Consulta OnLine -Tribunale di Catanzaro, 3 marzo 1949

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TRIBUNALE CATANZARO, 3 marzo 1949

Groppa Presidente – Mazzotta Estensore. – ScaliseViscomi

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

(Omissis). – Diritto: La controversia verte circa la legittimità costituzionale dei decreti 26 luglio 1944 e 4 giugno 1945 del Ministro dell’agricoltura e foreste; del secondo comma dell’art. 4 del D.L.P. 22 giugno 1946, n. 44, e dell’art. 18 della legge 18 agosto 1948, n. 1140.

E’ pregiudiziale accertare se l’ Autorità giudiziaria abbia giurisdizione o meno sulla controversia in oggetto.

La Costituzione in vigore ha creato il nuovo istituto della Corte costituzionale. L’art. 134 della Costituzione statuisce: « La Corte costituzionale giudica:

sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge dello Stato e delle Regioni;

sui conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato e su quelli tra Stato e Regione e tra le Regioni;

sulle accuse promosse contro il Presidente della Repubblica ed i Ministri a norma della Costituzione ».

La VII disposizione transitoria della Costituzione contiene la seguente norma: « Fino a quando non entri in funzione la Corte costituzionale la decisione delle controversie indicate nell’art. 134 ha luogo nelle forme e nei limiti delle norme preesistenti all’entrata in vigore della Costituzione ».

Questa norma non può non importare la giurisdizione in via transitoria dell’Autorità giudiziaria sulle controversie relative alle legittimità costituzionale delle leggi per i seguenti motivi:

La norma è immediatamente preceduta nella stessa VII disposizione transitoria da altra riguardante la Magistratura ordinaria (ordinamento giudiziario). Le due norme quindi devono ritenersi tra loro logicamente connesse. E questa connessione in tanto sussiste in quanto si ritiene che la norma in esame riguardi come la precedente esclusivamente la Magistratura ordinaria.

L’oggetto della norma è « la decisione delle controversie indicate nell’art. 134 », la decisione cioè delle sole controversie, che costituiscono  la prima ipotesi prevista nel detto articolo e che riguardano la legittimità costituzionale delle leggi. Solo queste controversie infatti si possono intendere richiamate dalla norma in esame perché solo queste sono indicate nell’art. 134 con il termine « controversie ». Le altre materie invece che costituiscono oggetto del giudizio della Corte costituzionale, previste nella seconda e terza ipotesi, sono indicate con i termini « conflitti » ed « accuse ». Inoltre il termine « controversia » ha nel linguaggio tecnico-giuridico un suo proprio significato e quanto è usato in un testo di legge devesi presumere che sia stato usato nel significato tecnico suo proprio, specie quando il testo che lo contiene è, come nel caso, la Carta costituzionale, la legge suprema dello Stato.

Risulterebbe quindi usato impropriamente se con esso la norma in esame avesse voluto indicare anche le questioni relative alla attribuzione dei poteri perché le stesse hanno altro termine tecnico loro proprio, quello di « conflitti » mentre non poteva essere usato per indicare anche le « accuse contro il Presidente della Repubblica ed i Ministri » perché le medesime non rientrano nel concetto giuridico di « controversia ». La controversia presuppone la pretesa lesione di un diritto ed un giudizio di natura giurisdizionale, le accuse in parola invece presuppongono la inosservanza di dovere inerenti a funzioni politiche e richiedono una valutazione di natura politica. Infine mentre la decisione delle controversie sulla legittimità costituzionale delle leggi doveva aver luogo per i motivi, che in seguito saranno detti, necessariamente sin dal momento dell’entrata in vigore della Costituzione ed anche quindi durante la carenza di funzionamento della Corte costituzionale, tale esigenza non sussisteva invece per la decisione dei conflitti di attribuzione e delle accuse contro il Presidente della Repubblica ed i Ministri.

Anche in precedenza l’Autorità giudiziaria per la sua stessa funzione di applicare le leggi esercitava il controllo sulla loro legittimità costituzionale sia pure limitatamente ai soli requisiti formali, in quanto il carattere flessibile del preesistente ordinamento costituzionale e la conseguente illimitata ed incontrollabile ampiezza del potere legislativo non consentiva l’insorgenza di controversie relative all’incostituzionalità sostanziale delle leggi.

Ora, dato che la norma prescrive che la decisione delle controversie in parola deve aver luogo nelle forme delle norme preesistenti, vale a dire nelle forme della pronuncia giudiziaria, non può dubitarsi che l’Autorità giudiziaria abbia transitoriamente giurisdizione sulle dette controversie.

Dubbi potrebbero sorgere invece circa il significato della dizione « nei limiti delle norme preesistenti » in quanto potrebbe supporsi che l’Autorità giudiziaria dovesse come in precedenza limitare il suo sindacato alla esistenza formale delle leggi.

Senonchè,   se si tiene presente che la decisione deve aver luogo nelle forme della pronuncia giudiziaria, i « limiti » menzionati nella norma non possono ritenersi atri se non quelli inerenti alla portata della decisione emessa nelle forme predette. Questa decisione invero per la natura stessa dell’Autorità che la pronuncia non può avere che una portata limitata al caso deciso (art. 2909 codice civile), mentre quella emessa dalla Corte costituzionale ha una portata generale (art. 136 Costituzione).  Ciò è confermato dai seguenti rilievi basati sia sulla lettere che sullo spirito della norma:

La norma si richiama alle controversie previste nella prima ipotesi dell’art. 134 della Costituzione, le quali controversie nella vigenza della Costituzione stessa concernono anche e soprattutto la legittimità costituzionale del contenuto intrinseco delle leggi.

Il carattere tipicamente rigido della Costituzione importava l’assoluta necessità che il controllo sulla costituzionalità delle leggi fosse esercitato sin dal momento dell’entrata in vigore della Costituzione. Tale controllo è stato predisposto allo  scopo esclusivo di salvaguardare i principii e le libertà sanciti nella Costituzione e pertanto non poteva essere procrastinato sino all’entrata in funzione della Corte costituzionale, ma doveva essere esercitato sin dal momento iniziale della entrata in vigore della Costituzione per adempiere la sua finalità d’impedire eventuali violazioni dei principii costituzionali già in vigore.

La necessità di affidare tale compito nella carenza di funzionamento della Corte costituzionale all’Autorità giudiziaria importava la conseguenza che alla detta Autorità, già competente in base alle norme precedenti ad esercitare il sindacato sulla legittimità formale delle leggi, fosse attribuito il potere di sindacare anche la legittimità del contenuto sostanziale delle leggi, per renderle possibile l’assolvimento del compito così come richiesto dal carattere rigido della Costituzione.

Per tutto quanto è stato detto la norma deve essere interpretata nel senso che sino all’entrata in funzione della Corte costituzionale la giurisdizione attribuita dalla Costituzione alla Corte stessa sulle controversie relative alla legittimità costituzionale sia nella forma, sia nella sostanza delle leggi, è devoluta alla Magistratura ordinaria.

La decisione però di quest’ultima deve aver luogo nelle forme della pronuncia giudiziaria e con l’efficacia quindi limitata al caso deciso.

Ritenuta pertanto sussistere la giurisdizione dell’Autorità giudiziaria devesi procedere all’esame del merito della presente controversia.

Con i decreti 26 luglio 1944 e 4 giugno 1945 il Ministro dell’agricoltura e foreste, che era stato delegato con il D. L. 10 maggio 1943. n. 397, a determinare il prezzo dei cereali sottoposti al vincolo dell’ammasso dispose che il prezzo da lui fissato dovesse ritenersi distinto in due quote: la prima pari alla metà, rappresentante il prezzo effettivo, e la seconda pari alla rimanente metà da considerarsi quale sussidio per le maggiori spese colturali. Dispose inoltre che per i contratti di affitto con canone in natura il sussidio di coltivazione spettasse soltanto all’ affittuario.

Con sentenza 25 maggio 1946 della Corte di cassazione a Sezioni unite (in Giur. ital., 1946, I, 1, 318) il primo dei detti decreti, al quale è sostanzialmente conforme il secondo, venne dichiarato illegittimo per il motivo che il Ministro, esorbitando dai poteri conferitigli, aveva legiferato in materia di rapporti privati regolati dalla legge comune e totalmente fuori dalla delega.

Con il secondo comma dell’ art. 4 del D.L.P. 22 giugno 1946, n. 44, i due decreti ministeriali vennero ratificati e convalidati e venne loro attribuita piena efficacia di legge a decorrere dal giorno della loro pubblicazione.

Anche questo decreto legislativo venne dichiarato incostituzionale dalla Suprema Corte a Sezioni unite con la sentenza 28 luglio 1947 (in Giur. ital., 1947, I, 1, 337) per il motivo che il Governo nell’esercizio della funzione legislativa delegatagli con i D. L. Lt. 25 giugno 1944, n. 151 e 16 marzo 1946, n. 98, aveva violato i limiti della delega stessa in quanto, pur essendogli precluso di legiferare in materia costituzionale, con il decreto legislativo predetto ed a causa della retroattività allo stesso attribuito, aveva violato il fondamentale  principio costituzionale relativo alla divisione e  coordinazione dei poteri.

Con l’art. 18 della legge 18 agosto 1948, n. 1140, è stato prescritto che « per le annate agrarie precedenti restano in vigore le disposizioni contenute nell’art. 4, primo esecondo comma, del decreto legislativo 22 giugno 1946, n. 44 ».

Questa disposizione viene quindi in sostanza ad avere lo stesso contenuto sia dei decreti ministeriali, sia del decreto legislativo che li convalida. Il contenuto di tale norma deve essere dichiarato incostituzionale perché viola sia l’art. 42, sia l’art. 3 della Costituzione in vigore. L’art. 42 della Costituzione statuisce il principio che la proprietà privata è riconosciuta e garantita. La legge ordinaria, se in base allo stesso articolo ed allo scopo di assicurare la funzione sociale della proprietà e di renderla accessibile a tutti può determinarne i modi di acquisto, di godimento ed i limiti, non può invece violareil principio costituzionale  sopra detto.

Ora le disposizioni contenute nei decreti ministeriali sopra citati non possono « restare in vigore » perche contrastanti con il principio costituzionale in parola. Invero, il vincolo del conferimento all’ammasso imposto a determinati prodotti costituisce un limite di godimento, ma non esclude il diritto di proprietà. Pertanto nei contratti di affitto con canone in natura il locatore rimane proprietario dei cereali pattuiti quale canone. Il disporre che il prezzo d’ammasso costituente il corrispettivo per il locatore per i prodotti conferiti sia devoluto per la metà in favore dell’affittuario a titolo di sussidio di coltivazione significa in sostanza disporre che al locatore sia  sottratta senza alcun indennizzo la proprietà della metà dei cereali costituenti il canone per essere devoluta in favore dell’affittuario. Ora, tale disposizione disconoscendo il diritto di proprietà, viola il principio sancito nell’art. 42 della Costituzione e non può pertanto « restare in vigore nella vigenza della Costituzione stessa ».

L’art. 4 del D. L. P. 22 giugno 1946, n. 44, convalida e ratifica con efficacia retroattiva i due decreti ministeriali. E’ fuori discussione che il legislatore abbia il potere di attribuire alla norma efficacia retroattiva. Il contrario principio detto della irretroattività della legge non è un principio costituzionale. Non lo era per il precedente ordinamento, e non lo è neppure per la vigente Costituzione, la quale sancisce la irretroattività della legge soltanto nel campo penale (art. 25).

Senonchè ben notevole è la differenza tra legge semplicemente retroattiva e legge convalidatrice con effetto retroattivo di precedente norma dichiarata illegittima e come tale riconosciuta implicitamente dalla stessa legge di convalida.

La prima ha incidenza soltanto sulla volontà delle parti, le quali vengono ad avere regolati i loro rapporti in maniera diversa da quella contrattuale pattuita. La seconda invece comporta l’una delle due seguenti conseguenze: o viene a scalzare i presupposti legali delle pronunce giudiziarie già passate in giudicato, infirmandone così la consistenza giuridica; oppure viene ad imporre per rapporti del tutto identici la coesistenza e la applicazione di due norme tra loro in contrasto.

Ora, se si nega la prima conseguenza, obbiettando che per il principio dell’autorità del giudicato (art. 2909 codice civile) la nuova legge anche se retroagente nel tempo, non si estende ai casi decisi, salva espressa disposizione contraria in essa contenuta, si viene ad ammettere implicitamente la seconda. Affermandosi l’intangibilità dei giudicati si viene infatti a riconoscere la coesistenza di due norme, che vengono a regolare in maniera diversa e contrastante rapporti giuridici, che sono invece del tutto identici e coevi: l’una, che vive nel giudicato ed opera per la forza del giudicato; l’altra che vive ed opera retroattivamente per l’espressa volontà del legislatore.

Nella specie l’una norma è rappresentata dall’art. 1372 codice civile, che attribuisce forza di legge ai contratti, l’altra è rappresentata dal decreto legislativo di convalida in esame, che toglie ai contratti la sopra detta efficacia. L’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge sancita dall’art. 3 della vigente Costituzione impone che rapporti tra loro del tutto identici e coevi siano regolati da un’unica legge e non già da due leggi tra loro in contrasto e che importano necessariamente una disuguaglianza di trattamento.

Infondata è l’obbiezione che la legge sarebbe uguale per tutti coloro che si trovano nella stessa situazione giuridica, mentre nella specie questa identità sarebbe esclusa, perché la situazione di coloro che hanno ottenuto dal giudice una sentenza passata in giudicato prima della legge di convalida sarebbe diversa da quella di coloro che tale sentenza non hanno ancora ottenuta. L’obbiezione è infondata in quanto è evidente che la diversa situazione si realizza proprio per effetto della retroattività del provvedimento di convalida ed è proprio la retroattività conferita al provvedimento in parola la causa della disuguaglianza del trattamento dei cittadini soggetti ad identici rapporti giuridici. Non può, quindi, disconoscersi che il D.L.P. n. 44 del 1946 violi il principio dell’uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge sancito nell’art. 3 della Costituzione.

Ora l’art. 18 della legge 18 agosto 1948 che prescrive che le norme contenute nel detto decreto legislativo « restano in vigore » è anche essa incostituzionale perché le dette norme in quanto in contrasto con l’art. 3 della Costituzione non possono restare in vigore nella vigenza della Costituzione stessa.

E non potendo darsi applicazione alla legge 18 agosto 1948 ed alle altre disposizioni in essa richiamate perché incostituzionali in quanto violano gli articoli 3 e 42 della Costituzione, la domanda dello Scalise deve essere accolta. Il convenuto deve essere condannato a corrispondere all’attore la rimanenza del prezzo intero del grano ammontante a lire 100.000 per le annate agrarie 1943-44 e 1944-45 in esecuzione del contratto con gli interessi decorrenti dal giorno della domanda. – (Omissis)