnti di pensiero; c) che per la concretizzazione di siffatte direttive e per il relativo controllo siano riconosciuti adeguati poteri al Parlamento, che istituzionalmente rappresenta l’intera collettività nazionale; d) che i giornalisti preposti ai servizi di informazione siano tenuti alla maggiore obbiettività e posti in grado di adempiere ai loro doveri nel rispetto dei canoni della deontologia professionale; e) che, attraverso una adeguata limitazione della pubblicità, si eviti il pericolo che la radiotelevisione, inaridendo una tradizionale fonte di finanziamento della libera stampa, rechi grave pregiudizio ad una libertà che la Costituzione fa oggetto di energica tutela; f) che, in attuazione di un’esigenza che discende dall’art. 21 della Costituzione, l’accesso alla radiotelevisione sia aperto, nei limiti massimi consentiti, imparzialmente ai gruppi politici, religiosi, culturali nei quali si esprimono le varie ideologie presenti nella società; g) che venga riconosciuto e garantito - come imposto dal rispetto dei fondamentali diritti dell’uomo - il diritto anche del singolo alla rettifica”. I principi indicati dalla Corte sono stati tradotti nella legislazione con la legge n. 103 del 1975

([125]) Un precedente a questo genere di decisione si rinviene nella sentenza n. 34 del 1973, in Giur. Cost. 1973, 316, con nota di V. Grevi, Insegnamenti, moniti e silenzi della Corte costituzionale in tema di intercettazioni telefoniche, ivi, 1973, 317, in materia di intercettazioni telefoniche da parte della polizia giudiziaria in fase di indagine. Anche qui la Corte enuncia una serie di requisiti delle intercettazioni, che derivano dal disposto dell’art. 15 Cost., i quali devono essere concretamente normati nella legislazione.

([126]) In dottrina cfr: M. Mazziotti, Diritti sociali, in Enc. dir., XII, Milano, 1964; G. Corso, I Diritti sociali nella Costituzione italiana, in Riv. Trim. Dir. Pubbl., 1981, II, 755 ss.; A. Baldassarre, Diritti sociali, in Enc. Giur., XI, Roma, 1989.

([127]) v. P. Grossi, I diritti di libertà ad uso di lezioni, Torino 1991, 275.

([128]) in Giur. Cost. 1990, 2732 ss.

([129]) Analoghe considerazioni in Corte costituzionale, sentenze n. 175 del 1982; n. 212 del 1983; e n. 1011 del 1988, tutte in Giur. Cost., rispettivamente 1982, 1981 ss.; 1983, 1263, e 1988, 4830. Il dato positivo di questa giurisprudenza è rappresentata dal forte realismo, che connoterebbe anche la dimensione dei diritti, in senso critico, però, v. B. Pezzini, Principi costituzionali e politica della sanità: il contributo della giurisprudenza costituzionale alla definizione del diritto sociale alla salute, in Profili attuali del diritto alla salute a cura di B. Pezzini e C. E. Gallo, Milano, Giuffrè, 1998, 18; R. Balduzzi, Il servizio sanitario regionale tra razionalizzazione delle strutture e assestamento normativo (riflessioni sulla legge 30 novembre 1998, n. 419), in Quaderni regionali, 1998, 949; M. Siclari, Le indicazioni della più recente giurisprudenza costituzionale in tema di diritto alla salute e di diritto all’assistenza, in Sanità e assistenza dopo la riforma del Titolo V a cura di R. Balduzzi e G. Di Gaspare, Milano, Giuffrè 2002.

([130]) La Corte già in questa decisione afferma altresì che la realizzazione dei diritti sociali debba tenere conto anche “di un ragionevole bilanciamento con altri interessi o beni che godono di pari tutela costituzionale” e che detto “bilanciamento” sarebbe “pur sempre soggetto al sindacato di questa Corte nelle forme e nei modi propri all’uso della discrezionalità legislativa”.

([131]) v., in proposito C. Salazar, Dal riconoscimento alla garanzia dei diritti sociali. Orientamenti e tecniche decisorie della Corte costituzionale a confronto, Torino 2000, 127 ss.

([132]) Corte cost. n.. 455 del 1990 nella quale – tra l’altro – la Corte enuncia la compatibilità del concetto di diritto inviolabile con quello di diritto sociale. I diritti sociali devono intendersi come diritti costituzionali condizionati “dall’attuazione che il legislatore ordinario ne dà attraverso il bilanciamento dell’interesse tutelato da quel diritto con gli altri interessi costituzionalmente protetti, tenuto conto dei limiti oggettivi che lo stesso legislatore incontra nella sua opera di attuazione in relazione alle risorse organizzative e finanziarie di cui dispone al momento”, ciò non implica “una degradazione della tutela primaria assicurata dalla Costituzione ad una puramente legislativa, ma comporta che l’attuazione della tutela costituzionalmente obbligatoria, (…) avvenga gradualmente a seguito di un ragionevole bilanciamento con altri interessi o beni che godono di pari tutela costituzionale e con la possibilità reale e obiettiva di disporre delle risorse necessarie per la medesima attuazione”. In dottrina cfr. C. Pinelli, Diritti costituzionali condizionati, argomento delle risorse disponibili, principio di equilibrio finanziario, in La motivazione delle decisioni della Corte costituzionale, a cura di A. Ruggeri, Torino, 1994, 548.

([133]) v. A. Moscarini, La Corte costituzionale contro lo Stato sociale?, in Giur. Cost. 1997, 2027 ss.

([134]) v. anche Corte costituzionale, sentenze n. 173 del 1986 e n. 205 del 1995, in Giur. Cost., rispett. 1986, I, 1356, e 1995, 1566 ss.

([135]) V. Corte costituzionale, sentenza n. 215 del 1987, in Giur. Cost. 1987, I, 1615 ss., con cui, attraverso la sostituzione di un frammento testuale (sentenza c.d. “sostitutiva”), si fa acquistare carattere precettivo ad una disposizione legislativa, attuativa del diritto sociale alla scolarità (art. 34 Cost.) e all’assistenza per i portatori di handicap (art. 38, comma 3, Cost.), che era stata deliberata come norma meramente programmatica.

([136]) Sul punto v., in generale C. Colapietro, La giurisprudenza costituzionale nella crisi dello Stato sociale, Padova 1996; sul diritto di proprietà, in particolare, S. Mangiameli, Das Privateigentum in der italienischen Verfassung – Anhaltspunkte für eine wertende Rechtsvergleichung, in Die Europäische Grundrechte-Charta im wertenden Verfassungsvergleich, Hrsg. v. Klaus Stern – Peter Tettinger, Berlin 2005, 335 ss.

([137]) v. F. Modugno, La funzione legislativa complementare della Corte costituzionale, 1660.

([138]) Un caso singolare è offerto dalla giurisprudenza costituzionale sul c.d. “tetto pensionistico”,

([139]) Corte costituzionale, sentenza n. 173 del 1986, cit., 1357, che qualifica “la cristallizzazione del tetto pensionabile” come una misura che persegue “finalità sociali”, quali il “risanamento e ripianamento delle gestioni previdenziali a rilevante connotazione di solidarietà sociale”, in una “visione unitaria di politica economica generale che il legislatore valuta e gradua nell’esercizio insindacabile della sua discrezionalità”.

([140]) Corte costituzionale, sentenza n. 225 del 1976, in Giur. Cost. 1976, 1801.

([141]) E subito dopo si aggiungeva, “partendo dalla constatazione della ripetizione e sovrapposizione nel tempo di normative di blocco, che l’ulteriore procrastinarsi di tali normative potrebbe conferire, in linea di fatto, al regime di blocco un carattere di ordinarietà e indurre, quindi, la Corte a riformulare, sotto tale diverso presupposto, il giudizio di legittimità” (Corte costituzionale, sentenza n. 225 del 1976, cit., 1818) ; v. anche la sentenza n. 89 del 1984, in Giur. Cost. 1984, I, 496, in cui la Corte, nonostante abbia rigettato la questione di costituzionalità relativa all’ennesima proroga dei contratti di locazione, asseriva che “indubbiamente tale proroga costituisce una non lieve anomalia nel quadro normativo conseguente alla cit. legge n. 392 del 1978”.

([142]) Corte costituzionale, sentenza n. 826 del 1988, in Giur. Cost. 1988, I, 3893 ss. (3938); consapevole della circostanza che discipline provvisorie possono perdurare nel tempo sino diventare permanenti, la Corte si premura nel dire che, “se l’approvazione della nuova legge dovesse tardare oltre ogni ragionevole limite temporale”, qualora dovesse essere “nuovamente investita della medesima questione, non potrebbe non effettuare una diversa valutazione con le relative conseguenze” e, ad ogni buon conto, conclude la sua sentenza indicando al legislatore i principi da seguire nella determinazione della legislazione futura (p. 3939).

([143]) v. A. Anzon, Nuove tecniche decisorie della Corte costituzionale, in Giur. Cost. 1992, 3199 ss.; ed anche C. Salazar, Dal riconoscimento alla garanzia dei diritti sociali, cit., 132 ss.

([144]) La vicenda riguarda l’indennità di disoccupazione determinata dalla legge senza un meccanismo di adeguamento al procedere dell’inflazione; la Corte costituzionale, sentenza n. 497 del 1988, in Giur. Cost. 1988, I, 2209 ss., ne pronunciava l’incostituzionalità, concludendo: “compete quindi al legislatore l’adeguamento dell’importo come determinato dalla norma che si dichiara costituzionalmente illegittima”; di fronte alle difficoltà applicative i giudici di merito sollevavano nuovamente la medesima questione di costituzionalità, ma la norma per cui si invocava la pronuncia era già stata annullata dalla sentenza precedente, per cui la Corte costituzionale, sentenza n. 295 del 1991, in Giur. Cost. 1991, 2319 ss., dichiarava l’inammissibilità, per mancanza dell’oggetto, e invitava il giudice a provvedere nel caso concreto.

([145]) v. Corte costituzionale, sentenza n. 243 del 1993, in Giur. Cost. 1993, 1756 ss. (ed ivi i commenti di A. Anzon, Un’additiva di principio con termine per il legislatore,1785 ss., C. Pinelli, Titano, l’eguaglianza e un nuovo tipo di “additiva di principio”, 1792 ss., M. D’Amico, Un nuovo modello di sentenza costituzionale ?, 1803 ss.), relativa al mancata ricomprensione dell’indennità integrativa speciale nel calcolo dell’indennità di fine rapporto, per i dipendenti pubblici. La Corte censura l’omissione legislativa e afferma che “spetta però al legislatore, determinando la misura, i modi e i tempi di detto computo, rendere in concreto realizzabile il diritto medesimo” e, “poiché … l’intervento del legislatore … è necessario per reintegrare l’ordine costituzionale violato, esso deve avvenire con adeguata tempestività”. La Corte stessa indica l’occasio legis nella prossima legge finanziaria e avverte che “naturalmente ove ciò non avvenisse, oppure se i tempi del graduale adeguamento alla legalità costituzionale si prolungassero oltre ogni ragionevole limite, ovvero, se i principi enunciati nella presente decisione risultassero disattesi, questa Corte, se nuovamente investita del problema, non potrebbe non adottare le decisioni a quella situazione appropriate”.

([146]) R. Granata, La Giustizia costituzionale del 1996, in Giur. Cost. 1997, 1259 (relazione sull’attività della Corte costituzionale pronunciata dal suo Presidente).

([147]) C. Colapietro, Garanzia e promozione dei diritti sociali nella più recente giurisprudenza costituzionale, in Giu. It., 1995 p. 125, il quale così continua: “tale nuova tecnica decisoria viene da taluni interpretata come il tentativo del giudice costituzionale di perseguire, attraverso il condizionamento della discrezionalità legislativa, una politica estensiva dei diritti sociali, ergendosi così ad unico e strenuo difensore di quello Stato sociale messo in pericolo non solo da una grave crisi economica ma anche da una politica legislativa di tagli sulla spesa effettuati prima di tutto a danno delle conquiste sociali per anni perseguite”.

([148]) v., oltre alle decisioni già richiamate, Corte costituzionale, sentenze n. 277 e n. 421 del 1991, in Giur. Cost. 1991, rispett. 2191 ss. e 3591 ss.; sentenze n. 88, n. 204 e n. 232 del 1992, ivi, 1992, rispett. 868 ss., 1469 ss. e 1799 ss.; sentenza n. 240 del 1994, ivi, 1994, 1970 ss.

([149]) Attraverso le decisioni di questo genere il giudice costituzionale ha pronunciato sull’adeguamento del fondo per la sicurezza stradale (Corte costituzionale, sentenza n. 560 del 1987, in Giur. Cost. 1987, I, 3529 ss.), sulla perequazione del canone enfiteutico (Corte costituzionale, sentenza n. 406 del 1988, in Giur. Cost. 1988, I, 1811 ss.; e sentenza n. 74 del 1996, ivi, 1996, 699 ss.), sull’aggiornamento del massimale di prescritto per il risarcimento del danno prodotto alle merci dal vettore (Corte costituzionale, sentenza n. 420 del 1991, in Giur. Cost. 1991, 3582 ss.) e sul mancato indennizzo dei vincoli di piano regolatore (Corte costituzionale, sentenza n. 179 del 1999, in Giur. Cost. 1999, 1750 ss.).

([150]) La Corte ha pronunciato, con delle sentenze additive di principio, altresì, in tema di applicazione delle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi nei reati militari (284/1995), di sciopero degli avvocati (171/1996), di obiezione totale di coscienza al servizio militare (43/1997), di decadenza del mandato di consigliere comunale (160/1997), di tutela della libertà personale delle persone detenute (26/1999), di misure sostitutive per i detenuti ammalati di AIDS (438 e 439/1995) e di norme processuali (32/1999); ed ancora di disciplina dell’adozione (44/90; 303/1996; 44/1998; 283/1999), di diritto alla salute e libertà di cura (185/1998) e di fecondazione medicalmente assistita (347/1998).

([151]) Il primo atto, in tal senso, è stato la legge 22 maggio 1975 n. 152 (Disposizioni a tutela dell’ordine pubblico), c.d. “legge Reale” (v. P. Nuvolone, Legge Reale, in Indice penale, 1978, 324 s.); a questo ha fatto seguito il D.L. n. 625 del 1979 (misure urgenti per la tutela dell’ordine democratico e della sicurezza pubblica), convertito con modificazioni dalla legge 6 febbraio 1980, n. 15; in proposito, v. P. Nuvolone, Misure contro il terrorismo, in Indice penale, 1979, 532 ss.; C. R. Calderone, «Emergenza» e necessità di tutela dell’ordine democratico (a proposito del decreto legge 15 dicembre 1979 n. 625), in Giur. merito, 1980, 1 ss.; G. Neppi Modona, A quando la riforma dell’ordinamento penale? Terrorismo: le tre logiche del 625, in Il Ponte, 1980, 1, 184 ss.; G. Salvini, Il D. L. 15 dicembre 1979, n. 625 concernente le misure urgenti per la tutela dell’ordine democratico e della sicurezza pubblica: osservazioni sulle disposizioni di carattere processuale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1981, II, 1455 ss.; D. Pulitanò, Le misure del governo per l’ordine pubblico, in Dem. dir., 1980, 1, 19 ss.; Id., Misure antiterrorismo. Un primo bilancio, in Dem. dir., 1981, 1-2, 77 ss..

([152]) Corte costituzionale, sentenza n. 1 del 1980, in Giur. Cost. 1980, 3 ss.; Corte costituzionale, n. 15 del 1982, in Giur. Cost. 1982, I, 85 ss., con osservazione di L. Carlassare, Una possibile lettura in positivo della sent. n. 15?, ivi, 1982, I, 98, e di A. Pace, Ragionevolezza abnorme o stato di emergenza?, ivi, 1982, I, 108 ss.; Corte costituzionale, sentenza n. 38 del 1985, in Giur. Cost., 1985, 158; Corte costituzionale, sentenza n. 194 del 1985, in Giur. Cost. 1985, 1513. In dottrina: G. De Vergottini, La difficile convivenza fra libertà e sicurezza. La risposta delle democrazie al terrorismo. Relazione al Convegno annuale dell’AIC sul tema: “Libertà e sicurezza”, in Rass. parl., 2004, 2, 427 ss.; nonché, in relazione alla questione prospettata dal giudice a quo della violazione dell’art. 5 CEDU, dichiarata non sussistente dalla Corte, in quanto il parametro non poteva essere collocato a livello costituzionale, v. S. Bartole, Interpretazioni e trasformazioni della Costituzione repubblicana, Bologna 2004, 313 ss.

([153]) “Ed invero, si tratta di un fenomeno caratterizzato, non tanto, o non solo, dal disegno di abbattere le istituzioni democratiche come concezione, quanto dalla effettiva pratica della violenza come metodo di lotta politica, dall’alto livello di tecnicismo delle operazioni compiute, dalla capacità di reclutamento nei più disparati ambienti sociali” (Corte costituzionale, sentenza n. 15 del 1982, cit., punto 4 considerato in diritto).

([154]) v. Corte costituzionale, sentenza n. 15 del 1982, cit., punto 5 considerato in diritto. Il giudice costituzionale, peraltro, fa salva la discrezionalità del legislatore avvertendo che spetta a questo definire se l’allungamento dei termini di custodia preventiva sia una misura idonea; “una valutazione in proposito è preclusa al giudice, sia pure il giudice delle leggi, perché si risolverebbe in un sindacato su una scelta operata in tema di politica criminale dal potere su cui istituzionalmente grava la responsabilità di tutelare la libertà e, prima ancora, la vita dei singoli e dell’ordinamento democratico” (punto 6 del considerato in diritto.

([155]) v. Corte costituzionale, sentenza n. 15 del 1982, cit., punto 7 considerato in diritto.

([156]) “Una legislazione d’emergenza non può non comprendere anche misure atte ad adeguare l’ordinamento giudiziario ai tempi, quale sarebbe appunto una più razionale ed efficiente organizzazione, ad ogni livello, degli uffici giudiziari, in personale e mezzi, che sia in grado di soddisfare con sollecitudine le nuove e maggiori esigenze proprio là dove e quando esse si verificano. È un compito, questo, al quale il legislatore non può più sottrarsi in coerenza con le altre misure urgenti ed eccezionali adottate” (Corte costituzionale, sentenza n. 15 del 1982, cit., punto 7 considerato in diritto).

([157]) C. Esposito, Il controllo giurisdizionale sulla costituzionalità delle leggi in Italia (1950), in La Costituzione italiana – Saggi, Padova, 1954, 263 ss., in part. 276, che avvertiva “tale estensione è … contrastante con la natura della legge, e con i principi dominanti sulla interpretazione della legge, e trasformerebbe a tal punto la funzione della Corte da sindacato sulla legge in controllo sul Legislatore” (277).

([158]) V. Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale, II, La Corte costituzionale, cit., 371. Cfr. anche Corte costituzionale, sentenza n. 54 del 1968, in Giur. cost., 1968, I, 831, dove si sottolinea che “nel giudizio sulla razionalità di una certa disciplina non si deve guardare soltanto alla posizione formale di chi ne è destinatario ma anche alla funzione od allo scopo a cui essa è preordinata”. Da questo punto di vista, peraltro, il riscontro del giudice costituzionale non supererebbe quei limiti che C. Esposito, Il controllo giurisdizionale, cit., 276, individuava nell’impossibilità di sindacato dei “motivi” della legge.

([159]) v. Corte costituzionale, sentenza n. 158 del 1975, in Giur. cost., 1975, I, 1405 ss., “l’ambito del principio di eguaglianza è stato ormai precisato da questa Corte in numerose occasioni. È stato, in particolare, riconosciuto come riservato al potere discrezionale del legislatore lo stabilire discipline differenziate per regolare situazioni che egli ritiene ragionevolmente e non arbitrariamente diverse e per il perseguimento di finalità apprezzabili costituzionalmente”.

([160]) Corte costituzionale, sentenza n. 204 del 1982, in Giur. Cost. 1982, I, 2146 ss., e v. già sentenza n. 25 del 1966, ivi, 1966, I, 24 ss., “l’eguaglianza è un principio generale che condiziona tutto l’ordinamento nella sua obbiettiva struttura”,

([161]) Tra i primi a porre le questioni inerenti al controllo sulla discrezionalità legislativo, l’eccesso di potere legislativo e la ragionevolezza v. L. Paladin, Osservazioni sulla discrezionalità e sull’eccesso di potere del legislatore ordinario, in Riv. trim. dir. pubbl. 1956, 993 ss.; Id., Legittimità e merito delle leggi nel processo costituzionale, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1964, 304; Id., Il principio costituzionale d’eguaglianza, Milano 1965; Id., Ragionevolezza (principio di), in Enc. Dir., Aggiorn. I, Milano 1997, 899 ss.; v. anche C. Rossano, L’eguaglianza giuridica nell’ordinamento costituzionale, Napoli, 1966; A.S. Agrò, Contributo ad uno studio sui limiti della funzione legislativa in base alla giurisprudenza sul principio d’eguaglianza, in Giur. Cost. 1967, 900 ss.; F. Modugno, L’invalidità della legge, I, Milano 1970, 323 ss.; Id., Legge (vizi della), in Enc. Dir., XXIII, Milano 1973, 1032 ss.; A.M. Sandulli, Il principio di ragionevolezza nella giurisprudenza costituzionale, in Dir. Soc. 1975, 565 ss.; A. Cerri, L’eguaglianza nella giurisprudenza della Corte costituzionale, Milano 1976; Id., Ragionevolezza delle leggi, in Enc. Giur. Treccani, Roma 1994; G. Zagrebelsky, Corte costituzionale e principio d’eguaglianza, in La Corte costituzionale tra norma giuridica e realtà sociale, a cura di N. Occhiocupo, Bologna 1978, 108 ss.; A. Pizzorusso, Il controllo della Corte costituzionale sull’uso della discrezionalità legislativa, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1986, 795 ss.; R. Pinardi, La Corte, i giudici ed il legislatore, Milano 1993; il volume collettaneo Il principio di ragionevolezza nella giurisprudenza della Corte costituzionale. Riferimenti comparatistici, Milano 1994; A. Moscarini, Ratio legis e valutazioni di ragionevolezza della legge, Torino 1996; J. Luther, Ragionevolezza (delle leggi), in Dig. Disc. Pubbl., XII, Torino 1997, 355 ss.; M. Scudiero - S. Staiano (a cura di), La discrezionalità del legislatore nella giurisprudenza della Corte costituzionale, Napoli 1999; G. Scaccia, Gli “strumenti” della ragionevolezza nel giudizio costituzionale, Milano 2000; A. Morrone, Il custode della ragionevolezza, Milano 2001; M. La Torre - A. Spadaro, La ragionevolezza nel diritto, Torino 2002; e il volume Corte costituzionale e principio d’eguaglianza, che raccoglie gli atti di un convegno in ricordo di Livio Paladin, Padova 2002.

([162]) Sintomatica è in proposito la conferenza stampa dell’allora Presidente della Corte per l’anno 1994, v. P. Casavola, La giustizia costituzionale nel 1994, pubblicazione a cura della Corte costituzionale, Roma 1995, 1-34; e in Riv. Amm. R.I. 1995, 1, 13 ss., ove si afferma “una completa disamina della giurisprudenza in relazione al principio di eguaglianza significherebbe in pratica illustrare in questa sede la quasi totalità delle sentenze rese nell’anno trascorso, cosa che peraltro, appiattendo le problematiche, impedirebbe di percepire la specificità dei principî espressi in ordine agli altri singoli parametri”.

([163]) P. Casavola, La giustizia costituzionale nel 1994, cit.

([164]) P. Casavola, La giustizia costituzionale nel 1994, cit.

([165]) Resta da considerare come il riscontro della ratio della legge sia l’elemento unificante dei due schemi descritti, in quanto rappresenta verosimilmente il passaggio logico ineludibile di ogni pronuncia costituzionale, tanto che si svolga una censura di coerenza, quanto che si denunci l’irragionevolezza della legge.

([166]) v. Corte costituzionale, sentenza n. 254 del 1994, in Giur. Cost. 1994, 2061 ss.

([167]) Corte costituzionale, sentenza n. 254 del 1994, cit., 2068. Il giudice costituzionale, procedendo attraverso una comparazione, ha conseguentemente affermato con chiarezza che non viene in considerazione “l’intrinseca irrazionalità del divieto … ma soltanto la discrasia scaturente dall’assenza di analoghe norme protettive nella specifica materia della tutela dall’inquinamento e da cui deriva la sopravvenuta irragionevolezza del permanere di un regime preclusivo rispetto a fattispecie di reato conformate in modo tale da provocare una disciplina ingiustificatamente più severa nonostante l’identità dell’interesse protetto ed i giudizi di valore ancor più negativi espressi sotto il profilo sanzionatorio dalle successive previsioni”( 2068-69). Su tema della ragionevolezza come coerenza sistematica della legge v. anche Corte costituzionale, sentenza n. 25 del 1970, in Giur. Cost. 1970, 243 ss., a proposito della notifica a imputato detenuto dichiarato irreperibile; e sentenza n. 117 del 1979, ivi, 1979, 1124 ss., sul giuramento dei non credenti (sulla quale v. S. Mangiameli, Il giuramento dei non credenti davanti alla Corte costituzionale, ivi, 1980, I, 124 ss.).

([168]) v. Corte costituzionale, sentenza n. 78 del 1994, in Giur. Cost. 1994, 786 ss.

([169]) La Corte costituzionale nel compiere il controllo di ragionevolezza della legge si è avvalsa di diversi “strumenti”, dando luogo a figure e tecniche di controllo tipiche e distinte: sussumibile nella ragionevolezza strumentale della legge: congruenza, adeguatezza e proporzionalità (341/94; 370/1996); la conformità alle evidenze di carattere sociologico (420/1991); gli anacronismi legislativi (41/1999); l’eterogenesi dei fini (170/1994); e nella ragionevolezza giustizia: l’ingiustizia obiettiva della legge (81/1992; 46/1993); sul punto v. più ampiamente G. Scaccia, Gli “strumenti” della ragionevolezza nel giudizio costituzionale, cit., 192 ss..

([170]) Corte costituzionale, sentenza n. 78 del 1994, cit., 790-91. Quanto, invece, alla disparità di trattamento con il personale sanitario ospedaliero, il cui assegno è computato nella pensione, la Corte esclude la comparabilità, in quanto l’ordinamento nel suo complesso non esprimerebbe “un principio, generale, di necessario computo delle indennità ai fini di quiescenza, che abbia fondamento in specifiche disposizioni e, comunque, in valori tutelati dalla Costituzione”.

([171]) v. Corte costituzionale, sentenze n. 363 e n. 406 del 1994, in Giur. Cost. 1994, rispett. 2954 ss. e 3615 ss.

([172]) v. P. Casavola, La giustizia costituzionale nel 1994, cit.

([173]) Osserva P. Casavola (La giustizia costituzionale nel 1994, cit.) “ed in effetti vengono quasi costantemente addotti per indurre la Corte a valutazioni finalistiche che l’esame condotto con riguardo esclusivo ad un’altra norma costituzionale non consentirebbe (per esempio il semplice riferimento all’art. 13 non permette di domandarsi perché si sia operata una limitazione della libertà personale, cosa invece possibile ove si invochi anche l’art. 3)”.

([174]) Osserva la Corte che “il controllo di costituzionalità, dovendosi per un verso saldare al generale principio di conservazione dei valori giuridici e restando comunque circoscritto all’interno dei confini propri dello scrutinio di legittimità, non può travalicare in apprezzamenti della ragionevolezza che sconfinino nel merito delle opzioni legislative, e ciò specie nelle ipotesi in cui la questione dedotta investa, come nel caso in esame, sistemi normativi complessi, all’interno dei quali la ponderazione dei beni e degli interessi non può certo ritenersi frutto di soluzioni univoche” (Corte costituzionale, sentenza n. 89 del 1996, cit., 824), per non ogni “ipotetico contrasto con il canone della eguaglianza, qualsiasi incoerenza, disarmonia o contraddittorietà che una determinata previsione normativa possa, sotto alcuni profili o per talune conseguenze, lasciar trasparire” determina una questione di costituzionalità dal punto di vista dell’eguaglianza, altrimenti “al controllo di legittimità costituzionale verrebbe impropriamente a sovrapporsi una verifica di opportunità”, mentre “Norma inopportuna e norma illegittima sono pertanto due concetti che non si sovrappongono”.

([175]) L. Elia, La giustizia costituzionale nel 1982, in Giur. Cost. 1983, I, 684 (694).

([176]) v. R. Bin, Diritti e argomenti. Il bilanciamento degli interessi nella giurisprudenza costituzionale, Milano 1992; G. Zagrebelsky, Il diritto mite, Torino 1992, 147 ss.; L. Mengoni, Ermeneutica e dogmatica giuridica, Milano 1996, 115 ss.; O. Chessa, Bilanciamento ben temperato o sindacato esterno di ragionevolezza? Note sui diritti inviolabili come parametro del giudizio di costituzionalità, in Giur. Cost. 1998, 3925 ss.; Id., Libertà fondamentali e teoria costituzionale, Milano 2002; G. Scaccia, Il bilanciamento degli interessi come tecnica di controllo costituzionale, ivi, 3953 ss.. Per una comprensione della problematica trattata appare imprescindibile lo studio dell’importante contributo di S. Bartole, Principi generali del diritto (dir. cost.), in Enc. dir., XXXV, Milano 1986, 494 ss., cui adde A. D’Atena, I principi ed i valori costituzionali, in Lezioni, cit., 1 ss..

([177]) Basti considerare, ad esempio, il carattere normativo delle sentenze della Supreme Court con il principio dello stare decisis, o la previsione dell’art. 19, comma 2, GG, sulla tutela del Wesensgehalt dei diritti fondamentali, che in una qualche misura – nonostante il silenzio della Costituzione italiana – la Corte costituzionale è stata costretta ad importare (peraltro, più come argomento retorico, che non come strumento di determinazione della legittimità costituzionale di una disposizione; v., ad esempio, sentenza n. 27 del 1998, in Giur. Cost. 1998, 158, dove lo svolgimento dell’argomentazione non ha nulla a vedere con l’affermazione che “a questa Corte, nell’esercizio del controllo di costituzionalità sulle leggi, compete tuttavia di garantire la misura minima essenziale di protezione delle situazioni soggettive che la Costituzione qualifica come diritti, misura minima al di sotto della quale si determinerebbe, con l’elusione dei precetti costituzionali, la violazione di tali diritti”). Si consideri, poi, che proprio negli Stati Uniti, dove è stato formulato, la tecnica del giudizio di bilanciamento avrebbe ormai un carattere recessivo.

([178]) Con il consueto realismo v. quanto afferma L. Paladin (La Corte costituzionale, cit., 42): “la Corte costituzionale non si avvale di una precostituita scala di valori, ma si riserva di giudicare caso per caso. (…) La nostra Corte, in effetti, non ha mai sostenuto una concezione assolutistica degli stessi diritti inviolabili dell’uomo, e anzi ha fatto intendere che ogni valore, principi supremi compresi, può almeno in qualche caso ritrarsi o soccombere nel confronto con esigenze e interessi di ordine diverso”.

([179]) v. A. Baldassarre, Costituzione e teoria dei valori, in Pol. dir. 1991, 639 ss.; G. Zagrebelsky, Il diritto mite, cit.; F. Modugno, I “nuovi diritti” nella giurisprudenza costituzionale, cit.; Id., Principi generali dell’ordinamento, in Enc. Giur. Treccani, Roma 1991; F. Pizzetti, L’ordinamento costituzionale per valori, in Dir. eccl. 1995, 66 ss.; P. Ciarlo, Dinamiche delle democrazie e logica dei valori, in Dir. pubbl. 1995, 128 ss.; A. Ruggeri, Giurisprudenza costituzionale e valori, in Dir. pubbl. 1998, 6; v. anche i contributi (di S. Bartole - A. Ruggeri - A. Baldassare) raccolti nel volume Il metodo nella scienza del diritto costituzionale, Padova 1997. Per una acuta ed efficace critica v. S. Fois, “Ragionevolezza” e “valori”: interrogazioni progressive verso concezioni sulla forma di Stato e sul diritto, in Il principio di ragionevolezza nella giurisprudenza della Corte costituzionale, cit., 103 ss.; Id., Principi e regole normative nell’opera di Vezio Crisafulli, in Il Contributo di Vezio Crisafulli alla scienza del diritto costituzionale, Padova 1994, 249 ss.; nonché, M. Mazziotti di Celso, Lezioni di diritto costituzionale, II, Milano 1985, 168 s.; P. Grossi, I diritti di libertà ad uso di lezioni, cit., 89, in part. nota 48; A. Pace, Problematica delle libertà costituzionali, cit., 37 ss..

([180]) Queste tendenze si collegano direttamente all’elaborazione di R. Dworkin, I diritti presi sul serio, trad. it., Bologna 1977; e di R. Alexy, Theorie der Grundrechte, Frankfurt a.M. 1986. Ma si tratta di una prospettiva  del tema dei valori assai limitato e discutibile; anche alla dottrina italiana sembrano essere sfuggiti alcuni approfondimenti che il tema dei valori pone in relazione al diritto e alla giurisprudenza; basti pensare, in proposito, all’importanza della filosofia di Max Scheler, ormai e finalmente tradotto anche in italiano (Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori. Nuovo tentativo di fondazione di un personalismo etico (1927), trad. it., Torino 1996), che risulta totalmente ignorata (per una valutazione nella dottrina italiana, però, v. già L. Caiani, I giudizi di valore nell’interpretazione giuridica, Padova, 1954, 93 ss.).

([181]) v. Corte costituzionale, sentenza n. 518 del 2000, in Giur. Cost. 2000, 4058 ss., con la quale si dichiara non fondata la irragionevolezza, denunciata dal giudice a quo, della norma del codice penale sull’incesto, dove il passaggio della motivazione che argomenta in termini di bilanciamento e tutt’altro che essenziale e ha un funzione meramente retorica e non euristica.

([182]) v. Corte costituzionale, sentenza n. 108 del 1994, in Giur. Cost. 1994, 927 ss., dove il richiamo al “quadro dei valori costituzionali” non aggiunge nulla dal punto di vista del modello di decisione che mantiene lo schema sillogistico e si rivela, perciò un espediente retorico. La questione riguardava il precetto che consentiva l’esclusione dall’accesso alle forze di polizia e alla magistratura di coloro che, per informazioni raccolte, non risultassero “appartenenti a famiglia di estimazione morale indiscussa”, in quanto non riconducibile al novero dei requisiti richiedibili per legge ai sensi dell’art. 51 Cost., per cui, persino il richiamo all’art. 3 e ad “una condizione comportante una limitazione irragionevole all’accesso ai pubblici uffici”, appare un di più non necessario a fondare la dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma legislativa.

([183]) Così F. Modugno, Principi generali dell’ordinamento, cit., 11 e 13, che esprime una posizione onnicomprensiva dei diversi aspetti toccati dalla giurisprudenza costituzionale.

([184]) A. D’Atena, I principi ed i valori costituzionali, cit., 8

([185]) A. Pace, La variegata struttura dei diritti costituzionali, in Scritti in onore di Giuseppe Abbamonte, Napoli 1999, vol. II, 1078 (“Dal che consegue che il giurista non dovrebbe mai accedere ad interpretazioni del testo costituzionale, che in nome di valori inespressi o di valori costituzionalmente riconosciuti ‘ma con dati limiti’, forzino la lettera delle disposizioni costituzionali e facciano dire alla Costituzione cose che essa non dice o che non dice in quei termini”).

([186]) È sufficiente, in proposito, riprendere la nozione di “lite” di F. Carnelutti, Lezioni di diritto processuale, Padova 1926, I, 167 e II, 7; Id., Diritto e processo, Napoli 1958, 54; e su questa v. anche P. Calamandrei, Il concetto di “lite” nel pensiero di F. Carnelutti, in Studi sul processo civile, Padova 1930, II 359 ss..

([187]) v. Corte costituzionale, sentenza n. 127 del 1990, in Giur. cost. 1990, 718 ss., nella quale, consentendosi all’imprenditore di potere adottare la tecnologia meno costosa, purché rispetti i limiti previsti per il rilascio delle sostanze inquinanti nell’ambiente, il diritto d’impresa non viene contemperato con quello alla salubrità dell’ambiente, e la Corte procede con una interpretazione adeguatrice sulla base del principio che l’“emissione inquinante … non potrà mai superare quello ultimo assoluto e indefettibile rappresentato dalla tollerabilità per la tutela della salute umana e dell’ambiente in cui l’uomo vive: tutela affidata al principio fondamentale di cui all’art. 32 Cost., cui lo stesso art. 41, comma 2, si richiama” (v. anche le considerazioni di L. Violini, Protezione della salute e dell’ambiente “ad ogni costo”, ivi, 727 ss.).

([188]) Questo appare essere il canone di cui effettivamente la Corte costituzionale, sentenza n. 366 del 1991, in Giur. Cost. 1991, 2914 ss., allorché valuta la complessa disciplina in materia di intercettazioni telefoniche, previste dall’art. 270 c.p.p., che prevede la non utilizzabilità delle intercettazioni in procedimenti diversi da quelli per i quali è stata disposta con atto motivato del giudice, tranne che non si tratti di reati per cui è obbligatorio l’arresto in flagranza. Nonostante nel tenore della motivazione si dica cha la citata disposizione “costituisce l’attuazione in via legislativa del bilanciamento di due valori costituzionali fra loro contrastanti: il diritto dei singoli individui alla libertà e alla segretezza delle loro comunicazioni e l’interesse pubblico a reprimere i reati e a perseguire in giudizio coloro che delinquono”, può dirsi che semmai vi è un esame di ragionevolezza della disposizione del codice, ma sicuramente non vi è bilanciamento, in particolare la fattispecie “intercettazione – altro procedimento” è ricondotta alla libertà della corrispondenza, anche se sarebbe più corretto, quanto meno, aggiungere anche il diritto di difesa; mentre la fattispecie “intercettazione – altro procedimento, per cui è obbligatorio l’arresto in flagranza” e sussulta nell’“interesse pubblico a reprimere i reati”.

([189]) A tal riguardo, possono richiamarsi le sentenze, sopra citate al par. 4, in tema di “legittimità costituzionale provvisoria”, molte delle quali sono state giustificate in termini di bilanciamento dei diritti contrapposti, valga per tutti Corte costituzionale, sentenza n. 225 del 1976, cit., dove “un intervento per fini sociali in favore delle classi meno abbienti”, non realizza “una definitiva ed irreversibile compressione delle facoltà di godimento del proprietario”, solo “in ragione dei riconosciuti caratteri di straordinarietà e temporaneità della disciplina”, tant’è che la Corte avvertiva come, per effetto delle proroghe, “la iniziale ragionevolezza di un generale e indiscriminato regime vincolistico delle locazioni degl’immobili urbani adibiti ad uso diverso dall’abitazione, e dei relativi canoni, e la tollerabilità, in ragione della prevista breve durata, dei conseguenti sacrifici imposti ai locatori, si sono così andate progressivamente affievolendo e riducendo”.

([190]) v. Corte costituzionale, sentenza n. 118 del 1996, in Giur. Cost. 1996, 1011, nella quale, per riconoscere l’indennizzabilità (anteriore all’entrata in vigore della legge) dei danni subito per la vaccinazione antipolio, si evoca il conflitto tra la salute come diritto individuale e come “interesse della collettività” (art. 32 Cost.), ma la decisione, in realtà, si fonda sul principio di solidarietà (art. 2 Cost.) che fonda il diritto al ristoro del danno subito nell’interesse della collettività che non può subire menomazioni di ordine temporale (v. anche sentenza n. 307 del 1990, in Giur. Cost. 1990, 1874 ss., con osservazioni di F. Giardina, Vaccinazione obbligatoria, danno alla salute e “responsabilità” dello Stato, ivi, 1880 ss.; e sentenza n. 258 del 1994, in Giur. Cost. 1994, 2097 ss.); peraltro, per esigenze di cassa (pubblica) la ragionevolezza della Corte costituzionale è pronta ad accettare che detta indennità si possa ridurre ad un valore (questa volta economico-monetario) quasi irrisorio (v. sentenza n. 27 del 1998, cit., 158-159).

([191]) v. Corte costituzionale, sentenza n. 268 del 1998, in Giur. Cost. 1998, 2083 ss., con la quale la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma sulle “provvidenze a favore dei perseguitati politici antifascisti o razziali e dei loro familiari superstiti”, nella parte in cui non prevedeva che, della commissione istituita per esaminare le domande per conseguire i benefici che la stessa legge contemplava, facesse parte anche un rappresentante dell'Unione delle comunità ebraiche italiane, desumendo l’illegittimità di detta lacuna dalla circostanza che per i perseguitati politici, invece, la disposizione contemplava la partecipazione di un membro della relativa associazione. 

([192]) v. Corte costituzionale, sentenza n. 303 del 1996, in Giur. Cost. 1996, 2503 ss., con la quale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 6, secondo comma, della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori), nella parte in cui non prevede che il giudice possa disporre l’adozione, valutando esclusivamente l’interesse del minore, quando l’età di uno dei coniugi adottanti superi di oltre quaranta anni l’età dell’adottando, pur rimanendo la differenza di età compresa in quella che di solito intercorre tra genitori e figli, se dalla mancata adozione deriva un danno grave e non altrimenti evitabile per il minore”. In questa ipotesi, infatti, la sentenza della Corte non bilancia l'interesse dei coniugi ad avere figli legittimi di derivazione adottiva, con quello del minore ad essere adottato, per cui appare del tutto improprio il richiamo “ai principi ed ai valori costituzionali assunti quale parametro di valutazione della legittimità costituzionale della disposizione denunciata (artt. 2 e 31 della Costituzione)”, tanto più che la Corte fa esattamente quello che dichiara di non voler fare (“affinché non si trasformi in una regola, la cui fissazione è invece rimessa alla discrezionalità del legislatore, l’eccezione deve rispondere ad un criterio di necessità”), in quanto la Corte da vita ad una vera e propria norma derogatoria, costituzionalmente fondata, che abilita il giudice a valutare una fattispecie ulteriore (derogatoria, per l’appunto) rispetto a quella prevista dalla legge, nella quale si rientrerebbe, ove non fosse prevista la deroga (v. le osservazioni di E. Lamarque, L’eccezione non prevista rende incostituzionale la regola (ovvero, il giudice minorile è soggetto alla legge, ma la legge è derogabile nell’interesse dei minori), ivi, 2509 ss.; analogo modo di procedere si realizza nel caso della sentenza n. 267 del 1998, in Giur. Cost. 1998, 2076 ss., con la quale non si realizza alcun “bilanciamento tra valori costituzionalmente rilevanti”, ma si pronuncia semplicemente l’illegittimità della mancata previsione della valutazione ex post dei presupposti di accesso all’assistenza indiretta nei casi di urgenza, “nei quali la gravità delle condizioni dell’assistito non consente di adempiere a tale modalità” in modo preventivo. Per questi casi la dottrina ha parlato di una “delega di bilanciamento”, a favore del giudice, o a favore dell’amministrazione, ma se si ammette la circostanza che la Corte dà vita con queste pronunce ad una norma derogatoria, costituzionalmente fondata, non vi è neppure alcuna delega di bilanciamento, ma semplicemente un atto discrezionale sulla base di una previsione normativa (posta dalla Corte costituzionale).

([193]) Sia per l’assenza di elementi testuali che consentano di regolare le diverse pretese, e sia per la circostanza – sempre presente – che si tratterebbe di diritti previsti da norme, facenti parte del medesimo atto normativo: la Costituzione, dotate della medesima validità e forza giuridica.

([194]) Tecnicamente, perciò, il bilanciamento si risolve in un atto che, non essendo praticamente possibile alcun contemperamento, determina un sacrificio immotivato e arbitrario di un diritto costituzionalmente garantito, per opera del giudice costituzionale, la cui pretesa di universalizzazione (v. L. Mengoni, L’argomentazione nel diritto costituzionale, in Ermeneutica e dogmatica giuridica, cit., 125) o cognitiva, basata sui valori, compreso quello della giustizia (v. G. Zagrebelsky, La giustizia costituzionale, Bologna 1988, 53; Id., Il diritto mite, cit., 97 ss.), è infondata; nel bilanciamento legislativo la norma è anch’essa espressione di una decisione arbitraria, in quanto atto di volontà, ma sarebbe sorretta da una legittimazione, che mancherebbe al giudice costituzionale, derivante dalla realizzazione del principio democratico (v. anche le considerazioni espresse in S. Mangiameli, Il giuramento decisorio tra riduzione assiologia e ideologizzazione dell’ordinamento, in Giur. Cost. 1996, 2928 ss.).

([195]) Basti pensare al diritto di sciopero dell’art. 40 Cost., al ruolo della giurisprudenza costituzionale e alle soluzioni apportate al tema del contemperamento dei diritti dalla legge n. 146 del 1990 (v. A. D’Atena, Costituzione ed autorità indipendenti: il caso della Commissione di garanzia dell’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali, in Lezioni, cit., 83 ss.)

([196]) v. Corte costituzionale, sentenza n. 27 del 1975, in Giur. Cost. 1975, 117.

([197]) v. art. 381 c.p. Zanardelli, il quale riprendeva, sul punto l’impostazione del codice toscano che collocava già il procurato aborto fra i delitti contro la persona, mentre il codice sardo lo poneva fra i delitti contro l’ordine delle famiglie. Nella relazione ministeriale sul progetto Zanardelli del 1887 si legge che “la legge deve spiegare la sua protezione anche per il feto tuttora racchiuso nell’alveo materno, difendendo la vita dell’uomo fin dal momento della fecondazione e rigettando, come inumana, l’antica dottrina, secondo la quale la donna, procurandosi l’aborto non fa un atto di libera disposizione del proprio corpo” (CLIII).

([198]) La Corte comunque avverte e precisa che “l’esenzione da ogni pena di chi, ricorrendo i predetti presupposti, abbia procurato l’aborto e della donna che vi abbia consentito non esclude affatto, già de jure condito, che l’intervento debba essere operato in modo che sia salvata, quando ciò sia possibile, la vita del feto” e sottolinea, infine, l’obbligo del legislatore di “predisporre le cautele necessarie per impedire che l’aborto venga procurato senza seri accertamenti sulla realtà e gravità del danno o pericolo che potrebbe derivare alla madre dal proseguire della gestazione: e perciò la liceità dell’aborto deve essere ancorata ad una previa valutazione della sussistenza delle condizioni atte a giustificarla.

([199]) Infatti, la collisione tra più diritti di rango costituzionale, che può essere affrontata dalla Corte costituzionale attraverso la tecnica del bilanciamento, con la ponderazione fra i diversi beni protetti in Costituzione, o effettuando una valutazione comparativa degli interessi, oppure una ponderazione di principi costituzionali concorrenti, comporta “una decisione non interpretativa e non deduttiva fondata sulla formulazione di giudizi di valore non assoggettabili ad un riscontro di coerenza sistematica, anche se nella motivazione della sentenza il giudice costituzionale tenderà a far apparire la decisione come l’esito naturale e logicamente necessitato di un processo rigidamente ermeneutica” (G. Scaccia, Gli “strumenti” della ragionevolezza nel giudizio costituzionale, cit., 310).

([200]) Quest’ultimo assunto è pacifico, in quanto è la stessa Corte ad averlo affermato in molte sue pronunce; e sarebbe anche confermato proprio dalla legge (n. 194 del 1978) sull’interruzione della gravidanza che successivamente il legislatore ha adottato, la quale non appare integralmente corrispondente alla prospettiva indicata dalla Corte (v. anche la sentenza n. 26 del 1981, sull’ammissibilità del referendum abrogativo sulla legge n. 194).

([201]) Basti pensare alla prospettiva di potere distinguere all’interno del medesimo atto normativo l’efficacia normativa delle singole disposizioni, come peraltro già si effettuava con la distinzione tra costituzione formale e materiale (v. M. Mazziotti di Celso, Principi supremi dell’ordinamento costituzionale e forma di Stato, in Dir. Soc. 1996, 303 ss.); oppure, alle incidenze sul principio di sovranità che un tale sindacato comporterebbe (v. F. Rimoli, Costituzione rigida, potere di revisione e interpretazione per valori, in Giur. Cost. 1992, 3712 ss.).

([202]) In proposito, v. A. D’Atena, I principi e i valori costituzionali, cit., 4 ss.

([203]) v. F. Modugno, I principi costituzionali supremi come parametro nel giudizio di legittimità costituzionale, in F. Modugno - A.S. Agrò - A. Cerri (a cura di), Il principio di unità del controllo sulle leggi nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, IV ed., Torino 2002, 292 ss., il quale afferma: “quando si parla di principi supremi non si parla di norme superiori ad altre, a tutte le altre, ma di entità di per sé irriducibili al normativo, al mondo della norma”.

([204]) v. S. Bartole, La Corte pensa alle riforme istituzionali?, in Giur. Cost. 1988, 5570 ss.; F. Modugno, Il problema dei limiti alla revisione costituzionale (in occasione di un commento al messaggio alle Camere del Presidente della repubblica del 26 giugno 1991), in Giur. Cost. 1992, 1649 ss.; N. Zanon, Premesse ad uno studio sui “principi supremi” di organizzazione come limiti alla revisione costituzionale, in Giur. Cost. 1998, 1891 ss.; a posteriori, osserva F. Sorrentino, Le fonti del dirittio amministrativo, Padova 2004, 65, che “le due leggi costituzionali (n. 1 del 1993 e n. 1 del 1997) con le quali si è tentato … di avviare un vasto processo di riforma costituzionale – limitatamente alla seconda parte della costituzione”, sono da considerare “in rottura … della costituzione”.

([205]) v. Corte costituzionale, sentenza n. 1146 del 1988, in Giur. Cost. 1988, 5565 ss., in part. 5569; con nota di S. Bartole, La Corte pensa alle riforme istituzionali?, cit., e in Le Regioni 1990, 774 ss. (783-784), con nota di M. Dogliani, La sindacabilità delle leggi costituzionali, ovvero la ‘sdrammatizzazione’ del diritto costituzionale, ivi.

([206]) Corte costituzionale, sentenza n. 1146 del 1988, cit., 5569.

([207]) v., in proposito, la ricostruzione della dottrina italiana pregressa compiuta da M. Dogliani, La sindacabilità delle leggi costituzionali, ovvero la ‘sdrammatizzazione’ del diritto costituzionale, cit., il quale non a caso, con riferimento agli enunciati della sentenza n. 1146, parla di “diritto costituzionale giurisprudenziale, o meglio scientifico-giurisprudenziale, perché sancisce un principio ormai (seppure dopo una originaria divaricazione di opinioni) largamente affermato nella giuspubblicistica” (775).

([208]) sulla quale v. le osservazioni di M. Mazziotti, Principi supremi dell’ordinamento costituzionale e forma di Stato, cit., 311.

([209]) V. Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale, I, Introduzione al diritto costituzionale italiano, Padova 1970, 105, dove si specifica: “e perciò, come il suo esercizio può essere ed è limitato nelle forme e nei modi, così può esserlo quanto agli oggetti e d al contenuto. Per tutto il resto, ove nulla sia disposto al riguardo, esso è libero di esprimersi nelle più varie direzioni e con i più diversi contenuti”. Tanto più se si riconosce al Parlamento la possibilità di adottare liberamente leggi costituzionali (così V. Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale, II, Le fonti, VI ed., a cura di F. Crisafulli, Milano 1993, 85-86).

([210]) v., in proposito l’art. 1 della legge costituzionale n. 1 del 1993 e l’art. 1 della legge costituzionale n. 1 del 1997, con le quali si è prevista l’istituzione di una commissione parlamentare bicamerale per predisporre il testo della revisione costituzionale solo della parte seconda della Carta.

([211]) In proposito, le sentenze della Corte costituzionali sono molteplici, nella sentenza n. 30 del 1971, in Giur. Cost. 1971, 150 ss., 153,  si afferma che se l’art. 7 Cost. “riconosce allo Stato e alla Chiesa cattolica una posizione reciproca di indipendenza e di sovranità”, ciò non gli conferirebbe di “avere forza di negare i principi supremi dell’ordinamento costituzionale dello Stato”; nella sentenza n. 12 del 1972, in Giur. cost. 1972, 45 ss., 65, con riferimento disciplina dell’esercizio della facoltà di questua, si dice che se le disposizioni del concordato sono tali da consentire “la derogabilità del principio di eguaglianza”, questa troverebbe “un limite inderogabile nel rispetto dei principi supremi dell'ordinamento”; nella sentenza n. 175 del 1973, in Giur. cost. 1973, 2321 ss., la problematica del concordato si è riproposta con riguardo alla definizione della “riserva della giurisdizione”, come “principio supremo”, che “che nemmeno una legge avente copertura costituzionale potrebbe superare” (p. 2335) e la Corte, a tal riguardo, per un verso asserisce che “non vi è dubbio che la giurisdizione sia principio caratteristico della sovranità e di questa rappresenti un elemento costitutivo”, ma, per l’atro, affermato che “un’inderogabilità assoluta della giurisdizione statale non risulta da espresse norme della Costituzione, né è deducibile, con particolare riguardo alla materia civile, dai principi generali del nostro ordinamento, nel quale ipotesi di deroga sono stabilite da leggi ordinarie (art. 2 cod. proc. civ.)”; mentre nella sentenza n. 18 del 1982, in Giur. cost. 1982, 138 ss.,  il “diritto di agire e resistere in giudizio a difesa dei propri diritti – strettamente connesso ed in parte coincidente con il diritto alla tutela giurisdizionale”, che troverebbe “la sua base soprattutto nell’art. 24 della Costituzione”, veniva ascritto “nel novero dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale’”, insieme alla “inderogabile tutela dell’ordine pubblico, e cioè delle regole fondamentali poste dalla Costituzione e dalle leggi a base degli istituti giuridici in cui si articola l’ordinamento positivo nel suo perenne adeguarsi all’evoluzione della società” e, su queste basi è stata pronunciata l’illegittimità costituzionale della legge di esecuzione del concordato, nella parte in cui le norme di questo non prevedevano che “alla Corte d’appello, all’atto di rendere esecutiva la sentenza del tribunale ecclesiastico, che pronuncia la nullità del matrimonio, spetta accertare che nel procedimento innanzi ai tribunali ecclesiastici sia stato assicurato alle parti il diritto di agire e resistere in giudizio a difesa dei propri diritti, e che la sentenza medesima non contenga disposizioni contrarie all’ordine pubblico italiano” (pp. 179-180).

([212]) v. Corte costituzionale, sentenza n. 183 del 1973, in Giur. Cost. 1973, 2401 ss. (“È appena il caso di aggiungere che in base all’art. 11 della Costituzione sono state consentite limitazioni di sovranità unicamente per il conseguimento delle finalità ivi indicate; e deve quindi escludersi che siffatte limitazioni, concretamente puntualizzate nel Trattato di Roma – sottoscritto da Paesi i cui ordinamenti si ispirano ai principi dello Stato di diritto e garantiscono le libertà essenziali dei cittadini – , possano comunque comportare per gli organi della C.E.E. un inammissibile potere di violare i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale, o i diritti inalienabili della persona umana”, 2420); nonché sentenza n. 170 del 1984, in Giur. Cost. 1984, 1222 ss. (“Le osservazioni fin qui svolte non implicano, tuttavia, che l’intero settore dei rapporti fra diritto comunitario e diritto interno sia sottratto alla competenza della Corte. Questo Collegio ha, nella sentenza n. 183/73, già avvertito come la legge di esecuzione del Trattato possa andar soggetta al suo sindacato, in riferimento ai principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale e ai diritti inalienabili della persona umana, nell’ipotesi contemplata, sia pure come improbabile, al numero 9 nella parte motiva di detta pronunzia”).

([213]) v. Corte costituzionale, sentenza n. 48 del 1979, in Giur. Cost. 1979, 373 ss., 382, in cui si rileva che, “più in generale, per quanto attiene alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute che venissero ad esistenza dopo l’entrata in vigore della Costituzione, … il meccanismo di adeguamento automatico previsto dall’art. 10 Cost. non potrà in alcun modo consentire la violazione dei principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale, operando in un sistema costituzionale che ha i suoi cardini nella sovranità popolare e nella rigidità della Costituzione (art. 1, secondo comma e Titolo VI della Costituzione)”.

([214]) Come il principio della sovranità dello Stato esercitata dal popolo (sentenza n. 18 del 1982); il principio della rigidità costituzionale (sentenza n. 48 del 1979); il principio dell’ordinamento democratico (sentenza n. 30 del 1971); il principio dell’unità della giurisdizione (sentenza n. 30 del 1971); il principio dell’ordine pubblico (sentenza n. 18 del 1982).

([215]) Corte costituzionale, sentenza n. 108 del 1994, in Giur. cost. 1994, 936 ss.

([216]) Corte costituzionale, sentenza n. 195 del 1972, in Giur. cost. 1972, 2173 ss.

([217]) Corte costituzionale, sentenza n. 366 del 1991, in Giur. cost. 1991, 2914 ss.

([218]) Corte costituzionale, sentenza n. 307 e n. 455 del 1990, in Giur. cost. 1990, rispett. 1874 ss., e 2732 ss.

([219]) Corte costituzionale, sentenza n. 176 del 1988, in Giur. cost. 1988, 605 ss.

([220]) Corte costituzionale, sentenza n. 161 del 1985, in Giur. cost. 1985, 1173 ss.

([221]) Corte costituzionale, sentenza n. 232 del 1989, in Giur. cost. 1989, 1001 ss.

([222]) Corte costituzionale, sentenza n. 203 del 1989, in Giur. cost. 1989, 890 ss.

([223]) Corte costituzionale, sentenza n. 181 del 1976, in Giur. cost. 1976, 1129 ss.

([224]) Corte costituzionale, sentenza n. 459 del 1989, in Giur. cost. 1989, 2106 ss.

([225]) M. Mazziotti, Principi supremi dell’ordinamento costituzionale e forma di Stato, cit., 310.

([226]) v. Corte costituzionale, sentenza n. 366 del 1991, cit., 2914 ss., in materia di utilizzo di intercettazioni telefoniche in processi diversi da quelli per i quali le intercettazioni medesime sono state autorizzate.

([227]) Corte costituzionale, sentenza n. 366 del 1991, cit., 2917.

([228]) Corte costituzionale, sentenza n. 34 del 1973, cit., 316.

([229]) “… in quanto incorpora un valore della personalità avente un carattere fondante rispetto al sistema democratico voluto dal Costituente” (sentenza n. 366 del 1991, cit., 2917).

([230]) Corte costituzionale, sentenza n. 366 del 1991, cit., 2917.

([231]) v. M. Mazziotti, Principi supremi dell’ordinamento costituzionale e forma di Stato, cit., 309; O. Chessa, Bilanciamento ben temperato o sindacato esterno di ragionevolezza? Note sui diritti inviolabili come parametro del giudizio di costituzionalità, cit., 3925.

([232]) S. Bartole, Principi generali del diritto, cit., 510.

([233]) Di conseguenza, nonostante la Costituzione italiana non contenga una norma come quella dell’art. 79, comma 3, GG, che esclude la revisione dei principi contenuti negli articoli 1-20 sui diritti fondamentali e sui principi di struttura della federazione, è da escludere, oltre una certa soglia, una incidenza delle leggi di revisione costituzionale sui diritti costituzionali, così come sono configurati attualmente dalla Costituzione (P. Grossi, Introduzione ad uno studio dei diritti inviolabili, cit. 158 ss.). Modifiche che tocchino il “contenuto essenziale” dei diritti sono possibili, ovviamente, per opera di un eventuale “potere costituente”, che riesca ad affermarsi, oppure di revisioni non consentite che ottengano effettività.

([234]) v. in particolare F. Casavola, I principi supremi nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in Dem. dir. 1994-95, 82 ss.; nonché, M. Mazziotti, Principi supremi dell’ordinamento costituzionale e forma di Stato, cit., 311 ss.; L. Carlassare, Forma di Stato e diritti fondamentali, in Quad. cost. 1995, 35 ss.

([235]) Valga a tal riguardo l’art. II-113 del Tr.CE, che, a proposito del livello di protezione, afferma “Nessuna disposizione della presente Carta deve essere interpretata come limitativa o lesiva dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali riconosciuti, nel rispettivo ambito di applicazione, dal diritto dell’Unione, dal diritto internazionale, dalle convenzioni internazionali delle quali l’Unione o tutti gli Stati membri sono parti, in particolare la Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, e dalle costituzioni degli Stati membri”.

([236]) Non va sottovalutata la circostanza che la previsione dell’art. 6.2 TUE si ritrova anche nella Costituzione europea nell’art. I-9.3 (“I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali”), e che le “tradizioni costituzionali” sono richiamate anche nel preambolo della parte II (“La presente Carta riafferma, nel rispetto delle competenze e dei compiti dell’Unione e del principio di sussidiarietà, i diritti derivanti in particolare dalle tradizioni costituzionali e dagli obblighi internazionali comuni agli Stati membri, dalla Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, dalle carte sociali adottate dall’Unione e dal Consiglio d’Europa, nonché dalla giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea e da quella della Corte europea dei diritti dell’uomo”) e nell’art. II-112, sulla portata e sull’interpretazione dei diritti (“Laddove la presente Carta riconosca i diritti fondamentali quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, tali diritti sono interpretati in armonia con dette tradizioni”).

([237]) Art. 6.3 TUE; nonché art. I-5.1, relativo alle relazioni tra l’Unione e gli stati membri (“L’Unione rispetta l’uguaglianza degli Stati membri davanti alla Costituzione e la loro identità nazionale insita nella loro struttura fondamentale, politica e costituzionale, compreso il sistema delle autonomie locali e regionali. Rispetta le funzioni essenziali dello Stato, in particolare le funzioni di salvaguardia dell’integrità territoriale, di mantenimento dell’ordine pubblico e di tutela della sicurezza nazionale”). Quanto alle interrelazioni “diritti – identità” e ai rapporti tra i due ordinamenti, sia consentito rinviare a S. Mangiameli, La clausola di omogeneità nel Trattato dell’Unione europea e nella Costituzione europea, in Scritti in onore di Gianni Ferrara, Torino 2005, II, 541 ss.