IDA NICOTRA

L’attribuzione ai figli del cognome paterno è retaggio di una concezione patriarcale:

le nuove Camere colgano il suggerimento della Corte per modificare la legge

(nota alla sentenza n. 61 del 2006 della Corte costituzionale)

 

Con la decisione n. 61 del 2006 il Giudice delle leggi ha avuto l’occasione di occuparsi nuovamente della questione relativa alla compatibilità, rispetto al parametro costituzionale, delle norme codicistiche che impongono l’acquisizione del cognome paterno per i figli legittimi, anche nel caso in cui si manifesti una diversa volontà dei coniugi.

I giudici costituzionali sono stati chiamati dalla Corte di Cassazione a scrutinare le norme contenute negli artt. 143 bis, 236, 237, 2° e 262, 299, 3°co del codice civile, nella parte in cui  non prevede che al figlio legittimo possa essere attribuito il cognome della madre, anche qualora vi sia il consenso, legittimamente manifestato, di entrambi i genitori. Secondo l’opinione espressa dal collegio a quo la richiamata disciplina si porrebbe in contrasto con le previsioni contenute negli artt.2, 3 e 29, 2° co. della Costituzione.

Il primo parametro, quale norma a fattispecie aperta, risulta funzionale alla salvaguardia di nuove domande di tutela dei singoli che, nel caso specifico,  includono il diritto alla identità personale, di cui il diritto al nome va inteso – secondo un consolidato orientamento della stessa giurisprudenza costituzionale (cfr. sent. nn. 13/1994 e 297/1996) -  “come primo e più immediato segno distintivo”, costituendo uno dei diritti inviolabili protetti dalla menzionata norma costituzionale. 

Rispetto alla previsione contenuta nell’art. 2 Cost., il collegio remittente, evidenza il duplice aspetto del diritto al nome che deve trovare piena tutela nell’ambito di quella formazione primaria che è la famiglia, assicurando alla madre il diritto di trasmettere il proprio cognome ai figli ed, al contempo,  consentendo a questi ultimi di acquisire segni di identificazione di entrambi i genitori, in modo da attestare  la relazione che lega il soggetto alla sua storia familiare, anche con riferimento alla linea materna.

Con riguardo all’ipotizzato contrasto con l’art. 3 Cost., secondo i giudici della Suprema Corte, l’attribuzione automatica ed indefettibile ai figli del cognome del padre  si risolverebbe in una lesione del principio di uguaglianza e di pari dignità che, nella disciplina di riforma del diritto di famiglia, ha trovato accoglimento, sia nella regolamentazione del rapporto di coniugio, sia con riferimento alla relazione genitori – figli, nella parte in cui le norme impongono ad entrambi i genitori obblighi e potestà di contenuto identico.

In ultimo, il collegio remittente si sofferma sul preteso contrasto delle disposizioni impugnate con l’art. 29 della Costituzione ed afferma che “il necessario bilanciamento tra l’esigenza di tutela dell’unità familiare e la piena realizzazione del principio di eguaglianza” non trova in alcun modo realizzazione attraverso “una norma così marcatamente discriminatoria”, tenuto anche conto della circostanza che il principio solidaristico e quello della pari dignità dei coniugi costituiscono un valido supporto per il rafforzamento dell’unità familiare.

Il giudice delle leggi ricorda che questioni pressoché identiche sono state risolte con una pronuncia di manifesta inammissibilità. In particolare con due ordinanze del 1988 (nn. 176 e 586) la Corte ebbe ad affermare che oggetto del diritto alla identità personale, sotto il profilo del diritto al nome, non è la scelta di quest’ultimo, quanto piuttosto il nome per legge attribuito, come è facilmente desumibile dalla lettura congiunta dell’art. 22 Cost. con l’art. 6 cod. civ.

Con riguardo all’interesse alla conservazione dell’unità familiare, cui è riconosciuta copertura costituzionale, venne nella stessa pronuncia precisato che siffatta esigenza sarebbe seriamente posta in discussione qualora il cognome dei figli non venisse prestabilito fin dal momento dell’atto costitutivo della famiglia. Inoltre, secondo l’opinione allora espressa dalla Consulta, il mancato riconoscimento alla madre della facoltà di trasmettere il proprio cognome ai figli legittimi e per questi di assumere anche il cognome materno non si porrebbe in contrasto con il principio di eguaglianza, in quanto si tratterebbe di “una regola radicata nel costume sociale come criterio di tutela della unità della famiglia fondata sul matrimonio”.

Con la decisione odierna la Corte Costituzionale entra nel merito della questione sottoposta al suo sindacato svolgendo una serie di considerazioni che sembrano voler indicare, al futuro legislatore, la strada per una modifica della disciplina vigente.

In primo luogo, viene fatto osservare che il lasso di tempo intercorso tra decisioni del 1988 e la vicenda odierna segna una radicale evoluzione della coscienza sociale alla cui luce il sistema di attribuzione del cognome appare “retaggio” di una concezione patriarcale della famiglia che “affonda le sue radici nel diritto di famiglia romanistica, e di una tramontata potestà maritale”, non più in sintonia con i principi ordinamentali e con il valore costituzionale dell’uguaglianza di genere.

Con riferimento a tale profilo va evidenziato un ulteriore aspetto su cui la Corte non si sofferma: l’automatica acquisizione da parte dei figli del cognome paterno rischia, in taluni casi, di compromettere proprio quella linea di continuità e quel rapporto di solidarietà tra componenti dello stesso nucleo familiare che pretenderebbe di tutelare. Invero, in un mutato contesto sociale, in cui si assiste, più frequentemente di quanto non avvenisse in passato, al fenomeno delle cd. “famiglie allargate” la carenza di una disciplina che consenta anche alla madre di trasmettere il proprio cognome ai figli, nati da unioni diverse, nega ai singoli il diritto al possesso del medesimo cognome, unico elemento, in queste ipotesi, idoneo a rendere evidente la comune appartenenza dei figli alla stessa genitrice e alla di lei famiglia. L’assenza di una disciplina che consente, almeno in questi casi, l’attribuzione ai figli del cognome di entrambi i genitori e la possibilità che il figlio naturale assuma il doppio cognome di chi lo ha riconosciuto finisce per compromettere irrimediabilmente il diritto dei fratelli ad un segno distintivo comune, quale elemento particolarmente rilevante del diritto all’identità personale e quale interesse di ogni persona alla proiezione della propria identità e riconoscibilità  parentelare sul piano sociale.

La seconda notazione evidenziata nella sentenza riguarda lo scenario internazionale e gli obblighi derivanti dal diritto convenzionale; nello specifico la Convenzione di New York del 18 aprile 1979, resa esecutiva in Italia con. l .n. 132 del 1985,  impegna gli Stati ad adottare ogni misura idonea per superare la discriminazione nei confronti della donna in tutte le questioni derivanti dal matrimonio e dai rapporti familiari, compresa la scelta del cognome dei figli.

Sul versante dell’ordinamento comunitario, poi, la Corte richiama la risoluzione n. 37 del 1978,  le raccomandazioni del Consiglio d’Europa n. 1272 del 1995 e n. 1362 del 1998, che promuovono la completa uguaglianza dei genitori nell’attribuzione del cognome dei figli, nonché un orientamento della Corte europea dei diritti dell’uomo in linea con la cancellazione di ogni misura discriminatoria basata sul sesso nella scelta del cognome.

Sebbene il giudice delle leggi sia convinto, come chiaramente emerge dal ragionamento condotto, della necessità di una rivisitazione della materia (la cui attuale regolamentazione appare ormai anacronistica) capace di assicurare una disciplina maggiormente rispondente ad un modello di famiglia adeguato ai principi costituzionali, non può non addivenire ad una decisione di inammissibilità.

Infatti, come sottolinea la stessa Corte, l’ordinanza di rimessione richiederebbe una operazione manipolativa che esorbita dai suoi poteri ed implica, piuttosto, valutazioni politiche, riservate in via esclusiva al legislatore.

Invero, la varietà di opzioni e la stessa eterogeneità che traspare anche dai numerosi disegni di legge presentati nel corso della legislatura che si è appena conclusa escludono la possibilità di scegliere la strada della pronuncia di accoglimento che determinerebbe la caducazione della disciplina denunciata ed un vuoto normativo non tollerabile.

Insomma, con la decisione odierna sembra trovare conferma l’idea che la formula dell’inammissibilità costituisca un efficace strumento a disposizione del giudice costituzionale per esercitare un potere di indirizzo nei confronti del legislatore.

 In altri termini, il giudice delle leggi, pur rilevando la violazione di principi fondamentali, si limita ad un mero accertamento del vizio della disposizione, senza, peraltro, giungere ad una vera e propria declaratoria di illegittimità e lascia al libero apprezzamento del legislatore la scelta tra una pluralità di opzioni  per la riscrittura di  una normativa che sia coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra  uomo e donna  nella famiglia e nella società.