Stelio Mangiameli
Il contributo dell’esperienza costituzionale italiana alla dommatica
europea della tutela dei diritti fondamentali.
Sommario: 1. Alla ricerca dei diritti
fondamentali nell’ordinamento europeo e nel sistema costituzionale italiano. –
2. Segue: il ruolo delle due Corti e
la circolarità del processo di tutela
dei diritti fondamentali. – 3. L’art. 2 Cost. fra teoria e prassi
giurisprudenziale. – 4. Segue: l’art.
2 Cost. come fattispecie “chiusa” o “aperta”. – 5. Segue: la giurisprudenza della Corte costituzionale. – 6. Le
tecniche di tutela dei diritti fondamentali nella concreta esperienza
costituzionale italiana: l’affermazione del carattere normativo della
Costituzione, la “legislazione a rime obbligate” e le sentenze “monito”. – 7. Segue: lo Stato sociale e i diritti
fondamentali, dalla “legittimità costituzionale provvisoria” alle “sentenze
additive di principio”. – 8. Segue: i
diritti di fronte all’emergenza dell’ordine democratico. – 9. Segue: i diritti e il principio
d’eguaglianza, la legge tra coerenza e ragionevolezza. – 10. Segue: il bilanciamento dei diritti. –
11. I diritti fondamentali e i principi supremi dell’ordinamento
costituzionale.
1. Alla ricerca dei diritti fondamentali
nell’ordinamento europeo e nel sistema costituzionale italiano
È difficile definire con esattezza
quale sia il contributo che al tema della protezione dei diritti fondamentali
in Europa abbia dato l’esperienza costituzionale in materia di diritti
fondamentali di uno Stato membro dell’Unione europea, anche se fondatore del
sistema europeo, come l’Italia. I sei Stati che diedero vita alla Comunità
economica europea nel 1957 erano stati pesantemente coinvolti nel secondo
conflitto mondiale e, nel caso dell’Italia, la tradizione dei diritti pubblici
subiettivi ([1]),
risalente alla Carta costituzionale concessa da Carlo Alberto di Savoia (lo
Statuto Albertino) il 4 marzo 1848 ([2]),
era stata interrotta dal ventennio fascista, che, propugnando un modello di
Stato totalitario, aveva posto nel nulla le garanzie statutarie sulle libertà
e, in particolare, sulla stampa ([3]).
La Costituzione repubblicana, perciò,
ha rappresentato un momento di frattura rispetto al passato, non solo per il
carattere democratico su cui fonda la Repubblica ([4]),
ma anche perché dota l’ordinamento italiano di un catalogo dei diritti
fondamentali tra i più completi e significativi del mondo occidentale, dove
accanto ad un insieme di principi, come il riconoscimento e la garanzia dei
diritti inviolabili dell’uomo (art. 2 Cost.), la promozione del pieno sviluppo
della persona umana (art. 3, comma 2, Cost.) e il ripudio della guerra come
strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione
delle controversie internazionali (art. 11 Cost.), si trovano disciplinati
puntualmente i diritti di libertà classici ([5])
e le libertà politiche ([6]),
come pure le libertà e i diritti della sfera etico-sociale ([7])
e di quella economica ([8]);
e questi diritti, oltre a godere della tutela giudiziaria, anche nei confronti
dello Stato e delle autorità pubbliche, davanti ai giudici ordinari e
amministrativi, secondo i canoni dello Stato di diritto ([9]),
hanno conosciuto una concreta salvaguardia, a partire dal 1956, nei confronti
degli atti legislativi, per opera del giudice costituzionale ([10]).
Il carattere innovativo della
Costituzione repubblicana ha comportato, peraltro, la formazione di una
corrispondente e “nuova” dommatica dei diritti fondamentali, la cui
elaborazione, lenta e difficile, è risultata, oltre che dalle progressive
acquisizioni della scienza del diritto costituzionale ([11]),
proprio dall’opera della Corte costituzionale, depositaria – nel tempo – di un
significativo contributo per la valorizzazione e la concretizzazione dei
diritti costituzionalmente previsti ([12]).
Per converso, il diritto europeo,
nato dai trattati di Roma, aveva in origine un carattere molto particolare,
limitato dall’attribuzione alla Comunità di competenze riferite al mercato
comune e alle quattro libertà fondamentali, collegate funzionalmente alla
realizzazione del primo ([13]).
Si trattava, cioè, di un ordinamento sopranazionale, sprovvisto di fini
generali e, ancor di più, del compito di tutelare un sistema di diritti
fondamentali, collegato al riconoscimento di uno status civitatis. Solo con l’evoluzione successiva si è realizzata,
da un lato, l’espansione dei poteri europei e la crescita delle competenze e
del diritto europeo e, dall’altro, soprattutto per l’opera della Corte di
giustizia, l’affermazione di un sistema di diritti fondamentali europei.
Infatti, il giudice comunitario, colmando il vuoto iniziale che caratterizzava
la Comunità in materia, ha approntato una propria tutela ai diritti
fondamentali ([14])
e ha sostenuto che fanno parte dell’ordinamento comunitario quei diritti che possono essere dedotti dalle
“tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri” e che devono essere
protetti come parte integrante dei “principi generali dell’ordinamento
comunitario”, vincolando così al loro rispetto le istituzioni comunitarie ([15]).
E l’apertura dell’ordinamento comunitario ai diritti non ha riguardato solo
quelli disciplinati nelle diverse Costituzioni nazionali, ma anche quelli
tutelati nelle convenzioni internazionali stipulati dagli Stati membri, come il
diritto alla riservatezza o al rispetto della vita privata, tutelato dall’art.
8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali ([16]).
È bene ricordare che, per un verso,
l’evoluzione segnata dalla giurisprudenza della Corte di giustizia ha
contraddistinto le tappe successive del diritto europeo: prima con l’inclusione
dei capisaldi della giurisprudenza medesima nell’art. 6 del TUE ([17])
e successivamente con la codificazione della Carta di Nizza, ora inclusa nella
parte seconda del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa ([18]);
e, per l’altro, che espansione del diritto europeo e riconoscimento dei diritti
fondamentali hanno rappresentato il passaggio dal “Marktbürger” ([19])
al “Unionsbürger” ([20]),
e ciò importa una diversa qualificazione dello status dei singoli individui all’interno del sistema europeo, che
ha trovato il suo culmine nella istituzione della cittadinanza europea ([21]).
2. Segue: il ruolo delle due Corti e la circolarità del processo di tutela dei diritti fondamentali
Vista a posteriori, perciò, l’esperienza dei diritti fondamentali in
Italia, con l’attività di concretizzazione della giurisprudenza della Corte
costituzionale, ha avuto un percorso quasi parallelo a quella dei diritti
fondamentali in Europa, dove attiva è stata l’opera della Corte di Giustizia, e
le reciproche interferenze sono divenute manifeste solo in una fase di molto
successiva al consolidarsi, ognuno nel proprio ambito, dei rispettivi
ordinamenti: quello repubblicano in Italia e quello comunitario in Europa, e
ciò anche perché – come è stato osservato – per un lungo periodo, rispetto
all’ordinamento europeo, ogni Stato membro, e l’Italia in modo particolare,
“viveva una sorta di doppia vita: in piccola parte rivolta all’esterno, nei
rapporti con gli organi comunitari, e in larga misura ispirata dal permanente
primato delle scelte di competenza nazionale” ([22]).
Peraltro, le due Corti, che hanno
operato in condizioni gius-costituzionali differenti, anche quando avevano
compreso l’esistenza di interferenze tra le reciproche giurisprudenze, hanno
mantenuto per un lungo periodo – sia pure nell’ambito di relazioni
istituzionali soft e di alto livello
– un comportamento di contrapposizione. Così, se da un lato la Corte
costituzionale italiana affermava che, nonostante la netta distinzione tra i
due ordinamenti, quello interno e quello comunitario, i rapporti regolati dal
diritto europeo non sono sottratti in modo assoluto alla competenza del giudice
costituzionale, in quanto la “coordinazione” tra i due ordinamenti può
riguardare unicamente “le limitazioni di sovranità”, ma mai la rinuncia ad
essa, per cui la legge di esecuzione del Trattato di Roma ben potrebbe essere
assoggettata al vaglio di costituzionalità, per violazione dell’art. 11 Cost.,
qualora la normativa comunitaria si ponesse in violazione dei principi
fondamentali dell’ordinamento costituzionale e dei diritti inalienabili della
persona umana ([23]);
dall’altro, la Corte di giustizia, spinta dalle riserve enunciate inizialmente
dai giudici costituzionali nazionali (in particolare, da quello italiano), ha
agito per assicurare l’efficacia e la prevalenza del diritto europeo, rispetto
al diritto nazionale. Infatti, il giudice comunitario ha superato i limiti che
potevano derivare all’efficacia del diritto europeo negli ordinamenti degli
Stati membri, soprattutto allorché poteva incidere sulle situazioni soggettive
da questi tutelate, affermando che “il richiamo a norme o nozioni di diritto
nazionale nel valutare la legittimità di atti emananti dalle Istituzioni della
Comunità menomerebbe l’unità e l’efficacia del diritto comunitario. La validità
di detti atti può essere stabilita unicamente alla luce del diritto
comunitario. Il diritto nato dal Trattato, che ha una fonte autonoma, per sua
natura non può infatti trovare un limite in qualsivoglia norma di diritto
nazionale senza perdere il proprio carattere comunitario e senza che sia posto
in discussione il fondamento giuridico della stessa Comunità” ([24]);
con la conseguenza ulteriore che il giudice nazionale avrebbe sempre “l’obbligo
di garantire la piena efficacia del diritto comunitario disapplicando
all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante
della legge nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere o attendere la
rimozione in via legislativa e mediante qualsiasi altro procedimento
costituzionale” ([25]).
Tuttavia, nonostante le differenze
strutturali tra i due livelli di ordinamento e la diversità dei ruoli che ha
contraddistinto la posizione delle due Corti, non può dirsi che sia mancata (e
manchi), sul tema dei diritti fondamentali, una osmosi culturale, di metodo e
di contenuti dall’ordinamento nazionale a quello europeo e, viceversa, da
quello europeo a quello nazionale ([26]).
Nel caso del sistema dei diritti
fondamentali, in particolare, sembrano sussistere almeno due aspetti che ne
hanno caratterizzato l’evoluzione e che possono rivelare, se non l’unitarietà, almeno la circolarità del processo di crescita
della salvaguardia dei diritti fondamentali, che si svolge tra l’ordinamento
europeo e gli ordinamenti degli Stati membri: il primo riguarda
l’individuazione dei diritti fondamentali, che nonostante la presenza di un
catalogo costituzionale, che segna la diversità rispetto all’ordinamento europeo
originario, ha visto lo stesso una definizione dei diritti fondamentali, o di
facoltà inerenti a questi, attraverso la creativa giurisprudenza della Corte
costituzionale ([27]);
il secondo, invece, attiene alle tecniche e, per certi aspetti, ai metodi di
delimitazione delle diverse fattispecie dei diritti fondamentali ([28]);
e il momento di chiusura di questi elementi è dato dalla posizione
istituzionale rivestita dal sistema dei diritti fondamentali nazionali nei due
ordinamenti ([29]).
In questa sede, ovviamente, non
saranno riesaminate nei particolari tutte le decisioni della Corte
costituzionale italiana, per verificare le interpretazioni e le applicazioni
cui sono andati incontro i diritti fondamentali nel corso della loro
elaborazione dommatica, ma saranno rilevati gli elementi che hanno contribuito
a delineare la costruzione complessiva del sistema italiano, in modo da offrire
un modello, per quanto possibile, valido ai fini della comparazione con la
dommatica dei diritti fondamentali nell’ordine europeo.
3. L’art.
2 Cost. fra teoria e prassi giurisprudenziale.
Si può cominciare dal primo aspetto,
per dire subito che l’opera “creatrice” della giurisprudenza della Corte,
chiamata più volte ad intervenire per “adeguare” il testo costituzionale alle
esigenze reali, si connota come una costante dell’esperienza italiana. La Corte
costituzionale ha avuto, infatti, il merito di estrarre nuove fattispecie dal testo della Costituzione, ampliando gli spazi
di tutela dei cittadini e degli individui, come testimoniano le numerose
decisioni in cui si è occupata del “diritto alla vita” (sentenze nn. 27 del 1975; 35 del 1997; 223 del 1996),
del diritto “all’identità personale” definito come “diritto ad essere se
stessi” (sentenza
n. 13 del 1994), della libertà personale, intesa non solo come garanzia da
forme di coercizione fisica della persona, ma che comprende anche la libertà di
autodeterminazione del soggetto (sentenza n. 30 del
1962) ([30]),
del diritto d’informazione (sentenze n. 84 del 1969
e n. 348 del
1990), dell’obiezione di coscienza (sentenze n. 164 del 1985;
n. 470 del 1989;
e n. 467 del
1991), ecc.
In questo contesto, si colloca anche
l’emersione dei c.d. “nuovi diritti”, che la Corte costituzionale ha variamente
enucleato dal tronco di disposizioni e norme della Carta, con la definizione
anche di limiti e vincoli per il legislatore (si pensi ad esempio al principio
della tutela dell’ambiente derivato dal combinato disposto degli artt. 9 e 32
Cost.).
La vicenda, che presenta delle
affinità rispetto alla problematica dell’enucleazione dei diritti
nell’ordinamento europeo, è legata alla determinazione dei “diritti
inviolabili” ([31]).
Nell’ordinamento giuridico italiano,
come è noto, il sistema dei diritti fondamentali trova fondamento nella norma
di principio, contenuta nell’art. 2 Cost., per la quale “la Repubblica
riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia
nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, (…)”. Il senso e la
portata di questa disposizione può ben comprendersi solo se si considera il
clima storico-culturale dell’Assemblea Costituente, frutto dell’incontro (e
dell’accordo) di tre diverse ispirazioni di pensiero: quello liberale, quello
cattolico e quello socialista ([32]).
La discussione in Assemblea Costituente sull’art. 2, infatti, fu
particolarmente sentita e vide emergere istanze giusnaturalistiche, espressione
del personalismo di matrice cattolica ([33]),
istanze giuspositiviste proprie della cultura di sinistra, che sottolineavano
il ruolo dello Stato nel rendere efficaci i diritti e istanze garantistiche di
matrice liberale, orientate a sottolineare la dimensione individualista dei
diritti.
Il compromesso tra le diverse
posizioni fu rappresentato dalla condivisione, da parte di Togliatti, dell’impostazione sui diritti fondamentali formulata da Dossetti, che culminò nella
presentazione di un ordine del giorno, in cui trovarono espressione quei
principi che poi furono recepiti nella formula dell’art. 2 Cost. e riguardanti:
a) il riconoscimento dell’anteriorità
della persona rispetto allo Stato; b)
il riconoscimento della socialità della persona, destinata a completarsi e a
perfezionarsi mediante una reciproca solidarietà economica e spirituale; c) l’affermazione dei diritti
fondamentali della persona e dei diritti delle comunità anteriormente ad ogni
concessione da parte dello Stato ([34]).
L’impostazione rifletteva,
indubbiamente, la maturata consapevolezza di ritenere il riconoscimento dei
diritti fondamentali connotato assiologico della nuova forma di Stato, in cui
si sarebbe dovuto affermare il superamento di quel rapporto Stato-individuo
che, specie nelle costituzioni liberali dell’ottocento, aveva – secondo la
teoria dei diritti pubblici soggettivi – negato rilevanza all’individuo in
quanto tale, venendo quest’ultimo in considerazione solo ed esclusivamente come
cittadino ovvero in rapporto allo Stato ([35]).
La proclamazione dell’art. 2 Cost.
segna, perciò, il definitivo superamento dell’impostazione statocentrica e, riconoscendo il primato della persona rispetto
allo Stato, assume il principio
personalista come punto fermo della regolazione del nuovo rapporto individuo-comunità statale ([36]).
La persona in quanto “fine del sistema delle libertà” ([37])
diviene titolare di quei diritti fondamentali costituenti il patrimonio irriducibile
della dignità umana che la Repubblica
s’impegna a salvaguardare. E se da un lato l’accoglimento del principio
personalistico porta con sé il riconoscimento di diritti individuali, in quanto
riconosciuti al singolo “per l’appagamento egoistico dei suoi bisogni e
desideri individuali” ([38]),
dall’altro considera l’individuo anche nella sua dimensione di essere sociale,
riconoscendo a questi – quale cittadino, o membro di formazioni sociali –
diritti “funzionali”, e cioè diritti attribuiti non per il soddisfacimento dei
propri egoistici bisogni, ma nell’interesse della comunità ([39]).
Al di là di questa premessa,
generalmente condivisa, però, attorno alla formula dell’art. 2 Cost. ha
iniziato a ruotare la riflessione sul sistema dei diritti fondamentali e la quaestio interpretativa si è incentrata
su due letture alternative: quella secondo cui la disposizione richiamata
dovrebbe leggersi come norma “riassuntiva” dei soli diritti enumerati nel testo
costituzionale, i quali sarebbero, in definitiva, un catalogo chiuso; e quella,
invece, per la quale questa consentirebbe l’apertura del catalogo
costituzionale, ricomprendendo anche diritti non enumerati espressamente.
4. Segue: l’art. 2 Cost. come fattispecie “chiusa” o
“aperta”.
La questione interpretativa dell’art.
2 Cost. non è stata fine a se stessa, ma ha comportato una serie di
conseguenze, di ordine teorico e pratico, che – come si vedrà subito oltre –
hanno inciso variamente sul modo di operare del giudice costituzionale. È bene
precisare che le due impostazioni, che si sono fronteggiate, hanno affrontato
anche il tema dei c.d. “nuovi diritti”, proprio della dinamica di ogni sistema
dei diritti fondamentali, risolvendolo in modo diverso.
La prima preoccupazione che porta la
dottrina italiana a sposare la tesi della fattispecie “chiusa” è quella avverso
la concezione dell’art. 2 come clausola di apertura al “diritto naturale”,
giacché “gli istituti della libertà, ancorati ad un diritto naturale, estraneo
all’esperienza giuridica contemporanea, assumerebbero connotati talmente labili
e soggettivi da scomparire nella nebbia dell’incertezza del diritto”; di qui il
rifiuto della tesi estensiva “sia per il difetto di ogni base positiva (né la
lettera dell’art. 2 né altre norme costituzionali la sorreggono), sia e
soprattutto perché tutte le libertà che abbiamo chiamato aggiuntive rampollano
dal tronco di quelle che si leggono in Costituzione” ([40]).
A questa stregua, la dottrina
italiana ha inteso porre un limite, non tanto al riconoscimento di pretese e
diritti, quanto al modo di riconoscere l’estensione della garanzia
costituzionale, la quale assumerebbe un rilievo particolare nel caso di
collisione tra i diritti medesimi ([41]).
In tal senso, la tesi dell’art. 2 come clausola chiusa non ha escluso che
questa norma sia stata vista come un rinvio ai “diritti che la tradizione ha
tramandato”, ma semplicemente che tali diritti formerebbero “oggetto del
richiamo di cui all’art. 2 Cost. solamente se ed in quanto, siano stati
costituzionalmente positivizzati se ed in quanto, cioè, attraverso una formale
previsione in Costituzione, siano entrati a comporre in modo rigido la
fisionomia del sistema vigente” ([42]).
Quanto, poi, alle “nuove pretese di
libertà”, che possono incessantemente sorgere, in quanto “strettamente annesse
al libero sviluppo della persona umana”, ciò non implicherebbe come logica
conseguenza una lettura “aperta” dell’art. 2. Più precisamente, il problema
della collocazione delle nuove pretese che si possano configurare come libertà,
andrebbe risolto “dal concreto modo in cui gli specifici diritti inviolabili
sono riconosciuti nelle disposizioni costituzionali positive che li riguardano”
([43]).
Infatti, le disposizioni costituzionali che disciplinano i diritti fondamentali
nella nostra Carta avrebbero una potenzialità normativa ampia ed elastica che
comprenderebbe “qualsiasi ipotesi che lo sviluppo della coscienza sociale o
della civiltà giuridica (…) propongono come ‘nuovi diritti’ ”. Pertanto, questi
nuovi diritti sarebbero, per un verso, “diritti impliciti” essendo inclusi nel
contenuto semantico di diritti già espressamente riconosciuti in Costituzione;
per l’altro, “diritti strumentali” ovvero, diritti definiti per dare concreto
significato e garanzia ai diritti specificamente previsti ([44]).
In questa prospettiva, pur tuttavia,
il ruolo dell’art. 2 Cost., in sede di interpretazione, non sarebbe affatto
secondario, in quanto rappresenterebbe un “principio espansivo dotato di grande
forza maieutica, nell’opera di individuazione dei diritti conseguenti a quelli
enumerati” ([45]).
Infatti, “l’art. 2 non (aggiungerebbe) nuove situazioni soggettive a quelle
concretamente previste dalle successive particolari disposizioni, ma (potrebbe)
riferirsi anche ad altre potenziali e suscettibili di essere tradotte in
(nuove) situazioni giuridiche positive. L’art. 2 sotto il profilo qui
considerato (andrebbe) inteso perciò come avente la sola – anche se
fondamentale – funzione di conferire il
crisma dell’inviolabilità ai diritti menzionati in Costituzione: diritti
peraltro da identificare (…) non solo in quelli dichiaratamente enunciati in
Costituzione, ma anche in quelli ad essi conseguenti”.
Esso sarebbe “in una parola matrice e
garante dei diritti di libertà, non fonte di altri diritti al di là di quelli
contenuti in Costituzione” ([46]).
Concordemente alle tesi sin qui
esaminate, anche l’impostazione dell’art. 2 come clausola “aperta” non
intenderebbe interpretare la disposizione sui “diritti inviolabili” come affermazione
di un generale diritto di libertà ([47]),
oppure come una forma di apertura al diritto naturale ([48]),
ma semplicemente come uno strumento ermeneutico idoneo a legittimare sul piano
costituzionale l’enucleazione di nuove fattispecie. Infatti, “una volta
abbandonato il campo delle fattispecie giuridiche analitiche, puntualmente
espresse dal testo costituzionale, non si può non operare di fatto, (…) un
rinvio alla Costituzione materiale e ai principi di regime quali assunti dalla
coscienza del giudice o dall’interprete” ([49]).
Per chi crede in questa impostazione
la problematica dell’art. 2 Cost. non andrebbe affrontata discutendo il valore
ricognitivo o costitutivo del rinvio ai diritti inviolabili e non più come il
dilemma della fattispecie aperta o chiusa, ma diventerebbe una questione da
porre in termini di politica del diritto ([50]).
Lo schema che l’orientamento riferito
intenderebbe proporre è quello del libero sviluppo della persona, come compito da realizzare e non solo come dato da rispettare, per cui i valori
della persona non avrebbero una funzione solo di garanzia, ma anche di sviluppo
([51]).
Di conseguenza, è rispetto a questa prospettiva, legata all’affermazione dello
“Stato democratico”, che si sosterrebbe, una volta avvertita la necessità di “abbandonare
il tentativo defatigante di ingabbiare le libertà costituzionali in rigide
situazioni giuridiche, quali appunto i diritti subiettivi”, come sia giocoforza
accogliere le “posizioni di chi invece attraverso detto articolo apre
l’ordinamento ad altri valori non esplicitamente richiamati dal costituente”,
per cui si verrebbe a creare un effetto espansivo delle libertà che “non potrà
non trovare un punto di sostegno, e nello stesso tempo un limite nella
Costituzione materiale e nelle forze politiche, sociali e culturali che la
determinano” ([52]).
I tentativi di sganciare il
riconoscimento di ulteriori diritti fondamentali dalle fattispecie
costituzionalmente previste sono paralleli alle posizioni di chi, attraverso
l’art. 2 Cost., affronta il tema del fondamento
dei diritti, prescindendo dal riferimento alle singole espresse disposizioni
costituzionali. Secondo tale opinione, deve ritenersi che il Costituente, pur
nel silenzio del testo costituzionale, abbia voluto implicitamente tutelare
nella Carta anche quei diritti
(come ad es. il diritto alla vita) che costituiscono, in qualche modo, il
presupposto, o il fondamento naturale
di quelli esplicitati e
circondati di protezione giuridica ([53]).
L’art. 2 rappresenterebbe, in tal
senso, la garanzia costituzionale di questi diritti inespressi e comunque
inviolabili, ma affinché non diventi “un involucro disponibile ad ogni
contenuto”, occorrerebbe delimitare la cornice entro cui ammettere l’esistenza
di tali diritti. La disposizione richiamata rappresenterebbe perciò una clausola aperta, ma assiologicamente
delimitata.
Detta clausola, tuttavia, opererebbe
verso una duplice direzione, e cioè tanto nei confronti dei c.d. “diritti
impliciti”, quanto nei confronti dei c.d. “nuovi diritti”; in entrambi i casi
l’effettività dei diritti sarebbe vincolata al quadro culturale di riferimento
espresso originariamente dal Costituente ([54]).
L’art. 2 Cost. rappresenterebbe, pertanto, la fonte di legittimazione di tali
diritti fondamentali e, benché la loro nascita vada collocata al di fuori del
testo costituzionale, attraverso siffatta disposizione essi verrebbero ad
essere tutelati giuridicamente, e cioè diventerebbero diritti in senso
giuridico oltre che ontologico ([55]).
Rispetto a questa prospettiva “espansiva”, più limitativa sembra essere,
invece, la posizione di chi, pur ritenendo che i diritti costituiscano dei valori ([56]),
riconduce la determinazione delle fattispecie a una sorta di combinato disposto
tra le singole disposizioni sui diritti e l’art. 2 Cost., sul presupposto che
in tale ultima disposizione sia consacrata la vera e primigenia norma sul
libero sviluppo della persona umana. Il valore di fondo che si tutelerebbe
attraverso questa norma sarebbe, perciò, il libero sviluppo della personalità ([57]).
Di conseguenza, secondo quest’orientamento, sembrerebbe inaccettabile la
concezione dell’art. 2 come fattispecie chiusa,
se in tal modo si intende la norma come ricognitiva dei diritti enumerati, in
quanto “la tipizzazione-enumerazione costituzionale dei diritti è sufficiente a
ricoprire potenzialmente tutte le direzioni o aree di libertà praticamente
possibili”, mentre “l’art. 2 come generale statuizione sul
riconoscimento-garanzia dei diritti inviolabili, (…) può significare (…) che la
libertà come valore non può essere circoscritta a previsioni determinate e
specifiche delle esplicazioni e direzioni in cui esso si realizza” ([58])
e che, perciò, “il riconoscimento-garanzia globale dell’art. 2” avrebbe “per oggetto precisamente i diritti enucleabili dal contesto della
Costituzione positiva” ([59]).
Se si può trarre una conclusione dal
dibattito italiano sui diritti inviolabili, che – è bene ricordarlo – li
situerebbe tra i principi supremi dell’ordinamento costituzionale ([60]),
è che l’assunzione della posizione, in relazione al sistema dei diritti come chiuso
o aperto, dipende dal modo di intendere la Costituzione medesima: se
come atto normativo, avente, perciò, carattere valutativo e prescrittivo;
oppure, come espressione (sia pure ricognitiva) di valori (pregiuridici) da
dovere tradurre, di volta in volta, in prescrizioni di carattere giuridico.
Questo rilievo sulla determinazione
della “norma costituzionale”, peraltro, non è senza effetti in ordine alla
valutazione stessa dell’attività del giudice costituzionale, soprattutto nei
casi in cui questa ha dato luogo sulle medesime figure a cambiamenti
giurisprudenziali. Se è vero, infatti, che ogni tesi della dottrina trova il
suo banco di prova nel concreto svolgersi dell’interpretazione giudiziale ([61]),
è altrettanto chiaro che la differenza tra coloro che vedono nell’art. 2 una
fattispecie chiusa e coloro che la
considerano una fattispecie aperta si
situa, non solo nella circostanza che i primi ritengono essenziale una
interpretazione secondo i canoni classici dell’ermeneutica giuridica, e
specificamente in base al principio di specialità ([62]),
mentre i secondi tendono ad aprire ad una interpretazione dei diritti
fondamentali in termini di “valori” ([63]),
anziché di “diritto soggettivo” ([64]),
quanto soprattutto nel modo di considerare la stessa azione di concretizzazione
della Costituzione compiuta dal giudice costituzionale.
La diversa impostazione seguita,
peraltro, non implicherebbe semplicemente di prendere atto del diverso modo di
operare del giudice, per gli uni la riconduzione delle fattispecie, in via
estensiva, alle singole disposizioni sui diritti ([65]),
per gli altri il dare ingresso, attraverso l’art. 2 Cost., ai valori da cui si desumerebbero i diritti
non espressamente contemplati ([66]),
ma di considerare, o meno, la possibilità di mettere in relazione il
pronunciamento giurisprudenziale alla stessa norma costituzionale, per cui la
stessa sentenza della Corte costituzionale, oltre a essere la decisione che
chiude il caso, appare valutabile in termini giuridici. Infatti, il limite ultimo
della tesi dell’art. 2 come fattispecie aperta è che conduce a decisioni in cui
l’aspetto fattuale (e politico) finisce con l’essere prevalente rispetto alla
norma costituzionale e in una tale situazione non tranquillizza affatto, ai
fini dell’effettiva tutela dei diritti previsti dalla Costituzione,
l’affermazione che l’art. 2 Cost. farebbe fronte alle domande di libertà
espresse dalla società, la quale farebbe affidamento sul ruolo del giudice
costituzionale come “interprete chiamato a dar voce alla coscienza sociale” ([67]).
5. Segue: la giurisprudenza della Corte
costituzionale.
Nella sua prima giurisprudenza la
Corte aveva accolto un’impostazione restrittiva dell’art. 2, asserendo che il
principio espresso dalla disposizione richiamata “indica chiaramente che la
Costituzione eleva a regola fondamentale dello Stato, per tutto quanto attiene
ai rapporti tra la collettività e i singoli, il riconoscimento di quei diritti
che formano il patrimonio irretrattabile
della persona umana: che appartengono all’uomo inteso come essere libero”
e, “alla generica formula di tale principio, fa seguire una specifica
indicazione dei singoli diritti inviolabili” ([68]).
L’impostazione dell’art. 2 Cost. come fattispecie “chiusa” è facilmente riconoscibile
anche in altre pronunce in cui si afferma che “nel riconoscere e garantire in
genere i diritti inviolabili dell’uomo, necessariamente si riporta alle norme
successive in cui tali diritti sono particolarmente presi in considerazione”,
con la conseguenza, sul piano del processo costituzionale, che non potrebbero
porsi “questioni di legittimità costituzionale in riferimento all’art. 2 Cost.,
ma solo alle norme costituzionali in cui i singoli diritti inviolabili sono
enunciati” ([69]).
Su queste basi il giudice costituzionale o escludeva la violazione
dell’art. 2, in quanto era diversa la norma in cui rientrava la fattispecie
evidenziata ([70]);
oppure, ove valutava l’impossibilità di ricondurre una fattispecie ad un
diritto costituzionale, escludeva l’esistenza stessa del diritto, come nelle
ipotesi della prima decisione sull’identità sessuale ([71]),
e della prima sul diritto all’abitazione ([72]).
Non a caso, in questa fase, con riferimento, anche in questa ipotesi, ad una
prima decisione sul diritto di riservatezza, si osservava che “l’art. 2 prevede
una particolare tutela per alcuni fra gli altri diritti riconosciuti dalla
Costituzione, ma non è suscettibile di generare ulteriori situazioni subiettive
tutelabili oltre a quelle espressamente previste, neppure se riguardato in
connessione con trattati internazionali; perché, inoltre, lo sviluppo completo
della persona umana è fine troppo vago e generico per fondare precisi diritti
costituzionali” ([73]).
In tutte le sentenze richiamate la Corte ha ritenuto che l’inviolabilità
dei diritti di libertà di cui all’art. 2 Cost. costituisca solo una
disposizione di carattere generale e ricognitiva dei diritti fondamentali
successivamente previsti nella Carta. Più precisamente, solo ed in quanto
singolarmente previsti e tutelati, i diritti di libertà potrebbero operare
direttamente come parametri di legittimità. Pertanto, l’art. 2 – questa era la
conclusione – non avrebbe avuto carattere precettivo e da questa disposizione
non sarebbe stato possibile dedurre la tutela di diritti fondamentali
impliciti.
Eppure già in questa fase la giurisprudenza della Corte appare tutt’altro
che omogenea, in quanto riconduce all’art. 2 Cost. delle facoltà che pure
rientrerebbero in altre più specifiche prescrizioni, come il diritto al lavoro
([74]);
o come il diritto alla tutela giurisdizionale, intimamente connesso con lo
stesso principio di democrazia, che consiste nell’assicurare a tutti e sempre,
per qualsiasi controversia, un giudice e un giudizio ([75]);
o il diritto alla riparazione dell’errore giudiziario, per cui “l’ultimo comma
dell’art. 24 Cost. enuncia un principio di altissimo valore etico e sociale che
va riguardato quale coerente sviluppo del più generale principio di tutela dei
‘diritti inviolabili dell’uomo’ (art. 2) assunto in Costituzione tra quelli che
stanno a fondamento dell’intero ordinamento repubblicano” ([76]);
od ancora, la libertà di contrarre matrimonio ([77]).
In tal modo, la Corte sembra abbandonare l’iniziale impostazione restrittiva
dell’art. 2 Cost., per abbracciare un orientamento che, pur non ancorando alla
norma suddetta una fonte autonoma di diritti, ne riconosce il “sostegno
qualificatorio rispetto a diritti esplicitamente o implicitamente riconducibili
ad altre norme costituzionali” ([78]).
A ciò segue, sia pure solo in qualche decisione,
l’affermazione di un diritto in relazione all’art. 2 Cost., come nel caso della
sentenza n. 28
del 1969, con la quale si è dichiarato che, “fra i diritti inviolabili
garantiti dall’art. 2 Cost., vi è quello dell’innocente di ottenere la
revisione della sentenza di condanna” ([79]).
Inoltre, progressivamente la Corte estende la qualifica di diritto inviolabile
anche a fattispecie per le quali le disposizioni costituzionali non ripetono la
previsione dell’inviolabilità come la libertà di religione e quella di
manifestazione del pensiero, riconoscendo così al requisito di cui all’art. 2
la capacità di qualificare le diverse fattispecie costituzionalmente previste ([80]).
La scelta della Corte costituzionale di non rimanere strettamente
ancorata alla sua prima giurisprudenza, che non dava un significato
prescrittivo alla disposizione sui “diritti inviolabili” dell’art. 2 Cost.,
appare così superata. Gli schemi entro cui si muove la problematica dei diritti
inviolabili, al fine di ampliare i margini di tutela sono così, nelle loro
linee essenziali, definibili in tre figure: a)
la combinazione di un diritto costituzionale specifico con l’art. 2 Cost., che
serve a rafforzare il diritto come tipizzante la forma dello Stato
democratico-repubblicano; b) la
riconduzione di una fattispecie riguardante una particolare facoltà ad un
diritto costituzionale specifico e all’art. 2, al fine di ricondurre dette
facoltà all’ambito normativo di un diritto costituzionale, intensificandone la
tutela con la previsione dell’inviolabilità; c) l’autonoma individuazione di fattispecie, definite come diritti
inviolabili in relazione diretta ed esclusiva con l’art. 2 Cost.
Una volta metabolizzati detti schemi qualificatori nell’ambito dei
diritti inviolabili dell’uomo garantiti dall’art. 2 Cost., la giurisprudenza
costituzionale inizia a riconoscere i c.d. “nuovi diritti”, come quelli al
proprio decoro, onore, rispettabilità, riservatezza, intimità e reputazione ([81]),
e – particolarmente significativo, in relazione alla problematica dell’aborto –
il diritto alla vita del concepito ([82]);
ed anche il “diritto alla vita” ([83]).
Le occasioni che consentono alla Corte di pronunciare l’affermazione
della tutela dell’art. 2 riguardano le più diverse fattispecie, cui non è
estranea anche una certa dose di opzione politica che il giudice costituzionale
compie, a volte in sintonia con il Parlamento, secondo la regola law making majority, a volte superando i
confini posti dalla legislazione; ma è comunque difficile, oltre che improprio,
riconnettere (il perseguimento di) un pensiero politico alla giurisprudenza
costituzionale, per cui l’unica lettura possibile dei diversi enunciati che si
rinvengono nelle decisioni della Corte non può non essere che di tipo
costituzionale: questo vale allorquando essa si pronuncia sulla libertà di
adesione (o di non adesione) alle comunità israelitiche, che va tutelata come
diritto inviolabile anche nei confronti delle confessioni religiose ([84]);
così come quando in relazione alla famiglia proclama, da una parte, che quella
di origine è il luogo più idoneo per la promozione della personalità e
l’educazione del soggetto umano in formazione ([85]);
e, dall’altra, che il diritto del minore ad essere adottato rientra tra i
diritti fondamentali tutelati dall’art. 2 Cost. ([86]). Infatti, anche se diverse sono le
figure che la giurisprudenza costituzionale tocca, in relazione all’art. 2
Cost., unico è il campo privilegiato che la Corte tende a salvaguardare e
questo è rappresentato dall’individuo-persona ([87]);
e, in questa prospettiva, le diverse pronunce assumono una dimensione
unificante ed anche sistematica: sia che si faccia riferimento al diritto alla
salute dell’art. 32 Cost. ([88]),
sia che vengano in discussione i diritti previdenziali dell’art. 38 Cost. ([89]),
l’art. 2 fonda, anche direttamente, un diritto al risarcimento del danno
all’integrità fisica, senza che ciò comporti “di dischiudere la sfera dell’art.
2 Cost. a situazioni soggettive che il testo fondamentale manca di prevedere” ([90]).
In questo modo di utilizzare la disposizione sui diritti inviolabili
dell’uomo, da parte del giudice costituzionale, è evidente come possa diventare
secondario ed occasionale il collegamento con le altre previsioni
costituzionali in tema di diritti fondamentali, e non perché un collegamento
con le singole fattispecie normate non sia, in via interpretativa, pur sempre
possibile, ma in quanto la riconduzione della fattispecie all’art. 2 appare di
più immediata efficacia anche simbolica, come nel caso del diritto all’identità
e alla libertà sessuale. Infatti, la Corte, pur potendo fare intervenire altri
parametri, assume la verifica della censura “in riferimento al solo art. 2
Cost.”, dichiarando che “tale disposto non è violato quando e per il fatto che
sia assicurato a ciascuno il diritto di realizzare, nella vita di relazione, la
propria identità sessuale, da ritenere aspetto e fattore di svolgimento della
personalità” ([91]);
così, con riferimento alla violenza carnale, afferma che nell’ordinamento
giuridico penale “costituisce la più grave violazione del fondamentale diritto
alla libertà sessuale” e, “essendo la sessualità uno degli essenziali modi di
espressione della persona umana, il diritto di disporne liberamente è senza
dubbio un diritto soggettivo assoluto, che va ricompreso tra le posizioni
soggettive direttamente tutelate dalla Costituzione ed inquadrato tra i diritti
inviolabili della persona umana che l’art. 2 Cost. impone di garantire” ([92]).
Su queste basi la Corte, in alcuni casi, preferisce individuare diritti
qualificati inviolabili in assenza o in concorso di una puntuale previsione e,
in tal modo, oscilla tra l’innovazione al sistema dei diritti fondamentali,
riconoscendo nuove fattispecie autonome, e l’estensione dell’inviolabilità a
diritti previsti dalla Costituzione, ma per cui questa non contempla
espressamente detta qualificazione.
A questa stregua, in una prima decisione, la Corte afferma “che nella
vigente Costituzione la libertà di emigrazione è un diritto fondamentale che lo
Stato riconosce e non attribuisce (e che, pertanto, può essere fatto valere
anche nei confronti dello Stato)” ([93])
e, successivamente, con altra decisione, rafforzando il precedente assunto,
dichiara il principio che “tra i diritti inviolabili dell’uomo di cui all’art.
2 della Costituzione della Repubblica sia da individuarsi anche il diritto di
abbandonare il proprio paese” ([94]).
Inoltre, se in alcune ipotesi all’inclusione di una fattispecie
nell’ambito dell’art. 2 Cost. si fa seguire una tutela commisurata a quella propria
di altre figure di diritto fondamentale disciplinato dalla Costituzione, come
nei casi dell’elettorato passivo, come diritto politico fondamentale ([95]),
e della proclamazione della libertà di coscienza, che godrebbe di una
“protezione costituzionale” commisurata alla necessità di tutela dei diritti
fondamentali cui risulta connessa ([96]);
in altre la disciplina costituzionale dei diversi diritti rappresenterebbe –
con un singolare rovesciamento dello schema – una integrazione rispetto ai
diritti fondamentali fondati sull’art. 2 Cost.; così, ad esempio, le garanzie
della libertà della coscienza religiosa e di quella di manifestazione del
pensiero, contenute negli art. 19 e 21 Cost. sarebbero assunte come complementari rispetto alla tutela dei
diritti inviolabili dell’uomo garantiti dall’art. 2 Cost. ([97]);
o anche il diritto sociale dei lavoratori “a che siano preveduti e assicurati
mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di disoccupazione
involontaria”, in relazione all’art. 38, comma 2, Cost., si collegherebbe “alla
tutela dei diritti fondamentali della persona sancita dall’art. 2 Cost.” ([98]).
Sulla base di questo indirizzo il giudice costituzionale non ha mancato,
poi, di rinvenire nell’art. 2 Cost. diritti più estesi, incidenti su una
fattispecie limitatamente regolata dalla Carta, in relazione ad un aspetto
peculiare. Infatti, è in questo modo che il giudice delle leggi, integrando la
fattispecie disciplinata dall’art. 22 Cost. ([99]),
dà il via al riconoscimento del “diritto al nome” “dovendosi ormai ritenere
principio consolidato (…) quello per cui il diritto al nome – inteso come primo
e più immediato segno distintivo che caratterizza l’identità personale –
costituisce uno dei diritti inviolabili protetti” dall’art. 2 Cost. ([100]).
Una sintesi dei diversi comportamenti tenuti dal giudice costituzionale
in sede di interpretazione dell’art. 2 può rinvenirsi nel riconoscimento del
“diritto all’abitazione” ([101]).
In proposito, la Corte, manifestava un primo indirizzo giurisprudenziale ([102]),
ritenendo “l’abitazione (…), un bene primario”, ma che “non (poteva) essere
considerata come l’indispensabile presupposto dei diritti inviolabili garantiti
dall’art. 2 Cost.”; e, successivamente, invece, ha riconosciuto che “il diritto
all’abitazione”, previsto dall’art. 25 della Dichiarazione universale dei
diritti dell’uomo (del 1948) e nell’art. 11 del Patto internazionale dei
diritti economici, sociali e culturali (del 1966), è un “diritto sociale”,
“collocabile fra i diritti inviolabili dell’uomo di cui all’art. 2 Cost.” ([103]).
Peraltro, la Corte costituzionale ha assegnato all’art. 2 Cost. anche un
carattere sistematico rispetto all’ordinamento generale, in quanto ha fatto
discendere dalle pronunce costituzionali su questa disposizione: in primo
luogo, la relazione tra individuo e formazioni sociali ([104]);
in secondo luogo, quella tra ordinamento statale, ordinamenti autonomi e
speciali, con riferimento al rispetto dei diritti fondamentali ([105]);
in terzo luogo, quella tra l’art. 2, sui diritti inviolabili dell’uomo, e
l’art. 3 comma 2, che “richiede il superamento delle sperequazioni di
situazioni sia economiche che sociali suscettibili di ostacolare il pieno
sviluppo delle persone dei cittadini” ([106]);
ed infine, quella tra cittadini e stranieri, per la quale l’art. 2 Cost.
garantisce i diritti fondamentali anche riguardo allo straniero ([107]).
Non v’è dubbio che la Corte abbia mostrato un orientamento, nell’utilizzo
dell’art. 2 come parametro dei giudizi costituzionali, capace di attribuire a
questo il carattere di norma di principio autonoma, in grado di ricondurre alla
tutela costituzionale “nuovi” diritti fondamentali. Sembra doversi escludere,
però, che la Corte, in questo modo, abbia inteso riferire all’art. 2 il
significato di fattispecie “aperta”, in quanto più semplicemente può dirsi che
essa abbia operato un’interpretazione estensiva delle norme costituzionali sui
diritti di libertà. Infatti, anche allorquando è mancato il riferimento a una
disposizione puntuale, ha fatto discendere pur sempre i diritti impliciti
dall’ordine costituzionale, e, attraverso il richiamo all’art. 2, ha inteso
conferire loro il crisma dell’inviolabilità.
6. Le
tecniche di tutela dei diritti fondamentali nella concreta esperienza
costituzionale italiana: l’affermazione del carattere normativo della
Costituzione, la “legislazione a rime obbligate” e le sentenze “monito”
Certamente la collocazione della Corte costituzionale nella forma di
governo e in un contesto statuale sottoposto ad una Costituzione rigida e
dotata di un catalogo di diritti costituzionali sia pure aperto dalle
potenzialità dell’interpretazione costituzionale, sembra diversa da quella
della Corte di giustizia, atteso che questa è stata posta a salvaguardia di un
ordinamento sopranazionale, originariamente caratterizzato dall’essere una
unione di scopo, che ha dovuto sviluppare un sistema di tutela dei diritti
fondamentali, per potere assicurare la prevalenza del proprio ordinamento.
Ciononostante l’esperienza costituzionale italiana appare comparabile con
l’ordinamento concreto dei diritti fondamentali nel sistema europeo, proprio in
quanto attraverso la loro tutela ha potuto garantirsi lo stesso ordinamento
repubblicano e, così come la Corte di giustizia ha seguito l’affermazione e
l’evoluzione dell’ordinamento europeo, la Corte costituzionale italiana ha
seguito quella dell’ordinamento repubblicano-democratico, anche esprimendo una
giurisprudenza condizionata dal particolare momento storico nel quale le sue
sentenze venivano pronunciate.
La prima questione che ha toccato la vicenda dei diritti fondamentali in
Italia nasceva dalla situazione che la Repubblica, dotatasi di una sua propria
e nuova Costituzione si è ritrovata ad ereditare l’ordinamento legislativo del
passato. Questa circostanza toccava in modo particolare i diritti fondamentali,
in quanto la legislazione precedente, frutto dell’ordinamento statutario e
fascista, non era stata orientata al rispetto delle libertà. Inoltre, nel lasso
di tempo intercorso tra l’entrata in vigore della Costituzione e l’insediamento
della Corte costituzionale, si era affermato, per opera anche della
giurisdizione ordinaria, un orientamento che, in relazione alle disposizioni
della Carta, distingueva tra “norme precettive” e “norme programmatiche”: le
prime sarebbero state in grado di abrogare direttamente la precedente
legislazione in contrasto con esse; le seconde invece, essendo intese come un
rinvio al legislatore futuro, non avrebbero avuto la capacità di inficiare
l’efficacia delle norme legislative contrastanti ([108]).
La distinzione tracciata toccava in modo particolare l’ambito dei diritti di
libertà e dei diritti costituzionali, in genere, in quanto la tecnica adoperata
dal Costituente nella previsione e garanzia di questi era fondata
sull’enunciato del diritto in Costituzione, accompagnato dalla previsione di
una riserva di legge, per cui di fatto proprio nel campo dei diritti
costituzionali, ossia in quello che maggiormente necessitava di innovazioni
legislative, si finiva con il conservare la precedente legislazione, anche
quando questa poteva non apparire coerente con le proclamazioni dei diritti
contenute nella Carta ([109]).
È di tutta evidenza come un simile modo di procedere aveva depotenziato
le disposizioni costituzionali e affievolito sensibilmente la garanzia costituzionale
dei diritti fondamentali; tanto più che la dottrina costituzionalistica
italiana aveva prontamente elaborato una ricca teorica sul contenuto delle
prescrizioni costituzionali ([110])
e sulla Costituzione medesima, non solo al fine di affermarne i caratteri
propri di questa, come la rigidità e la capacità di invalidare le leggi
ordinarie difformi, ma soprattutto per propugnare una puntuale interpretazione
di carattere normativo ([111]).
Infatti, in contrapposto all’idea del carattere programmatico della Costituzione,
che negava il contenuto normativo di questa o lo rinviava alla sola
legislazione successiva all’entrata in vigore della Carta, si affermava che
“una Costituzione, come qualsiasi altra legge, è anzitutto e sempre un atto
normativo e che perciò le sue disposizioni debbono essere intese di regola …
come disposizioni normative: enunciati, dunque, vere e proprie norme
giuridiche”, con la logica conseguenza che “una Costituzione deve essere intesa
ed interpretata, in tutte le sue parti magis
ut valeat, perché così vogliono la sua natura e la sua funzione, che sono e
non potrebbero non essere … di atto normativo, diretto a disciplinare
obbligatoriamente comportamenti pubblici e privati” ([112]).
Se ne poteva dedurre, perciò, che la Costituzione, anche nella sua parte
programmatica e lì dove rinviava alla legge, come nel caso dei diritti
fondamentali, era immediatamente in grado di svolgere effetti giuridici, il più
importante dei quali era quello di rendere invalide le leggi già in vigore, e
cioè anteriori alla Costituzione medesima, in contrasto con le disposizioni
costituzionali sui diritti, per illegittimità costituzionale sopravvenuta ([113]).
La questione del rapporto tra “leggi vecchie e costituzione nuova” non
poteva non proporsi in modo concreto nel momento in cui la Corte costituzionale
doveva cominciare la sua opera nell’ordinamento italiano. Infatti, nella sua
prima storica decisione il giudice costituzionale, assumendo l’orientamento
della dottrina costituzionale, ritenne che la diversità delle norme costituzionali
consentiva la coesistenza di due diversi istituti: quello dell’abrogazione e
quello della illegittimità costituzionale (successiva), i quali “si muovono su
piani diversi, con effetti diversi e con competenze diverse”. Il riconoscimento
dell’abrogazione, infatti, sarebbe rimesso a tutti gli operatori giuridici,
mentre l’accertamento dell’illegittimità costituzionale sarebbe proprio del
giudice costituzionale e se “la nota distinzione fra norme precettive e norme
programmatiche può essere … determinante per decidere della abrogazione o non
di una legge, … non è decisiva nei giudizi di legittimità costituzionale” ([114]).
Con questa sentenza la Costituzione e, in particolare, le disposizioni
sui diritti fondamentali recuperano pienamente il loro valore normativo ([115]).
Comincia così una lunga attività del giudice costituzionale, volta ad adeguare
la legislazione al rispetto dei diritti costituzionali. In questa attività,
peraltro, la Corte, una volta affermata la propria posizione istituzionale, ha
operato con saggezza e prudenza, spingendo, per un verso, il legislatore
repubblicano, con la sua opera legislativa, alla realizzazione delle riforme
costituzionali, e, per l’altro, i giudici comuni ad adoperare, sino alla
massima estensione possibile, la tecnica dell’interpretazione adeguatrice alla
Costituzione, riservandosi in tal modo il compito di intervenire nei casi di
inadempimento del legislatore e in quelli in cui, su sollecitazione dei
giudici, la possibilità di interpretazioni adeguatrici delle leggi diventava
incompatibile con il loro stesso tenore letterale. In questi casi, infatti, la
tutela dei diritti fondamentali e dei precetti costituzionali non poteva
realizzarsi senza un espressa sentenza di accoglimento della Corte
costituzionale.
Già in una delle sue prime decisioni, dovendo considerare la legittimità
costituzionale dell’art. 2 del TULPS del 1931, attributivo al prefetto del
potere di adottare, in casi di urgenza e necessità, i provvedimenti necessari
per assicurare l’ordine pubblico, che potevano risultare anche limitativi di
libertà costituzionali, al di fuori dei casi previsti dalle leggi di disciplina
dei singoli diritti, la Corte dichiarava la questione non fondata. Essa,
tuttavia, interpretava il potere d’ordinanza del prefetto in modo riduttivo, e
cioè ritenendo che la norma denunciata dovesse essere intesa, non già nel
significato rivestito nel sistema che le dette vita, bensì in quello acquistato
sulla base dell’interpretazione che avrebbe dovuto avere in conformità alla
Costituzione, e cioè che i provvedimenti previsti avrebbero avuto il carattere
di atti amministrativi adottati dal Prefetto nell’esercizio dei compiti del suo
ufficio, strettamente limitati nel tempo, in relazione ai dettami della
necessità e dell’urgenza, e vincolati ai principi dell’ordinamento giuridico.
Quanto, poi, alla possibilità che detti atti avrebbero potuto toccare le
libertà costituzionali la Corte osservava che “i provvedimenti emanati sulla
base dell’art. 2 possono, in ipotesi, toccare tutti i campi nei quali si
esercitano i diritti dei cittadini, garantititi dalla Costituzione (libertà di
pensiero, di religione, di circolazione, ecc.). Ma il giudicare se l’ordinanza
prefettizia leda tali diritti è indagine da farsi di volta in volta dal
giudice, ordinario o amministrativo, competente” ([116]).
La pronuncia costituzionale aveva la forma, perciò, di una sentenza di
rigetto, sia pure interpretativa, e rinviava la tutela concreta dei diritti
costituzionali ai giudici comuni. La Corte, però, sapeva bene che la stessa
dizione dell’art. 2 TULPS poteva risultare difficile da restringere nei confini
di una interpretazione costituzionalmente conforme e, per questa ragione, da un
lato, avvertiva i giudici di merito che, qualora avessero constatato arbitrarie
applicazioni della norma, frutto di interpretazioni diverse da quella rilevata
dalla Corte stessa, la questione poteva essere riesaminata, non sussistendo
alcun effetto preclusivo della pronuncia; dall’altro, auspicava, nell’intento
di evitare ogni interpretazione contraria alla Costituzione, che il legislatore
provvedesse ad inserire nel testo della disposizione l’espressa enunciazione
dei canoni indicati nella sentenza, ai quali i provvedimenti avrebbero dovuto
conformarsi, augurandosi, altresì, che, nella nuova formulazione, si enunciasse
l’obbligo della motivazione ed anche quello della pubblicazione nel caso in cui
il provvedimento non avesse avuto carattere individuale ([117]).
Successivamente, essendo il testo legislativo rimasto inalterato e, in
diverse occasioni, avendo emesso i Prefetti provvedimenti che tendevano ad
avere carattere di permanenza, parecchi giudici riproponevano la medesima
questione di legittimità sul potere di ordinanza del Prefetto, in quanto
effettivamente tendevano a menomare l’esercizio dei diritti garantiti dalla
Costituzione. La Corte, in questa occasione, sulla base della constatazione
delle prassi che si realizzavano nell’applicazione dell’art. 2, cit., ha ribaltato il precedente
giudizio e ha riaffermato che “i provvedimenti prefettizi non possono mai
essere in contrasto con i … principi [dell’ordinamento giuridico], dovunque
tali principi siano espressi o comunque essi risultino, e precisamente non
possono essere in contrasto con quei precetti della Costituzione che,
rappresentando gli elementi cardinali dell’ordinamento, non consentono alcuna
possibilità di deroga nemmeno ad opera della legge ordinaria” ([118]),
concludendo “che la omessa prescrizione, nel testo dell’art. 2, del rispetto
dei principi dell’ordinamento giuridico renderebbe possibile – ed in realtà ha
reso, di recente, possibile – un’applicazione della norma, tale da violare i
diritti dei cittadini e da menomare la tutela giurisdizionale” ([119]).
Su queste basi, pertanto, è stata ritenuta sussistente l’illegittimità
dell’art. 2 nei limiti in cui esso attribuisce ai Prefetti il potere di
emettere ordinanze senza il rispetto dei principi dell’ordinamento giuridico.
Con riferimento al significato non solo giuridico, ma anche
istituzionale, del compito assolto nell’ordinamento dei diritti di libertà
dalla Corte costituzionale, le sentenze sull’art. 2 del TULPS sono sicuramente
le più note, ma il giudice costituzionale ha adoperato la tecnica della doppia
sentenza (interpretativa di rigetto/interpretativa di accoglimento) tantissime
volte e sempre per definire questioni rispetto alle quali, o il legislatore si
era mostrato inadempiente, o i giudici aveva richiesto l’intervento risolutore
della Corte, non riuscendo con gli strumenti dell’ermeneutica giuridica a
sciogliere la questione di costituzionalità.
Accanto a questa forma di salvaguardia dei diritti di libertà, il giudice
costituzionale, a seconda della questione prospettata e del modo in cui può
raggiungere la salvaguardia dei diritti di libertà, ha adottato anche pronunce
che anziché operare sul significato normativo della disposizione hanno posto
mano alla stessa statuizione legislativa, modificandola (rectius: manipolandola) in modo da poterne trarre una norma diversa
da quella originariamente possibile. Esemplare è in proposito la sentenza
sull’interrogatorio reso dall’imputato dinnanzi al giudice istruttore ([120]).
La normativa del codice di procedura penale, a tal riguardo, prevedeva che
poteva presenziare il pubblico ministero, ma non il difensore dell’imputato, e
il giudice a quo, nel rimettere la
questione, movendo dal carattere “kelseniano” del giudice costituzionale come
legislatore negativo, chiedeva alla Corte di pronunciare l’illegittimità della
disposizione che prevedeva la partecipazione del pubblico ministero, in modo da
riportare la parità tra le parti nel processo penale. Invece, il giudice
costituzionale, superando l’impostazione del legislatore negativo e prendendo
in considerazione una disposizione diversa da quella denunciata, al fine di
rendere effettivo il diritto di difesa nel processo penale, ha ritenuto di
dovere censurare l’assenza del difensore dalla fase processuale considerata. Il
ragionamento della Corte si è basato sostanzialmente su due passaggi logici: a) che la denunziata disparità di
trattamento fra pubblico ministero e difensore, ove venisse riconosciuta come
contrastante con il diritto di difesa, garantito dall’art. 24 della
Costituzione, potrebbe essere rimossa sia escludendo il primo dall’assistenza
all’interrogatorio (attraverso una pronunzia di parziale illegittimità
costituzionale dell’art. 303 c.p.p.) sia ammettendovi il secondo (attraverso
una pronunzia di parziale illegittimità costituzionale dell’articolo 304 bis
dello stesso codice); b) che la
scelta fra l’una e l’altra soluzione non potrebbe dipendere dal modo in cui la
questione viene fissata dall’ordinanza di rimessione, ma dovrebbe essere
operata tenendo conto sia dei principi generali ai quali risulta ispirata la
struttura del processo penale sia delle direttive desumibili dalla norma costituzionale
di raffronto.
Su queste basi, la Corte accerta, in primo luogo l’esistenza di una
disparità tra imputato e pubblico ministero non giustificata costituzionalmente
nel compimento di un atto processuale così importante come l’interrogatario
dell’imputato e, atteso che questo deve essere considerato, oltre che come
mezzo di prova, anche come mezzo di difesa, ha ritenuto che la parità di
contraddittorio, nel quadro della legislazione vigente, debba essere assicurata
attraverso la dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale della
norma nella parte in cui vieta al
difensore di prendere parte all’interrogatorio dell’imputato, in quanto
“proprio la rimozione di questo divieto è la soluzione più idonea a realizzare
la parità di contraddittorio attraverso una disciplina che, conformemente alle
direttive imposte dall’art. 24 della Costituzione, consente un più efficiente
esercizio del diritto di difesa” ([121]).
Le decisioni manipolative che la Corte ha adottato, soprattutto in
occasioni in cui venivano in discussione la tutela dei diritti costituzionali,
sono state considerate dalla dottrina italiana ampiamente giustificate dal
punto di vista del merito costituzionale, ma hanno suscitato non poche
obiezioni di carattere istituzionale. Infatti, a questa giurisprudenza, che
risponderebbe essenzialmente a ragioni pratiche di realizzazione del dettato
costituzionale, è stato riconosciuto un carattere paralegislativo e
costituirebbe il segno evidente del ruolo di supplenza svolto dalla Corte nei
confronti del Parlamento. Di qui la critica che queste pronunce avrebbero
rappresentato una invasione della discrezionalità del legislatore e una
violazione del precetto dell’art. 28 della legge n. 87 del 1953, per
il quale “il controllo di legittimità della Corte costituzionale su una legge o
un atto avente forza di legge esclude ogni valutazione di natura politica e
ogni sindacato sull’uso del potere discrezionale del Parlamento”.
A tal riguardo, è stato giustamente replicato che “non è esatto che la Corte
… finisca per esercitare una funzione legislativa, che non le spetta,
sostituendosi agli organi a questa costituzionalmente preposti”. Infatti, “la
Corte non crea, essa, liberamente (come farebbe il legislatore) la norma, ma si
limita a individuare quella – già implicata nel sistema, e magari addirittura
ricavabile dalle stesse disposizioni costituzionali di cui ha fatto
applicazione – mediante la quale riempire immediatamente la lacuna che
altrimenti resterebbe aperta nella disciplina della materia, così conferendo
alla pronuncia adottata capacità autoapplicativa. Una legislazione, se proprio così vuol dirsi (ma descrittivamente) ‘a
rime obbligate’ ” ([122]).
Invero, la Corte nella sua giurisprudenza ha curato la realizzazione dei
diritti costituzionali senza togliere terreno al Parlamento, che è sempre
rimasto in grado di intervenire dopo le pronunce del giudice costituzionale;
anzi in molte occasioni la stessa Corte, nelle pronunce di accoglimento, ha
specificato principi e regole derivati dalle norme costituzionali e
immediatamente applicabili, ma al contempo rivolgendole, come “monito”, anche
al legislatore, affinché intervenisse a riordinare la materia nella direzione
indicata.
Emblematica è, al riguardo, una sentenza in materia di monopolio
televisivo pubblico, con la quale la Corte, oltre a giustificare, in ragione
dell’allora limitatezza delle frequenze radiotelevisive utilizzabili,
l’istituzione del monopolio pubblico, rilevava che “la sottrazione del mezzo
radiotelevisivo” può ritenersi legittima,
e cioè compatibile con l’art. 21 Cost., “solo se si assicuri che il suo
esercizio sia preordinato a due fondamentali obbiettivi: a trasmissioni che
rispondano alla esigenza di offrire al pubblico una gamma di servizi
caratterizzata da obbiettività e completezza di informazione, da ampia apertura
a tutte le correnti culturali, da imparziale rappresentazione delle idee che si
esprimono nella società; a favorire, a rendere effettivo ed a garantire il
diritto di accesso nella misura massima consentita dai mezzi tecnici” ([123]).
Su queste basi la Corte avvertiva
che, salva “la discrezionalità del legislatore di scegliere gli strumenti più
appropriati ad assicurare il conseguimento dei due fondamentali obbiettivi di
cui innanzi si è discorso”, la legge debba almeno
prevedere determinate caratteristiche e traccia così un catalogo di ben sette
principi da applicare direttamente nella gestione del servizio radiotelevisivo
pubblico ([124])
e dichiarava l’illegittimità della “legislazione vigente, nella quale … nulla
si (rinveniva) che (potesse) corrispondere a quel minimo di regolamentazione a
cui innanzi si (era) fatto cenno” ([125]).
7. Segue: lo Stato sociale e i diritti fondamentali,
dalla legittimità costituzionale provvisoria alle sentenze additive di
principio
L’affermazione dell’ordinamento repubblicano ha posto questioni
particolari in relazione al carattere programmatico di molte disposizioni
costituzionali, anche in tema di diritti fondamentali, come nel caso dei
diritti sociali ([126]).
Il destinatario di queste disposizioni è il legislatore per il quale la
Costituzione, oltre che un limite da rispettare, è un programma da attuare. Ma
la realizzazione dei diritti sociali è qualitativamente diversa dai diritti di
libertà: se per questi ultimi è sufficiente il rispetto da parte della
legislazione dei limiti costituzionali, per i primi occorre che la legislazione
sia costruita in modo da disporre l’organizzazione e le risorse per la
realizzazione delle prestazioni in cui il diritto sociale medesimo consiste ([127]).
Nella sentenza
n. 455 del 1990 ([128]),
con riferimento al diritto a ricevere prestazioni sanitarie, la Corte osserva
che “quest’ultima dimensione del diritto alla salute … comporta che, al pari di
ogni diritto a prestazioni positive, il diritto a ottenere trattamenti
sanitari, essendo basato su norme costituzionali di carattere programmatico
impositive di un determinato fine da raggiungere, è garantito ad ogni persona
come un diritto costituzionale condizionato dall’attuazione che il legislatore
ordinario ne dà …, tenuto conto dei limiti oggettivi che lo stesso legislatore
incontra nella sua opera di attuazione in relazione alle risorse organizzative
e finanziarie di cui dispone al momento” ([129]).
Il giudice costituzionale ritiene che questo principio, comune ad ogni altro
diritto costituzionale a prestazioni positive, “non implica certo una
degradazione della tutela primaria assicurata dalla Costituzione a una
puramente legislativa, ma comporta che l’attuazione della tutela,
costituzionalmente obbligatoria, di un determinato bene (la salute) avvenga
gradualmente … e con la possibilità reale e obiettiva di disporre delle risorse
necessarie per la medesima attuazione” ([130]).
La questione come è facile immaginare è collegata alla realizzazione
dello Stato sociale, che richiede l’impegno delle finanze pubbliche e
articolate politiche territoriali ed economiche ([131]).
La tutela dei diritti costituzionali in questo contesto tende a diventare
più complessa e la dottrina ha parlato, a tal riguardo, di diritti costituzionali condizionati ([132]),
dal momento che l’opera del legislatore (e dell’amministrazione) non appare
sostituibile dalla pronuncia del giudice costituzionale e, per di più, la loro
proclamazione importa oneri alla finanza pubblica, in quanto il loro effettivo
godimento ha per conseguenza nuove spese a carico del bilancio dello Stato.
Questo spiega come mai il giudice costituzionale abbia qui esercitato il
proprio magistero con una particolare prudenza, nascente dalla consapevolezza
che il processo costituzionale non è costruito in modo da potere sanzionare le
omissioni del legislatore. Ma sicuramente, accanto a questa problematica dovuta
alla tecnica del processo costituzionale, si colloca anche l’esigenza di tenere
conto delle difficoltà concrete, di ordine finanziario, in cui l’affermazione
del principio dello Stato sociale metteva la Repubblica ([133]).
Così, se di fronte a lesioni dei diritti costituzionali, per via di
omissioni del legislatore, la Corte tenta di individuare alcuni criteri in base
ai quali può svolgersi il controllo di costituzionalità delle leggi, come il
principio di gradualità delle riforme legislative ([134]);
e se in alcune circostanze adopera ancora sentenze manipolative, come nel caso
dell’inserimento nelle scuole secondarie dei portatori di handicap ([135]),
con la crisi dello Stato sociale e della finanza pubblica, tende a fare
degradare la tutela costituzionale dei diritti fondamentali e a farne le spese
sono tanto i diritti sociali, quanto e soprattutto i diritti economici ([136]).
In situazioni di crisi finanziaria e di fronte a crescenti difficoltà
sociali che il legislatore non riesce a fronteggiare, la Corte accetta
normative nelle quali essa stessa intravede dei limiti di legittimità
costituzionale, giustificandoli sulla base della circostanza che, essendo
dovute a situazioni straordinarie e
di carattere temporaneo, la
compressione dei diritti non sarebbe tale da pregiudicare in modo definitivo le
situazioni soggettive. La dottrina italiana ha coniato per questa
giurisprudenza l’espressione “legittimità
costituzionale provvisoria” ([137]).
In molte di queste sentenze sono contenuti comunque degli “avvertimenti” al
legislatore, non solo ad adoperare con estrema cautela discipline che
comprimono i diritti costituzionali, ma anche a rimuoverli non appena cessate
le ragioni straordinarie che ne determinano l’adozione, pena la possibilità di
una diversa pronuncia da parte del giudice costituzionale ([138]).
Un caso singolare è offerto dalla
giurisprudenza costituzionale sul c.d. “tetto pensionistico”. La Corte, chiamata
in causa, allorché, in sede di legge finanziaria, venne prevista tra le misure
di contenimento l’istituto in discorso, al fine di giustificare la legislazione
sospettata di illegittimità costituzionale ha affermato che “le discipline più
restrittive sono durate solo alcuni anni, sicché, anche per questo carattere
contingente e temporaneo, si è portati ad escludere la fondatezza delle
censure” ([139]).
Un ulteriore settore in cui ha trovato posto la legittimità
costituzionale provvisoria concerne la legislazione di proroga dei contratti di
locazione: in una decisione del 1976 ([140])
la Corte osservava “che l’eventuale alterazione dell’equilibrio (il quale deve
pure sussistere) tra interessi dei conduttori ed interessi dei proprietari
locatori non viene in rilievo (e la Corte si esime dall’esaminarla), in ragione
dei riconosciuti caratteri di straordinarietà e temporaneità della disciplina,
che giustificano un intervento per fini sociali in favore delle classi meno
abbienti, realizzato senza una definitiva ed irreversibile compressione delle
facoltà di godimento del proprietario” ([141]).
Infine, viene nuovamente in rilievo una decisione sul settore
radiotelevisivo, in cui il giudizio su una legislazione che di fatto permette,
per l’assenza di disciplina normativa specifica, la trasmissione su scala
nazionale delle emittenti private, senza le garanzie atte ad assicurare il
pluralismo dell’informazione (art. 21 Cost.) e la trasparenza dell’attività
d’impresa (art. 41 Cost.), e cioè non in grado di impedire il realizzarsi di concentrazioni monopolistiche od
oligopolistiche private, viene risolto tenendo conto che l’“intervento
legislativo ha natura chiaramente provvisoria, perché nella sua complessiva
impostazione appare proiettato verso la futura riforma del sistema radiotelevisivo”
e la legge sarebbe “intesa a dettare una disciplina solo parziale e limitata
nel tempo, destinata in tempi brevi … ad essere sostituita dalla legge di
riassetto dell’intero settore”, per cui “si può allora ammettere che una legge
siffatta possa nella sua provvisorietà trovare una base giustificativa” ([142]).
Questa giurisprudenza costituzionale ha avuto numerose repliche, nel
senso che a più riprese nei settori e, persino, sulle medesime disposizioni si
sono ripetute pronunce costituzionali, le quali, ancorché ricche di indicazioni
e moniti, hanno rigettato la questione di costituzionalità, se non addirittura
dichiarata la stessa inammissibile. Tuttavia, non appena la questione
finanziaria ha allentato la sua morsa, il self
restraint della Corte ha trovato una
pausa e, constatato il ricorrente inadempimento del legislatore a regolare in
modo costituzionalmente conforme le pretese individuali, si fa strada una nuova
modalità per assicurare anche ai diritti sociali e a quelli economici una più
adeguata tutela. La chiave di volta è data da un peculiare tipo di decisioni
che prende il nome di “sentenze additive di principio” ([143]).
Si tratta di decisioni attraverso le quali la Corte pronuncia
l’illegittimità di omissioni legislative, indicando quale è l’elemento che
manca nella disposizione censurata, ma senza aggiungere alcun frammento
testuale, come nelle sentenze manipolative classiche, poiché si limitano ad
indicare il canone che deve essere rispettato dalla legislazione per potersi
considerare conforme alla Costituzione.
In questa maniera, è sembrato che la Corte abbia richiesto, in modo
stringente, l’intervento del legislatore, producendo una lacuna ancora più
ampia rispetto al suo stesso inadempimento, non determinando però per
l’interessato un reale vantaggio. Di qui la circostanza che, al primo impatto
di queste sentenze che si concludevano con il rinvio alla discrezionalità del
legislatore per determinare la norma di adeguamento, gli stessi giudici di
merito non sapessero esattamente come definire le pretese sottoposte al loro
esame e sollevassero nuovamente la questione e la Corte aggiungeva che “la
dichiarazione di illegittimità costituzionale di un’omissione legislativa (…)
mentre lascia al legislatore, riconoscendone l’innegabile competenza, di
introdurre e di disciplinare, anche retroattivamente tale meccanismo in via di
normazione astratta, somministra essa stessa un principio cui il giudice comune
è abilitato a fare riferimento per porre frattanto rimedio all’omissione in via
di individuazione della regola del caso concreto” ([144]).
Nelle sue successive pronunce costituzionali l’invito ai giudici a
provvedere sul principio enunciato nella decisione costituzionale si trova
congiunto nella medesima sentenza con la quale viene censurata la disposizione
illegittima per omissione di un determinato principio (rectius: canone) costituzionalmente necessario ([145])
e come è stato successivamente affermato, “con esse si dichiara l’illegittimità
costituzionale della mancata previsione di un meccanismo idoneo a rendere
effettivi i diritti (…) lasciando però al legislatore il potere di individuare
tale meccanismo in via astratta ed abilitando il giudice comune a reperire le
regole del caso concreto nel principio espresso dalla Corte” ([146]).
Peraltro, se è vero che “il terreno proprio di questo tipo di decisioni è
il campo dei diritti sociali” ([147]),
in particolare di quelli previdenziali ([148]),
altrettanto vero è che la Corte si è pronunciata con le sentenze additive di
principio anche per i diritti economici ([149])
e persino nel campo dei diritti civili e di libertà ([150]).
8. Segue: i diritti di fronte all’emergenza dell’ordine democratico
Prima di considerare le ulteriori tecniche di tutela dei diritti
fondamentali che l’ordinamento italiano ha sperimentato, particolarmente
attraverso le pronunce del giudice costituzionale, appare necessario prendere
in considerazione, sia pure brevemente, la vicenda dei diritti di fronte alla
prova del terrorismo. L’Italia è uno dei paesi che in Europa, sino ai più
recenti accadimenti, ha sperimentato il peso di un terrorismo, peraltro, di
matrice interna ed ideologica, feroce e simbolico. La situazione di emergenza
che questo fenomeno ha generato, toccava direttamente i diritti costituzionali,
dando vita, sotto la spinta della legislazione speciale, a una compressione
delle garanzie che il corpo sociale ha sopportato sotto l’egida della paura di
una minaccia oscura.
Il terrorismo genera emergenza e l’emergenza crea uno stato di tensione
tra la sicurezza e le garanzie apprestate dalla Costituzione a salvaguardia
della dignità umana, le quali devono risultare efficaci proprio nel momento in
cui la forza dello Stato si esercita nei confronti del singolo individuo. Nella
Costituzione italiana, peraltro, mancano disposizioni idonee che disciplinino
lo stato d’emergenza e i diritti costituzionali non conoscono – salvo ipotesi
particolari (come nella libertà di riunione (art. 17 Cost.) – la possibilità di
una maggiore limitazione per particolari ragioni di sicurezza.
Per queste ragioni, nacquero anche molte perplessità, allorquando il
legislatore iniziò a disciplinare l’emergenza dell’ordine democratico, con
disposizioni che ampliavano i poteri di polizia e la discrezionalità
giudiziaria; e furono toccati istituti come la carcerazione preventiva e la
libertà provvisoria, l’acquisizione di prove con perquisizioni e
intercettazioni e la stessa valutazione della pena nel processo penale, nonché
la portata e il significato dei principi costituzionali di non colpevolezza e
di irretroattività della legge penale ([151]).
La Corte fu investita, a più riprese, del compito di provare la
compatibilità costituzionale delle “misure urgenti” poste a salvaguardia
“dell’ordine democratico e della sicurezza pubblica” ([152]).
Nella decisione più significativa, da questo punto di vista, la sentenza n. 15 del
1982, benché il giudice costituzionale avvertisse che le questioni poste
suscitavano “immediato e profondo turbamento”, le dichiarava non fondate, in
quanto le disposizioni denunciate andavano rapportate ragionevolmente alla causa occasionale “esplicitamente indicata dallo stesso legislatore nella
necessità di tutelare l’ordine democratico e la sicurezza pubblica contro il
terrorismo e l’eversione”, per cui, non potendosi dubitare dell’esistenza e consistenza,
della peculiarità e gravità del fenomeno che si intende combattere ([153]),
“di fronte ad una situazione d’emergenza, quale risulta quella in argomento …,
Parlamento e Governo hanno non solo il diritto e potere, ma anche il preciso ed
indeclinabile dovere di provvedere, adottando una apposita legislazione
d’emergenza” ([154]).
Anche in quella occasione, però, la Corte ha considerato che “se si deve
ammettere che un ordinamento, nel quale il terrorismo semina morte – anche
mediante lo spietato assassinio di ‘ostaggi’ innocenti – e distruzioni,
determinando insicurezza …, versa in uno stato di emergenza, si deve, tuttavia,
convenire che l’emergenza, nella sua accezione più propria, è una condizione
certamente anomala e grave, ma anche essenzialmente temporanea”; con la
conseguenza che, pur permettendo l’emergenza di “misure insolite”, “queste
perdono legittimità, se ingiustificatamente protratte nel tempo” ([155]).
La straordinarietà della situazione, da un lato, e la previsione di temporaneità
della legislazione d’emergenza, dall’altro, sono state gli strumenti con cui
sul piano costituzionale è stato affrontato anche il terrorismo, e la Corte ha
inserito, in questo contesto, una chiara sollecitazione al legislatore a
ristrutturare in modo adeguato l’azione concreta dello Stato ([156]).
9. Segue: i diritti e il principio d’eguaglianza, la
legge tra coerenza e ragionevolezza
I continui rinvii al legislatore con cui il giudice costituzionale nelle
sue decisioni prevede che siano attuate le disposizioni sulle libertà
costituzionali o la rimessione a questo di decisioni necessarie per realizzare
il contenuto delle prescrizioni sui diritti, soprattutto allorquando possano
avere soluzioni diverse, hanno dato vita ad una dialettica tra Corte e
Parlamento al cui centro si situa la discrezionalità legislativa e l’esercizio
della relativa funzione.
È stato già ricordato come il giudizio di legittimità del giudice
costituzionale, sulle leggi precluda, per disposto positivo, un sindacato
“sull’uso del potere discrezionale del Parlamento” (art. 28 Legge n. 87 del 1953) e una
dottrina autorevole, ancor prima che la Corte costituzionale iniziasse a
svolgere la propria azione nell’ordinamento italiano, aveva persino escluso che
il giudice costituzionale potesse operare, nel caso delle leggi, quel
particolare riscontro della legittimità che va sotto il nome di “eccesso di
potere”, in quanto, in primo luogo, il sindacato della Corte, previsto dalla
Costituzione, dovrebbe essere esercitato sull’atto o sulla norma, ma non
sull’attività del legislatore e, inoltre, nel caso della legge, come
“manifestazione obiettiva e impersonale di volontà”, non potrebbero avere
rilievo “i motivi subiettivi, transeunti, puntuali, della emissione dell’atto”
([157]).
Questo orientamento è stato disatteso dalla giurisprudenza
costituzionale, nel momento in cui si è ritenuto insito nel riscontro di
legittimità delle leggi il compito di “identificare di volta in volta il fine
della disciplina legislativa, per valutarne il non contrasto con il fine
costituzionale” ([158]).
Il giudizio sui risultati dell’azione del legislatore, e cioè sui fini
della legge, è nato essenzialmente (se non esclusivamente) dalle questioni che
i giudici di merito hanno sollevato in relazione alle disposizioni sui diritti
fondamentali. Infatti, questi, anche per ragioni argomentative, hanno visto
nelle disposizioni legislative limitative dei diritti una condizione di
disparità di trattamento dei soggetti a queste sottoposti, rispetto a quanti,
non sottoposti alla specifica disposizione denunciata, avrebbero potuto godere
del diritto o della libertà costituzionalmente tutelata. Ne è nata una tecnica
di rinvio dei giudici a quibus che
hanno invocato, insieme alla specifica disposizione sui diritti, anche la
violazione del principio d’eguaglianza, di cui all’art. 3, comma 1, Cost., la
quale ha comportato, da parte del giudice costituzionale, un riscontro delle
giustificazioni dei trattamenti differenziati effettuati dalla legge in termini
di ragionevolezza, anche con l’ausilio
di massime di esperienza, di dati della realtà economico-sociale e di
conoscenze di ordine extragiuridico ([159]).
In questo modo la Corte costituzionale, attraverso il principio
d’eguaglianza, verificando che la legge disponga un trattamento pari, per posizioni
eguali, e differenziato per situazioni diverse, ha tratto dalla Costituzione un
“canone di coerenza dell’ordinamento giuridico” ([160]),
incentrato sulla clausola generale della
ragionevolezza, grazie al quale ha progressivamente esteso il proprio giudizio
sull’azione del legislatore, in termini di logicità interna della normativa,
razionalità delle deroghe apportate, giustificazione delle differenze di
trattamento, ecc. ([161]).
Le sentenze sull’art. 3 Cost. e sulla ragionevolezza rappresentano, così,
ormai la parte più consistente della giurisprudenza costituzionale; la quantità
di decisioni, in proposito, è tale che gli aspetti concernenti i singoli
diritti costituzionali possono essere costruiti con un certo grado di
generalità e sarebbe, perciò, possibile effettuare una rassegna delle decisioni
della Corte in relazione per ognuno di essi, ad esempio: l’eguaglianza in tema
di lavoro (artt. 4 e 35 Cost.), di libertà personale (art. 13 Cost.), di difesa
giudiziale (art. 24), di diritti sociali (art. 38), di proprietà (art. 42), di
organizzazione dei pubblici uffici (art. 97), e così via per ogni diritto
contemplato nella Carta costituzionale ([162]).
Quello che occorre evidenziare, ai fini di questa ricostruzione, è che il
controllo di ragionevolezza delle disposizioni legislative, in relazione ai
diritti costituzionalmente garantiti, ha conosciuto – proprio per la sua
estensione – una molteplicità di schemi nella giurisprudenza costituzionale
della quale se ne possono qui, in modo esemplificativo, richiamare due
principali: quello che può definirsi “onere di coerenza” della legislazione,
che sarebbe evidenziato da un procedimento comparativo, con “un controllo volto
a stabilire se tra le varie manifestazioni normative nella stessa materia (tertia comparationis) e quella
denunziata esista una congruità dispositiva o, invece, vi siano contraddizioni
insanabili” ([163]);
e quello relativo alla ragionevolezza,
o all’arbitrarietà della legge, in
cui questa dipenderebbe essenzialmente da un giudizio sulla ratio delle disposizioni che “prescinde
da raffronti con termini di paragone (i quali, al più, assumono solo un valore
sintomatico), per esaminare la rispondenza degli interessi tutelati dalla legge
ai valori ricavabili dalla tavola costituzionale o al bilanciamento tra gli
stessi, inferendo una contrarietà a Costituzione solo quando non sia possibile
ricondurre la disciplina ad alcuna esigenza protetta in via primaria o vi sia
una evidente sproporzione tra i mezzi approntati ed il fine asseritamente
perseguito” ([164])
([165]).
Al primo genere si può ascrivere la sentenza n. 254 del
1994 ([166]),
con la quale la Corte ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 60, secondo
comma, della legge 24 novembre 1981, n. 689, nella parte in cui escludeva la possibilità di applicare pene
sostitutive per i reati previsti dagli artt. 21 e 22 della legge 10 maggio
1976, n. 319, a tutela delle acque dall’inquinamento. La Corte è giunta a
questa decisione dopo avere messo a confronto la disciplina denunciata con le
altre normative del settore e avere riscontrato che si dava vita “ad un sistema
assolutamente squilibrato, restando assoggettate al trattamento preclusivo
soltanto le previsioni espressamente indicate dalla norma denunciata” ([167]).
Al secondo schema, che ricostruisce il giudizio come esame della
ragionevolezza della legge, risponderebbe la sentenza n. 78 del
1994 ([168]),
che ha riguardato l’art. 39 del d.P.R. 11 luglio 1980, n. 382 che prevede un
assegno aggiuntivo non pensionabile per i professori universitari a tempo
pieno. La questione era stata sollevata con riferimento agli artt. 3 e 38 Cost.
e la disparità denunciata dal giudice a quo farebbe riferimento alla previsione
per altri pubblici dipendenti, nella specie il personale sanitario, che godono
di assegni aggiuntivi pensionabili ([169]).
La pronunzia, che respinge la richiesta estensione, ritiene che
l’esclusione dalla pensionabilità dell’assegno aggiuntivo non sia
“manifestamente incongrua o irragionevole”, alla luce dell’evoluzione storica
della legislazione del settore, che dimostrerebbe come il legislatore non abbia agito arbitrariamente, e della
considerazione che “l’art. 38 della Costituzione non garantisce … una integrale
corrispondenza tra retribuzione e pensione”, per cui non sussisterebbe il vulnus della norma costituzionale ([170]).
Occorre sottolineare che la distinzione tra giudizio per disparità, in cui prevale l’esigenza paritaria, e giudizio per ragionevolezza, incentrata
sulla sistematica della legge, non è sempre agevole, e la stessa Corte
costituzionale ha mostrato di non sapere sempre distinguere bene le due ipotesi
di riscontro che spesso tendono a sovrapporsi e a confondersi ([171]);
a ciò si aggiunga che, a prescindere dalla distinzione dei diversi livelli di
discrezionalità del legislatore, nel valutare la coerenza e la ragionevolezza,
entrambi questi criteri si possono risolvere in un riesame assai penetrante
dell’attività legislativa, per cui sono state paventate possibili
sovrapposizioni di scelte operate dai giudici costituzionali a scelte compiute
dal Parlamento, rispetto alle quali l’unica eventuale limitazione sarebbe data
dalla “virtus del Collegio” o, se si
preferisce, dal “suo self restraint”
nel “modulare il giudizio d’eguaglianza” ([172]).
In ogni caso, la compatibilità con il giudizio di legittimità di una così
penetrante, pervasiva e non strettamente determinata valutazione della coerenza e della ragionevolezza, tale da rasentare il confine della discrezionalità
legislativa, è stata comunque ritenuta sussistente, in quanto appare
strettamente funzionale a chiarire la portata stessa dei diritti costituzionali
([173]),
per cui non vi sarebbe una sovrapposizione di scelte (politiche) della Corte,
rispetto a quelle operate dal legislatore ([174]),
ma semplicemente un controllo su “quel minimum
di razionalità necessaria a dare fondamento a tali scelte, mancando le quali
esse appaiono vere e proprie discriminazioni” ([175]).
10. Segue:
il bilanciamento dei diritti
Direttamente derivata dal criterio di ragionevolezza è anche la tecnica
del c.d. “bilanciamento dei diritti”, che si determinerebbe allorquando vengono
in collisione due pretese costituzionalmente fondate che tendono a realizzarsi
una a discapito dell’altra; di qui – secondo un linguaggio più descrittivo, che
prescrittivo – la necessità di “bilanciare”. La differenza rispetto al giudizio
di ragionevolezza risiederebbe nella circostanza che la valutazione, con il
bilanciamento, non sarebbe effettuata sulla base del parametro dell’eguaglianza
dell’art. 3 Cost., ma verrebbero direttamente in considerazione le disposizioni
sui diritti costituzionali, ognuna delle quali potrebbe assumere il carattere
di principio di comparazione ([176]).
È bene fare subito due avvertenze sulla tecnica di bilanciamento
elaborata in Italia: a) questa è
diversa dal balancing test della
Corte suprema statunitense e dal bilanciamento di cui parla il Bundesverfassungsgericht, non fosse
altro, perché diverse sono le Costituzioni di riferimento e i sistemi che ne
discendono ([177]);
b) nel nostro paese l’elaborazione sul
bilanciamento è trascesa dall’ambito scientifico e ha assunto, dal punto di
vista del diritto costituzionale, un carattere ideologico, in quanto, anziché essere considerato – come dovrebbe
essere – uno degli strumenti forgiati per assumere decisioni concrete, limitato
a determinati casi concreti che presentano caratteristiche particolari e da
valutare, perciò, sempre in modo critico ([178]),
è stato considerato la via principale per affermare una particolare concezione
della Costituzione e un singolare metodo di interpretazione di questa,
collegato alla c.d. “teoria dei valori” ([179]).
Ne è nato una sorta di movimento ([180]),
volto a propugnarne l’accoglimento, che ha avuto una certa presa sulla stessa
giurisprudenza della Corte costituzionale, la quale ha finito, in parte, col
modificare il suo stesso linguaggio ([181]),
adoperando il lessico dei valori e chiamando “bilanciamento” anche operazioni
ermeneutiche di natura sillogistica ([182]).
In proposito, peraltro, parte della dottrina ha ipotizzato “diversi modi
di relazione e di valutazione-comparazione, che presupporrebbero la
conservazione di quello che può considerarsi il nucleo duro, il Wesensgehalt, delle disposizioni
costituzionali da cui si ricava ciascun principio supremo e che spetta, in
definitiva, alla giurisprudenza costituzionale di enucleare”; si osserva,
infatti, che “le norme ricavabili dai principi presuppongono la elaborata opera
di individuazione e ricostruzione (bilanciamento) dei medesimi intesi come
valori” e che “è in definitiva alla Corte costituzionale che spetta quella
scelta fondamentale che consente di graduare i valori costituzionali positivi e
di enucleare quelli supremi costruendo il sistema dei valori costituzionali non
a priori o in astratto, ma con riferimento alle particolari fattispecie legislative
che sono sottoposte al controllo di costituzionalità” ([183]).
Ora, è di tutta evidenza che con la regressione dalle norme sui diritti
della Costituzione (sotto forma di principi), ai valori si fa un percorso
perfettamente opposto a quello compiuto dall’ordinamento attraverso la Verrechtlichung, per cui sembra da
condividere l’osservazione di chi rileva che “quando si afferma che la libertà,
la democrazia e l’uguaglianza sono valori costituzionali ci si ferma alla
soglia della prescrittività” e che “per varcare tale soglia, è necessario
riferirsi alle norme ed ai principi costituzionali che conferiscono ai valori
predetti rilevanza giuridica, calandoli in fattispecie al cui verificarsi
collegano determinate conseguenze giuridiche” ([184]),
giacché, “se si crede nell’importanza che la scrittura della Costituzione e
degli altri testi normativi riveste in un sistema che, come quello italiano, è
un sistema a ‘diritto scritto’ (...) non si potrà non convenire che i valori
non hanno altra rilevanza per il giurista che quella che ad essi si può
assegnare sulla base delle norme del diritto” ([185]).
Ma, a prescindere da questa osservazione, dovrebbe essere facilmente
comprensibile come la nozione di bilanciamento non possa essere dilatata,
bensì, al contrario, contenuta entro ambiti molto stretti. In senso lato,
infatti, si potrebbe parlare di “bilanciamento” per ogni controversia, in
quanto, contrapponendosi ad una pretesa una resistenza, l’intervento del
giudice bilancia e definisce le aspettative processuali delle parti ([186]),
e ciò può dirsi che accada anche nel processo costituzionale con le questioni
di costituzionalità attinenti ai diritti. Però, la nozione, così intesa, non
avrebbe un significato, ai fini della comprensione dell’operazione che compie
il giudice costituzionale quando effettua realmente il bilanciamento.
Di conseguenza, non si ha bilanciamento ogni qual volta le pretese in
conflitto, riconducibili, ovviamente, a disposizioni costituzionali, possono
trovare una graduazione, in quanto è la Costituzione medesima che prevede una
configurazione particolare del particolare diritto. Infatti, l’applicazione dei
diritti, secondo i limiti opponibili in base alla Costituzione non importano un
bilanciamento, e ciò vale anche quando detti limiti sono rimessi all’apprezzamento
del giudice o dell’amministrazione e consistono in vere e proprie clausole generali, come il “buon
costume” o l’“utilità sociale” ([187]).
Neppure può invocarsi il bilanciamento, quando la collisione tra pretese
che possono essere ordinate secondo il criterio della specialità, grazie al quale la fattispecie è ricondotta sotto
l’egida di una norma della Carta, piuttosto che di un’altra ([188]).
Lo stesso dicasi per quei casi in cui, pur potendosi addivenire ad una
soluzione attraverso l’interpretazione sistematica, che viene anche espressa,
la decisione della Corte adotta una soluzione diversa del conflitto, in ragione
del carattere temporaneo o straordinario della legislazione. Infatti, in
ipotesi del genere, non c’è un bilanciamento di diritti o interessi, ma
semplicemente una valutazione concreta, se si vuole, di opportunità, dalla
quale risulta evidente solo la necessità di sospendere
l’applicazione di una norma della Costituzione ([189]).
Infine, non si ricorre al bilanciamento tutte le volte in cui esista una
legislazione ordinaria che regola oggetti riconducibili alle previsioni delle
norme costituzionali e adotti una disciplina che contemperi l’esercizio di
diritti e pretese eventualmente in collisione. Infatti, in questi casi, in cui
il legislatore ha, secondo la sua funzione, previsto il conflitto tra le
diverse pretese, il giudizio della Corte avrà ad oggetto il bilanciamento effettuato dal legislatore
e il suo riscontro si effettua in termini di costituzionalità della legge,
potendosi sospingere sino a valutarne la ragionevolezza, ma non potrà dirsi che
sia un giudizio di bilanciamento, neppure allorquando la Corte capovolga il
dato legislativo ([190]),
lo estenda ([191])
o lo deroghi ([192]),
con la creazione di una norma (di legge) non prevista dal legislatore, ma
costituzionalmente necessaria.
Per aversi bilanciamento dei diritti costituzionali, nel senso che sembra
più proprio, occorre che il giudizio sia effettivamente su pretese
costituzionali assolute, cioè costituzionalmente non altrimenti organizzabili
in modo gerarchico ([193]),
e non risolte in via normativa dal legislatore, o rispetto alle quali la
disciplina legislativa vigente non gioca un ruolo in relazione alla fattispecie
concreta ([194]).
In questa ipotesi, le tensioni derivate dal contesto sociale, rispetto
alle quali non si tratta più di adeguare le leggi alla Costituzione, o di
verificare l’attività di attuazione del legislatore ordinario, si riflettono
direttamente sulla Costituzione che – nonostante l’aporia descritta – diventa
la legge ultima da applicare per risolvere la controversia. La tutela dei
diritti costituzionali, però, tende a diventare più sfuggente e a vivere forme
di tensioni inedite, in quanto sono in discussione pretese che si condizionano
socialmente e/o con riferimento alle relazioni intersubiettive e che non hanno
trovato nella legge una disciplina corrispondente.
Una caso emblematico, non il solo ([195])
di questo tipo, in cui con chiarezza risulta che è stato effettuato un
bilanciamento, per via della collisione
di diritti costituzionali, senza che peraltro la Corte abbia adoperato il
linguaggio à la page della
giurisprudenza dei valori, è dato nella sentenza n. 27 del
1975, relativa alla fattispecie dell’aborto di donna consenziente, prevista
dall’art. 546 c.p. ([196]).
Questa disposizione era inserita nel titolo del Codice penale relativo ai
“Delitti contro la integrità e la sanità della stirpe” e nella “Relazione al
Re”, che accompagnava il codice, si specificava che il bene protetto dalla
disposizione in parola era “l’interesse demografico dello Stato”. Esulava,
cioè, dalla legge penale la configurazione, che invece era presente nel codice Zanardelli, dell’aborto come “delitto
contro la persona” ([197]).
La Corte ritiene, dal punto di vista costituzionale, del tutto
insufficiente la qualificazione della fattispecie fornita dal codice, per il
quale né il concepito, né la donna avrebbero rilievo autonomo. Non si trattava,
perciò, di verificare alcuna ragionevolezza della norma legislativa, anzi
l’articolo del codice penale non poteva essere affatto il punto di riferimento
del ragionamento della Corte, nel momento in cui si sosteneva che “la tutela
del concepito avrebbe fondamento costituzionale”, in quanto “l’art. 31, secondo
comma, della Costituzione impone espressamente la ‘protezione della maternità
e, più in generale, l’art. 2 Cost. riconosce e garantisce i diritti inviolabili
dell’uomo, fra i quali non può non collocarsi, sia pure con le particolari
caratteristiche sue proprie, la situazione giuridica del concepito”.
Questa premessa di per sé giustificherebbe la previsione di sanzioni
penali da parte del legislatore, ovviamente con fondamenti diversi da quelli
fatti propri dal codice Rocco, ma
questa previsione legislativa non potrebbe considerarsi esaustiva della
problematica dell’aborto, in quanto “l’interesse costituzionalmente protetto
relativo al concepito può venire in collisione con altri beni che godano pur
essi di tutela costituzionale”, per cui non si potrebbe “dare al primo una
prevalenza totale ed assoluta, negando ai secondi adeguata protezione”.
Per questa ragione sussisterebbe il vizio di legittimità costituzionale,
che inficerebbe comunque la disciplina penale dell’aborto. Infatti, movendo
dalla considerazione che “la condizione della donna gestante è del tutto
particolare”, la Corte perviene alla conclusione che questa non troverebbe
adeguata tutela in una norma di carattere generale come l’art. 54 c.p.,
relativa allo stato di necessità, “che esige non soltanto la gravità e
l’assoluta inevitabilità del danno o del pericolo, ma anche la sua attualità,
mentre il danno o pericolo conseguente al protrarsi di una gravidanza può
essere previsto, ma non è sempre immediato”.
La Corte ritiene peraltro inadeguata la norma del codice sullo stato di
necessità, perché si fonderebbe sull’equivalenza del bene offeso dal fatto
dell’autore rispetto al bene che si vuole salvare, mentre non esisterebbe – ad
avviso del giudice costituzionale – una “equivalenza fra il diritto non solo
alla vita ma anche alla salute proprio di chi è già persona, come la madre, e
la salvaguardia dell’embrione che persona deve ancora diventare”. I diritti del
concepito e della gestante, entrambi costituzionali, così, sono stati posti,
per opera del giudice costituzionale, in una relazione gerarchica, in una Wertordnung che risolve la collisione.
La statuizione della Corte, infatti, riguarda le norme costituzionali e si
risolve nel porre una decisione concreta che definisce quale tra i due diritti
in conflitto debba prevalere.
La conseguenza concreta della sentenza è stata di giustificare l’aborto
“anche quando sia accertata la pericolosità della gravidanza per il benessere
fisico e per l’equilibrio psichico della gestante, ma senza che ricorrano tutti
gli estremi dello stato di necessità previsto nell’art. 54 del codice penale” ([198]).
Come ben può comprendersi, si tratta di una ipotesi estrema e di chiusura
del sistema, nella quale il giudice costituzionale è abilitato ad intervenire,
non per la sua competenza, ma per la posizione che occupa nell’ordinamento e
che lo rende arbitro non solo della decisione sulla legittimità costituzionale
della legge, ma – in una qualche misura – anche della possibilità di regolare,
al posto (rectius: in difetto) del
legislatore, diritti affiancati senza una gerarchia nelle norme della Costituzione
([199]).
Dal punto di vista degli strumenti pratici di decisione, peraltro, la
tecnica di bilanciamento comporta che la pronuncia della Corte costituzionale
non possa elevare una pretesa assoluta di validità. Infatti, se la sentenza può
vincolare il legislatore con riferimento all’esistenza di un particolare
diritto salvaguardato dalla norma costituzionale, non altrettanto può dirsi per
il modo in cui ha determinato, in sostituzione del legislatore, il
bilanciamento delle diverse pretese, che appare, perciò, successivamente
rivedibile da parte del legislatore medesimo ([200]).
11. I diritti fondamentali e i principi supremi
dell’ordinamento costituzionale
Occorre, a questo punto, prendere in considerazione la posizione che i diritti
fondamentali rivestono nel sistema costituzionale, formatasi e consolidatasi
per effetto della ricostruzione effettuata dalla Corte costituzionale sui principi supremi dell’ordinamento
costituzionale.
Questi ultimi rappresentano un tema particolarmente complesso nel quale
confluiscono una molteplicità di aspetti del diritto costituzionale,
scientificamente e dommaticamente controversi ([201]).
A ciò si aggiunga che una quantità non indifferente di incertezza è causata –
come sempre – dal linguaggio dello stesso giudice costituzionale, che in alcune
pronunce ha parlato, anziché di “principi supremi”, di “valori supremi”, così
passando da un ordine normativo ad un ordine assiologico ([202]),
e quella parte della dottrina, che, nella sua opera di concettualizzazione, ha
finito col giustificare il sindacato sulla base dei principi supremi, pur
considerando questi non riconducibili all’ordine giuridico ([203]).
In questa sede, però, ciò che rileva è che i diritti fondamentali sono collocati
in un ambito dell’ordinamento che condiziona necessariamente l’evoluzione del
sistema interno, anche in prospettiva di eventuali riforme costituzionali ([204]),
ma anche gli apporti di ordinamenti esterni in relazione con il diritto
italiano che da questo si possono considerare accettabili.
Nella sentenza
n. 1146 del 1988, la Corte afferma che “la Costituzione italiana contiene
alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro
contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre
leggi costituzionali” e che “tali sono tanto i principi che la stessa
Costituzione esplicitamente prevede come limiti assoluti al potere di revisione
costituzionale, quale la forma repubblicana (art. 139 Cost.), quanto i principi
che, pur non essendo espressamente menzionati fra quelli non assoggettabili al
procedimento di revisione costituzionale, appartengono all’essenza dei valori
supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana” ([205]).
L’effetto prodotto dall’individuazione del limite dei “principi supremi”
(o almeno del loro contenuto essenziale) consisterebbe nel riconoscimento di
“una valenza superiore rispetto alle altre norme o leggi di rango
costituzionale”, che, per di più, renderebbe possibile un sindacato sulle leggi
di revisione costituzionale e sulle altre leggi costituzionali, approvate con
il procedimento aggravato dell’art. 138 Cost., da parte della stessa Corte
costituzionale, la quale assumerebbe anche il compito, sia di individuare i
principi supremi, sia di determinare quale possa essere il loro contenuto
essenziale, immodificabile e irrivedibile. Altrimenti, “se così non fosse, (…)
si perverrebbe – secondo l’assunto della Corte – all’assurdo di considerare il
sistema di garanzie giurisdizionali della Costituzione come difettoso o non
effettivo proprio in relazione alle sue norme di più elevato valore” ([206]).
Questa sentenza, però, non esplicita quali siano i principi supremi, né –
tanto meno – indica la consistenza del loro contenuto essenziale, e neppure enuncia
un modo per la loro definizione e delimitazione. Ne risulterebbe, perciò, un
sistema di garanzia costituzionale astrattamente e concettualmente
comprensibile, anche in relazione ad una certa tradizione costituzionale che ha
da sempre cercato di porre limiti alla revisione costituzionale ([207]),
ma concretamente oscuro, se non arbitrario, in quanto, al di fuori del limite
della forma repubblicana ([208]),
il testo costituzionale non indica altre ipotesi di sottrazione delle norme
della Carta alla revisione costituzionale; e, seguendo l’orientamento più
coerente, a questo proposito, bisognerebbe dire che “il potere ‘costituente’
(in sé inesauribile) … continua e permane, in
costanza di ordinamento, come potere ‘costituito’ (sia questo il potere
legislativo ordinario, come negli ordinamenti a costituzione flessibile, sia
l’apposito potere di revisione, come in quelli a costituzione rigida) ([209]).
Tuttavia, la sentenza n. 1146,
cit., per quanto possa essere
considerata non idonea a delimitare il tema dei principi supremi
dell’ordinamento costituzionale, che pure tratta, non va letta isolatamente, ma
nel contesto di una ricca giurisprudenza che vede al proprio centro i diritti
fondamentali, che ha dato già i suoi frutti, se è vero che ha impedito, in sede
di riforme costituzionali, l’ipotesi di rimaneggiare i principi fondamentali e
i diritti e doveri dei cittadini ([210]).
La stessa sentenza citata, richiama espressamente la giurisprudenza dei
“principi supremi” o “fondamentali”, che origina, non con riguardo alle leggi
di revisione costituzionale, ma in relazione a particolari leggi ordinarie
rinforzate, in quanto dotate di una specifica copertura costituzionale, come
l’ordine di esecuzione dei Patti del Laterano (art. 7 Cost.) ([211])
e quello dei trattati comunitari (art. 11 Cost.) ([212])
e le norme corrispondenti a norme generalmente riconosciute del diritto
internazionale prodotte dal rinvio di cui all’art.10 Cost. ([213]),
i quali potevano lasciare entrare nell’ordinamento italiano anche disposizioni
derogatorie rispetto alle pretese e ai diritti costituzionalmente garantiti,
purché fossero stati salvaguardati i principi supremi e i diritti inalienabili
della persona umana.
È, peraltro, noto che oltre ai principi determinati nelle sentenze sul
concordato, sul diritto comunitario e sulle norme di diritto internazionale
generalmente riconosciute ([214]),
la giurisprudenza della Corte ha individuato dei principi supremi nel diritto
al lavoro ([215]),
nel principio d’eguaglianza ([216]),
nel diritto alla libertà e segretezza delle comunicazioni ([217]),
nel diritto alla salute ([218]),
nel diritto all’identità personale ([219])
e a quella sessuale ([220]),
nel diritto alla tutela giurisdizionale ([221]),
nella libertà di religione collegata al principio di laicità dello Stato ([222]),
nella protezione della famiglia ([223]),
nella tutela dell’ambiente ([224]).
Alla luce di queste considerazioni appare convincente che “i diritti
inviolabili costituiscono senza dubbio la più ricca costellazione di principi
supremi, la cui esistenza possa desumersi dalla giurisprudenza della Corte” ([225]).
Tuttavia, la giurisprudenza costituzionale sembra porre almeno due problemi: in
primo luogo, poiché la Corte avverte che la non derogabilità dei principi
supremi non sembra essere assoluta, ma limitata al loro contenuto essenziale, non si comprende con chiarezza la
distinzione tra parte derogabile e
parte non derogabile dei diritti
costituzionali. In secondo luogo, atteso che sussiste l’occasionalità delle
pronunce della Corte, la tipologia dei diritti definibili come principi
supremi, individuati dalla giurisprudenza costituzionale, non può dirsi
esaustiva.
Resta, perciò, da comprendere secondo quale criterio un diritto può
essere definito principio supremo e,
una volta accertato questo, entro quali limiti sia effettivamente
immodificabile per opera delle leggi di revisione costituzionale e delle leggi
ordinarie dotate di una copertura costituzionale.
Nella sentenza
n. 366 del 1991 ([226])
la Corte sembra fornire qualche indicazione al riguardo. Il giudice
costituzionale esordisce, dando per scontato che “sin dalla sentenza n. 34 del
1973 … la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altro
mezzo di comunicazione costituiscano un diritto dell’individuo rientrante tra i
valori supremi costituzionali, tanto da essere espressamente qualificato dall’art.
15 della Costituzione come diritto inviolabile” ([227]).
In realtà, la sentenza richiamata, pur riguardando lo stesso oggetto e la
medesima norma della Costituzione, nulla dice in proposito. Si afferma
semplicemente che “nel precetto costituzionale (dell’art. 15) trovano …
protezione due distinti interessi; quello inerente alla libertà ed alla
segretezza delle comunicazioni, riconosciuto come connaturale ai diritti della
personalità definiti inviolabili dall’art. 2 Cost., e quello connesso
all’esigenza di prevenire e reprimere i reati, vale a dire ad un bene anch’esso
oggetto di protezione costituzionale” ([228]),
e anche nella
sentenza n. 366, cit., si afferma
“la stretta attinenza di tale diritto al nucleo essenziale dei valori di
personalità – che inducono a qualificarlo come parte necessaria di quello
spazio vitale che circonda la persona e senza il quale questa non può esistere
e svilupparsi in armonia con i postulati della dignità umana”, traendo così la
conclusione che l’inviolabilità comporterebbe “una duplice caratterizzazione”
di questo.
Per un verso, in base all’art. 2 Cost., il diritto sarebbe inviolabile, “nel senso generale che il
suo contenuto essenziale non può essere oggetto di revisione costituzionale” ([229]).
Per l’altro, in base all’art. 15 Cost., il diritto alla libertà e alla
segretezza della comunicazione sarebbe inviolabile
“nel senso che il suo contenuto di valore non può subire restrizioni o
limitazioni da alcuno dei poteri costituiti se non in ragione dell’inderogabile
soddisfacimento di un interesse pubblico primario costituzionalmente rilevante,
sempreché l’intervento limitativo posto in essere sia strettamente necessario
alla tutela di quell’interesse e sia rispettata la duplice garanzia che la
disciplina prevista risponda ai requisiti propri della riserva assoluta di
legge e la misura limitativa sia disposta con atto motivato dell’autorità
giudiziaria” ([230]).
La sentenza richiamata è stata ampiamente apprezzata ([231]),
ma, pur elevando la determinazione di una definizione, in quanto sembrerebbe
considerare “principi supremi” tutti i “diritti inviolabili”, e precisando la
portata dei limiti costituzionali, dal momento che occorre un profilo materiale
(rappresentato dall’interesse pubblico primario costituzionalmente rilevante) e
uno formale (connesso alla riserva assoluta di legge e al conseguente atto
motivato dell’autorità giudiziaria), lascia aperti tutti i varchi possibili,
soprattutto con riferimento al Wesensgehalt,
sia per restringere, che per ampliare i margini di tutela, anche rimanendo
all’interno della stessa categoria dei principi supremi, la quale perciò
risulta sfuggente e, in definitiva, “legata ad un processo di concretizzazione
che è in sostanza nelle mani della stessa Corte” ([232]).
I diritti, considerati come principi supremi, non sono perciò realmente
più garantiti di quelli che, pur costituzionali, non rientrerebbero in detta
qualificazione, per cui l’inclusione tra i principi supremi di un diritto,
scarsamente utilizzabile da parte dei destinatari, serve solo dal punto di vista
del sistema costituzionale, in quanto evidenzierebbe il ruolo dei diritti,
quale limite dell’ordinamento della Repubblica, che non è declinabile neppure
in forza delle clausole costituzionali di apertura della sovranità (artt. 7, 10
e 11 Cost.), e, con la sentenza n. 1146,
cit., neanche derogabile in nome
dell’innovazione costituzionale, che pure può riguardare la parte prima della
Carta ([233]).
Per quanto non del tutto definiti, pertanto, i diritti, come principi
supremi dell’ordinamento costituzionale, sono stati giustamente ricondotti all’identità della Repubblica italiana,
soprattutto paventando pericoli di stravolgimenti per opera del legislatore di
revisione costituzionale ([234]),
ma proprio questa collocazione dei diritti consente di richiamare quella circolarità – cui si è fatto riferimento
all’inizio di questo contributo – tra ordinamento nazionale e ordinamento
europeo, che chiude e mantiene, anche qualora la Costituzione europea dovesse
entrare in vigore, la dialettica tra le due Corti. Infatti, i diritti
fondamentali, quale che ne possa essere la codificazione europea, continueranno
ad essere un prodotto frutto dello scambio e delle interferenze tra il livello
interno e quello sopranazionale ([235]),
ma in questa dialettica i diritti scritti nella Carta e interpretati dalla
Corte costituzionale saranno, non solo la base dei diritti fondamentali
europei, in quanto sono parte della tradizione costituzionale comune ([236]),
ma anche il limite dell’ordinamento europeo chiamato a rispettare l’identità nazionale dei suoi Stati membri
([237]).
([1])
v. Santi Romano, La teoria dei diritti
pubblici subiettivi, in Trattato di
diritto amministrativo, a cura di V.E. Orlando, vol. I, Roma 1897.
([2])
Sulle vicende di formazione e di applicazione dello Statuto v. G. Arangio-Ruiz,
Storia costituzionale del Regno d’Italia,
1848-1898, Firenze, 1898; C. Ghisalberti, Storia
costituzionale d’Italia, 1848-1948, Roma - Bari, 1977.
([3])
v. sui fondamenti dello Stato fascista G. Gentile - B. Mussolini, Fascismo, in Encicl. Treccani, Roma 1929, XIV, ad vocem; sugli aspetti costituzionali v. L. Paladin, Fascismo (diritto costituzionale), in Encicl. Dir., XVI, Milano, 1967, 887 ss.
([4])
v. C. Esposito, Commento all’art. 1 della
Costituzione, in La Costituzione
italiana - Saggi, Padova, 1954, 1 ss.; C. Mortati, Art. 1, in Commentario della
Costituzione, a cura di G. Branca, Bologna, 1975, 1 ss.
([5])
Libertà personale [art. 13], di domicilio [art. 14], di corrispondenza e comunicazione
[art. 15], di circolazione e soggiorno [art. 16], di riunione [art. 17], di
associazione [art. 18], di religione [art. 19], di manifestazione del pensiero
e di stampa [art. 21], di identità giuridica [art. 22], e ancora la libertà
dalle imposizioni [art. 23], il diritto di difesa [art. 24], il principio del
giudice naturale [art. 25], il diritto di non essere estradato [art. 26], il
principio di non colpevolezza sino alla condanna definitiva [art. 27], la
tutela nei confronti dello Stato e dei suoi funzionari e dipendenti [art. 28].
([6])
Il diritto di voto [art. 48], la libertà di associarsi in partiti politici
[art. 49], il diritto di petizione [art. 50] e il diritto di accesso agli
uffici pubblici e alle cariche elettive [art. 51].
([7])
La famiglia [articoli 29, 30 e 31], la tutela della salute [art. 32], la
scuola, l’arte la scienza e l’Università [articoli 33 e 34].
([8])
La tutela del lavoro, con la formazione e l’elevazione professionale e la
libertà di emigrazione [art. 35], il diritto alla retribuzione, all’orario di
lavoro, e quello irrinunciabile al riposo settimanale e alle ferie annuali
retribuite [art. 36], la tutela della donna lavoratrice e quella dei lavoratori
minori di età [art. 37], i diritti di previdenza sociale e la libertà di assistenza
[art. 38], la libertà sindacale [art. 39] e il diritto di sciopero [art. 40],
la libertà di iniziativa economica privata [art. 41] e la garanzia della
proprietà privata [art. 42], la collettivizzazione delle imprese di utilità
generale per i servizi l’energia e i monopoli [art. 43], la proprietà fondiaria
[art. 44], la cooperazione [art. 45], la cogestione [art. 46], la tutela del
risparmio e le proprietà favorite [art. 47].
([10])
v. l’art. 134 Cost., che prevede il controllo di legittimità delle leggi e
degli atti aventi forza di legge dello Stato e delle Regioni per opera della
Corte costituzionale che è stata insediata nel 1956.
([11])
Ciò vale tanto più se si considera che il nostro testo costituzionale in
materia di diritti fondamentali – benché contenente un catalogo tra i più
lunghi e dettagliati – appariva già all’epoca della Costituente contornato di
una certa arretratezza culturale “tanto da far ritenere che gli occhi dei
costituenti fossero rivolti più al passato che all’avvenire” (A. Barbera, Art. 2, in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, Bologna 1975,
50 (53)).
([12])
Con la sua giurisprudenza la Corte costituzionale ha assunto progressivamente
il ruolo di “giudice delle libertà” (in proposito v. i contributi raccolti nel
volume La Corte costituzionale tra norma
giuridica e realtà sociale, a cura di N. Occhiocupo, Bologna, 1978; v.
anche E. Cheli, Il giudice delle leggi,
Bologna, 1996). È stato sottolineato, peraltro, come «dove non esiste un
apposito mezzo di tutela dei diritti fondamentali, sia l’istituto del controllo
di costituzionalità a poter supplire a tale carenza» (F. Modugno, La Corte costituzionale oggi, in Scritti in onore di Vezio Crisafulli,
vol. I, Padova 1985, 536, nota 17)
([13])
Sul punto, v. S. Mangiameli, Integrazione
europea e Diritto costituzionale, in Annuario
di Diritto tedesco 2000, Milano 2001, 25 ss.
([14])
V. T. Ballarino, Il diritto privato della
Comunità Europea, in Lineamenti di
diritto comunitario e dell’Unione Europea, Padova 1997, 145 ss.; L.
Deflorian, Interpretazione e rule of law
nella Giurisprudenza della Corte di Giustizia, in Riv. Crit. Dir. Priv. 1997, 359 ss.; A. Adinolfi, I principi generali nella giurisprudenza comunitaria
e la loro influenza sugli ordinamenti degli Stati membri, in Riv. It. Dir. Pubbl. Com. 1994, 521 ss.;
C. Di Felice, La tutela giurisdizionale
dei diritti fondamentali nel sistema comunitario, in Nuova Rass. 1997, 1 ss.; G. Tesauro, I diritti fondamentali nella giurisprudenza della Corte di Giustizia,
in Riv. Int. Dir. Uomo 1992, 434 ss.; J. Boulouis, Droit Institutionnel de l’Union Européenne, 5 ed., Paris 1995, 226
ss..
([15])
Cfr.: Corte di giustizia, sentenza 12 novembre 1969, causa 29/69, Stuader, in Racc. Uff. 1969, 419; sentenza 17 dicembre 1970, causa 11/70, Internationale Handelsgesellschaft, in Racc. Uff. 1970, 1125; sentenza 14
maggio 1974, causa 4/73, Nold, in Racc. Uff. 1974, 491; sentenza 13
dicembre 1979, causa 44/79, Hauer, in
Racc. Uff. 1979, 3727; sentenza 13
luglio 1989, causa C-5/88, Wachauf,
in Racc. Uff. 1989, 2609.
([16])
Cfr.: Corte di giustizia, sentenza 7 novembre 1975, causa 145/73, Stanley Adams, in Racc. Uff. 1975, 339; sentenza 18 maggio 1989, causa 249/86, Commissione c. Rep. Fed. di Germania, in
Racc. Uff. 1989, 1263.
([17])
È bene precisare che la previsione dell’art. 6 TUE non ha avuto un carattere
meramente ricognitivo, in quanto ha aggiunto un autonomo fondamento alla tutela
dei diritti fondamentali nell’ordinamento comunitario e ha offerto spunti
ulteriori e diversi per una ricostruzione di carattere dommatico delle
relazioni e della concorrenza tra
garanzie nascenti dal catalogo costituzionale (interno) dei diritti e tutela
comunitaria dei medesimi (v. sul punto S. Mangiameli, Integrazione europea e diritto costituzionale, in Annuario di Diritto tedesco 2000, Milano
2001).
([18])
Sul tema, v. R. Bifulco - M. Cartabia - A. Celotto, L’Europa dei diritti. Commento alla Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione Europea, Bologna 2001; M.P. Chiti, La Carta europea dei diritti fondamentali: una carta di carattere
funzionale?, in RTDP 2002, 1; U.
De Siervo, I diritti fondamentali europei
ed i diritti costituzionali italiani, in DPCE 2001, 1; L. Ferrari Bravo - F. M. Di Majo - A. Rizzo, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
europea, Milano 2001; S. Mangiameli, La
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in Studi politici 2002, 89 ss; A. Manzella - P. Melograni - E.
Paciotti - S. Rodotà, Riscrivere i
diritti in Europa, Bologna 2001; A. Pizzorusso - R. Romboli - A. Ruggeri - A. Saitta - G.
Silvestri (a cura di), Riflessi
della Carta europea dei diritti sulla giustizia e la giurisprudenza
costituzionale: Italia e Spagna a confronto, Milano 2003; M. Siclari (a
cura di), Contributi allo studio della
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, Torino 2003; P.
Bilancia – E. De Marco (a cura di), La
tutela multilivello dei diritti, Milano 2004.
([19])
V. H. P. Ipsen – G. Nicolaysen, Europäisches
Gemeinschaftsrecht, in NJW 1964,
339 ss.; Grabitz, Europäisches Bürgerrecht zwischen marktbürgerschaft und
Staatsburgerschaft, Köln, 1970, ove si critica la nozione di “Marktbürgerschaft” conosciuta dal
Trattato di Roma, in quanto legandosi essa agli obiettivi di natura economica
della Comunità, non avrebbe potuto accordare un reale diritto di cittadinanza
europea ai cittadini degli stati membri.
([20]) Chr. Tomuschat, Staatsbürgerschaft – Unionsbürgerschaft –
Weltbürgerschaft, in J. Drexl – F. Kreuzer – D.H. Scheuing – U. Sieber, Europäisches Demokratie, Baden-Baden
1999, 73 ss.
([21])
La cittadinanza dell’Unione è indicata tra gli scopi del Trattato dell’Unione
europea all’art. 2, per il quale l’Unione si prefigge di “rafforzare la tutela
dei diritti e degli interessi dei cittadini dei suoi Stati membri mediante
l’istituzione di una cittadinanza dell’Unione”, ed è disciplinata nelle
disposizioni della parte seconda del Trattato della Comunità europea; v. F.
Cuocolo, La cittadinanza europea (prospettive costituzionali), in Pol. Dir. 1991, 659 ss.; A. Pierangeli, La cittadinaza europea. Un nuovo status per
il soggetto comunitario, in Aff. Soc.
intern., 1993, 181 ss.; V. Lippolis, La
cittadinanza europea, Bologna 1994; A. Cassese, La cittadinanza europea e le prospettive di sviluppo dell’Europa,
in Riv. It. Dir. Pubbl. Com., 1996,
869 ss.; M. Cartabia, Cittadinanza
europea, in Enc. giur., Aggiorn., 1996; L. Azzena, L’integrazione attraverso i diritti. Dal
cittadino italiano al cittadino europeo, Torino 1998, 49 ss.; S. Bartole, La cittadinanza e l’identità europea, in
Quad. Cost., 2000.
([23])
Corte costituzionale, sentenza n. 183 del
1973, in Giur. cost., 1973, 2401
ss., in part. 2420.
([24])
… e “di conseguenza, il fatto che siano
menomati vuoi i diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione di uno Stato
membro, vuoi i principi di una Costituzione nazionale, non può sminuire la
validità di un atto della Comunità ne la sua efficacia nel territorio dello
stesso Stato” (Corte di giustizia, sentenza 17 dicembre 1970, causa 11/70, Internazionale Handelsgesellschaft, in Racc. 1970, 1125).
([25])
Corte di giustizia, sentenza 9 marzo 1978, causa 106/77, Amministrazione delle finanze dello Stato/Simmenthal, in Racc. 1978, I 629 ss.; a commento della
decisione, v., per tutti, L. Condorelli, Il
caso Simmenthal e il primato del
diritto comunitario: due Corti a
confronto, in Giur. cost., 1978,
669 ss.
([26])
Questo processo, sicuramente unidirezionale all’inizio dell’esperienza europea,
può dirsi ormai caratterizzato di una certa reciprocità, per cui anche la
giurisprudenza costituzionale italiana ormai risente dell’elaborazione e delle
acquisizioni della giurisprudenza europea (v. sul punto F. Salmoni, La Corte costituzionale, la Corte di
Giustizia delle Comunità europee e la tutela dei diritti fondamentali, in La Corte costituzionale e le Corti d’Europa,
a cura di P. Falzea, A. Spadaro, L. Ventura, Torino 2003, 289 ss.).
([30])
Sul contenuto della libertà personale intesa anche come libertà psichica o
morale, v., P. Grossi, Libertà personale,
libertà di circolazione e obbligo di residenza dell’imprenditore fallito, in Giur. cost., 1962, 205; secondo A.
Barbera, I principi costituzionali della
libertà personale, Milano 1967, l’art. 13 avrebbe ad oggetto il libero
sviluppo della persona umana. La tesi restrittiva della libertà personale è
sostenuta da A. Pace, Libertà personale
(diritto costituzionale), in Enc.
dir., Milano 1974, vol. XXIV.
([31])
Si badi che la Costituzione italiana parla di “diritti inviolabili” e non di
“diritti fondamentali” e le due nozioni non sono tecnicamente coincidenti,
essendo l’inviolabilità una qualità
particolare di determinati diritti fondamentali e potendosi accogliere, semmai,
il termine “diritti fondamentali”, proprio della letteratura di altri
ordinamenti, con riferimento ai “diritti costituzionali”; pur tuttavia, è dare
riscontrare una certa confusione di linguaggio nel dibattito italiano che
equiparerebbe diritti fondamentali e diritti inviolabili (sul punto v. P.F.
Grossi, Diritti fondamentali e Diritti
inviolabili nella Costituzione italiana, in Il Diritto costituzionale tra principi di libertà e istituzioni,
Padova 2005, 1 ss.; P. Ridola, Libertà e
diritti nello sviluppo storico del costituzionalismo, in I Diritti costituzionali, a cura di R.
Nania - P. Ridola, I, Torino 2001, 51).
([32])
v. P. Calamandrei, Cenni introduttivi
sulla Costituente e i suoi lavori, in, Commentario
sistematico alla Costituzione italiana, a cura di P. Calamandrei - A. Levi,
Firenze, 1950, ove si afferma che “(…) come l’Assemblea da cui fu approvata,
così anche la Costituzione fu necessariamente ispirata da quella politica di coalizione
dei tre partiti cosiddetti ‘di massa’, che nel periodo della Costituente fu la
base del Governo De Gasperi: fu, cioè, anch’essa, ‘tripartita’ (p. CXXVIII);
Id., La Costituzione e le leggi per
attuarla, ora in Opere giuridiche,
a cura di M. Cappelletti, vol. III, Napoli, 1968, 511 (514 s.).
([33])
Le dottrine a tendenza giusnaturalista insistono particolarmente sul
significato da attribuire
all’espressione “riconosce” utilizzata dall’art. 2 Cost., nel senso che
questi diritti che l’ordinamento statale riconosce, sono preesistenti allo
Stato, antecedenti allo stesso ordinamento positivo, dei “dati” recepiti
dall’ordine statale che il diritto regola (sul punto v. M. Mazziotti di Celso, La nuova Costituzione italiana. Principi
fondamentali e diritti e doveri dei cittadini, in Arch. Giur., 1948, 138 s.; Id., Il
diritto al lavoro, Milano 1956, 88-91).
([34])
v. Prima Sottocommissione, 9-10 settembre 1946, in La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori della Assemblea
costituente, a cura della Camera dei deputati – Segretariato generale,
Roma, 1971, VI, 322 ss.; il punto sub
c, relativo ai diritti delle formazioni sociali, lo si ritiene per tradizione
ricompresso nell’art. 2 Cost., proprio alla luce dei lavori preparatori, anche
se la formulazione adottata alla fine non vi farebbe espressamente menzione,
dal momento che – secondo questa – le formazioni sociali avrebbero rilievo solo
in quanto luogo ove si svolge la personalità dell’uomo, per cui dovrebbe
derivarsi: a) che il riconoscimento
di diritti alla formazione dovrebbe essere sempre strumentale rispetto a quello
effettuato nei confronti del singolo; b)
che il conflitto tra pretese della formazione e diritti dell’individuo può
avere un esito diverso a seconda della natura della formazione medesima.
Infatti, qualora, l’adesione a questa sia il frutto di una libera scelta del
singolo, questo può recedere e non può chiedere, in nome del proprio diritto,
una tutela che modifichi o delimiti la natura e l’azione della formazione
sociale; se, invece, l’appartenenza alla formazione è giuridicamente
obbligatoria la tutela del diritto del singolo individuo può comportare, quanto
meno, la delimitazione delle pretese della formazione.
([35])
v. V. Crisafulli, Individuo e società
nella Costituzione italiana, in Riv.
dir. lav. 1954, 73 (75).
([36])
v. A. Pace, Problematica delle libertà
costituzionali, Parte generale, III ed., Padova 2003, 5; A. Baldassarre, Diritti
inviolabili, in Encicl. Giuridica
Treccani, XI, Roma 1989, ad vocem;
e Id., Proprietà, in Encicl. Giuridica Treccani, XXV, Roma
1991, ad vocem.; P. Caretti, I diritti fondamentali. Libertà e Diritti
sociali, Torino 2002, 136 s.
([38])
C. Esposito, La libertà di manifestazione
del pensiero nell’ordinamento italiano, Milano 1958, 8.
([39])
v. in tal senso A. Pace, La libertà di
riunione nella Costituzione italiana, Milano, 1967, 37-38; Id., Problematica delle libertà costituzionali,
cit., 16; P. Grossi, Introduzione ad uno
studio sui diritti inviolabili nella Costituzione italiana, Padova, 1972,
50 ss.; nonché, sia pure in termini diversi A. Barbera, Art. 2, cit., 80.
([41])
Osserva A. Pace, Problematica delle
libertà costituzionali, cit., 4, “Le ipotesi di diritti non previsti in
Costituzione sono assai più limitate di quel che a prima vista potrebbe
pensarsi: o perché tali ipotesi rientrano in fattispecie normative concernenti
i diritti espressamente riconosciuti dalla stessa Costituzione (…) oppure
perché un loro eventuale riconoscimento porrebbe delle insanabili antinomie con
altre norme costituzionali”.
([42])
P. Grossi, Introduzione ad uno studio sui
diritti inviolabili nella Costituzione italiana, cit., 160, per il quale “i
diritti proclamati inviolabili dalla disposizione suddetta sarebbero, quindi,
in una prima approssimazione, quelli che la coscienza giuridica ha da tempo
ormai saldamente acquisito come diritti
dell’uomo senza i quali altre affermazioni come quelle sul principio della
sovranità popolare o sulla democrazia (…) costituirebbero mere espressioni
verbali prive di un effettivo e coerente significato”. In questa prospettiva,
pertanto, il riconoscimento di eventuali nuovi diritti da parte del legislatore
costituzionale s’intende circoscritto ai soli diritti elaborati e maturati
nella coscienza sociale che vengono espressamente codificati nel sistema
attraverso la legge costituzionale. Infatti, “il rinvio di cui all’art. 2 cost.
non dovrebbe intendersi come fisso, ma mobile in senso unilaterale e
garantistico; non chiuso e concluso in riferimento, cioè, ai soli diritti
originariamente accolti nella Carta costituzionale, ma aperto anche agli altri
che successive leggi costituzionali o di revisione costituzionale eventualmente
introducano” (172).
([47])
v. C. Mortati, Istituzioni di diritto
pubblico, Padova, 1969, II, p. 949 (“si potrebbe interpretare l’art. 2
cost. nel senso che si sia voluto affermare non già un diritto generale di
libertà, ma piuttosto un principio che non si esaurisce interamente nelle
singole fattispecie previste, e perciò consente all’interprete di desumerne dal
sistema altre non contemplate specificamente”).
([48])
v. A. Barbera, Art. 2, cit., 83 ss.
che sulla polemica tra diritto naturale e diritto positivo afferma: “una
questione – questa fin troppo sopravvalutata; quale che sia il significato
politico-filosofico del diritto naturale, per poter esso esprimersi come forza
normativa nell’ordinamento non può che appoggiarsi su forze politiche e
culturali, su gruppi cioè in grado di affermare la loro egemonia politico
culturale in grado di determinare la Costituzione materiale”. Il diritto
naturale in questa prospettiva converge con il giuspersonalismo o con il giusrazionalismo,
esprimendo niente altro che “valori storicamente rilevabili” (85).
([49])
A. Barbera, Art. 2, cit., 85, per il
quale si tratterebbe, sia nel caso di “rinvio a valori di diritto naturale”,
che di “rinvio a valori emergenti nella costituzione materiale”, di “un
problema di scelta culturale e politica” (90).
([50])
A. Barbera, Art. 2, cit., 83 esclude
in maniera tassativa il valore ricognitivo dell’art. 2, richiamandosi
all’insegnamento di Esposito, secondo
il quale, se è vero che la sovranità nel nostro ordinamento spetta al popolo,
tutto il diritto si fonda sulla volontà popolare, la quale ha valore
costitutivo di qualsiasi diritto v. C. Esposito, La Costituzione italiana, Saggi,
Padova, 1954, 22. Il rinvio che l’art. in questione fa ai diritti inviolabili
avrebbe, quindi, un valore “costitutivo” e di “apertura” “ad altre libertà e ad
altri valori personali non espressamente tutelati dal testo costituzionale”
(84).
([52])
A. Barbera, Art. 2, cit., 91, il quale
parla della “forza espansiva che le libertà, divenute dei valori laddove erano
puntuali schemi soggettivi, acquisteranno”.
([53])
A. Spadaro, Il problema del fondamento
dei diritti “fondamentali”, in I diritti fondamentali oggi, Atti del V
Convegno dell’Associazione italiana dei Costituzionalisti, Taormina, 1990,
Milano 1995, 235 ss.
([54])
A. Spadaro, Il problema del fondamento
dei diritti “fondamentali”, cit., “finché faremo i conti con l’attuale
testo positivo non potremo stravolgerlo a piacimento, o adattarlo alle mutate
esigenze dei tempi fino a sottrarlo a un sotterraneo svuotamento di senso”.
([55])
v. A. Spadaro, Il problema del fondamento
dei diritti “fondamentali”, cit., il quale in questo modo vena la sua
posizione in senso giusnaturalista e, criticamente verso la tesi della
fattispecie chiusa afferma: “quella dottrina che riconduce ogni ‘nuovo diritto’
agli art. 13 ss. Cost., spesso ricomprende tra i diritti espressamente
enunciati tali e tante situazioni giuridiche soggettive che a malapena possono
essere definite attive alterando in tal modo i valori effettivamente protetti
dalla costituzione”.
([56])
v. F. Modugno, I “nuovi diritti” nella
Giurisprudenza Costituzionale, Torino 1995, 3 s., per il quale “in realtà
quello che sembra sfuggire alla concezione della ‘fattispecie chiusa’ è che i
diritti inviolabili, prima ancora di essere situazioni giuridiche soggettive,
sono valori - tale a me sembra il seno
specifico dell’art. 2 Cost. – e che nella logica dei valori – che non è la
logica del tutto o niente, del sì o del no –essi tendono alla relativizzazione
reciproca, al bilanciamento e alla composizione, secondo le regole della
fondazione, dell’opposizione e della complementarità”.
([59])
Per il vero la posizione di F. Modugno (I
“nuovi diritti” nella Giurisprudenza Costituzionale, cit., 8) non è
univoca. Infatti, al contempo, afferma che la Costituzione italiana, contenendo
una ricca sistematica dei diritti, non favorirebbe l’emersione di diritti nuovi non ricompresi già tra
quelli enumerati, ma consentirebbe l’individuazione di diritti impliciti, come necessarie o possibile conseguenze dei diritti
enumerati (“Assumo che il catalogo costituzionale positivo, nella parte
relativa alle libertà, se correttamente inteso, è onnicomprensivo” [p. 9]), il
quale per quest’aspetto esprime la stessa posizione già espressa nella dottrina
italiana da P. Barile, Diritti dell’uomo
e libertà fondamentali, cit., 55 s.
([61])
In tal senso, è agevole convenire con chi ritiene che, in definitiva, il
problema dei diritti fondamentali “investe in primo luogo il ruolo stesso del
giudice di costituzionalità” (A. Barbera, Art.
2, cit., 92); infatti, il problema diventerebbe quello “dei soggetti cui
verrebbe affidato il compito di interpretare, e quindi maneggiare, dette
clausole generali di libertà, il compito in pratica di operare quali produttori
del diritto delle libertà”.
([62])
Sul tema v. P. Grossi, Diritti
fondamentali e Diritti inviolabili nella Costituzione italiana, cit. 4; S.
Mangiameli, La “libertà di coscienza” di
fronte all’indeclinabilità delle funzioni pubbliche. (A proposito
dell’autorizzazione del giudice tutelare all’interruzione della gravidanza
della minore), in Giur. Cost., 1988.
([64])
Per cui configurerebbero l’art. 2 come una clausola
generale dagli incerti contorni. Non
a caso è stato osservato che, in questo modo, “i diritti costituzionalmente
previsti incorrono in una serie di limiti, mentre questi presunti nuovi diritti
non essendo espressamente positivizzati, avrebbero un regime privilegiato” (P.
Caretti, I diritti fondamentali, cit.
139) e di conseguenza che, quando si enucleano nuovi diritti, “non si medita a
sufficienza sul fatto che all’affermazione di un ‘diritto’ spesso consegue
automaticamente l’imposizione di un corrispondente ‘obbligo’ a carico di un
altro soggetto privato, titolare anch’egli di diritti costituzionali” (A. Pace, Problematica delle libertà costituzionali,
cit., 26-27).
([65])
In quanto l’art. 2 Cost. consentirebbe la più ampia interpretazione e
permetterebbe la lettura estensiva degli articoli 13 ss. Cost., per cui i
nuovi, ulteriori diritti emergenti possono considerarsi una specificazione di
quelli enumerati; si parlerebbe, a tal proposito, di “Giuspositivismo temperato”
(P. Ridola, Libertà e diritti nello
sviluppo storico del costituzionalismo, cit., 54).
([66])
v. R. Bin, Diritti e argomenti. Il
bilanciamento degli interessi nella giurisprudenza costituzionale, Milano
1992; G. Zagrebelsky, Il diritto mite,
Torino 1992; F. Modugno, I “nuovi
diritti” nella Giurisprudenza Costituzionale, cit.; L. Mengoni, Ermeneutica e dogmatica giuridica, Milano
1996.
([68])
Corte costituzionale, sentenza n. 11 del 1956, in Giur. Cost., 1956, 612 (corsivo ns.) l’affermazione dei diritti
come patrimonio irretrattabile della
persona umana rappresenta una costante della giurisprudenza costituzionale,
anche se si avverte che l’art. 2 rimetterebbe “la tutela specifica ad altre
norme costituzionali o a leggi ordinarie” (v. anche sentenza n. 33 del 1974, in
Giur. Cost., 1974, 123; sentenza n.
252 del 1983, ivi, 1983, 2628).
([69])
Corte costituzionale, sentenza n. 29 del 1962, in Giur. Cost., 1962, 225 (227); ed anche sentenza n. 238 del 1975, ivi, 1975, 2853.
([70])
v. Corte costituzionale, sentenza n. 16 del 1968, in Giur. Cost., 1968, 369, in cui si afferma che “è da escludere che
tra i ‘diritti inviolabili dell’uomo’ si possa far rientrare quello relativo
all’autonomia contrattuale degli imprenditori agricoli che qui si pretende
leso, giacché tale diritto, operando nell’ambito di quelli più generali della
libertà di iniziativa economica e del diritto di proprietà terriera, è
specificamente tutelato, da altre norme costituzionali (…)”
([71])
Corte costituzionale, sentenza n. 98 del 1979, in Giur. Cost., 1979, 719. La Corte, infatti, chiamata a verificare se
il diritto all’identità sessuale
rientri tra quei diritti fondamentali ed inviolabili che l’art. 2 Cost.
riconosce e garantisce a tutti, afferma: “nella costante interpretazione della
Corte, l’invocato art. 2 della Costituzione, nel riconoscere i diritti
inviolabili dell’uomo, che costituiscono patrimonio irretrattabile della sua
personalità, deve essere ricollegato alle norme costituzionali concernenti
singoli diritti e garanzie fondamentali, quanto meno nel senso che non esistono
altri diritti fondamentali inviolabili che non siano necessariamente
conseguenti a quelli costituzionalmente previsti”.
([72])
Corte costituzionale, sentenza n. 252 del 1983, in Giur. Cost., 1983, 1516, in cui il giudice costituzionale, pur
ammettendo che “indubbiamente l’abitazione costituisce, per la sua fondamentale
importanza nella vita dell’individuo, un bene primario il quale deve essere
adeguatamente e concretamente tutelato dalla legge”, rileva “come non possa
convenirsi con l’ordinanza di rimessione nel considerare l’abitazione come
l’indispensabile presupposto dei diritti inviolabili previsti dalla prima parte
dell’art. 2 della Costituzione, trattandosi di una costruzione giuridica del
tutto estranea al nostro ordinamento positivo. Se, invero, sono, per giurisprudenza
costante, quei diritti che formano il patrimonio irretrattabile della
personalità umana, non è logicamente possibile ammettere altre figure
giuridiche, le quali sarebbero dirette a funzionare da ‘presupposti’ e
dovrebbero avere un’imprecisata, maggiore tutela”
([73])
A. Cerri, Regime delle questue:
violazione del principio di eguaglianza e tutela del diritto alla riservatezza,
in Giur cost. 1972, 48 (in relazione
alla sentenza n. 12 del 1972, ivi,
1972, 45).
([74])
Corte costituzionale, sentenza n. 45 del 1965, in Giur. Cost., 1965, 665 ss., nella quale si afferma che “dal
complessivo contesto del comma 1 dell’art. 4, si ricava che il diritto al
lavoro, riconosciuto ad ogni cittadino, è da considerare quale fondamentale
diritto di libertà della persona umana, che si estrinseca nella scelta e nel
modo di esercizio dell’attività lavorativa”.
([77])
Corte costituzionale, sentenza n. 27 del 1969, in Giur. Cost., 1969, 546 ss.; su questo diritto v. anche sentenza n.
766 del 1988, ivi, 1988, I, 2471 ss.,
con la quale sono state ritenute pienamente legittime le disposizioni sul
“divieto di licenziamento delle lavoratrici per causa di matrimonio.
([80])
Corte costituzionale, sentenza n. 14 del 1973, in Giur. Cost., 1973, 69 ss., sulla tutela penale del sentimento
religioso; ma anche successivamente sentenza n. 196 del 1987, ivi, I, 1460.
([81])
Corte costituzionale, sentenza n. 38 del 1973, in Giur. Cost., 1973, 354 ss.; con osservazione di G. Pugliese, Diritto all’immagine e libertà di stampa,
in Giur. cost., 1973, 355.
([82])
Corte costituzionale, sentenza n. 27 del 1975, in Giur. Cost., 1975, 117 (119) ss., con osservazione di R. D’Alessio,
L’aborto nella prospettiva della Corte
costituzionale e di C. Chiola, Incertezze
sul paramentro costituzionale per l’aborto, ivi, 1975, 1098; sul tema dell’aborto e del diritto alla vita del
concepito la Corte si pronunciava, definendo il c.d. “bilanciamento” dei
diritti, peraltro in assenza di una specifica legislazione che sarebbe arrivata
solo con la legge n. 194 del 1978, sul punto v. anche infra par. 10.
([85])
Corte costituzionale, sentenza n. 11 del 1981, in Giur. Cost., 1981, 44 (61); ed anche sentenza n. 183 del 1988, in Giur. Cost., 1988, I, 687, sulla base
del combinato disposto degli art. 2 e 30, comma 1 e 2, Cost., ed ammettendo
solo in caso di incapacità della famiglia di origine la possibilità di una
famiglia sostitutiva; nonché sentenza n. 27 del 1991, in Giur. Cost., 1991, 175, in cui si dice che “a norma dell’art. 2 e
30 Cost l’istituto dell’adozione deve avere il proprio centro di gravità nella tutela delel preminente interesse del
minore, rispetto al quale devono essere subordinati tanto gli interessi degli adottandi (o aspiranti tali), quanto quelli della
famiglia di origine”.
([86])
Corte costituzionale, sentenza n. 199 del 1986, in Giur. Cost., 1986, I, 1568, pur riconoscendo che è garantito
dall’art. 30, comma 2, Cost.
([87])
v. Corte costituzionale, sentenza n. 132 del 1985, in Giur. Cost., 1985, I, 934, dove si afferma che “è sempre la persona
che troviamo circondata dalle garanzie configurate dall’art. 2 Cost.” (pag.
946).
([88])
v. Corte costituzionale, sentenza n. 132 del 1985, cit., I, 946 ss., e si tenga conto che per il diritto alla salute,
di cui all’art. 32 Cost., la Corte avrà modo di sostenere comunque che “il
valore costituzionale della salute, esplicitamente garantito dall’art. 32
Cost.”, rappresenta un “diritto fondamentale e inviolabile” (sentenza n. 227
del 1987, in Giur. Cost., 1987, I,
1710).
([89])
v. Corte costituzionale, sentenza n. 319 del 1989, in Giur. Cost., 1989, I, 1442 e, in particolare, 1450 ss.
([90])
Corte costituzionale, sentenza n. 132 del 1985, cit., 1985, I, 946; di particolare rilievo appare peraltro che il
giudice costituzionale utilizzi l’art. 2 per riconoscere il medesimo diritto al
risarcimento ai familiari della vittima sulla base della considerazione che si
tratta di “diritti che s’inquadrano nello schema di questa disposizione
costituzionale (…) riconosciuti non solo al singolo, ma all’uomo nelle
formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”.
([91])
Corte costituzionale, sentenza n. 161 del 1985, in Giur. Cost., 1985, I, 1173 ss., in particolare 1186-87 dove prevede
anche che “correlativamente gli altri membri della collettività sono tenuti a
riconoscerlo (il diritto all’identità sessuale), per dovere di solidarietà
sociale”.
([92])
C. Cost., 18 dicembre 1987, n. 561, in Giur.
cost., 1987, I, 3535, in particolare
3539, ed aggiunge, combinando anche la sua giurisprudenza sulla risarcibilità
diretta, ex art. 32 Cost., del “danno biologico” (sentenza n. 184 del 1986),
che “la violenza carnale comporta, invero, di per sé, la lesione di
fondamentali valori di libertà e dignità della persona, e può inoltre dar luogo
a pregiudizi alla vita di relazione. Tali lesioni hanno autonomo rilievo sia
rispetto alle sofferenze ed ai perturbamenti psichici che la violenza carnale
naturalmente comporta, sia rispetto agli eventuali danni patrimoniali a questa
conseguenti: e la loro riparazione è doverosa, in quanto i suddetti valori
sono, appunto, oggetto di diretta protezione” (pag. 3540).
([93])
Corte costituzionale, sentenza n. 269 del 1986, in Giur. Cost. 1986, I, 2208, dove muove dalla “significatività del
termine ‘riconosce’, di cui all’art. 35, comma 4, Cost.”, posta “in relazione
allo stesso termine usato nell’art. 2 Cost.”.
([94])
Continuando: “Sicché una legislazione che ostacolasse l’esercizio di questo
diritto fondamentale si porrebbe fuori dall’attuale contesto di valori
giuridici internazionali e costituzionali” (Corte costituzionale, sentenza n.
278 del 1992, in Giur. Cost., 1992, 2116).
Il giudice costituzionale si avvale, ai fini della decisone, anche di norme
derivate da atti di diritto internazionale, nel caso di specie, l’art. 13 della
Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948.
([95])
“… riconosciuto e garantito a tutti i cittadini in condizione di eguaglianza
dall’art. 51 Cost. e riconducibile nell’ambito dei diritti inviolabili di cui
all’art. 2 Cost.”, Corte costituzionale, sentenza n. 571 del 1989, in Giur. Cost., 1989, I, 2635.
([96])
In particolare, “la libertà di manifestazione dei propri convincimenti morali e
filosofici (art. 21 Cost.) o della propria fede religiosa (art. 19)” (Corte
costituzionale, sentenza n. 467 del 1991, in Giur. Cost., 1991, 3813-14).
([99])
che dispone: “Nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità
giuridica, della cittadinanza, del nome”.
([100])
Corte costituzionale, sentenza n. 120, in Giur.
Cost., 2001, 976; nella sentenza n.
13 del 1994 in Giur. cost., 1994,
101, la Corte riconosce che il cognome “gode di una distinta tutela anche nella
sua funzione di strumento identificativo della persona, e che, in quanto tale,
costituisce parte essenziale ed irrinunciabile della personalità”, tutela che è
di rilievo costituzionale perché il nome, che “costituisce il primo e più immediato elemento che caratterizza l’identità personale,
(corsivo nostro) è riconosciuto come bene
oggetto di autonomo diritto (corsivo nostro) dall’art. 2 della
Costituzione”. “D’altra parte il diritto all’identità personale costituisce
tipico diritto fondamentale, rientrando esse tra i diritti che formano il
patrimonio irretrattabile della persona umana sicché la sua lesione integra la
violazione dell’art. 2”, Corte costituzionale, sentenza n. 297 del 1996, in Giur. cost., 1996, 2476-77.
([102])
Corte costituzionale, sentenza n. 252 del 1983, in Giur. cost., 1983, I
2628; e nello stesso senso le decisioni Corte costituzionale, sentenza n. 274
del 1984, in ivi, 1984, I 2071;
sentenza n. 19 del 1985, in ivi,
1985, I, 52; sentenza n. 344 del 1985, ivi,
2396.
([103])
Corte costituzionale, sentenza n. 404 del 1988, cit., 1793; v., inoltre, Corte costituzionale, sentenza n. 559 del
1989, in Giur. cost., 1989, I, 2565.
([104])
v. Corte costituzionale, sentenza n. 215 del 1987, in Giur. cost., 1987, I, 1615, ove la Corte enuclea il “diritto
all’istruzione”, “statuendo che la scuola
è aperta a tutti (corsivo nostro) e con ciò riconoscendo in via generale
l’istruzione come diritto di tutti i cittadini, l’art. 34, primo comma, Cost.
pone un principio nel quale la basilare garanzia dei diritti inviolabili
dell’uomo nelle formazioni sociali ove si
svolge la sua personalità (corsivo nostro) apprestata dall’art. 2 Cost.
trova espressione in riferimento a quella formazione sociale che è la comunità
scolastica” (pag. 1625).
([105])
Infatti, “in forza dell’art. 2 Cost., è proprio dei diritti inviolabili di
essere automaticamente incorporati, quantomeno nel loro contenuto essenziale,
anche negli ordinamenti giuridici autonomi, speciali o comunque diversi
dall’ordinamento statale” (Corte costituzionale, sentenza n. 235 del 1988, in Giur. Cost., 1988, I, 1020).
([108])
Sul punto e in merito all’orientamento della giurisdizione ordinaria v. Rassegna di giurisprudenza sulla
Costituzione e sugli Statuti regionali (dal 1948 al 1955), in Giur. cost., 1956, 272 ss.; A. D’Atena, Lezioni di diritto costituzionale,
Torino 2001, 12 s.; può aggiungersi, sia pure a posteriori, che di tutte le
possibili interpretazioni che il comma 2 della VII disp. trans. e fin.
avrebbero potuto autorizzare, quella dell’abrogazione, per opera delle norme
precettive della Costituzione, appare sicuramente la più debole, in quanto, più
che un modo di “decisione delle controversie indicate nell’art. 134”, questa
dovrebbe considerarsi, nel caso di antinomie tra norme, un effetto
dell’applicazione del principio cronologico(v. anche le considerazioni di M.
Siclari, L’illegittimità costituzionale sopravvenuta, ed. [purtroppo
ancora] provv., Roma 2001, 32 ss.).
([109])
In realtà, proprio il congegno della riserva di legge avrebbe dovuto rendere
possibile il rinnovamento, per via parlamentare e non giurisdizionale, della
legislazione anteriore, ma l’attuazione della Costituzione si arrestò o quanto
meno rallentò sensibilmente a partire dalla seconda metà degli anni ’50 (v. P.
Calamandrei, La Costituzione e le leggi per attuarla (1955), Milano
2000, 127 ss.).
([110])
P. Virga, Libertà giuridica e diritti
fondamentali, Milano 1947, 273; Id., Origine,
contenuto e valore delle dichiarazioni costituzionali, in Rass. dir. pubbl., 1948, I, 243; M.
Mazziotti, Il diritto al lavoro,
Milano 1956, 1 ss.; C. Mortati, Questioni
sul controllo di costituzionalità sostanziale delle leggi, in Foro amm., 1948, I, 320; C. Esposito, Leggi vecchie e Costituzione nuova, in Giur. it., 1948, III, 81 ss.; Id., Efficacia delle regole della nuova
Costituzione, in Giur. it., 1948,
III, 145.
([115])
Osserva, infatti, la Corte come “L’assunto che il nuovo istituto della
“illegittimità costituzionale” si riferisca solo alle leggi posteriori alla
Costituzione e non anche a quelle anteriori non può essere accolto, sia perché,
dal lato testuale, tanto l’art. 134 della Costituzione quanto l’art. 1 della
legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, parlano di questioni di legittimità
costituzionale delle leggi, senza fare alcuna distinzione, sia perché, dal lato
logico, è innegabile che il rapporto tra leggi ordinarie e leggi costituzionali
e il grado che ad esse rispettivamente spetta nella gerarchia delle fonti non
mutano affatto, siano le leggi ordinarie anteriori, siano posteriori a quelle
costituzionali. Tanto nell’uno quanto nell’altro caso la legge costituzionale,
per la sua intrinseca natura nel sistema di Costituzione rigida, deve prevalere
sulla legge ordinaria”. La questione decisa con la sentenza n. 1, cit.,
peraltro, riguardava il contrasto tra l’art. 113 del TULPS (testo unico delle
leggi di pubblica sicurezza) e l’art. 21 Cost. concernente la libertà di
manifestazione del pensiero; in particolare la Corte annulla le disposizioni
che prevedevano l’autorizzazione dell’autorità di pubblica sicurezza per la
distribuzione o affissione degli stampati e sanzionavano penalmente la mancanza
di questa, in quanto la disciplina costituzionale della libertà in parola
esclude direttamente la possibilità di “autorizzazioni o censure”.
([118])
“È, infatti, ovvio che l’art. 2 della legge di pubblica sicurezza non potrebbe
disporre che, in un campo in cui il precetto costituzionale è inderogabile
anche di fronte al legislatore ordinario, intervengano provvedimenti
amministrativi in senso difforme” (Corte costituzionale, sentenza n. 26, del
1961, in Giur. Cost. 1961, 525, part.
535); il riferimento espresso era all’art. 13, comma 3, Cost., in tema di
libertà personale, ove è statuita una riserva di legge rinforzata che preveda i
casi di necessità ed urgenza in cui l’autorità di pubblica sicurezza possa
adottare provvedimenti limitativi della libertà personale, aventi carattere
provvisorio, da rimettere alla convalida dell’autorità giudiziaria (c.d. fermo
di polizia).
([122])
V. Crisafulli, Lezioni di Diritto
costituzionale, II, La Corte costituzionale, IV ed. Padova 1984, 407-408
(corsivo ns.).
([124])
“La Corte … ritiene che la legge debba almeno prevedere: a) che gli organi
direttivi dell’ente gestore (si tratti di ente pubblico o di concessionario
privato purché appartenente alla mano pubblica) non siano costituiti in modo da
rappresentare direttamente o indirettamente espressione, esclusiva o
preponderante, del potere esecutivo e che la loro struttura sia tale da
garantirne l’obbiettività; b) che vi siano direttive idonee a garantire che i
programmi di informazione siano ispirati a criteri di imparzialità e che i
programmi culturali, nel rispetto dei valori fondamentali della Costituzione,
rispecchino la ricchezza e la molteplicità delle correnti di pensiero; c) che
per la concretizzazione di siffatte direttive e per il relativo controllo siano
riconosciuti adeguati poteri al Parlamento, che istituzionalmente rappresenta
l’intera collettività nazionale; d) che i giornalisti preposti ai servizi di
informazione siano tenuti alla maggiore obbiettività e posti in grado di adempiere
ai loro doveri nel rispetto dei canoni della deontologia professionale; e) che,
attraverso una adeguata limitazione della pubblicità, si eviti il pericolo che
la radiotelevisione, inaridendo una tradizionale fonte di finanziamento della
libera stampa, rechi grave pregiudizio ad una libertà che la Costituzione fa
oggetto di energica tutela; f) che, in attuazione di un’esigenza che discende
dall’art. 21 della Costituzione, l’accesso alla radiotelevisione sia aperto,
nei limiti massimi consentiti, imparzialmente ai gruppi politici, religiosi,
culturali nei quali si esprimono le varie ideologie presenti nella società; g)
che venga riconosciuto e garantito - come imposto dal rispetto dei fondamentali
diritti dell’uomo - il diritto anche del singolo alla rettifica”. I principi
indicati dalla Corte sono stati tradotti nella legislazione con la legge n. 103
del 1975
([125])
Un precedente a questo genere di decisione si rinviene nella sentenza n. 34 del
1973, in Giur. Cost. 1973, 316, con
nota di V. Grevi, Insegnamenti, moniti e
silenzi della Corte costituzionale in tema di intercettazioni telefoniche, ivi, 1973, 317, in materia di
intercettazioni telefoniche da parte della polizia giudiziaria in fase di
indagine. Anche qui la Corte enuncia una serie di requisiti delle
intercettazioni, che derivano dal disposto dell’art. 15 Cost., i quali devono
essere concretamente normati nella legislazione.
([126])
In dottrina cfr: M. Mazziotti, Diritti
sociali, in Enc. dir., XII,
Milano, 1964; G. Corso, I Diritti sociali
nella Costituzione italiana, in Riv.
Trim. Dir. Pubbl., 1981, II, 755 ss.; A. Baldassarre, Diritti sociali, in Enc.
Giur., XI, Roma, 1989.
([129])
Analoghe considerazioni in Corte costituzionale, sentenze n. 175 del 1982; n.
212 del 1983; e n. 1011 del 1988, tutte in Giur.
Cost., rispettivamente 1982, 1981 ss.; 1983, 1263, e 1988, 4830. Il dato
positivo di questa giurisprudenza è rappresentata dal forte realismo, che
connoterebbe anche la dimensione dei diritti, in senso critico, però, v. B.
Pezzini, Principi costituzionali e
politica della sanità: il contributo della giurisprudenza costituzionale alla
definizione del diritto sociale alla salute, in Profili attuali del diritto alla salute a cura di B. Pezzini e C.
E. Gallo, Milano, Giuffrè, 1998, 18; R. Balduzzi, Il servizio sanitario regionale tra razionalizzazione delle strutture e
assestamento normativo (riflessioni sulla legge 30 novembre 1998, n. 419),
in Quaderni regionali, 1998, 949; M.
Siclari, Le indicazioni della più recente
giurisprudenza costituzionale in tema di diritto alla salute e di diritto
all’assistenza, in Sanità e
assistenza dopo la riforma del Titolo V a cura di R. Balduzzi e G. Di
Gaspare, Milano, Giuffrè 2002.
([130])
La Corte già in questa decisione afferma altresì che la realizzazione dei
diritti sociali debba tenere conto anche “di un ragionevole bilanciamento con
altri interessi o beni che godono di pari tutela costituzionale” e che detto
“bilanciamento” sarebbe “pur sempre soggetto al sindacato di questa Corte nelle
forme e nei modi propri all’uso della discrezionalità legislativa”.
([131])
v., in proposito C. Salazar, Dal
riconoscimento alla garanzia dei diritti sociali. Orientamenti e tecniche
decisorie della Corte costituzionale a confronto, Torino 2000, 127 ss.
([132])
Corte cost. n.. 455 del 1990 nella quale – tra l’altro – la Corte enuncia la
compatibilità del concetto di diritto inviolabile con quello di diritto
sociale. I diritti sociali devono intendersi come diritti costituzionali
condizionati “dall’attuazione che il legislatore ordinario ne dà attraverso il
bilanciamento dell’interesse tutelato da quel diritto con gli altri interessi
costituzionalmente protetti, tenuto conto dei limiti oggettivi che lo stesso
legislatore incontra nella sua opera di attuazione in relazione alle risorse
organizzative e finanziarie di cui dispone al momento”, ciò non implica “una
degradazione della tutela primaria assicurata dalla Costituzione ad una
puramente legislativa, ma comporta che l’attuazione della tutela
costituzionalmente obbligatoria, (…) avvenga gradualmente a seguito di un
ragionevole bilanciamento con altri interessi o beni che godono di pari tutela
costituzionale e con la possibilità reale e obiettiva di disporre delle risorse
necessarie per la medesima attuazione”. In dottrina cfr. C. Pinelli, Diritti costituzionali condizionati,
argomento delle risorse disponibili, principio di equilibrio finanziario,
in La motivazione delle decisioni della
Corte costituzionale, a cura di A. Ruggeri, Torino, 1994, 548.
([133])
v. A. Moscarini, La Corte costituzionale
contro lo Stato sociale?, in Giur.
Cost. 1997, 2027 ss.
([134])
v. anche Corte costituzionale, sentenze n. 173 del 1986 e n. 205 del 1995, in Giur. Cost., rispett. 1986, I, 1356, e
1995, 1566 ss.
([135])
V. Corte costituzionale, sentenza n. 215 del 1987, in Giur. Cost. 1987, I, 1615 ss., con cui, attraverso la sostituzione
di un frammento testuale (sentenza c.d. “sostitutiva”), si fa acquistare carattere
precettivo ad una disposizione legislativa, attuativa del diritto sociale alla
scolarità (art. 34 Cost.) e all’assistenza per i portatori di handicap (art.
38, comma 3, Cost.), che era stata deliberata come norma meramente
programmatica.
([136])
Sul punto v., in generale C. Colapietro, La
giurisprudenza costituzionale nella crisi dello Stato sociale, Padova 1996;
sul diritto di proprietà, in particolare, S. Mangiameli, Das Privateigentum in der italienischen Verfassung – Anhaltspunkte für
eine wertende Rechtsvergleichung, in Die
Europäische Grundrechte-Charta im wertenden Verfassungsvergleich, Hrsg. v.
Klaus Stern – Peter Tettinger, Berlin 2005, 335 ss.
([138])
Un caso singolare è offerto dalla giurisprudenza costituzionale sul c.d. “tetto
pensionistico”,
([139])
Corte costituzionale, sentenza n. 173 del 1986, cit., 1357, che qualifica “la cristallizzazione del tetto
pensionabile” come una misura che persegue “finalità sociali”, quali il
“risanamento e ripianamento delle gestioni previdenziali a rilevante
connotazione di solidarietà sociale”, in una “visione unitaria di politica
economica generale che il legislatore valuta e gradua nell’esercizio
insindacabile della sua discrezionalità”.
([141])
E subito dopo si aggiungeva, “partendo dalla constatazione della ripetizione e
sovrapposizione nel tempo di normative di blocco, che l’ulteriore procrastinarsi
di tali normative potrebbe conferire, in linea di fatto, al regime di blocco un
carattere di ordinarietà e indurre, quindi, la Corte a riformulare, sotto tale
diverso presupposto, il giudizio di legittimità” (Corte costituzionale,
sentenza n. 225 del 1976, cit., 1818)
; v. anche la sentenza n. 89 del 1984, in Giur.
Cost. 1984, I, 496, in cui la Corte, nonostante abbia rigettato la
questione di costituzionalità relativa all’ennesima proroga dei contratti di
locazione, asseriva che “indubbiamente tale proroga costituisce una non lieve
anomalia nel quadro normativo conseguente alla cit. legge n. 392 del 1978”.
([142])
Corte costituzionale, sentenza n. 826 del 1988, in Giur. Cost. 1988, I, 3893 ss. (3938); consapevole della circostanza
che discipline provvisorie possono perdurare nel tempo sino diventare
permanenti, la Corte si premura nel dire che, “se l’approvazione della nuova
legge dovesse tardare oltre ogni ragionevole limite temporale”, qualora dovesse
essere “nuovamente investita della medesima questione, non potrebbe non
effettuare una diversa valutazione con le relative conseguenze” e, ad ogni buon
conto, conclude la sua sentenza indicando al legislatore i principi da seguire
nella determinazione della legislazione futura (p. 3939).
([143])
v. A. Anzon, Nuove tecniche decisorie
della Corte costituzionale, in Giur.
Cost. 1992, 3199 ss.; ed anche C. Salazar, Dal riconoscimento alla garanzia dei diritti sociali, cit., 132 ss.
([144])
La vicenda riguarda l’indennità di disoccupazione determinata dalla legge senza
un meccanismo di adeguamento al procedere dell’inflazione; la Corte
costituzionale, sentenza n. 497 del 1988, in Giur. Cost. 1988, I, 2209 ss., ne pronunciava l’incostituzionalità,
concludendo: “compete quindi al legislatore l’adeguamento dell’importo come
determinato dalla norma che si dichiara costituzionalmente illegittima”; di
fronte alle difficoltà applicative i giudici di merito sollevavano nuovamente
la medesima questione di costituzionalità, ma la norma per cui si invocava la
pronuncia era già stata annullata dalla sentenza precedente, per cui la Corte
costituzionale, sentenza n. 295 del 1991, in Giur. Cost. 1991, 2319 ss., dichiarava l’inammissibilità, per
mancanza dell’oggetto, e invitava il giudice a provvedere nel caso concreto.
([145])
v. Corte costituzionale, sentenza n. 243 del 1993, in Giur. Cost. 1993, 1756 ss. (ed ivi i commenti di A. Anzon, Un’additiva di principio con termine per il
legislatore,1785 ss., C. Pinelli, Titano,
l’eguaglianza e un nuovo tipo di “additiva di principio”, 1792 ss., M.
D’Amico, Un nuovo modello di sentenza
costituzionale ?, 1803 ss.), relativa al mancata ricomprensione
dell’indennità integrativa speciale nel calcolo dell’indennità di fine
rapporto, per i dipendenti pubblici. La Corte censura l’omissione legislativa e
afferma che “spetta però al legislatore, determinando la misura, i modi e i
tempi di detto computo, rendere in concreto realizzabile il diritto medesimo”
e, “poiché … l’intervento del legislatore … è necessario per reintegrare
l’ordine costituzionale violato, esso deve avvenire con adeguata tempestività”.
La Corte stessa indica l’occasio legis nella
prossima legge finanziaria e avverte che “naturalmente ove ciò non avvenisse,
oppure se i tempi del graduale adeguamento alla legalità costituzionale si
prolungassero oltre ogni ragionevole limite, ovvero, se i principi enunciati
nella presente decisione risultassero disattesi, questa Corte, se nuovamente
investita del problema, non potrebbe non adottare le decisioni a quella
situazione appropriate”.
([146])
R. Granata, La Giustizia costituzionale
del 1996, in Giur. Cost. 1997,
1259 (relazione sull’attività della Corte costituzionale pronunciata dal suo
Presidente).
([147])
C. Colapietro, Garanzia e promozione dei
diritti sociali nella più recente giurisprudenza costituzionale, in Giu. It., 1995 p. 125, il quale così
continua: “tale nuova tecnica decisoria viene da taluni interpretata come il
tentativo del giudice costituzionale di perseguire, attraverso il
condizionamento della discrezionalità legislativa, una politica estensiva dei
diritti sociali, ergendosi così ad unico e strenuo difensore di quello Stato
sociale messo in pericolo non solo da una grave crisi economica ma anche da una
politica legislativa di tagli sulla spesa effettuati prima di tutto a danno
delle conquiste sociali per anni perseguite”.
([148])
v., oltre alle decisioni già richiamate, Corte costituzionale, sentenze n. 277
e n. 421 del 1991, in Giur. Cost.
1991, rispett. 2191 ss. e 3591 ss.; sentenze n. 88, n. 204 e n. 232 del 1992, ivi, 1992, rispett. 868 ss., 1469 ss. e
1799 ss.; sentenza n. 240 del 1994, ivi,
1994, 1970 ss.
([149])
Attraverso le decisioni di questo genere il giudice costituzionale ha
pronunciato sull’adeguamento del fondo per la sicurezza stradale (Corte
costituzionale, sentenza n. 560 del 1987, in Giur. Cost. 1987, I, 3529 ss.), sulla perequazione del canone
enfiteutico (Corte costituzionale, sentenza n. 406 del 1988, in Giur. Cost. 1988, I, 1811 ss.; e
sentenza n. 74 del 1996, ivi, 1996, 699 ss.), sull’aggiornamento del massimale di
prescritto per il risarcimento del danno prodotto alle merci dal vettore (Corte
costituzionale, sentenza n. 420 del 1991, in Giur. Cost. 1991, 3582 ss.) e sul mancato indennizzo dei vincoli di
piano regolatore (Corte costituzionale, sentenza n. 179 del 1999, in Giur. Cost. 1999, 1750 ss.).
([150])
La Corte ha pronunciato, con delle sentenze additive di principio, altresì, in
tema di applicazione delle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi nei
reati militari (284/1995), di sciopero degli avvocati (171/1996), di obiezione
totale di coscienza al servizio militare (43/1997), di decadenza del mandato di
consigliere comunale (160/1997), di tutela della libertà personale delle
persone detenute (26/1999), di misure sostitutive per i detenuti ammalati di AIDS
(438 e 439/1995) e di norme processuali (32/1999); ed ancora di disciplina
dell’adozione (44/90; 303/1996; 44/1998; 283/1999), di diritto alla salute e
libertà di cura (185/1998) e di fecondazione medicalmente assistita (347/1998).
([151])
Il primo atto, in tal senso, è stato la legge 22 maggio 1975 n. 152
(Disposizioni a tutela dell’ordine pubblico), c.d. “legge Reale” (v. P.
Nuvolone, Legge Reale, in Indice penale, 1978, 324 s.); a questo
ha fatto seguito il D.L. n. 625 del 1979 (misure urgenti per la tutela
dell’ordine democratico e della sicurezza pubblica), convertito con
modificazioni dalla legge 6 febbraio 1980, n. 15; in proposito, v. P. Nuvolone,
Misure contro il terrorismo, in Indice penale, 1979, 532 ss.; C. R.
Calderone, «Emergenza» e
necessità di tutela dell’ordine democratico (a proposito del decreto legge 15
dicembre 1979 n. 625), in Giur.
merito, 1980, 1 ss.; G. Neppi Modona, A
quando la riforma dell’ordinamento penale? Terrorismo: le tre logiche del 625,
in Il Ponte, 1980, 1, 184 ss.; G.
Salvini, Il D. L. 15 dicembre 1979, n.
625 concernente le misure urgenti per la tutela dell’ordine democratico e della
sicurezza pubblica: osservazioni sulle disposizioni di carattere processuale,
in Riv. it. dir. proc. pen., 1981,
II, 1455 ss.; D. Pulitanò, Le misure del
governo per l’ordine pubblico, in Dem.
dir., 1980, 1, 19 ss.; Id., Misure
antiterrorismo. Un primo bilancio, in Dem.
dir., 1981, 1-2, 77 ss..
([152])
Corte costituzionale, sentenza n. 1 del 1980, in Giur. Cost. 1980, 3 ss.; Corte costituzionale, n. 15 del 1982, in Giur. Cost. 1982, I, 85 ss., con
osservazione di L. Carlassare, Una
possibile lettura in positivo della sent. n. 15?, ivi, 1982, I, 98, e di A. Pace, Ragionevolezza
abnorme o stato di emergenza?, ivi,
1982, I, 108 ss.; Corte costituzionale, sentenza n. 38 del 1985, in Giur. Cost., 1985, 158; Corte
costituzionale, sentenza n. 194 del 1985, in Giur. Cost. 1985, 1513. In dottrina: G. De Vergottini, La difficile convivenza fra libertà e
sicurezza. La risposta delle democrazie al terrorismo. Relazione al
Convegno annuale dell’AIC sul tema: “Libertà e sicurezza”, in Rass. parl., 2004, 2, 427 ss.; nonché,
in relazione alla questione prospettata dal giudice a quo della violazione dell’art. 5 CEDU, dichiarata non sussistente
dalla Corte, in quanto il parametro non poteva essere collocato a livello
costituzionale, v. S. Bartole, Interpretazioni
e trasformazioni della Costituzione repubblicana, Bologna 2004, 313 ss.
([153])
“Ed invero, si tratta di un fenomeno caratterizzato, non tanto, o non solo, dal
disegno di abbattere le istituzioni democratiche come concezione, quanto dalla
effettiva pratica della violenza come metodo di lotta politica, dall’alto
livello di tecnicismo delle operazioni compiute, dalla capacità di reclutamento
nei più disparati ambienti sociali” (Corte costituzionale, sentenza n. 15 del
1982, cit., punto 4 considerato in
diritto).
([154])
v. Corte costituzionale, sentenza n. 15 del 1982, cit., punto 5 considerato in diritto. Il giudice costituzionale, peraltro,
fa salva la discrezionalità del legislatore avvertendo che spetta a questo
definire se l’allungamento dei termini di custodia preventiva sia una misura
idonea; “una valutazione in proposito è preclusa al giudice, sia pure il
giudice delle leggi, perché si risolverebbe in un sindacato su una scelta
operata in tema di politica criminale dal potere su cui istituzionalmente grava
la responsabilità di tutelare la libertà e, prima ancora, la vita dei singoli e
dell’ordinamento democratico” (punto 6 del considerato in diritto.
([156])
“Una legislazione d’emergenza non può non comprendere anche misure atte ad
adeguare l’ordinamento giudiziario ai tempi, quale sarebbe appunto una più
razionale ed efficiente organizzazione, ad ogni livello, degli uffici
giudiziari, in personale e mezzi, che sia in grado di soddisfare con
sollecitudine le nuove e maggiori esigenze proprio là dove e quando esse si
verificano. È un compito, questo, al quale il legislatore non può più sottrarsi
in coerenza con le altre misure urgenti ed eccezionali adottate” (Corte
costituzionale, sentenza n. 15 del 1982, cit.,
punto 7 considerato in diritto).
([157])
C. Esposito, Il controllo giurisdizionale
sulla costituzionalità delle leggi in Italia (1950), in La Costituzione italiana – Saggi,
Padova, 1954, 263 ss., in part. 276, che avvertiva “tale estensione è …
contrastante con la natura della legge, e con i principi dominanti sulla
interpretazione della legge, e trasformerebbe a tal punto la funzione della
Corte da sindacato sulla legge in controllo sul Legislatore” (277).
([158])
V. Crisafulli, Lezioni di diritto
costituzionale, II, La Corte costituzionale, cit., 371. Cfr. anche Corte
costituzionale, sentenza n. 54 del 1968, in Giur.
cost., 1968, I, 831, dove si sottolinea che “nel giudizio sulla razionalità
di una certa disciplina non si deve guardare soltanto alla posizione formale di
chi ne è destinatario ma anche alla funzione od allo scopo a cui essa è preordinata”.
Da questo punto di vista, peraltro, il riscontro del giudice costituzionale non
supererebbe quei limiti che C. Esposito, Il controllo giurisdizionale,
cit., 276, individuava nell’impossibilità di sindacato dei “motivi” della
legge.
([159])
v. Corte costituzionale, sentenza n. 158 del 1975, in Giur. cost., 1975, I, 1405 ss., “l’ambito del principio di
eguaglianza è stato ormai precisato da questa Corte in numerose occasioni. È
stato, in particolare, riconosciuto come riservato al potere discrezionale del
legislatore lo stabilire discipline differenziate per regolare situazioni che
egli ritiene ragionevolmente e non arbitrariamente diverse e per il
perseguimento di finalità apprezzabili costituzionalmente”.
([160])
Corte costituzionale, sentenza n. 204 del 1982, in Giur. Cost. 1982, I, 2146 ss., e v. già sentenza n. 25 del 1966, ivi, 1966, I, 24 ss., “l’eguaglianza è
un principio generale che condiziona tutto l’ordinamento nella sua obbiettiva
struttura”,
([161])
Tra i primi a porre le questioni inerenti al controllo sulla discrezionalità
legislativo, l’eccesso di potere legislativo e la ragionevolezza v. L. Paladin,
Osservazioni sulla discrezionalità e
sull’eccesso di potere del legislatore ordinario, in Riv. trim. dir. pubbl. 1956, 993 ss.; Id., Legittimità e merito delle leggi nel processo costituzionale, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1964, 304;
Id., Il principio costituzionale
d’eguaglianza, Milano 1965; Id., Ragionevolezza
(principio di), in Enc. Dir.,
Aggiorn. I, Milano 1997, 899 ss.; v. anche C. Rossano, L’eguaglianza giuridica nell’ordinamento costituzionale, Napoli,
1966; A.S. Agrò, Contributo ad uno studio
sui limiti della funzione legislativa in base alla giurisprudenza sul principio
d’eguaglianza, in Giur. Cost.
1967, 900 ss.; F. Modugno, L’invalidità
della legge, I, Milano 1970, 323 ss.; Id., Legge (vizi della), in Enc.
Dir., XXIII, Milano 1973, 1032 ss.; A.M. Sandulli, Il principio di ragionevolezza nella giurisprudenza costituzionale,
in Dir. Soc. 1975, 565 ss.; A. Cerri,
L’eguaglianza nella giurisprudenza della
Corte costituzionale, Milano 1976; Id., Ragionevolezza
delle leggi, in Enc. Giur. Treccani,
Roma 1994; G. Zagrebelsky, Corte
costituzionale e principio d’eguaglianza, in La Corte costituzionale tra norma giuridica e realtà sociale, a
cura di N. Occhiocupo, Bologna 1978, 108 ss.; A. Pizzorusso, Il controllo della Corte costituzionale
sull’uso della discrezionalità legislativa, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1986, 795 ss.; R. Pinardi, La Corte, i giudici ed il legislatore,
Milano 1993; il volume collettaneo Il
principio di ragionevolezza nella giurisprudenza della Corte costituzionale.
Riferimenti comparatistici, Milano 1994; A. Moscarini, Ratio legis e valutazioni di ragionevolezza della legge,
Torino 1996; J. Luther, Ragionevolezza
(delle leggi), in Dig. Disc. Pubbl.,
XII, Torino 1997, 355 ss.; M. Scudiero - S. Staiano (a cura di), La discrezionalità del legislatore nella
giurisprudenza della Corte costituzionale, Napoli 1999; G. Scaccia, Gli “strumenti” della ragionevolezza nel
giudizio costituzionale, Milano 2000; A. Morrone, Il custode della ragionevolezza, Milano 2001; M. La Torre - A.
Spadaro, La ragionevolezza nel diritto,
Torino 2002; e il volume Corte
costituzionale e principio d’eguaglianza, che raccoglie gli atti di un
convegno in ricordo di Livio Paladin, Padova 2002.
([162])
Sintomatica è in proposito la conferenza stampa dell’allora Presidente della
Corte per l’anno 1994, v. P. Casavola, La
giustizia costituzionale nel 1994, pubblicazione a cura della Corte costituzionale,
Roma 1995, 1-34; e in Riv. Amm. R.I.
1995, 1, 13 ss., ove si afferma “una completa disamina della giurisprudenza in
relazione al principio di eguaglianza significherebbe in pratica illustrare in
questa sede la quasi totalità delle sentenze rese nell’anno trascorso, cosa che
peraltro, appiattendo le problematiche, impedirebbe di percepire la specificità
dei principî espressi in ordine agli altri singoli parametri”.
([165])
Resta da considerare come il riscontro della ratio della legge sia l’elemento unificante dei due schemi
descritti, in quanto rappresenta verosimilmente il passaggio logico ineludibile
di ogni pronuncia costituzionale, tanto che si svolga una censura di coerenza,
quanto che si denunci l’irragionevolezza della legge.
([167])
Corte costituzionale, sentenza n. 254 del 1994, cit., 2068. Il giudice costituzionale, procedendo attraverso una
comparazione, ha conseguentemente affermato con chiarezza che non viene in
considerazione “l’intrinseca irrazionalità del divieto … ma soltanto la
discrasia scaturente dall’assenza di analoghe norme protettive nella specifica
materia della tutela dall’inquinamento e da cui deriva la sopravvenuta
irragionevolezza del permanere di un regime preclusivo rispetto a fattispecie
di reato conformate in modo tale da provocare una disciplina
ingiustificatamente più severa nonostante l’identità dell’interesse protetto ed
i giudizi di valore ancor più negativi espressi sotto il profilo sanzionatorio
dalle successive previsioni”( 2068-69). Su tema della ragionevolezza come
coerenza sistematica della legge v. anche Corte costituzionale, sentenza n. 25
del 1970, in Giur. Cost. 1970, 243 ss., a proposito della notifica a
imputato detenuto dichiarato irreperibile; e sentenza n. 117 del 1979, ivi,
1979, 1124 ss., sul giuramento dei non credenti (sulla quale v. S. Mangiameli, Il
giuramento dei non credenti davanti alla Corte costituzionale, ivi,
1980, I, 124 ss.).
([169])
La Corte costituzionale nel compiere il controllo di ragionevolezza della legge
si è avvalsa di diversi “strumenti”, dando luogo a figure e tecniche di
controllo tipiche e distinte: sussumibile nella ragionevolezza strumentale
della legge: congruenza, adeguatezza e proporzionalità (341/94; 370/1996); la
conformità alle evidenze di carattere sociologico (420/1991); gli anacronismi
legislativi (41/1999); l’eterogenesi dei fini (170/1994); e nella
ragionevolezza giustizia: l’ingiustizia obiettiva della legge (81/1992;
46/1993); sul punto v. più ampiamente G. Scaccia, Gli “strumenti” della
ragionevolezza nel giudizio costituzionale, cit., 192 ss..
([170])
Corte costituzionale, sentenza n. 78 del 1994, cit., 790-91. Quanto, invece, alla disparità di trattamento con il
personale sanitario ospedaliero, il cui assegno è computato nella pensione, la
Corte esclude la comparabilità, in quanto l’ordinamento nel suo complesso non
esprimerebbe “un principio, generale, di necessario computo delle indennità ai
fini di quiescenza, che abbia fondamento in specifiche disposizioni e,
comunque, in valori tutelati dalla Costituzione”.
([171])
v. Corte costituzionale, sentenze n. 363 e n. 406 del 1994, in Giur. Cost. 1994, rispett. 2954 ss. e
3615 ss.
([173])
Osserva P. Casavola (La giustizia costituzionale
nel 1994, cit.) “ed in effetti vengono quasi costantemente addotti per
indurre la Corte a valutazioni finalistiche che l’esame condotto con riguardo
esclusivo ad un’altra norma costituzionale non consentirebbe (per esempio il
semplice riferimento all’art. 13 non permette di domandarsi perché si sia
operata una limitazione della libertà personale, cosa invece possibile ove si
invochi anche l’art. 3)”.
([174])
Osserva la Corte che “il controllo di costituzionalità, dovendosi per un verso
saldare al generale principio di conservazione dei valori giuridici e restando
comunque circoscritto all’interno dei confini propri dello scrutinio di
legittimità, non può travalicare in apprezzamenti della ragionevolezza che
sconfinino nel merito delle opzioni legislative, e ciò specie nelle ipotesi in
cui la questione dedotta investa, come nel caso in esame, sistemi normativi
complessi, all’interno dei quali la ponderazione dei beni e degli interessi non
può certo ritenersi frutto di soluzioni univoche” (Corte costituzionale,
sentenza n. 89 del 1996, cit., 824),
per non ogni “ipotetico contrasto con il canone della eguaglianza, qualsiasi
incoerenza, disarmonia o contraddittorietà che una determinata previsione
normativa possa, sotto alcuni profili o per talune conseguenze, lasciar
trasparire” determina una questione di costituzionalità dal punto di vista
dell’eguaglianza, altrimenti “al controllo di legittimità costituzionale
verrebbe impropriamente a sovrapporsi una verifica di opportunità”, mentre
“Norma inopportuna e norma illegittima sono pertanto due concetti che non si
sovrappongono”.
([176])
v. R. Bin, Diritti e argomenti. Il
bilanciamento degli interessi nella giurisprudenza costituzionale, Milano
1992; G. Zagrebelsky, Il diritto mite,
Torino 1992, 147 ss.; L. Mengoni, Ermeneutica
e dogmatica giuridica, Milano 1996, 115 ss.; O. Chessa, Bilanciamento ben temperato o sindacato
esterno di ragionevolezza? Note sui diritti inviolabili come parametro del
giudizio di costituzionalità, in Giur.
Cost. 1998, 3925 ss.; Id., Libertà
fondamentali e teoria costituzionale, Milano 2002; G. Scaccia, Il bilanciamento degli interessi come
tecnica di controllo costituzionale, ivi, 3953 ss.. Per una comprensione
della problematica trattata appare imprescindibile lo studio dell’importante
contributo di S. Bartole, Principi
generali del diritto (dir. cost.), in Enc.
dir., XXXV, Milano 1986, 494 ss., cui adde
A. D’Atena, I principi ed i valori
costituzionali, in Lezioni, cit.,
1 ss..
([177])
Basti considerare, ad esempio, il carattere normativo delle sentenze della Supreme Court con il principio dello stare decisis, o la previsione dell’art.
19, comma 2, GG, sulla tutela del Wesensgehalt
dei diritti fondamentali, che in una qualche misura – nonostante il silenzio
della Costituzione italiana – la Corte costituzionale è stata costretta ad
importare (peraltro, più come argomento retorico, che non come strumento di
determinazione della legittimità costituzionale di una disposizione; v., ad
esempio, sentenza n. 27 del 1998, in Giur.
Cost. 1998, 158, dove lo svolgimento dell’argomentazione non ha nulla a
vedere con l’affermazione che “a questa Corte, nell’esercizio del controllo di
costituzionalità sulle leggi, compete tuttavia di garantire la misura minima
essenziale di protezione delle situazioni soggettive che la Costituzione
qualifica come diritti, misura minima al di sotto della quale si
determinerebbe, con l’elusione dei precetti costituzionali, la violazione di tali
diritti”). Si consideri, poi, che proprio negli Stati Uniti, dove è stato
formulato, la tecnica del giudizio di bilanciamento avrebbe ormai un carattere
recessivo.
([178])
Con il consueto realismo v. quanto afferma L. Paladin (La Corte costituzionale, cit., 42): “la Corte costituzionale non si
avvale di una precostituita scala di valori, ma si riserva di giudicare caso
per caso. (…) La nostra Corte, in effetti, non ha mai sostenuto una concezione
assolutistica degli stessi diritti inviolabili dell’uomo, e anzi ha fatto
intendere che ogni valore, principi supremi compresi, può almeno in qualche
caso ritrarsi o soccombere nel confronto con esigenze e interessi di ordine
diverso”.
([179])
v. A. Baldassarre, Costituzione e teoria
dei valori, in Pol. dir. 1991,
639 ss.; G. Zagrebelsky, Il diritto mite,
cit.; F. Modugno, I “nuovi diritti” nella
giurisprudenza costituzionale, cit.; Id., Principi generali dell’ordinamento, in Enc. Giur. Treccani, Roma 1991; F. Pizzetti, L’ordinamento costituzionale per valori, in Dir. eccl. 1995, 66 ss.; P. Ciarlo, Dinamiche delle democrazie e logica dei valori, in Dir. pubbl. 1995, 128 ss.; A. Ruggeri, Giurisprudenza costituzionale e valori,
in Dir. pubbl. 1998, 6; v. anche i contributi (di S. Bartole - A. Ruggeri -
A. Baldassare) raccolti nel volume Il
metodo nella scienza del diritto costituzionale, Padova 1997. Per una acuta
ed efficace critica v. S. Fois, “Ragionevolezza”
e “valori”: interrogazioni progressive verso concezioni sulla forma di Stato e
sul diritto, in Il principio di ragionevolezza
nella giurisprudenza della Corte costituzionale, cit., 103 ss.; Id., Principi e regole normative nell’opera di
Vezio Crisafulli, in Il Contributo di
Vezio Crisafulli alla scienza del diritto costituzionale, Padova 1994, 249 ss.;
nonché, M. Mazziotti di Celso, Lezioni di
diritto costituzionale, II, Milano 1985, 168 s.; P. Grossi, I diritti di libertà ad uso di lezioni,
cit., 89, in part. nota 48; A. Pace,
Problematica delle libertà costituzionali, cit., 37 ss..
([180])
Queste tendenze si collegano direttamente all’elaborazione di R. Dworkin, I diritti presi sul serio, trad. it.,
Bologna 1977; e di R. Alexy, Theorie der
Grundrechte, Frankfurt a.M. 1986. Ma si tratta di una prospettiva del tema dei valori assai limitato e
discutibile; anche alla dottrina italiana sembrano essere sfuggiti alcuni
approfondimenti che il tema dei valori pone in relazione al diritto e alla
giurisprudenza; basti pensare, in proposito, all’importanza della filosofia di
Max Scheler, ormai e finalmente tradotto anche in italiano (Il formalismo nell’etica e l’etica materiale
dei valori. Nuovo tentativo di fondazione di un personalismo etico (1927),
trad. it., Torino 1996), che risulta totalmente ignorata (per una valutazione
nella dottrina italiana, però, v. già L. Caiani, I giudizi di valore nell’interpretazione giuridica, Padova, 1954,
93 ss.).
([181])
v. Corte costituzionale, sentenza n. 518 del 2000, in Giur. Cost. 2000, 4058 ss., con la quale si dichiara non fondata la
irragionevolezza, denunciata dal
giudice a quo, della norma del codice
penale sull’incesto, dove il passaggio della motivazione che argomenta in
termini di bilanciamento e tutt’altro
che essenziale e ha un funzione meramente retorica e non euristica.
([182])
v. Corte costituzionale, sentenza n. 108 del 1994, in Giur. Cost. 1994, 927 ss., dove il richiamo al “quadro dei valori
costituzionali” non aggiunge nulla dal punto di vista del modello di decisione
che mantiene lo schema sillogistico e si rivela, perciò un espediente retorico.
La questione riguardava il precetto che consentiva l’esclusione dall’accesso
alle forze di polizia e alla magistratura di coloro che, per informazioni
raccolte, non risultassero “appartenenti a famiglia di estimazione morale
indiscussa”, in quanto non riconducibile al novero dei requisiti richiedibili
per legge ai sensi dell’art. 51 Cost., per cui, persino il richiamo all’art. 3
e ad “una condizione comportante una limitazione irragionevole all’accesso ai
pubblici uffici”, appare un di più non necessario a fondare la dichiarazione di
illegittimità costituzionale della norma legislativa.
([183])
Così F. Modugno, Principi generali
dell’ordinamento, cit., 11 e 13, che esprime una posizione onnicomprensiva
dei diversi aspetti toccati dalla giurisprudenza costituzionale.
([185])
A. Pace, La variegata struttura dei
diritti costituzionali, in Scritti in
onore di Giuseppe Abbamonte, Napoli 1999, vol. II, 1078 (“Dal che consegue
che il giurista non dovrebbe mai accedere ad interpretazioni del testo
costituzionale, che in nome di valori inespressi o di valori costituzionalmente
riconosciuti ‘ma con dati limiti’, forzino la lettera delle disposizioni
costituzionali e facciano dire alla Costituzione cose che essa non dice o che
non dice in quei termini”).
([186])
È sufficiente, in proposito, riprendere la nozione di “lite” di F. Carnelutti, Lezioni di diritto processuale, Padova
1926, I, 167 e II, 7; Id., Diritto e
processo, Napoli 1958, 54; e su questa v. anche P. Calamandrei, Il concetto di “lite” nel pensiero di F.
Carnelutti, in Studi sul processo
civile, Padova 1930, II 359 ss..
([187])
v. Corte costituzionale, sentenza n. 127 del 1990, in Giur. cost. 1990, 718 ss., nella quale, consentendosi
all’imprenditore di potere adottare la tecnologia meno costosa, purché rispetti
i limiti previsti per il rilascio delle sostanze inquinanti nell’ambiente, il
diritto d’impresa non viene contemperato con quello alla salubrità
dell’ambiente, e la Corte procede con una interpretazione adeguatrice sulla base
del principio che l’“emissione inquinante … non potrà mai superare quello
ultimo assoluto e indefettibile rappresentato dalla tollerabilità per la tutela
della salute umana e dell’ambiente in cui l’uomo vive: tutela affidata al
principio fondamentale di cui all’art. 32 Cost., cui lo stesso art. 41, comma
2, si richiama” (v. anche le considerazioni di L. Violini, Protezione della salute e dell’ambiente “ad ogni costo”, ivi, 727
ss.).
([188])
Questo appare essere il canone di cui effettivamente la Corte costituzionale,
sentenza n. 366 del 1991, in Giur. Cost. 1991,
2914 ss., allorché valuta la complessa disciplina in materia di intercettazioni
telefoniche, previste dall’art. 270 c.p.p., che prevede la non utilizzabilità
delle intercettazioni in procedimenti diversi da quelli per i quali è stata
disposta con atto motivato del giudice, tranne che non si tratti di reati per
cui è obbligatorio l’arresto in flagranza. Nonostante nel tenore della
motivazione si dica cha la citata disposizione “costituisce l’attuazione in via
legislativa del bilanciamento di due valori costituzionali fra loro
contrastanti: il diritto dei singoli individui alla libertà e alla segretezza
delle loro comunicazioni e l’interesse pubblico a reprimere i reati e a
perseguire in giudizio coloro che delinquono”, può dirsi che semmai vi è un
esame di ragionevolezza della disposizione del codice, ma sicuramente non vi è
bilanciamento, in particolare la fattispecie “intercettazione – altro
procedimento” è ricondotta alla libertà della corrispondenza, anche se sarebbe
più corretto, quanto meno, aggiungere anche il diritto di difesa; mentre la
fattispecie “intercettazione – altro procedimento, per cui è obbligatorio
l’arresto in flagranza” e sussulta nell’“interesse pubblico a reprimere i
reati”.
([189])
A tal riguardo, possono richiamarsi le sentenze, sopra citate al par. 4, in
tema di “legittimità costituzionale
provvisoria”, molte delle quali sono state giustificate in termini di
bilanciamento dei diritti contrapposti, valga per tutti Corte costituzionale,
sentenza n. 225 del 1976, cit., dove
“un intervento per fini sociali in favore delle classi meno abbienti”, non
realizza “una definitiva ed irreversibile compressione delle facoltà di
godimento del proprietario”, solo “in ragione dei riconosciuti caratteri di
straordinarietà e temporaneità della disciplina”, tant’è che la Corte avvertiva
come, per effetto delle proroghe, “la iniziale ragionevolezza di un generale e
indiscriminato regime vincolistico delle locazioni degl’immobili urbani adibiti
ad uso diverso dall’abitazione, e dei relativi canoni, e la tollerabilità, in
ragione della prevista breve durata, dei conseguenti sacrifici imposti ai
locatori, si sono così andate progressivamente affievolendo e riducendo”.
([190])
v. Corte costituzionale, sentenza n. 118 del 1996, in Giur. Cost. 1996, 1011, nella quale, per riconoscere
l’indennizzabilità (anteriore all’entrata in vigore della legge) dei danni
subito per la vaccinazione antipolio, si evoca il conflitto tra la salute come
diritto individuale e come “interesse della collettività” (art. 32 Cost.), ma
la decisione, in realtà, si fonda sul principio di solidarietà (art. 2 Cost.)
che fonda il diritto al ristoro del danno subito nell’interesse della
collettività che non può subire menomazioni di ordine temporale (v. anche
sentenza n. 307 del 1990, in Giur. Cost. 1990,
1874 ss., con osservazioni di F. Giardina, Vaccinazione
obbligatoria, danno alla salute e “responsabilità” dello Stato, ivi, 1880
ss.; e sentenza n. 258 del 1994, in Giur.
Cost. 1994, 2097 ss.); peraltro, per esigenze di cassa (pubblica) la
ragionevolezza della Corte costituzionale è pronta ad accettare che detta
indennità si possa ridurre ad un valore
(questa volta economico-monetario) quasi irrisorio (v. sentenza n. 27 del 1998,
cit., 158-159).
([191])
v. Corte costituzionale, sentenza n. 268 del 1998, in Giur. Cost. 1998, 2083 ss., con la quale la Corte ha dichiarato
l’illegittimità costituzionale della norma sulle “provvidenze a favore dei
perseguitati politici antifascisti o razziali e dei loro familiari superstiti”,
nella parte in cui non prevedeva che, della commissione istituita per esaminare
le domande per conseguire i benefici che la stessa legge contemplava, facesse
parte anche un rappresentante dell'Unione delle comunità ebraiche italiane, desumendo
l’illegittimità di detta lacuna dalla circostanza che per i perseguitati
politici, invece, la disposizione contemplava la partecipazione di un membro
della relativa associazione.
([192])
v. Corte costituzionale, sentenza n. 303 del 1996, in Giur. Cost. 1996, 2503 ss., con la quale ha dichiarato
l’illegittimità costituzionale dell’art. 6, secondo comma, della legge 4 maggio
1983, n. 184 (Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori), nella parte in cui non prevede che il
giudice possa disporre l’adozione, valutando esclusivamente l’interesse del
minore, quando l’età di uno dei coniugi adottanti superi di oltre quaranta
anni l’età dell’adottando, pur rimanendo la differenza di età compresa in
quella che di solito intercorre tra genitori e figli, se dalla mancata adozione
deriva un danno grave e non altrimenti evitabile per il minore”. In questa
ipotesi, infatti, la sentenza della Corte non bilancia l'interesse dei coniugi
ad avere figli legittimi di derivazione adottiva, con quello del minore ad
essere adottato, per cui appare del tutto improprio il richiamo “ai principi ed
ai valori costituzionali assunti quale parametro di valutazione della
legittimità costituzionale della disposizione denunciata (artt. 2 e 31 della
Costituzione)”, tanto più che la Corte fa esattamente quello che dichiara di
non voler fare (“affinché non si trasformi in una regola, la cui fissazione è
invece rimessa alla discrezionalità del legislatore, l’eccezione deve
rispondere ad un criterio di necessità”), in quanto la Corte da vita ad una
vera e propria norma derogatoria,
costituzionalmente fondata, che abilita il giudice a valutare una fattispecie
ulteriore (derogatoria, per l’appunto) rispetto a quella prevista dalla legge,
nella quale si rientrerebbe, ove non fosse prevista la deroga (v. le
osservazioni di E. Lamarque, L’eccezione
non prevista rende incostituzionale la regola (ovvero, il giudice minorile è
soggetto alla legge, ma la legge è derogabile nell’interesse dei minori), ivi,
2509 ss.; analogo modo di procedere si realizza nel caso della sentenza n. 267
del 1998, in Giur. Cost. 1998, 2076
ss., con la quale non si realizza alcun “bilanciamento tra valori
costituzionalmente rilevanti”, ma si pronuncia semplicemente l’illegittimità
della mancata previsione della valutazione ex
post dei presupposti di accesso all’assistenza indiretta nei casi di
urgenza, “nei quali la gravità delle condizioni dell’assistito non consente di
adempiere a tale modalità” in modo preventivo. Per questi casi la dottrina ha
parlato di una “delega di bilanciamento”, a favore del giudice, o a favore
dell’amministrazione, ma se si ammette la circostanza che la Corte dà vita con
queste pronunce ad una norma derogatoria, costituzionalmente fondata, non vi è
neppure alcuna delega di bilanciamento, ma semplicemente un atto discrezionale
sulla base di una previsione normativa (posta dalla Corte costituzionale).
([193])
Sia per l’assenza di elementi testuali che consentano di regolare le diverse
pretese, e sia per la circostanza – sempre presente – che si tratterebbe di
diritti previsti da norme, facenti parte del medesimo atto normativo: la
Costituzione, dotate della medesima validità e forza giuridica.
([194])
Tecnicamente, perciò, il bilanciamento si risolve in un atto che, non essendo
praticamente possibile alcun contemperamento, determina un sacrificio
immotivato e arbitrario di un diritto costituzionalmente garantito, per opera
del giudice costituzionale, la cui pretesa di universalizzazione (v. L.
Mengoni, L’argomentazione nel diritto
costituzionale, in Ermeneutica e
dogmatica giuridica, cit., 125) o cognitiva, basata sui valori, compreso
quello della giustizia (v. G. Zagrebelsky, La
giustizia costituzionale, Bologna 1988, 53; Id., Il diritto mite, cit., 97 ss.), è infondata; nel bilanciamento
legislativo la norma è anch’essa espressione di una decisione arbitraria, in
quanto atto di volontà, ma sarebbe sorretta da una legittimazione, che
mancherebbe al giudice costituzionale, derivante dalla realizzazione del
principio democratico (v. anche le considerazioni espresse in S. Mangiameli, Il giuramento decisorio tra riduzione
assiologia e ideologizzazione dell’ordinamento, in Giur. Cost. 1996, 2928 ss.).
([195])
Basti pensare al diritto di sciopero dell’art. 40 Cost., al ruolo della
giurisprudenza costituzionale e alle soluzioni apportate al tema del
contemperamento dei diritti dalla legge n. 146 del 1990 (v. A. D’Atena, Costituzione ed autorità indipendenti: il
caso della Commissione di garanzia dell’attuazione della legge sullo sciopero
nei servizi pubblici essenziali, in Lezioni,
cit., 83 ss.)
([197])
v. art. 381 c.p. Zanardelli, il quale riprendeva, sul punto l’impostazione del
codice toscano che collocava già il procurato aborto fra i delitti contro la
persona, mentre il codice sardo lo poneva fra i delitti contro l’ordine delle
famiglie. Nella relazione ministeriale sul progetto Zanardelli del 1887 si
legge che “la legge deve spiegare la sua protezione anche per il feto tuttora racchiuso
nell’alveo materno, difendendo la vita dell’uomo fin dal momento della
fecondazione e rigettando, come inumana, l’antica dottrina, secondo la quale la
donna, procurandosi l’aborto non fa un atto di libera disposizione del proprio
corpo” (CLIII).
([198])
La Corte comunque avverte e precisa che “l’esenzione da ogni pena di chi,
ricorrendo i predetti presupposti, abbia procurato l’aborto e della donna che
vi abbia consentito non esclude affatto, già de jure condito, che l’intervento debba essere operato in modo che sia
salvata, quando ciò sia possibile, la vita del feto” e sottolinea, infine,
l’obbligo del legislatore di “predisporre le cautele necessarie per impedire
che l’aborto venga procurato senza seri accertamenti sulla realtà e gravità del
danno o pericolo che potrebbe derivare alla madre dal proseguire della
gestazione: e perciò la liceità dell’aborto deve essere ancorata ad una previa
valutazione della sussistenza delle condizioni atte a giustificarla.
([199])
Infatti, la collisione tra più diritti di rango costituzionale, che può essere
affrontata dalla Corte costituzionale attraverso la tecnica del bilanciamento, con la ponderazione fra i
diversi beni protetti in Costituzione, o effettuando una valutazione
comparativa degli interessi, oppure una ponderazione di principi costituzionali
concorrenti, comporta “una decisione non interpretativa e non deduttiva fondata
sulla formulazione di giudizi di valore non assoggettabili ad un riscontro di
coerenza sistematica, anche se nella motivazione della sentenza il giudice
costituzionale tenderà a far apparire la decisione come l’esito naturale e
logicamente necessitato di un processo rigidamente ermeneutica” (G. Scaccia, Gli “strumenti” della ragionevolezza nel
giudizio costituzionale, cit., 310).
([200])
Quest’ultimo assunto è pacifico, in quanto è la stessa Corte ad averlo
affermato in molte sue pronunce; e sarebbe anche confermato proprio dalla legge
(n. 194 del 1978) sull’interruzione della gravidanza che successivamente il
legislatore ha adottato, la quale non appare integralmente corrispondente alla
prospettiva indicata dalla Corte (v. anche la sentenza n. 26 del 1981,
sull’ammissibilità del referendum abrogativo sulla legge n. 194).
([201])
Basti pensare alla prospettiva di potere distinguere all’interno del medesimo
atto normativo l’efficacia normativa delle singole disposizioni, come peraltro
già si effettuava con la distinzione tra costituzione formale e materiale (v.
M. Mazziotti di Celso, Principi supremi
dell’ordinamento costituzionale e forma di Stato, in Dir. Soc. 1996, 303 ss.); oppure, alle incidenze sul principio di
sovranità che un tale sindacato comporterebbe (v. F. Rimoli, Costituzione rigida, potere di revisione e
interpretazione per valori, in Giur.
Cost. 1992, 3712 ss.).
([203])
v. F. Modugno, I principi costituzionali
supremi come parametro nel giudizio di legittimità costituzionale, in F.
Modugno - A.S. Agrò - A. Cerri (a cura di), Il
principio di unità del controllo sulle leggi nella giurisprudenza della Corte
Costituzionale, IV ed., Torino 2002, 292 ss., il quale afferma: “quando si
parla di principi supremi non si parla di norme superiori ad altre, a tutte le
altre, ma di entità di per sé irriducibili al normativo, al mondo della norma”.
([204])
v. S. Bartole, La Corte pensa alle
riforme istituzionali?, in Giur.
Cost. 1988, 5570 ss.; F. Modugno, Il
problema dei limiti alla revisione costituzionale (in occasione di un commento
al messaggio alle Camere del Presidente della repubblica del 26 giugno 1991),
in Giur. Cost. 1992, 1649 ss.; N.
Zanon, Premesse ad uno studio sui
“principi supremi” di organizzazione come limiti alla revisione costituzionale,
in Giur. Cost. 1998, 1891 ss.; a posteriori, osserva F. Sorrentino, Le fonti del dirittio amministrativo,
Padova 2004, 65, che “le due leggi costituzionali (n. 1 del 1993 e n. 1 del
1997) con le quali si è tentato … di avviare un vasto processo di riforma
costituzionale – limitatamente alla seconda parte della costituzione”, sono da considerare
“in rottura … della costituzione”.
([205])
v. Corte costituzionale, sentenza n. 1146 del 1988, in Giur. Cost. 1988, 5565 ss., in part. 5569; con nota di S. Bartole, La Corte pensa alle riforme istituzionali?,
cit., e in Le Regioni 1990, 774 ss. (783-784),
con nota di M. Dogliani, La sindacabilità
delle leggi costituzionali, ovvero la ‘sdrammatizzazione’ del diritto
costituzionale, ivi.
([207])
v., in proposito, la ricostruzione della dottrina italiana pregressa compiuta
da M. Dogliani, La sindacabilità delle
leggi costituzionali, ovvero la ‘sdrammatizzazione’ del diritto costituzionale,
cit., il quale non a caso, con riferimento agli enunciati della sentenza n.
1146, parla di “diritto costituzionale giurisprudenziale, o meglio
scientifico-giurisprudenziale, perché sancisce un principio ormai (seppure dopo
una originaria divaricazione di opinioni) largamente affermato nella
giuspubblicistica” (775).
([208])
sulla quale v. le osservazioni di M. Mazziotti, Principi supremi dell’ordinamento costituzionale e forma di Stato,
cit., 311.
([209])
V. Crisafulli, Lezioni di diritto
costituzionale, I, Introduzione al diritto costituzionale italiano, Padova
1970, 105, dove si specifica: “e perciò, come il suo esercizio può essere ed è
limitato nelle forme e nei modi, così può esserlo quanto agli oggetti e d al
contenuto. Per tutto il resto, ove nulla sia disposto al riguardo, esso è
libero di esprimersi nelle più varie direzioni e con i più diversi contenuti”. Tanto
più se si riconosce al Parlamento la possibilità di adottare liberamente leggi
costituzionali (così V. Crisafulli, Lezioni
di diritto costituzionale, II, Le fonti, VI ed., a cura di F. Crisafulli,
Milano 1993, 85-86).
([210])
v., in proposito l’art. 1 della legge costituzionale n. 1 del 1993 e l’art. 1
della legge costituzionale n. 1 del 1997, con le quali si è prevista
l’istituzione di una commissione parlamentare bicamerale per predisporre il
testo della revisione costituzionale solo della parte seconda della Carta.
([211])
In proposito, le sentenze della Corte costituzionali sono molteplici, nella
sentenza n. 30 del 1971, in Giur. Cost.
1971, 150 ss., 153, si afferma che se
l’art. 7 Cost. “riconosce allo Stato e alla Chiesa cattolica una posizione
reciproca di indipendenza e di sovranità”, ciò non gli conferirebbe di “avere
forza di negare i principi supremi dell’ordinamento costituzionale dello
Stato”; nella sentenza n. 12 del 1972, in Giur.
cost. 1972, 45 ss., 65, con riferimento disciplina dell’esercizio della
facoltà di questua, si dice che se le disposizioni del concordato sono tali da
consentire “la derogabilità del principio di eguaglianza”, questa troverebbe
“un limite inderogabile nel rispetto dei principi supremi dell'ordinamento”;
nella sentenza n. 175 del 1973, in Giur.
cost. 1973, 2321 ss., la problematica del concordato si è riproposta con
riguardo alla definizione della “riserva della giurisdizione”, come “principio
supremo”, che “che nemmeno una legge avente copertura costituzionale potrebbe
superare” (p. 2335) e la Corte, a tal riguardo, per un verso asserisce che “non
vi è dubbio che la giurisdizione sia principio caratteristico della sovranità e
di questa rappresenti un elemento costitutivo”, ma, per l’atro, affermato che
“un’inderogabilità assoluta della giurisdizione statale non risulta da espresse
norme della Costituzione, né è deducibile, con particolare riguardo alla
materia civile, dai principi generali del nostro ordinamento, nel quale ipotesi
di deroga sono stabilite da leggi ordinarie (art. 2 cod. proc. civ.)”; mentre
nella sentenza n. 18 del 1982, in Giur.
cost. 1982, 138 ss., il “diritto di
agire e resistere in giudizio a difesa dei propri diritti – strettamente
connesso ed in parte coincidente con il diritto alla tutela giurisdizionale”,
che troverebbe “la sua base soprattutto nell’art. 24 della Costituzione”,
veniva ascritto “nel novero dei principi supremi dell’ordinamento
costituzionale’”, insieme alla “inderogabile tutela dell’ordine pubblico, e
cioè delle regole fondamentali poste dalla Costituzione e dalle leggi a base
degli istituti giuridici in cui si articola l’ordinamento positivo nel suo
perenne adeguarsi all’evoluzione della società” e, su queste basi è stata
pronunciata l’illegittimità costituzionale della legge di esecuzione del
concordato, nella parte in cui le norme di questo non prevedevano che “alla
Corte d’appello, all’atto di rendere esecutiva la sentenza del tribunale
ecclesiastico, che pronuncia la nullità del matrimonio, spetta accertare che
nel procedimento innanzi ai tribunali ecclesiastici sia stato assicurato alle
parti il diritto di agire e resistere in giudizio a difesa dei propri diritti,
e che la sentenza medesima non contenga disposizioni contrarie all’ordine
pubblico italiano” (pp. 179-180).
([212])
v. Corte costituzionale, sentenza n. 183 del 1973, in Giur. Cost. 1973, 2401 ss. (“È appena il caso di aggiungere che in
base all’art. 11 della Costituzione sono state consentite limitazioni di
sovranità unicamente per il conseguimento delle finalità ivi indicate; e deve
quindi escludersi che siffatte limitazioni, concretamente puntualizzate nel
Trattato di Roma – sottoscritto da Paesi i cui ordinamenti si ispirano ai
principi dello Stato di diritto e garantiscono le libertà essenziali dei
cittadini – , possano comunque comportare per gli organi della C.E.E. un
inammissibile potere di violare i
principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale, o i diritti inalienabili della persona umana”,
2420); nonché sentenza n. 170 del 1984, in Giur.
Cost. 1984, 1222 ss. (“Le osservazioni fin qui svolte non implicano,
tuttavia, che l’intero settore dei rapporti fra diritto comunitario e diritto
interno sia sottratto alla competenza della Corte. Questo Collegio ha, nella
sentenza n. 183/73, già avvertito come la legge di esecuzione del Trattato
possa andar soggetta al suo sindacato, in riferimento ai principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale e ai diritti inalienabili della persona umana,
nell’ipotesi contemplata, sia pure come improbabile, al numero 9 nella parte
motiva di detta pronunzia”).
([213])
v. Corte costituzionale, sentenza n. 48 del 1979, in Giur. Cost. 1979, 373 ss., 382, in cui si rileva che, “più in
generale, per quanto attiene alle norme di diritto internazionale generalmente
riconosciute che venissero ad esistenza dopo l’entrata in vigore della
Costituzione, … il meccanismo di adeguamento automatico previsto dall’art. 10
Cost. non potrà in alcun modo consentire la violazione dei principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale, operando
in un sistema costituzionale che ha i suoi cardini nella sovranità popolare e
nella rigidità della Costituzione (art. 1, secondo comma e Titolo VI della
Costituzione)”.
([214])
Come il principio della sovranità dello Stato esercitata dal popolo (sentenza
n. 18 del 1982); il principio della rigidità costituzionale (sentenza n. 48 del
1979); il principio dell’ordinamento democratico (sentenza n. 30 del 1971); il
principio dell’unità della giurisdizione (sentenza n. 30 del 1971); il
principio dell’ordine pubblico (sentenza n. 18 del 1982).
([218])
Corte costituzionale, sentenza n. 307 e n. 455 del 1990, in Giur. cost. 1990, rispett. 1874 ss., e
2732 ss.
([226])
v. Corte costituzionale, sentenza n. 366 del 1991, cit., 2914 ss., in materia di utilizzo di intercettazioni
telefoniche in processi diversi da quelli per i quali le intercettazioni
medesime sono state autorizzate.
([229])
“… in quanto incorpora un valore della personalità avente un carattere fondante
rispetto al sistema democratico voluto dal Costituente” (sentenza n. 366 del
1991, cit., 2917).
([231])
v. M. Mazziotti, Principi supremi
dell’ordinamento costituzionale e forma di Stato, cit., 309; O. Chessa, Bilanciamento ben temperato o sindacato
esterno di ragionevolezza? Note sui diritti inviolabili come parametro del
giudizio di costituzionalità, cit., 3925.
([233])
Di conseguenza, nonostante la Costituzione italiana non contenga una norma come
quella dell’art. 79, comma 3, GG, che esclude la revisione dei principi
contenuti negli articoli 1-20 sui diritti fondamentali e sui principi di
struttura della federazione, è da escludere, oltre una certa soglia, una
incidenza delle leggi di revisione costituzionale sui diritti costituzionali,
così come sono configurati attualmente dalla Costituzione (P. Grossi, Introduzione ad uno studio dei diritti
inviolabili, cit. 158 ss.). Modifiche che tocchino il “contenuto
essenziale” dei diritti sono possibili, ovviamente, per opera di un eventuale
“potere costituente”, che riesca ad affermarsi, oppure di revisioni non
consentite che ottengano effettività.
([234])
v. in particolare F. Casavola, I principi
supremi nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in Dem. dir. 1994-95, 82 ss.; nonché, M.
Mazziotti, Principi supremi
dell’ordinamento costituzionale e forma di Stato, cit., 311 ss.; L.
Carlassare, Forma di Stato e diritti
fondamentali, in Quad. cost. 1995,
35 ss.
([235])
Valga a tal riguardo l’art. II-113 del Tr.CE, che, a proposito del livello di
protezione, afferma “Nessuna disposizione della presente Carta deve essere
interpretata come limitativa o lesiva dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali riconosciuti, nel rispettivo ambito di applicazione, dal diritto
dell’Unione, dal diritto internazionale, dalle convenzioni internazionali delle
quali l’Unione o tutti gli Stati membri sono parti, in particolare la
Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali, e dalle costituzioni degli
Stati membri”.
([236])
Non va sottovalutata la circostanza che la previsione dell’art. 6.2 TUE si
ritrova anche nella Costituzione europea nell’art. I-9.3 (“I diritti
fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea di salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del
diritto dell’Unione in quanto principi generali”), e che le “tradizioni
costituzionali” sono richiamate anche nel preambolo della parte II (“La
presente Carta riafferma, nel rispetto delle competenze e dei compiti
dell’Unione e del principio di sussidiarietà, i diritti derivanti in
particolare dalle tradizioni
costituzionali e dagli obblighi internazionali comuni agli Stati membri,
dalla Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali, dalle carte sociali adottate dall’Unione e dal Consiglio
d’Europa, nonché dalla giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione
europea e da quella della Corte europea dei diritti dell’uomo”) e nell’art.
II-112, sulla portata e sull’interpretazione dei diritti (“Laddove la presente
Carta riconosca i diritti fondamentali quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati
membri, tali diritti sono interpretati in armonia con dette tradizioni”).
([237])
Art. 6.3 TUE; nonché art. I-5.1, relativo alle relazioni tra l’Unione e gli
stati membri (“L’Unione rispetta l’uguaglianza degli Stati membri davanti alla
Costituzione e la loro identità nazionale
insita nella loro struttura fondamentale, politica e costituzionale,
compreso il sistema delle autonomie locali e regionali. Rispetta le funzioni
essenziali dello Stato, in particolare le funzioni di salvaguardia
dell’integrità territoriale, di mantenimento dell’ordine pubblico e di tutela
della sicurezza nazionale”). Quanto alle interrelazioni “diritti – identità” e
ai rapporti tra i due ordinamenti, sia consentito rinviare a S. Mangiameli, La clausola di omogeneità nel Trattato
dell’Unione europea e nella Costituzione europea, in Scritti in onore di Gianni Ferrara, Torino 2005, II, 541 ss.