Sentenza n. 54 del 2021

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SENTENZA N. 54

ANNO 2021

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Giancarlo CORAGGIO

Giudici: Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 1, 2, commi 1, 2, e 3, e 3 della legge della Regione Veneto 23 dicembre 2019, n. 51 (Nuove disposizioni per il recupero dei sottotetti a fini abitativi), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 25-28 febbraio 2020, depositato in cancelleria il 2 marzo 2020, iscritto al n. 27 del registro ricorsi 2020 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 15, prima serie speciale, dell’anno 2020.

Visto l’atto di costituzione della Regione Veneto;

udito nell’udienza pubblica del 23 febbraio 2021 il Giudice relatore Francesco Viganò;

uditi l’avvocato dello Stato Sergio Fiorentino per il Presidente del Consiglio dei ministri, gli avvocati Andrea Manzi e Franco Botteon per la Regione Veneto, in collegamento da remoto, ai sensi del punto 1) del decreto del Presidente della Corte del 30 ottobre 2020;

deliberato nella camera di consiglio del 24 febbraio 2021.

Ritenuto in fatto

1.– Con ricorso notificato il 25-28 febbraio 2020 e depositato il 2 marzo 2020, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha impugnato gli artt. 1, comma 1, 2, commi 1, 2 e 3, e 3 della legge della Regione Veneto 23 dicembre 2019, n. 51 (Nuove disposizioni per il recupero dei sottotetti a fini abitativi), per contrasto complessivamente con gli artt. 3, 9, 32, 117, secondo comma, lettera s), e terzo comma, della Costituzione, nonché col principio di leale collaborazione.

1.1.– L’Avvocatura generale dello Stato ritiene, in primo luogo, che le disposizioni dell’art. 1, comma 1, e dell’art. 2, comma 1, della legge regionale impugnata, laddove individuano limiti minimi di altezza e di superficie di illuminazione dei locali oggetto di recupero diversi da quelli stabiliti dal decreto ministeriale 5 luglio 1975 (Modificazioni alle istruzioni ministeriali 20 giugno 1896 relativamente all’altezza minima ed ai requisiti igienico-sanitari principali dei locali d’abitazione), e dal decreto interministeriale 26 giugno 2015 (Applicazione delle metodologie di calcolo delle prestazioni energetiche e definizione delle prescrizioni e dei requisiti minimi degli edifici, contrastino con gli artt. 3 e 32 Cost., «in quanto si discostano, senza che emerga una ragionevole giustificazione, dai parametri individuati dallo Stato» in tali decreti, strumentali alla tutela della salubrità e vivibilità degli ambienti.

Oltre a ciò, tali disposizioni regionali contrasterebbero con i principi fondamentali nelle materie della tutela della salute e del governo del territorio, stabiliti nel d.m. 5 luglio 1975, cui «può essere attribuita efficacia precettiva e inderogabile» anche per il legislatore regionale, come questa Corte avrebbe affermato, in un ambito di regolazione contiguo a quello qui in esame, con riferimento alla disciplina contenuta nel decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444, recante «Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell’art. 17 della legge 6 agosto 1967, n. 765» (è citata la sentenza n. 134 del 2014).

1.2.– L’Avvocatura generale dello Stato impugna, inoltre, i commi 2 e 3 dell’art. 2 della legge reg. Veneto n. 51 del 2019, in cui, rispettivamente, si demanda al regolamento edilizio comunale la determinazione delle tipologie di interventi eventualmente necessari per rendere abitabili i sottotetti (come, in particolare, l’apertura nelle falde), «al fine di rispettare gli aspetti paesistici, monumentali e ambientali dell’edificio sul quale si intende intervenire», e si fanno salve le diverse disposizioni sulla tutela monumentale contenute nel piano regolatore comunale in riferimento agli artt. 13 e 17 della legge della Regione Veneto 23 aprile 2004, n. 11 (Norme per il governo del territorio e in materia di paesaggio), e alla Parte II del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137).

Le disposizioni regionali impugnate, laddove demandano la determinazione delle condizioni finalizzate al rispetto degli «aspetti paesaggistici» ai soli regolamenti edilizi o ai piani urbanistici comunali, anziché al piano paesaggistico, previsto dagli artt. 135 e 143 cod. beni culturali, o alla disciplina d’uso dei beni paesaggistici, di cui agli artt. 140, 141 e 141-bis cod. beni culturali, sarebbero invasive della competenza esclusiva statale di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., e contrarie all’art. 9 Cost. (sono citate le sentenze n. 367 del 2007 e n. 9 del 2004). Il legislatore statale, infatti, nell’esercizio di tale potestà legislativa esclusiva, avrebbe «assegnato al piano paesaggistico una posizione di assoluta preminenza nel contesto della pianificazione territoriale», stabilendo, negli artt. 143, comma 9, e 145, comma 3, cod. beni culturali, l’inderogabilità e la prevalenza di tale piano, da adottarsi previa intesa con lo Stato e attualmente in itinere, «su ogni altro atto della pianificazione territoriale e urbanistica» (è citata la sentenza di questa Corte n. 180 del 2008).

Le disposizioni regionali impugnate, inoltre, violerebbero anche il principio di leale collaborazione sotteso alle norme del codice dei beni culturali e del paesaggio – artt. 135 e 143 – che impongono l’elaborazione congiunta del Piano paesaggistico regionale da parte di Stato e Regione (è citata la sentenza di questa Corte n. 31 del 2006).

1.3.– Impugnato è, infine, l’art. 3 della legge reg. Veneto n. 51 del 2019, il quale, pur correttamente qualificando gli interventi di recupero dei sottotetti come ristrutturazioni edilizie ai sensi dell’art. 3, comma 1, lettera d), del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia (Testo A)», sottopone tali interventi a semplice segnalazione certificata di inizio di attività (SCIA), violando «le norme interposte contenute negli articoli 10, comma 1°, lettera c), 23, comma 01, lett. a) e 22, comma 1°, lett. e) [recte: c] del medesimo testo unico dell’edilizia», il quale, ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato, imporrebbe, per simili interventi, il permesso di costruire o la SCIA alternativa al permesso di costruire. Costituendo tali norme del t.u. edilizia «principi fondamentali in materia di governo del territorio», la loro deroga da parte dell’art. 3 della legge reg. Veneto n. 51 del 2019 determinerebbe la violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost.

2.– Con memoria depositata l’8 maggio 2020 si è costituita in giudizio la Regione Veneto.

2.1.– La resistente sostiene, innanzitutto, l’inammissibilità della censura relativa agli artt. 1, comma 1, e 2, comma 1, della legge reg. Veneto n. 51 del 2019, per violazione degli artt. 3 e 32 Cost., in quanto meramente assertiva (sono citate le sentenze di questa Corte n. 109 del 2018, n. 64 del 2016 e n. 82 del 2015).

In ogni caso, tale censura sarebbe infondata, posto che le soglie di altezza di superficie illuminante contenute nelle disposizioni impugnate non appaiono, alla luce della specificità degli interventi edilizi, né irragionevoli, né lesive del diritto alla salute, trattandosi, «anzi, di soglie che consentono la fruizione dell’ambiente in condizioni di adeguata salubrità», in esito a «un congruo bilanciamento fra i vari interessi e diritti costituzionali in gioco». Il che sarebbe comprovato dalle «numerose leggi regionali che consentono, negli stessi limiti minimi di altezza o a limiti anche inferiori, il recupero dei sottotetti a fini abitativi», tenuto anche conto che limiti analoghi a quelli odierni erano già contenuti nella legge della Regione Veneto 6 aprile 1999, n. 12 (Recupero dei sottotetti esistenti a fini abitativi).

Anche l’ulteriore censura di violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., per contrasto con i principi fondamentali delle materie «tutela della salute» e «governo del territorio», sarebbe inammissibile. Il ricorrente non spiegherebbe, infatti, «come gli artt. 3 e 5 del [d.m. 5 luglio 1975] potrebbero assurgere a parametro normativo interposto e, in seconda battuta, a principio fondamentale idoneo a condizionare l’esercizio delle competenze legislative regionali».

In ogni caso, tale censura sarebbe manifestamente infondata, posta la natura regolamentare del parametro interposto di cui al d.m. 5 luglio 1975 e l’attuale assetto costituzionale delle competenze legislative regionali e statali. Si tratterebbe, infatti, di una fonte regolamentare, attuativa di una fonte primaria anteriore alla Costituzione (l’art. 218 del regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265, recante «Approvazione del testo unico delle leggi sanitarie»), la quale, alla luce dell’attuale art. 117, sesto comma, Cost., che attribuisce alle Regioni la potestà regolamentare nelle materie concorrenti e residuali, non potrebbe che assumere natura di disciplina di dettaglio, cedevole rispetto all’intervento legislativo regionale.

Inammissibile per carenza di motivazione, o comunque infondata, sarebbe anche la censura basata sul contrasto delle disposizioni regionali in questione con il d.m. 26 giugno 2015. Tale decreto costituirebbe esso stesso una fonte regolamentare inidonea a vincolare la potestà legislativa regionale in materie di competenza concorrente. Inoltre, essendo stato adottato in attuazione del decreto legislativo 19 agosto 2005, n. 192, recante «Attuazione della direttiva (UE) 2018/844, che modifica la direttiva 2010/31/UE sulla prestazione energetica nell’edilizia e la direttiva 2012/27/UE sull’efficienza energetica, della direttiva 2010/31/UE, sulla prestazione energetica nell’edilizia, e della direttiva 2002/91/CE relativa al rendimento energetico nell’edilizia», detterebbe prescrizioni in una materia, quella delle prestazioni energetiche degli edifici, estranea all’oggetto della disciplina regionale impugnata.

2.2.– Inammissibili o comunque infondate sarebbero anche le questioni promosse relativamente ai commi 2 e 3 dell’art. 2 della legge reg. Veneto n. 51 del 2019.

La difesa regionale eccepisce, innanzitutto, l’inammissibilità delle censure basate sulla violazione dell’art. 9 Cost. e del principio di leale collaborazione, in quanto estranee al contenuto della deliberazione di impugnativa del Consiglio dei ministri.

Anche le restanti censure basate sulla violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., sarebbero inammissibili, o in subordine infondate, per errata interpretazione delle disposizioni impugnate e conseguente difetto di motivazione. Una serie di indici testuali e sistematici condurrebbe, infatti, a escludere che gli strumenti urbanistici ed edilizi dei Comuni possano disciplinare gli interventi e le condizioni per operare il recupero dei sottotetti in modo difforme dall’emanando piano paesaggistico, o in modo comunque da compromettere l’adozione concordata tra Stato e Regione di tale piano, ai sensi del codice dei beni culturali e del paesaggio.

L’osservazione del ricorrente, per cui la mera valutazione caso per caso della Soprintendenza non garantirebbe «quella valutazione di insieme che solo il Piano paesaggistico potrebbe fornire», sarebbe da respingere, posto che la disciplina regionale terrebbe comunque fermo l’obbligo del necessario adeguamento degli strumenti urbanistici comunali ai piani paesaggistici sovraordinati, senza che la pendenza dell’iter di approvazione del Piano paesaggistico possa «condannare all’inerzia il legislatore veneto».

2.3.– La questione promossa relativamente all’art. 3 della legge reg. Veneto n. 51 del 2019 sarebbe anch’essa inammissibile «per genericità, perplessità e contraddittorietà del petitum».

Innanzitutto, il ricorso, pur impugnando l’intero art. 3, si limiterebbe a svolgere la censura nei confronti del solo comma 2, senza nulla rilevare con riferimento ai commi 1, 3 e 4.

In secondo luogo, la stessa censura mossa al comma 2 sarebbe immotivata, in quanto il ricorrente si sarebbe limitato ad affermare il contrasto di tale disposizione con gli artt. 3, comma 1, lettera d), 10, comma 1, lettera c), 23, comma 1, lettera a), e 22, comma 1, lettera c), t.u. edilizia, senza argomentare circa il loro rango di principi fondamentali della materia (è citata la sentenza di questa Corte n. 159 del 2018).

In terzo luogo, l’inammissibilità deriverebbe dall’omesso tentativo di interpretazione costituzionalmente conforme della disposizione impugnata, che si imporrebbe anche nei ricorsi in via principale (è citata la sentenza n. 153 del 2015). Lo stesso ricorrente, infatti, riconosce la corretta qualificazione degli interventi di recupero edilizio come ristrutturazione edilizia ai sensi dell’art. 3, comma 1, lettera d), t.u. edilizia. Questi ultimi potrebbero essere, a seconda dei casi, soggetti a SCIA “ordinaria” o, per le situazioni ricadenti nell’art. 10, comma 1, lettera c), t.u. edilizia, a SCIA alternativa al permesso di costruire. Ne deriverebbe che il rinvio genericamente operato dalla norma regionale impugnata alla SCIA, «senza specificazione se ordinaria o in deroga», «non è affatto illegittimo, considerato che il titolo da utilizzare seguirà la natura dell’intervento». Infine, dal ripetuto rinvio operato dalla norma regionale al t.u. edilizia deriva anche che resta «salva la facoltà dell’interessato di chiedere il rilascio di permesso di costruire», secondo quanto previsto dall’art. 22, comma 7, dello stesso testo unico.

Considerato in diritto

1.– Con il ricorso indicato in epigrafe, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha impugnato gli artt. 1, comma 1, 2, commi 1, 2 e 3, e 3 della legge della Regione Veneto 23 dicembre 2019, n. 51 (Nuove disposizioni per il recupero dei sottotetti a fini abitativi), per contrasto complessivamente con gli artt. 3, 9, 32, 117, secondo comma, lettera s), e terzo comma, della Costituzione, nonché col principio di leale collaborazione.

Le disposizioni impugnate promuovono il recupero dei sottotetti a fini abitativi, con l’obiettivo di contenere il consumo di suolo e di promuovere l’efficientamento energetico, «nel rispetto delle caratteristiche tipologiche e morfologiche degli edifici nonché delle prescrizioni igienico-sanitarie riguardanti le condizioni di abitabilità» (art. 1), stabilendo, tra l’altro, specifici limiti di altezza e di illuminazione (art. 2, comma 1), e prevedendo che le eventuali modifiche esterne degli immobili avvengano nel rispetto degli «aspetti paesistici, monumentali e ambientali dell’edificio», secondo quanto stabilito dal regolamento edilizio comunale all’uopo adottato (art. 2, comma 2), con salvezza delle prescrizioni urbanistiche e legislative (regionali e statali) poste a presidio degli edifici soggetti a tutela (art. 2, comma 3). Oltre a ciò, le disposizioni regionali impugnate classificano tali interventi come ristrutturazione edilizia, assoggettandoli al regime abilitativo della segnalazione certificata di inizio di attività (SCIA), ai sensi del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia (Testo A)» (art. 3, commi 1 e 2).

2.– Le censure degli artt. 1, comma 1, e 2, comma 1, della legge reg. Veneto n. 51 del 2019, per contrasto con gli artt. 3, 32 e 117, terzo comma, Cost., in relazione ai principi fondamentali delle materie «tutela della salute» e «governo del territorio», vanno affrontate congiuntamente. In effetti, la censura incentrata sugli artt. 3 e 32 Cost. assume, nell’economia del ricorso, natura chiaramente ancillare rispetto a quella della violazione degli standard posti dal decreto ministeriale 5 luglio 1975 (Modificazioni alle istruzioni ministeriali 20 giugno 1896 relativamente all’altezza minima ed ai requisiti igienico-sanitari principali dei locali d’abitazione), le cui prescrizioni su altezze minime dei locali abitativi e sui requisiti di aeroilluminazione (artt. 1 e 5) sono ritenute dal ricorrente espressive di principi fondamentali delle citate materie concorrenti.

2.1.– La Regione ha eccepito l’inammissibilità delle censure, in quanto carenti di adeguata motivazione con riguardo alla idoneità di una fonte secondaria a esprimere principi fondamentali delle materie di competenza legislativa concorrente.

L’eccezione è infondata.

Come recentemente ribadito da questa Corte, e come del resto rilevato dalla stessa Avvocatura generale dello Stato, gli atti statali di normazione secondaria possono vincolare la potestà legislativa regionale concorrente «solo in ben circoscritte ipotesi, ovvero quando, “in settori squisitamente tecnici”, intervengono a completare la normativa statale primaria (sentenza n. 286 del 2019) e costituiscono “un corpo unico con la disposizione legislativa che li prevede e che ad essi affida il compito di individuare le specifiche tecniche che mal si conciliano con il contenuto di un atto legislativo e che necessitano di applicazione uniforme in tutto il territorio nazionale” (sentenza n. 69 del 2018)» (sentenza n. 180 del 2020; in senso conforme, sentenza n. 125 del 2017). Il che è, appunto, ciò che si verifica con riguardo alle prescrizioni poste dal d.m. 5 luglio 1975: di quest’ultimo appaiono evidenti sia la natura tecnica delle prescrizioni (adottate previo parere del Consiglio superiore della sanità), sia la saldatura con il regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265 (Approvazione del testo unico delle leggi sanitarie), il cui art. 218 – richiamato in premessa dal d.m. del 1975 – attribuisce al Ministro competente il potere di emanare «le istruzioni di massima», affinché i «regolamenti locali di igiene e sanità» assicurino, tra l’altro, «che nelle abitazioni: a) non vi sia difetto di aria e di luce».

2.2.– Nel merito, le censure sono tuttavia infondate.

La disciplina regionale diretta a introdurre specifici requisiti di altezza e aeroilluminazione per la sola porzione dell’unità abitativa costituita dal recupero edilizio dei sottotetti non comporta deroga agli standard uniformi fissati dal d.m. 5 luglio 1975 in attuazione del r.d. n. 1265 del 1934, i quali nulla prescrivono riguardo a una fattispecie così specifica come quella in questione.

Ciò perché, innanzitutto, i locali oggetto delle norme regionali impugnate costituiscono solo una parte dell’unità abitativa, che deve preesistere e possedere già i prescritti requisiti di abitabilità. Inoltre, tali locali sono caratterizzati normalmente da una peculiare morfologia, tanto che la disciplina impugnata fa riferimento all’altezza media, da calcolarsi escludendo le parti del sottotetto inferiori a una certa soglia. D’altra parte, gli interventi di recupero perseguono interessi ambientali certamente apprezzabili, quali la riduzione del consumo di suolo e l’efficientamento energetico.

Evidentemente in considerazione del carattere di lex specialis della disciplina relativa ai requisiti di abitabilità dei sottotetti concernenti altezza e aeroilluminazione, non regolati a livello di legislazione statale, le leggi regionali hanno dettato da tempo proprie discipline (si veda la legge della Regione Lombardia 15 luglio 1996, n. 15, recante «Recupero ai fini abitativi dei sottotetti esistenti»; nonché la legge della Regione Veneto 6 aprile 1999, n. 12, recante «Recupero dei sottotetti esistenti a fini abitativi»), le quali prevedono requisiti di altezza e aeroilluminazione a tutela delle medesime esigenze di salubrità e igiene di cui si fa carico la disciplina statale, tenendo conto delle peculiarità strutturali dei locali oggetto di recupero e del loro carattere non autonomo rispetto a unità abitative già esistenti (sentenze n. 208 del 2019, n. 282 e n. 11 del 2016).

3.– Sono poi impugnati i commi 2 e 3 dell’art. 2 della legge reg. Veneto n. 51 del 2019.

La prima di tali disposizioni, oltre a vietare modificazioni della sagoma, delle altezze di colmo e di gronda, nonché delle linee di pendenza delle falde, assegna al regolamento edilizio comunale la disciplina delle aperture nelle falde «e ogni altra condizione al fine di rispettare gli aspetti paesistici, monumentali e ambientali dell’edificio sul quale si intende intervenire» (art. 2, comma 2). La seconda fa salve «le diverse previsioni del piano regolatore comunale per gli edifici soggetti a tutela ai sensi degli articoli 13 e 17 della legge regionale 23 aprile 2004, n. 11 “Norme per il governo del territorio e in materia di paesaggio” e della parte seconda del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 “Codice dei beni culturali e del paesaggio ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137”», e consente ai regolamenti edilizi comunali «la ulteriore esclusione di determinate tipologie edilizie dal recupero a fini abitativi dei sottotetti», specificando che sono comunque esclusi gli «interventi ricadenti in aree soggette a regime di inedificabilità sulla base di pianificazioni territoriali sovraordinate, in aree a pericolosità idraulica o idrogeologica i cui piani precludano interventi di ampliamento volumetrico o di superficie» (art. 2, comma 3).

Secondo il ricorrente, negli ambiti territoriali sottoposti a tutela paesaggistica tali interventi edilizi dovrebbero essere regolati «necessariamente dal Piano paesaggistico, ai sensi degli articoli 135 e 143 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, o dalla disciplina d’uso dei beni paesaggistici, di cui agli articoli 140, 141 e 141-bis del medesimo Codice», pena l’invasione della sfera di competenza esclusiva statale di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., nonché la violazione dell’art. 9 Cost. (sono citate le sentenze di questa Corte n. 367 del 2007 e n. 9 del 2004). La sola forma di tutela rappresentata dall’autorizzazione paesaggistica, che il ricorrente ritiene comunque fatta salva dalle disposizioni regionali in questione, non sarebbe sufficiente, dovendosi procedere a «una valutazione complessiva della trasformazione del contesto tutelato, quale dovrebbe avvenire nell’ambito del Piano paesaggistico, adottato previa intesa con lo Stato e attualmente in itinere, rimettendo alla Soprintendenza una (mera) valutazione caso per caso degli interventi». Il che sarebbe corroborato dall’assoluta preminenza riconosciuta al piano paesaggistico su ogni altro atto della pianificazione territoriale e urbanistica (è citata la sentenza n. 180 del 2008) e dall’obbligo inderogabile della pianificazione congiunta (tra Ministero e Regione) del piano paesaggistico, con riferimento ai beni vincolati (è citata la sentenza di questa Corte n. 86 del 2019).

Le medesime disposizioni regionali violerebbero, inoltre, il principio di leale collaborazione sotteso alle norme del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137) – artt. 135 e 143 – che impongono la pianificazione congiunta da parte di Stato e Regione (è citata la sentenza n. 31 del 2006), a causa della «scelta della Regione del Veneto di assumere iniziative unilaterali, al di fuori del percorso di collaborazione già proficuamente avviato con lo Stato».

3.1.– La Regione eccepisce l’inammissibilità delle censure incentrate sulla violazione dell’art. 9 Cost. e del principio di leale collaborazione, in quanto estranee al contenuto della deliberazione del Consiglio dei ministri di autorizzazione all’impugnazione.

L’eccezione è infondata, posto che tali censure sono specificamente svolte nella deliberazione governativa e riprese dall’Avvocatura generale dello Stato nel ricorso.

3.2.– Nel merito, le questioni relative ai commi 2 e 3 dell’art. 2 della legge reg. Veneto n. 51 del 2019, promosse in riferimento agli artt. 9 e 117, secondo comma, lettera s), Cost., sono infondate, nei termini di seguito precisati.

La prima disposizione regionale impugnata contiene una generica clausola di salvaguardia circa il necessario rispetto, da parte del regolamento edilizio comunale, degli «aspetti paesistici, monumentali e ambientali dell’edificio sul quale si intende intervenire» (art. 2, comma 2), mentre la seconda disposizione (art. 2, comma 3) richiama i limiti posti dal piano regolatore (costituito dal piano di assetto del territorio e dal piano degli interventi), secondo quanto stabilito dalla legge della Regione Veneto 23 aprile 2004, n. 11 (Norme per il governo del territorio e in materia di paesaggio), contenente la disciplina generale dell’urbanistica e del governo del territorio nella Regione Veneto. Si tratta, rispettivamente, delle prescrizioni contenute nel Piano di assetto del territorio (PAT), di cui all’art. 13 della legge reg. Veneto n. 11 del 2004, e di quelle contenute nel Piano degli interventi (PI), di cui all’art. 17 della stessa legge regionale, da realizzarsi «in coerenza e in attuazione» del PAT. Come ricordato dalla difesa regionale, la stessa legge reg. Veneto n. 11 del 2004, contiene, al suo art. 16-bis, l’obbligo per i Comuni di adeguare il PAT «alle previsioni della pianificazione paesaggistica regionale, ai sensi dell’articolo 145, commi 3 e 4», cod. beni culturali.

Da ciò deriva che, sebbene la normativa vincolistica del codice dei beni culturali e del paesaggio venga espressamente evocata dall’art. 2, comma 3, della legge reg. Veneto n. 51 del 2019 solo in riferimento alla Parte II del codice (sui beni culturali) e non alla Parte III (sui beni paesaggistici), le disposizioni impugnate ben possono essere interpretate nel senso che non esentano gli interventi edilizi di recupero dei sottotetti dal rispetto del complesso delle prescrizioni d’uso, attuali o future, dei beni paesaggistici, siano esse poste da vincoli derivanti dal piano paesaggistico (art. 143, comma 1, lettere b, c, d ed e), o dalle dichiarazioni di notevole interesse pubblico (art. 140, comma 2).

Né potrebbe sostenersi che, nelle more della pianificazione congiunta del piano paesaggistico tra Ministero e Regione, a quest’ultima sia inibita l’adozione di ogni disciplina legislativa nella materia del «governo del territorio», salvi gli specifici obblighi assunti nelle intese preliminari (ancora, sentenza n. 86 del 2019).

Dunque, le disposizioni impugnate non violano gli artt. 9 e 117, secondo comma, lettera s), Cost., sempre che siano interpretate nel senso di vincolare gli strumenti urbanistici ed edilizi comunali, nella parte in cui disciplinano gli interventi di recupero dei sottotetti, anche al rispetto di tutte le prescrizioni d’uso dei beni paesaggistici adottate ai sensi della Parte III del codice dei beni culturali e del paesaggio.

3.3.– Anche la censura relativa alla violazione del principio di leale collaborazione è infondata, dal momento che – come appena rilevato – alle Regioni non sono certamente preclusi interventi legislativi nella materia del «governo del territorio» nelle more dell’adozione del piano paesaggistico, sempre che essi non contrastino con i puntuali contenuti delle eventuali intese raggiunte prima dell’approvazione dell’accordo definitivo (sentenza n. 86 del 2019).

4.– Sono impugnate, infine, le disposizioni contenute nell’art. 3 della legge reg. Veneto n. 51 del 2019, in cui gli interventi di recupero dei sottotetti vengono classificati come «ristrutturazione edilizia ai sensi [dell’art. 3, comma 1, lettera d), t.u. edilizia]», assoggettandoli a SCIA ai sensi dello stesso testo unico.

Secondo il ricorrente, tali disposizioni regionali si porrebbero in contrasto con l’art. 117, terzo comma, Cost., con riferimento ai principi fondamentali della materia «governo del territorio» posti dagli artt. 10, comma 1, lettera c), 23, comma 01, lettera a), e 22, comma 1, lettera c), t.u. edilizia, il quale imporrebbe, per simili interventi, il permesso di costruire o la SCIA alternativa al permesso di costruire.

4.1.– La Regione, premesso che il contrasto lamentato dal ricorrente si porrebbe eventualmente solo in riferimento al comma 2 dell’art. 3, eccepisce anzitutto l’inammissibilità della censura, non essendo stato motivato il rango di principi fondamentali della materia delle norme interposte del t.u. edilizia evocate dal ricorrente.

L’eccezione è infondata. È orientamento consolidato di questa Corte che il regime dei titoli abilitativi per le varie categorie di interventi edilizi costituisce principio fondamentale della materia concorrente del «governo del territorio» (ex plurimis, sentenze n. 2 del 2021, n. 68 del 2018 e n. 231 del 2016).

4.2.– Secondo la Regione, la questione sarebbe inoltre inammissibile non avendo il Presidente del Consiglio dei ministri effettuato alcun tentativo di interpretazione conforme della disposizione impugnata.

Anche tale eccezione è infondata. La possibilità di dare alle norme impugnate nei ricorsi in via principale un’interpretazione costituzionalmente conforme non comporta automaticamente l’inammissibilità della censura, attenendo piuttosto al merito (sentenza n. 46 del 2013).

4.3.– Nel merito, la censura è fondata, nei termini di seguito precisati.

L’art. 3 impugnato recita: «1. Gli interventi diretti al recupero dei sottotetti sono classificati come ristrutturazione edilizia ai sensi dell’articolo 3, comma 1, lettera d) del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia”.

2. Gli interventi previsti dal comma 1 sono soggetti a segnalazione certificata di inizio di attività (SCIA), ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, e comportano la corresponsione di un contributo commisurato agli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria ed al costo di costruzione di cui all’articolo 16 del medesimo decreto, calcolati sulla volumetria resa abitativa secondo le tariffe approvate e vigenti in ciascun comune per le opere di nuova costruzione.

3. I comuni possono deliberare l’applicazione di una maggiorazione, nella misura massima del venti per cento del contributo di costruzione dovuto, da destinare preferibilmente alla realizzazione di interventi di riqualificazione urbana, di arredo urbano e di valorizzazione del patrimonio comunale di edilizia residenziale.

4. Gli interventi di recupero dei sottotetti restano subordinati al reperimento degli spazi per parcheggi pertinenziali in misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni 10 metri cubi di costruzione soggetta alla ristrutturazione, salvo quanto disposto dal comma 4 dell’articolo 2».

Come riconosciuto da entrambe le parti, gli interventi di recupero abitativo dei sottotetti sono da ricondurre a quelli «di ristrutturazione edilizia» di cui all’art. 3, comma 1, lettera d), t.u. edilizia, i quali sono assoggettati a permesso di costruire (o a SCIA alternativa) se rientrano in una delle tipologie dell’art. 10, comma 1, lettera c), del medesimo testo unico, mentre sono soggetti a semplice SCIA “ordinaria” se non vi rientrano, fatta salva la facoltà per le Regioni di stabilire ulteriori casi da sottoporre a permesso di costruire o a SCIA (art. 10, commi 2 e 3, t.u. edilizia).

La disposizione dell’art. 3, comma 2, della legge reg. Veneto n. 51 del 2019, per come formulata, potrebbe facilmente indurre i destinatari del precetto a ritenere sufficiente la SCIA “ordinaria” per tutti gli interventi in questione, compresi quelli assoggettati a permesso di costruire o a SCIA “alternativa” in base al t.u. edilizia. Tale interpretazione condurrebbe a un esito contrastante con un principio fondamentale della materia «governo del territorio» stabilito dal t.u. edilizia. È pertanto necessario dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’inciso, contenuto nel comma 2, «sono soggetti a segnalazione certificata di inizio attività (SCIA), ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, e». L’eliminazione di tale inciso comporterà l’applicabilità anche agli interventi disciplinati dalla legge regionale impugnata dell’ordinario regime stabilito dal t.u. edilizia per gli interventi di ristrutturazione.

Non è invece necessario dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’intero art. 3, come richiesto dal ricorrente, dal momento che la disciplina residua si limita in sostanza a prevedere che gli interventi in questione comportano la corresponsione del contributo di costruzione, su cui il ricorso governativo non formula alcuna censura. D’altra parte, l’art. 23, comma 01, ultima parte, del t.u. edilizia, una volta stabilito che gli interventi sottoposti a SCIA “alternativa” sono, al pari di quelli sottoposti a permesso di costruire, soggetti al contributo di costruzione, consente alle leggi regionali di individuare ulteriori ipotesi di intervento per cui è richiesto tale contributo.

Ne deriva, conclusivamente, che la questione relativa all’art. 3, comma 2, della legge reg. Veneto n. 51 del 2019 è fondata limitatamente alle parole «sono soggetti a segnalazione certificata di inizio di attività (SCIA), ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, e».

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, della legge della Regione Veneto 23 dicembre 2019, n. 51 (Nuove disposizioni per il recupero dei sottotetti a fini abitativi), limitatamente alle parole «sono soggetti a segnalazione certificata di inizio di attività (SCIA), ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, e»;

2) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 1, e 2, commi 1, 2 e 3, della legge reg. Veneto n. 51 del 2019, promosse, in riferimento complessivamente agli artt. 3, 32 e 117, terzo comma, della Costituzione, e al principio di leale collaborazione, dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe;

3) dichiara non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 2 e 3, della legge reg. Veneto n. 51 del 2019, promosse, in riferimento agli artt. 9 e 117, secondo comma, lettera s), Cost., dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 febbraio 2021.

F.to:

Giancarlo CORAGGIO, Presidente

Francesco VIGANÒ, Redattore

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 31 marzo 2021.