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PASQUALE  COSTANZO

Il sistema di protezione dei diritti sociali nell’ambito dell’Unione europea*

 

Sommario: 1. Premessa. – 2. Estraneità del tema dei diritti sociali ai trattati fondativi. – 3. L’ingresso della coesione economica e sociale nel Trattati e la posizione regressiva dei diritti sociali. – 4. “La faticosa marcia dei diritti sociali” da Maastricht a Colonia. – 5. La protezione dei diritti sociali nella Carta di Nizza (in particolare, i diritti del lavoro). – 6. Segue: (in particolare, i diritti extralavorativi). – 7. I diritti sociali nel Trattato costituzionale e nel Trattato di Lisbona. – 8. Brevi considerazioni conclusive. – 9. Nota bibliografica.

 

1. Premessa.

Presentando, il 1° e 2 luglio 2008 a Bruxelles l’Agenda sociale per il medesimo anno, il Presidente della Commissione europea Manuel Barroso ha espresso il convincimento che: “La dimensione sociale dell’Europa non è mai stata importante come oggi”, rilevando inoltre come essa resti “indissociabile dalla strategia di Lisbona, adottata dall’Unione europea per stimolare la crescita e garantire posti di lavoro migliori ai cittadini europei”; per concludere che “Il successo economico apporta vantaggi sociali e il pacchetto proposto oggi dalla Commissione mira a far sì che nessuno venga dimenticato e che la prosperità dell’Europa venga condivisa da tutti”.

Una tale serie di affermazioni avrebbe potuto anche essere archiviata tra i normali auspici di un alto responsabile delle politiche comunitarie, se non fosse giunta a ridosso della delicata fase critica innescata per l’Unione europea dal referendum che, com’è noto, si è pronunciato negativamente circa la ratifica da parte dell’Irlanda del Trattato di Lisbona del dicembre 2007. Infatti, fondati o no che siano tali argomenti, tra le motivazioni del rifiuto irlandese va ricompresa anche la poca attrattività di cui l’Unione europea godrebbe in tema di protezione sociale, non diversamente, del resto, da quanto s’era già verificato con i rifiuti francese ed olandese alla ratifica del Trattato costituzionale del 2004. Così che, nel pacchetto contenuto nella nuova Agenda europea, le priorità più rilevanti riguardano non casualmente l’avvenire di bambini e giovani, l’investimento in risorse umane; la promozione di vite più lunghe e più sane, la lotta alla discriminazione, alla povertà e all’esclusione sociale, nell’evidente intento di rassicurare tutti i partners europei circa la consistenza della dimensione sociale di un’Unione europea impegnata nelle politiche di sostegno ai soggetti deboli e di attenzione verso le aspettative sociali [sulla nozione di esclusione sociale, TRUCCO, 2005, 119].

Comunque sia, la vicenda confermerebbe l’idea che ogni passo verso una maggiore integrazione dell’Europa non possa ormai che essere accompagnata da un progresso sulla strada della tutela dei diritti sociali (si ragiona di un Welfare State a livello continentale), a completamento di quel riconoscimento dei diritti di libertà che ne ha caratterizzato lo sviluppo fino alla configurazione di una corrispondente identità europea, laddove dunque non deve essere apparso sufficientemente rassicurante – per difetto o per eccesso – o scarsamente decifrabile quanto stipulato in proposito sia dal Trattato costituzionale, sia dal Trattato di Lisbona, a fronte del modello sociale al quale, a più di sessant’anni dal termine del secondo conflitto mondiale, la generalità degli Stati membri dell’Unione europea (sia quelli di più antica democrazia, sia quelli riapparsi sulla scena dopo l’implosione del blocco sovietico) appaiono tutti più o meno puntualmente ispirarsi.

Sembra però difficile sfuggire alla sensazione che la situazione venutasi a creare abbia alla sua base un grande paradosso, per cui, se può essere vero che la stagnazione dei diritti sociali, quale sta caratterizzando i Paesi dell’Unione, è almeno in parte addebitabile alle politiche di rigore imposte dalla stessa Unione per privilegiare la tenuta dell’euro e la competitività dell’economia europea nel mercato globale, è anche innegabile che sul piano sociale l’Europa non possiede un ruolo distributivo delle risorse paragonabile a quello degli Stati [sul punto anche D’ALOIA, 2002, 845], ai quali continua a competere la leva dell’imposizione fiscale e quella della contribuzione sociale, nel tempo stesso che, sul piano delle competenze, il suo ruolo regolatore si presenta piuttosto marginale.

È del resto facile constatazione che su tale piano il rapporto più stretto resti quello tra cittadini e Stati di appartenenza, identificando i primi solo nei secondi l’approdo più sicuro, mentre permane l’interesse degli ordinamenti nazionali a scaricare sull’Europa la responsabilità di ciò che si è costretti a tagliare nelle prestazioni sociali e ad attribuirsi il merito di ciò che si riesce a mantenere.

Tuttavia, in questa continua rincorsa alla legittimazione, l’Unione non ha certamente rinunciato a giocare le sue carte, e, a dispetto della sua scarsa capacità di manovra, ad additare soluzioni intese a dare testimonianza della sua vocazione sociale [ragiona di crescita della dimensione sociale dell’Unione europea, anche DELFINO, 2004, 141].

 

2. Estraneità del tema dei diritti sociali ai trattati fondativi.

L’inclusione, ad esempio, nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 2000 (c.d. Carta di Nizza) dei diritti sociali e l’insistenza, già a partire dal Trattato costituzionale, sulla configurazione dell’economia europea come “economia sociale di mercato” non costituiscono che alcuni degli esiti più recenti di una linea evolutiva a cui occorre preliminarmente dedicare una certa attenzione, se si vuol cercare di comprendere, sia pure nei limiti connaturati alla presente trattazione, l’attuale assetto del sistema di protezione dei diritti sociali nell’ambito dell’Unione europea.

L’avvio di tale linea evolutiva è senza dubbio più opaco e dimesso rispetto a quello dei diritti c.d. classici, sui quali si riverberava la luce della Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali già al momento dei Trattati fondativi. Rispetto a questi ultimi, la dimensione sociale risultava, del resto, sostanzialmente estranea, motivando il giudizio di “frigidità sociale” [MANCINI, 1988, 33] che avrebbe caratterizzato gli autori della costruzione europea.

Meno convincente ci pare invece che si debba parlare al proposito di “un mistero storico” [così ALLEGRETTI, 2004] dato dall’ apparentemente inspiegabile contraddizione tra la scarsa significatività sociale della Comunità e la forte dimensione sociale dei suoi Stati membri, poiché, come è stato efficacemente sottolineato, v’era in partenza la convinzione che i [GIUBBONI, 2005, 26] diritti sociali sarebbero stati assicurati all’interno degli ordinamenti nazionali, senza che l’integrazione europea potesse interferire sulle loro dinamiche di protezione se non accrescendone la capacità materiale di soddisfacimento da parte degli Stati membri”.

Persino sul punto specifico del miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro di quella che si definiva allora “la mano d’opera”, l’art. 117, comma 2, del Trattato di Roma testimoniava la convinzione che esso sarebbe derivato automaticamente dal funzionamento del mercato comune, che avrebbe indotto l’armonizzazione dei differenti sistemi sociali, così che l’art. 118 si limitò ad assegnare alla Commissione europea il compito di promuovere una stretta collaborazione tra gli Stati in determinati settori [in questi termini, PILIA, 2005, 62].

Tuttavia, soprattutto la constatazione che il perseguimento dei fini collegati al mercato sovranazionale tendeva ad assottigliare il margine di manovra interna degli Stati nell’accordare tutela alla dimensione sociale, indusse a rovesciare il giudizio sull’impatto della Comunità sul godimento dei relativi diritti. Ma, anche se sarebbe potuto risultare chiaro come la più razionale via d’uscita dovesse essere il potenziamento della capacità delle Istituzioni comunitarie a far fronte al problema attraverso la ricerca di un soddisfacente equilibrio tra tutela dell’efficienza del mercato e difesa dei livelli di welfare raggiunti o auspicati negli ordinamenti interni, non si ebbe quella necessaria traslazione di competenze dagli Stati alla Comunità, che ancora oggi fatica a verificarsi.

Tutta l’evoluzione della Comunità e in seguito dell’Unione appare invece costellata da iniziative spesso astrattamente considerevoli, ma di scarsa presa pratica sul problema. La stessa Corte di giustizia, protagonista assoluta dell’implementazione della tutela dei diritti di prima generazione, ha in certo modo scontato la cauta condotta degli Stati (la stessa già ricordata Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali non contiene significative previsioni in tema di diritti sociali), né in materia alcun specifico avvertimento sembra essere provenuto dalle Corti costituzionali interne.

Sostanzialmente autonomi saranno, dunque, gli sforzi degli Avvocati generali e della Corte stessa di dare risalto alla pur debole Carta sociale europea (anch’essa frutto di un accordo in seno al Consiglio d’Europa [in proposito, GOMÈZ FERNÀNDEZ, 2008]) come conseguenza della sua menzione, insieme alla Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori [su questo documento, GALANTINO, 2006, 54], nei Trattati dopo Amsterdam (precisamente nell’art. 136, comma 1, del Trattato sulla Comunità europea di Roma, e nel Preambolo del Trattato sull’Unione europea di Maastricht: [per una panoramica, MAGNO, 1998, 17]).

 

3. L’ingresso della coesione economica e sociale nel Trattati e la posizione regressiva dei diritti sociali.

Intendendo quindi fissare i principali snodi dell’azione comunitaria sul tema della protezione sociale, il primo importante riferimento può essere rinvenuto nella Conferenza di Parigi del 1972, che rappresentò un passaggio essenziale anche per altri aspetti di carattere sia economico, sia istituzionale. Fu infatti in tale occasione che si ebbe il primo allargamento della Comunità (a Gran Bretagna, Irlanda e Danimarca) e si cercò di reagire alla tempesta economica prodotta dalla decisione americana di inconvertibilità del dollaro in oro. Ma, per quanto qui più direttamente ci riguarda, di rilievo fu la messa in cantiere di un programma d’azione in tema di politica sociale per il passaggio alla seconda tappa dell’unione economica monetaria. Tale programma fu poi effettivamente approvato con la Risoluzione del 21 gennaio 1974, nella quale si impegnavano gli Stati membri ad adottare le misure necessarie per favorire l’aumento dell’occupazione e il miglioramento delle condizioni di lavoro, con una concertazione per risolvere i problemi relativi ai lavoratori migranti e alla formazione professionale. L’intento generale della Risoluzione era dunque di ridefinire la collocazione della Comunità, considerando “che i trattati che istituiscono le Comunità europee hanno conferito a queste ultime compiti rispondenti a finalità sociali”, e che “in particolare, ai sensi dell'articolo 2 del trattato che istituisce la Comunità economica europea, la [stessa] ha segnatamente il compito di promuovere uno sviluppo armonioso delle attività economiche nell’insieme della Comunità, un’espansione continua ed equilibrata, una stabilità accresciuta, un miglioramento sempre più rapido del tenore di vita”, sottolineandosi come i Capi di Stato o di governo, nella ricordata conferenza di Parigi, avessero convenuto sul fatto “che l'espansione economica non è un fine a sé stante, ma deve tradursi in un miglioramento della qualità come del tenore di vita”.

L’auspicato innalzamento del livello di protezione sociale passava tuttavia ancora una volta attraverso azioni concertate tra i vari Stati e tra questi e la Comunità, alla quale continuavano a fare difetto sia l’indicazione di obiettivi più mirati, sia una dotazione di strumenti regolativi specifici.

È in questa luce che deve dunque valutarsi il secondo snodo interessante per il nostro discorso offerto dal doppio passaggio dell’Atto Unico Europeo del 1986 e della Carta comunitaria dei diritti fondamentali sociali dei lavoratori del 1989. È proprio in questo torno di tempo che le due direttrici fondamentali della nostra materia sembrano acquisire una fisionomia ben definita anche a livello comunitario, attraverso la distinzione tra una politica degli obiettivi [su tale particolare dimensione, AZZENA, 1998, 226] ed una politica dei diritti, certamente complementari, ma rispondenti ad approcci in buona misura autonomi.

Con l’Atto Unico Europeo, si realizzava per la prima volta una sostanziale correzione di rotta al livello del diritto originario della Comunità nell’ambito della politica sociale, fino ad allora solo blandamente disciplinata nel Trattato di Roma: con l’introduzione di una politica comunitaria di coesione economica e sociale [su tale nozione, CAMPIGLIO e TIMPANO, 2001, 395; BALBONI, 2001, 19; BUZZACCHI, 2001, 59; CREMONINI, 2006, 435] si tendeva finalmente a controbilanciare gli effetti della realizzazione del mercato interno sugli Stati membri meno sviluppati, oltreché a ridurre il divario tra le diverse regioni europee. Da un lato, il nuovo art. 118 A del Trattato CE autorizzava il Consiglio ad adottare a maggioranza qualificata, nel quadro della procedura di cooperazione, prescrizioni minime al fine di promuovere “il miglioramento (…) dell’ambiente di lavoro, per tutelare la sicurezza e la salute dei lavoratori”; dall’altro lato, l’art. 118 B, sulla scia delle precedenti attribuzioni, assegnava alla Commissione il compito di sviluppare il dialogo sociale a livello europeo.

Sul piano invece del riconoscimento dei diritti sociali, se era possibile registrare un grande attivismo da parte delle Istituzioni comunitarie più sensibili al problema, permaneva la tradizionale prudenza degli Stati e quindi del Consiglio verso la sua effettiva presa in carico. Non è del resto un caso se la prima autorevole sollecitazione fosse contenuta nel progetto di trattato “Spinelli”, adottato dal Parlamento europeo il 14 febbraio1984, il cui art. 4, comma 3, assegnava all’Unione un termine di cinque anni per deliberare sia la sua adesione ai Patti di New York, sia l’adozione di una propria Dichiarazione dei diritti fondamentali, comprensiva dei diritti sociali, come l’adesione ad entrambi gli appena citati Patti lasciava chiaramente intendere. In esplicita attuazione di questo mandato, il 12 aprile 1989, il Parlamento europeo adottava infatti una Dichiarazione dei diritti e delle libertà fondamentali relativa soprattutto ai diritti civili e politici già riconosciuti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ma contenente già anche alcune previsioni di natura economica e sociale, laddove però, per il completamento del catalogo nella parte ritenuta più delicata, sarebbe stato il Consiglio a deliberare, il 9 dicembre successivo, la già menzionata Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori. D’altro canto, se la mancata presa di vigore ha accomunato poi in un unico destino entrambi i testi, fu per la Carta comunitaria che la vicenda genetica si rivelò assai più tormentata e complessa, collocandosi in questo stesso clima anche l’opting-out inglese nei suoi confronti.

 

4. “La faticosa marcia dei diritti sociali” da Maastricht a Colonia.

La posizione contestativa inglese non si appuntava in realtà soltanto sul riconoscimento di diritti sociali a livello comunitario (posizione destinata, com’è noto, a durare fino ai giorni nostri), ma, almeno in quella prima metà degli anni ’90 dello scorso secolo, sulla più generale attribuzione di competenze in materia di politiche sociali alla Comunità, tanto che a Maastricht si dovette far rifluire una parte del capitolo sociale destinato al Trattato in un Protocollo allegato (il n. 14 “Accordo sulla politica sociale”), rispetto al quale il Regno Unito decise di chiamarsi fuori. Altrettanto significativamente, veniva dallo stesso Regno Unito contestato (anche se questa volta senza successo nella causa C-84/94, Regno Unito c. Consiglio) che il già citato art. 118 A del Trattato CE potesse costituire la base giuridica per attribuire al Consiglio scelte di politica sociale attinenti all’organizzazione dell’orario di lavoro.

Pur tuttavia, il Trattato di Maastricht rappresentò senz’altro un ulteriore snodo di estremo rilievo, dato che le competenze comunitarie nella politica sociale si accrebbero sensibilmente, mentre, dal canto suo, l’accennato Protocollo n. 14 estendeva la procedura del voto del Consiglio a maggioranza qualificata nella materia del miglioramento dell'ambiente e delle condizioni di lavoro, dell’informazione e della consultazione dei lavoratori, della parità di opportunità per gli uomini e le donne sul mercato del lavoro e della parità di trattamento quanto all’occupazione, nonché dell’integrazione delle persone emarginate dal mercato del lavoro. Peraltro, assente sul tema del riconoscimento dei diritti sociali, pur contenendo notevoli riferimenti all’istruzione e alla sanità (articoli 16 e 129), il Trattato denunciava in modo clamoroso la diversità di approccio rispetto ai diritti di libertà che in esso venivano invece presi in diretta considerazione tramite il richiamo della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (art. F, comma 2).

E se, successivamente ad Amsterdam [ma per contrastanti interpretazioni del relativo Trattato, cfr. BARBERA, 2000, 101; per la medesima problematica con riferimento anche Maastricht, TREU, 2001, 307], come già accennato, trovarono finalmente collocazione nei Trattati sia la Carta sociale europea, sia la Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori, un tale ingresso dei diritti sociali nel diritto originario dell’Unione avvenne, come esattamente rilevato [GIUBBONI, 2005, 31], sulla linea più discreta delle “linee direttive per l’attività della Comunità e degli Stati membri”, ossia piuttosto come interessi sociali oggettivi, sia pure di rango fondamentale, che non come posizioni soggettive direttamente azionabili. Inoltre, e più in generale, appariva sostanzialmente disattesa l’ennesima sollecitazione del Parlamento europeo (espressa nella Risoluzione del 17 settembre 1996), non solo a porre in essere le procedure per l’adesione dell’Unione alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ma a completare la panoplia dei diritti, aderendo anche alla Carta sociale del Consiglio d'Europa.

Sarà, dunque dal Consiglio europeo di Colonia del 3-4 giugno 1999, che arriverà una più puntuale risposta a tale sollecitazione. Nelle Conclusioni della Presidenza (allegato IV) si rileva infatti come “Allo stato attuale dello sviluppo dell'Unione [sia] necessario elaborare una Carta di tali diritti al fine di sancirne in modo visibile l'importanza capitale e la portata per i cittadini dell'Unione”, precisandosi come tra tali diritti debbano essere ricompresi, oltre ai diritti di libertà e uguaglianza, e ai diritti procedurali fondamentali garantiti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi generali del diritto comunitario, anche “i diritti economici e sociali quali sono enunciati nella Carta sociale europea e nella Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori (articolo 136 TCE), nella misura in cui essi non sono unicamente a fondamento di obiettivi per l’azione dell'Unione”.

 

5. La protezione dei diritti sociali nella Carta di Nizza (in particolare, i diritti del lavoro).

Si perviene così all’ultimo degli snodi di primaria importanza nell’evoluzione della protezione dei diritti sociali nell’ordinamento dell’Unione europea. Ultimo, ma ad oggi non superato traguardo, poiché se è con l’approvazione della Carta di Nizza che si realizza il più avanzato tentativo di costituzionalizzazione dei diritti sociali [sulla genesi delle relative previsioni, DE SCHUTTER, 2003, 192], è questo stesso documento a subire, com’è noto, peripezie istituzionali tali da impedire ancora attualmente una previsione ragionevole della sua entrata in vigore.

La circostanza costringe dunque a ragionare qui di diritti sociali in maniera piuttosto avulsa dalla realtà effettuale dell’Unione, nel cui ambito una certa concretezza sembra caratterizzare solo la predisposizione di politiche sociali, sia pure nell’ambito delle peculiari coordinate che tenteremo di illustrare a conclusione del discorso.

Crediamo comunque che costituisca un dato inoppugnabile il fatto che, nonostante un certo margine di vaghezza se non di oggettiva ambiguità di talune previsioni, i diritti sociali si emancipino dalla condizione di Reflexrechte in cui risultano piegati quando siano esclusivamente condizionati all’attuazione delle politiche sociali [sulla condizione di minorità dei diritti sociali quantomeno prima di Nizza, richiama particolarmente l’attenzione LUCIANI, 2000, 378], assumendo, almeno alcuni di essi, nella Carta di Nizza, quanto a struttura e valore, la stessa fisionomia delle libertà classiche [in termini analoghi, BRONZINI, 2003, 126], alle quali sono inoltre collegati dal principio d’indivisibilità, sulla cui base i diritti, a prescindere dalle loro origini e dalla loro morfologia, sono tutti identicamente necessari e interdipendenti tra loro per il raggiungimento dei valori di fondo della dignità, della libertà e dell’eguaglianza dell’uomo.

Ma, prima di tracciare qualche altra notazione di carattere sistematico, non sembra inutile presentare il contenuto di questa parte della Carta di Nizza, che nella sostanza riassume ed organizza, non senza qualche profilo innovativo, l’acquis communautaire formatosi sia per effetto dell’hard law rappresentato dai trattati e dal soft law delineato dalle varie Carte (cui non sono estranee anche importanti Convenzioni dell’Organizzazione internazionale del lavoro), sia grazie ad interventi della Corte di giustizia, che, sia pure facendo perno sul principio di non discriminazione o mostrando di offrire tutela a determinate libertà economiche, ha in non rari casi offerto protezione a veri e propri diritti sociali [identifica comunque una concezione strumentale di tale protezione, SALMONI, 2005, 94].

Per questa stessa ragione, la protezione sociale disegnata dalla Carta interessa un campo materiale assai esteso che va al di là delle più specifiche tematiche legate al diritto del lavoro, alla sicurezza sociale e ai beni e ai servizi d’interesse generale, per coinvolgere anche quelle connesse alla vita familiare, all’educazione, alle relazioni di genere, alle politiche contro l’esclusione sociale e alla tutela delle categorie deboli e disabili.

Assai schematicamente, può rilevarsi come sia presente un primo fascio di diritti che ruotano intorno al soggetto già occupato in un’attività lavorativa, ed un secondo fascio che prescinde perlopiù invece da tale condizione ed anzi in certi casi addirittura presuppone la mancanza e l’inabilità al lavoro.

Appartengono al primo gruppo, soprattutto le situazioni soggettive contemplate sotto lo specifico Capo della “Solidarietà” [per commenti di segno diverso, DEL PUNTA, 2001, 335; SALAZAR, 2001, 237; SCIARRA, 2001, 391; GAMBINO, 2003, 70 GIUBBONI, 2003, 325; CARLETTI, 2005, 258; COSTANZO, 2008, 392] in gran parte già consacrate in previsioni dell’ordinamento dell’Unione [per la ricostruzione del principio solidaristico nel diritto positivo dell’Unione europea, MANFRELLOTTI, 2002, 56]. Così è, esemplarmente, per la previsione recata dall’art. 27, concernente il diritto all’informazione e alla consultazione dei lavoratori, dato che troviamo già negli articoli 138 e 139 del Trattato CE la presa in considerazione del metodo della consultazione e del dialogo tra le parti sociali come strumento preferenziale di conduzione delle relazioni industriali. Una particolare attenzione è dedicata anche agli accordi collettivi che, nel successivo art. 28 della Carta sostanziano il diritto di negoziazione, accanto al diritto di azioni collettive e di sciopero. Con simili riconoscimenti, dunque, la libertà sindacale, nelle sue varie declinazioni, entra a pieno titolo nell’ordinamento dell’Unione europea, potendo ricevere, da parte delle Corti comunitarie, la medesima tutela accordata finora ad altri diritti di natura economica.

La protezione individuale del lavoratore è invece oggetto dell’art. 29, riguardante il diritto ad accedere ad un servizio gratuito di collocamento, sicché la prevista gratuità del servizio impone di ritenere che prevalentemente, se non esclusivamente, i relativi oneri debbano essere sopportati dalla mano pubblica. Completano il catalogo degli strumenti giuridici di protezione della vicenda lavorativa individuale il diritto alla tutela in caso di licenziamento ingiustificato di cui all’art. 30, che va raccordato all’art. 33, che tutela contro i licenziamenti motivati dallo stato di gravidanza; il diritto a condizioni di lavoro giuste ed eque di cui all’art. 31, che all’evidenza rinviene le sue fonti ispiratrici negli articoli 136 e 137 del Trattato CE. Ma, mentre la sicurezza sul lavoro, la protezione della salute contro lavori e ambienti insalubri, e la tutela della dignità del lavoratore di cui ragiona la disposizione devono essere visti come criteri orientatori delle politiche sociali, non v’è dubbio che veri e propri diritti soggettivi siano costituti dalle previsioni concernenti il limite massimo della giornata lavorativa, risultato storico delle lotte operaie di parecchie generazioni, le pause di riposo giornaliere e settimanali e il congedo annuale retribuito.

In questo stesso ordine di idee, rileva ancora il divieto del lavoro minorile di cui all’art. 32, con cui si coniuga la protezione dei giovani sul luogo di lavoro, che si differenzia da quella normalmente pretesa per il lavoratore adulto, di cui all’articolo precedente, dovendosi aver riguardo, nella particolare fattispecie, anche alle esigenze dell’età evolutiva sotto il profilo fisico, psichico, morale e sociale.

 

6. Segue: (in particolare, i diritti extralavorativi).

Prima di scorrere velocemente il secondo gruppo di diritti, una situazione, per così dire, intermedia, può essere individuata nelle previsioni intese ad offrire protezione sia alla vita familiare, sia alla vita professionale, che sono oggetto di congiunta considerazione nell’art. 33 della Carta. L’abbinamento non è casuale, essendo noto come il tipo e le condizioni di lavoro non esauriscano i loro effetti nei margini temporali della prestazione lavorativa, ma si riflettano decisamente sulla qualità dell’intera vita individuale, relazionale e familiare, costringendo talvolta a non indolori scelte a favore del lavoro o della vita privata. Questo problema tocca particolarmente le donne, le cui aspirazioni lavorative sono molto spesso posposte alla loro naturale funzione materna. Ecco perché la disposizione offre, come già accennato, in primo luogo, tutela alla lavoratrice madre, proteggendola contro il licenziamento motivato dall’attesa di prole; e, quindi, garantendo il diritto ad un periodo di congedo retribuito di maternità e parentale per l’eventualità della nascita di un figlio (ipotesi a cui viene ragguagliata l’adozione).

In generale, i rischi collegati alla cessazione per qualsiasi motivo dell’attività lavorativa, con conseguente inaridimento del reddito personale e familiare, motivano poi il diritto di accesso alla sicurezza sociale e, per la prima volta in assoluto, ai servizi sociali [su tale tema, più in generale, MENICHETTI, 2003, 79; anche per i profili organizzativi di tipo professionale, gli scritti contenuti in COSTANZO e MORDEGLIA, 2005]. La relativa previsione è contenuta nell’art. 34, che offre una griglia piuttosto complessa di disposizioni, concernendo il regime di sicurezza sociale delle persone occupate, ma istituendo anche un quadro di tutela generale contro la povertà e l’esclusione sociale.

Il rinvio in tale disposizione alle regole stabilite dall’Unione europea e dalle legislazioni e prassi nazionali avverte tuttavia della problematicità della tutela, essendo noto il dissidio tra le linee ispiratrici delle politiche in tema di esclusione sociale a livello comunitario (più avanzate perché gravitanti sul piano degli obiettivi astratti: si deve al Trattato di Nizza l’attuale formulazione dell’art. 137 del Trattato CE) e quelle degli Stati membri (più restrittive perché più a ridosso dei concreti aspetti finanziari).

Ricordiamo quindi il diritto di accesso alla prevenzione e alla cure sanitarie, di cui all’art. 35 della Carta, dove – è giocoforza sottolinearlo – si riscontra un grado di “fluidità” ancor maggiore, dal momento che il consueto doppio rinvio all’Unione europea e agli Stati membri vi è concepito come attribuzione di compiti alle “politiche e alle azioni” della prima, e solo per i secondi si parla di “legislazioni e prassi nazionali”. Non sono mancate però – prima e dopo la Carta di Nizza – in proposito, sia pure astrette nella trama delle disposizioni economiche del trattato, rilevanti prese di posizione nella giurisprudenza comunitaria, come in tema di rimborso delle spese di cura autorizzate e sostenute in uno Stato diverso da quello del soggetto curato; o, ancora, sull’effettiva necessità di usufruire di cure in altro Stato (esemplarmente i casi C-120/95, Decker; C-158/96, Kohll, C-56/01, Inizan, C-8/02, Leichtle).

Ancor più sfuocato, se così si può dire, appare il ruolo dell’Unione europea nell’art. 36, concernente l’accesso ai servizi d’interesse economico generale. Si parla infatti qui semplicemente, come, del resto, sovente in questo genere di disposizioni concernenti i diritti sociali, di “riconoscimento e di rispetto”. Ma la circostanza crea in questo caso qualche maggiore perplessità in quanto la vocazione di detti servizi è quella di garantire anche esigenze sociali, pur in un quadro di concorrenza e libera prestazione dei servizi stessi, purché, come precisa l’art. 86, comma 2, del Trattato CE, ciò non osti “all’adempimento, in linea di diritto e di fatto” della “specifica missione loro affidata”. Comunque sia, non si può non sottolineare l’intento dei redattori della Carta di dare risalto, proprio in vista della tutela di bisogni non sempre perfettamente monetizzabili a discapito della qualità della vita dei consociati e soprattutto delle fasce più deboli, all’esigenza che un determinato servizio possa essere reso anche in un regime sottratto alle pure logiche del profitto e del mercato. E qui il pensiero non può non correre anche alla nozione di “servizio universale” di pretto conio comunitario, che intende definire un insieme di esigenze di interesse generale cui devono essere assoggettate, nell’intera Comunità, talune attività che toccano la qualità della vita e il godimento stesso dei diritti fondamentali. Valga l’esempio delle telecomunicazioni o delle poste, dove l’assoggettamento al servizio universale produce precisi obblighi per gli operatori del mercato di garantire a tutti e dappertutto l’accesso a determinate prestazioni essenziali, di qualità e a prezzi ragionevoli.

Concludiamo questa rapida e di necessità imperfetta disamina, citando l’art. 25 della Carta che considera i diritti delle persone anziane, innovando rispetto sia alla Carta sociale europea del 1961, sia alla Carta comunitaria del 1989, che aveva a cuore essenzialmente il lavoratore anziano, e dettando principi strettamente collegati con il rispetto della dignità, intesi a promuovere forme di solidarietà e di tutela dell’anziano, a riconoscerne il peculiare contributo d’esperienza alle dinamiche sociali e culturali, e a scongiurarne, in rapporto diretto con l’art. 21, comma 1 (che vieta discriminazioni in ragione dell’età), l’esclusione dal novero dei cittadini pleno iure. Analogamente, l’art. 26 si preoccupa dell’integrazione sociale delle persone disabili, alle quali è riconosciuto un diritto ad una vita autonoma al fine di attenuare la situazione di obiettiva discriminazione e di esistenza al margine della vita sociale e professionale in cui versano a causa della loro condizione. In entrambe queste previsioni è peraltro difficile ragionare di diritti soggettivi veri e propri in quanto è al legislatore comunitario e ai legislatori nazionali che resta affidato il compito di evitare che non si resti soltanto al livello delle “buone intenzioni”.

 

7. I diritti sociali nel Trattato costituzionale e nel Trattato di Lisbona.

Se, come si è anticipato, il discorso sui diritti sociali nell’ambito dell’Unione europea registra la battuta di arresto legata alle sorti della Carta di Nizza, da ciò non può però trarsi un giudizio completamente negativo circa la protezione di cui alcuni di tali diritti fruiscono nell’ambito delle politiche sociali dell’Unione.

A quest’ultimo punto occorrerà dunque dedicare ora la nostra attenzione, non prima però di avere accennato alle novità di cui si sono fatti portatori dapprima il Trattato costituzionale e successivamente il Trattato di Lisbona.

Con riferimento al primo Trattato [sul tema in generale, RUIZ-RICO RUIZ, 2006, 107; BRONZINI, 2003, 174; PINELLI, 2004, 477; BANO, 2005, 821; TIRABOSCHI, 2005, 893; MUTARELLI, 2007, 619], è stato sottolineato come il suo avvio non sia stato particolarmente entusiasmante per le sorti dell’Europa sociale [tra gli altri, LUCARELLI, 2003, 177], e come, solo nel corso dell’elaborazione successiva, abbia avuto modo di lavorare uno specifico gruppo sull’“Europa sociale”, al quale si deve un importante documento (“Relazione finale del Gruppo XI ‘Europa sociale’”), nel quale è stato proposto il riconoscimento nei primissimi articoli del progetto di Trattato costituzionale degli obiettivi di rilevanza sociale [su tali svolgimenti, FERIGO, 2005, 1543]. Il documento ha peraltro ritenuto adeguata l’attuale distribuzione di competenze tra Unione e Stati nella materia sociale, affermando la sola necessità di rafforzare la portata dell’articolo 152 del Trattato CE in materia di protezione della salute, per rispondere in maniera adeguata alle questioni transnazionali (per esempio: minacce transfrontaliere, malattie trasmissibili, bioterrorismo), mantenendo però la competenza esclusiva in materia di organizzazione dei singoli sistemi sanitari in capo agli Stati membri. Il documento ha anche auspicato il definitivo passaggio nella materia della politica sociale dall’unanimità alla codecisione con voto a maggioranza qualificata. Non può dunque non notarsi nel complesso delle raccomandazioni del Gruppo un certo conservatorismo dello status quo in materia sociale e il tradizionale attaccamento degli Stati alle loro competenze in materia, collegato anche alle preoccupazioni delle organizzazioni sindacali, assai attive nell’ambito del Gruppo, di vedere esautorato il ruolo di cui godono a livello nazionale [in generale sul ruolo delle c.d. parti sociali a livello comunitario, BROWN, 2001, 363; MEROLLA, 2003, 927].

Comunque sia, nel testo finale del Trattato gli elementi di novità risultano in effetti costituiti da una maggiore considerazione della materia sociale tra gli obiettivi dell’Unione: tra essi, troviamo infatti enunciati lo sviluppo sostenibile basato su una crescita economica equilibrata e la stabilità dei prezzi, l’economia sociale di mercato fortemente competitiva che mira alla piena occupazione e al progresso sociale, la lotta all’esclusione sociale e alle discriminazioni, la promozione della giustizia e la protezione sociale, la parità tra uomini e donne, la solidarietà tra generazioni e la tutela dei diritti del minore (art. I-3, par. 3).

Sul versante delle competenze, la politica sociale è ricompresa tra le competenze concorrenti, a fronte della tutela della salute umana, espressamente inserita tra le azioni di sostegno, sicché, mentre la prima rimane sostanzialmente invariata quanto a contenuti e spazi di manovra delle istituzioni europee (art. da III-98 a III-102), la seconda è maggiormente specificata e rafforzata (art. III-174).

Di primo rilievo è inoltre il disposto (art. I-15) che stabilisce il principio del coordinamento utilizzabile per raccordare le politiche monetarie a quelle economiche e sociali (come suggerito dal già ricordato Gruppo di lavoro per l’Europa sociale). Alla conferma poi del principio del coordinamento delle politiche dell’occupazione, che, a partire da Amsterdam, ha costituito la base normativa essenziale ai fini dell’elaborazione delle politiche e strategie comunitarie nel settore, si aggiunge la possibilità per l’Unione di procedere analogamente ad assicurare il coordinamento delle politiche sociali degli Stati membri, additando quindi anche in tal caso, sia pure in via facoltativa, la strada del “metodo aperto di coordinamento (OMC: open method of coordination, valorizzato soprattutto a partire dal Consiglio europeo di Lisbona del 23-24 marzo 2000 [tra gli altri, PERONE, 2006, 20]) come la strategia di elezione per andare verso un’integrazione più stretta nel settore [in proposito, OLIVELLI, 2002, 313; SCIARRA, 2004, 288; MASSA, 2006, 30].

Non è inutile spendere pertanto qualche parola su tale meccanismo regolativo, che, in seno all’Unione europea, esprime la tendenza degli Stati ad opporsi ad interventi autoritativi dell’Unione stessa nell’ambito della politica sociale, consentendo per converso un affievolimento pilotato della riserva esclusiva agli Stati di determinati settori come appunto l’inclusione sociale e la sanità. Per queste stesse ragioni, è ragionevole considerare l’OMC come una fase di transizione nel riequilibrio delle competenze tra Unione e Stati, certamente vantaggioso quando si tratti di rimediare all’impraticabilità dell’intervento comunitario in senso proprio, ma innegabilmente debole nella misura in cui non può contare su strumenti coattivi per il raggiungimento dei suoi scopi. Così che non sorprende che, laddove si è voluto agire con maggiore incisività, si sono rinvenute strategie maggiormente vincolanti: è il caso del diritto del lavoro nel cui ambito attualmente si preferisce puntare sulla c.d. flexicurity [sul punto, BRONZINI, 2008, 100], ossia di un’azione comunitaria basate su “Orientamenti” adottati dal Consiglio, che trovano la loro base giuridica direttamente nell’art. 128 Trattato CE, e che tengono inoltre conto della politica di coesione, secondo le tre dimensioni della strategia di Lisbona (economica, sociale e ambientale) così da sfruttare meglio le sinergie in un contesto generale di sviluppo sostenibile.

Sul piano infine della protezione specifica dei diritti sociali, il fatto di assoluto rilievo è dato dal già riferito inserimento nella seconda parte del Trattato della Carta di Nizza, dei cui principali contenuti s’è poc’anzi dato conto. Anche dell’ostilità dell’atteggiamento inglese a tale inserimento s’è già fatta parola: qui può ancora precisarsi come il Regno Unito sia riuscito ad ottenere che le disposizioni della Carta recanti principi potessero essere invocate davanti a un giudice solo ai fini dell’interpretazione e del controllo della legalità degli atti comunitari o nazionali di esecuzione di atti comunitari, e che i giudici dovessero tenere nel debito conto le spiegazioni elaborate dal Presidium della Convenzione al fine di fornire orientamenti per l’interpretazione della Carta stessa [in senso , ovviamente, critico, tra gli altri, AZZARITI, 2003, 332].

In altri termini, entrambe le previsioni avrebbero dovuto avere, nell’intendimento di Sua Maestà Britannica, l’effetto di depotenziare la portata dei diritti sociali individuati dalla Carta di Nizza, anche se è stato persuasivamente fatta notare la loro scarsa efficacia a fronte dell’ontologica autonomia interpretativa dei giudici, per non dire che, se una pretesa individuale è configurata espressamente come diritto, parrebbe difficile operarne una declassificazione. Come dare torto dunque al Parlamento europeo che ha stimato le clausole inglese “di scarso rilievo giuridico”?

Resta il fatto che l’atteggiamento inglese ha certamente corrisposto alla mancanza di accordo tra i partners europei sulla portata – e forse sull’esistenza stessa di diritti sociali veri e propri –, la cui attivazione immediata e diretta è stata comunque ritenuta da alcuni un ostacolo alle scelte politiche del legislatore interno ed insostenibile soprattutto dal punto di vista economico. Questo stesso genere di preoccupazioni è stato, del resto, alla base del più generale opting out dalla Carta manifestato da Gran Bretagna e Polonia in sede di stipula del Trattato di Lisbona.

Questa osservazione ci offre il destro per portare il discorso anche su tale Trattato, avvertendo però che, se una certa attenzione è stata riservata al Trattato costituzionale, qui saranno necessari solo pochi flash, dato che, non solo sul tema che ci riguarda, ma anche su tanti altri aspetti, a Lisbona ci si è sostanzialmente limitati a trapiantare le disposizioni del Trattato costituzionale.

Da questo punto di vista, se risulta che, nel Trattato sul funzionamento dell’Unione, all’art. 9, viene enunciato quanto già presente nel Trattato costituzionale (art. III-117) per cui “Nella definizione e nell'attuazione delle sue politiche e azioni, l’Unione tiene conto delle esigenze connesse con la promozione di un elevato livello di occupazione, la garanzia di un’adeguata protezione sociale, la lotta contro l'esclusione sociale e un elevato livello di istruzione, formazione e tutela della salute umana”, occorre però sottolinearne l’impatto in un sistema che dovrebbe vedere, accanto all’eliminazione dei pilastri, la rivalutazione del ruolo del Parlamento europeo e dei Parlamenti nazionali, organi tradizionalmente più sensibili alla tematica della protezione sociale, così da rendere immaginabile un maggior riequilibrio tra gli obiettivi di politica economica e quelli di politica sociale. Nella stessa direzione può ancora essere riletto il permanente principio della coesione economica e sociale quale contrappeso e ammortizzatore della liberalizzazione dei mercati.

A proposito della Carta di Nizza, s’è anche già accennato al fatto che il Trattato di Lisbona prevede che essa acquisisca “lo stesso valore giuridico dei trattati” (art. 6, n. 1, TUE riveduto). Può ancora aggiungersi con riferimento però all’annunciata adesione dell’Unione come tale alla CEDU, che, se tale circostanza non sembra suscettibile, dato il sostanziale disinteresse della Convenzione al tema dei diritti sociali, di dar luogo ad un’articolata dialettica tra tutte le Corti quale potrà verosimilmente verificarsi per i diritti di prima generazione, non può tuttavia far sicuramente escludere un qualche ruolo collaterale della Corte di Strasburgo, dato che anche tale Corte non ha esitato talvolta (ad esempio: sentenza James del 21 febbraio 1986) ad affermare la legittimità di restrizioni alla proprietà finalizzate a scopi di “giustizia sociale” discrezionalmente fissate dagli Stati membri, o ad includere nella garanzia della proprietà anche la garanzia di diritti a prestazioni previdenziali e assistenziali (ad esempio: sentenze Feldbrugge e Deumeland, entrambe del 29 maggio 1986).

 

8. Brevi considerazioni conclusive.

Concludendo con qualche rapida considerazione di ordine generale il nostro discorso, che – non ce lo nascondiamo – s’è limitato a delibare le principali problematiche dell’argomento propostoci, riteniamo opportuno richiamare l’attenzione sul fatto che al processo di globalizzazione, all’imporsi di un’economia sempre più “aperta” e al revival sempre più forte di una regolazione in senso liberistico della società, sta corrispondendo la perdita crescente del senso di solidarietà collettiva e dell’eguaglianza sostanziale.

Ciò impone senza dubbio l’adozione di ottiche inedite attraverso le quali traguardare i diritti sociali che di tali valori costituiscono la più compiuta espressione [sull’insufficienza delle sole politiche sociali, GRANDI, 2007, 1024) Ma lo sforzo in tal senso non può più essere all’evidenza sostenuto dai singoli Stati, entità divenute sempre più piccole e impotenti di fronte alla mondializzazione dell’economia. In questo quadro, infatti, la manutenzione ed anche il recupero dei diritti sociali non può che essere tentato e sostenuto da un’entità più grande e maggiormente attrezzata quale è appunto l’Unione europea.

Per legittimarsi in tale direzione, l’Unione ha tuttavia la necessità di individuare nella garanzia dei diritti sociali una base giuridica di ordine costituzionale, così da porre mano alla definizione di un modello sociale europeo [si ricordi la definizione datane al Consiglio europeo di Nizza del 20 dicembre 2000 come “contraddistinto da un legame indissociabile tra prestazione economica e progresso sociale”; su questa tematica, tra gli altri, BRONZINI, 2003, 174] autonomo rispetto alle politiche di alleati anche potenti o ai condizionamenti degli organismi finanziari sovranazionali. Com’è avvenuto per i diritti più classici, nei cui confronti le tradizioni costituzionali degli Stati membri sono stati elevati a principi generali dell’ordinamento comunitario, così dovrebbe accadere per i diritti sociali, la cui protezione rinverrebbe nella tradizione tutta europea della solidarietà sociale e, più esplicitamente, anche nella predicabilità di “doveri comunitari”, un formidabile fattore incentivante.

L’elevazione, inoltre, a livello di diritto originario dell’Unione europea della Carta di Nizza permetterebbe alla Corte di giustizia di disporre degli strumenti giuridici per effettuare i bilanciamenti necessari tra competitività mondiale dell’Unione e livello qualitativo della vita di tutti i suoi cittadini, evitando, tra l’altro, l’elaborazione di parametri maggiormente disputabili (come, esemplarmente, nel caso C-144/04, Mangold; ma si è accennato anche all’attitudine della Corte a fare strumentalmente, ma anche paradossalmente, appello al principio di non discriminazione e alle c.d. libertà fondamentali del Trattato: come nei casi C-117/01, K.B.; C-342/01, Merino Gomez; C-173/99, BECTU; 1/72, Frilli; ma altri ancora se ne potrebbero citare).

Poiché finalmente non risponde a criteri rigorosamente democratici che, alle decisioni di fondo si applichi soltanto o decisivamente la sfera giurisprudenziale, spettando piuttosto all’apparato di governo comunitario di esprimere le corrispondenti scelte, in rapporto dialettico con le istituzioni tecnocratiche preposte alla direzione della politica monetaria (che attualmente non paiono trovano nelle istituzioni governanti europee interlocutori sufficientemente stabili e “costituzionalmente” attendibili), è verso il perfezionamento della “forma” dell’Unione, mediante il rafforzamento dell’integrazione favorito da un’organica e consapevole protezione dei diritti sociali, che parrebbe particolarmente necessario orientarsi.

 

9. Nota bibliografica.

 

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* Relazione alle Primeras Jornadas Internacionales de Justicia Constitucional (Brasil-Espana-Italia), Belém do Parà (Brasil), 25 e 26 de agosto – Verano 2008.