Sentenza n. 267 del 2020

CONSULTA ONLINE 

 

SENTENZA N. 267

 

ANNO 2020

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

 

composta dai signori:

 

Presidente: Giancarlo CORAGGIO;

 

Giudici: Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA,

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 18 (recte: comma 1) del decreto-legge 25 marzo 1997, n. 67 (Disposizioni urgenti per favorire l’occupazione), convertito, con modificazioni, nella legge 23 maggio 1997, n. 135, promosso dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio nel procedimento vertente tra M. M. e il Ministero della giustizia, con ordinanza del 29 ottobre 2019, iscritta al n. 218 del registro ordinanze 2019 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 49, prima serie speciale, dell’anno 2019.

 

Visti l’atto di costituzione di M. M., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nell’udienza pubblica del 18 novembre 2020 il Giudice relatore Stefano Petitti;

 

uditi l’avvocato Luigi Paccione per M. M. e l’avvocato dello Stato Ruggero Di Martino per il Presidente del Consiglio dei ministri, quest’ultimo in collegamento da remoto, ai sensi del punto 1) del decreto del Presidente della Corte del 30 ottobre 2020;

 

deliberato nella camera di consiglio del 18 novembre 2020.

 

Ritenuto in fatto

 

1.– Con ordinanza del 29 ottobre 2019, il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 18 (recte: comma 1) del decreto-legge 25 marzo 1997, n. 67 (Disposizioni urgenti per favorire l’occupazione), convertito, con modificazioni, nella legge 23 maggio 1997, n. 135, in riferimento agli artt. 3, 97, 104, primo comma, 107 e 108, secondo comma, della Costituzione.

 

La norma censurata violerebbe gli evocati parametri in quanto, nel prescrivere che le amministrazioni statali rimborsino ai propri dipendenti nei limiti riconosciuti congrui dall’Avvocatura dello Stato le spese legali relative ai giudizi per responsabilità civile, penale e amministrativa promossi nei loro confronti in conseguenza di fatti e atti connessi con l’espletamento del servizio o con l’assolvimento di obblighi istituzionali e conclusi con sentenza o provvedimento che escluda la loro responsabilità, non prevede che tale rimborso «spetti anche ai funzionari onorari chiamati a svolgere funzioni sostitutive o integrative, e comunque equivalenti, a quelle svolte da funzionari di ruolo», o, quantomeno, ai magistrati onorari nominati ai sensi della legge 21 novembre 1991, n. 374 (Istituzione del giudice di pace).

 

1.1.– Il giudice a quo riferisce che la ricorrente nel giudizio principale, assolta con sentenza definitiva da un’imputazione di corruzione in atti giudiziari per fatti commessi nell’esercizio delle funzioni di giudice di pace, ha presentato istanza di rimborso delle spese legali sostenute nel corso del procedimento penale, istanza respinta dal Ministero della giustizia con l’argomento che il rimborso non è previsto per i giudici onorari.

 

Investito dell’impugnazione dell’atto di rigetto, il TAR Lazio sospetta che il “diritto vivente” formatosi nell’interpretazione dell’art. 18, comma 1, del d.l. n. 67 del 1997, come convertito, escludendo il rimborso in favore dei funzionari onorari, e segnatamente del giudice di pace, violi gli artt. 3, 97, 104, primo comma, 107 e 108, secondo comma, Cost.

 

L’art. 3 Cost. sarebbe violato in quanto l’esclusione del rimborso determinerebbe un’irragionevole disparità di trattamento con riferimento «quantomeno a quei funzionari onorari che svolgano funzioni sostitutive/integrative, ed in ogni caso di valore equivalente, rispetto a quelle svolte da funzionari “di ruolo”»; con specifico riguardo ai magistrati onorari, l’omesso riconoscimento del diritto al rimborso ne lederebbe l’indipendenza, tutelata dagli artt. 104, primo comma, 107 e 108, secondo comma, Cost., potendo inoltre «incidere sulla qualità del servizio e, quindi, sul buon andamento della amministrazione della giustizia», con violazione anche dell’art. 97 Cost.

 

1.2.– Il rimettente esclude di poter operare un’interpretazione costituzionalmente orientata, poiché l’estensione del rimborso ai funzionari onorari è inequivocabilmente impedita dalla lettera della norma, che, indicando come beneficiari i «dipendenti di amministrazioni statali» e come obbligate al rimborso le «amministrazioni di appartenenza», testualmente riserva il beneficio ai soggetti legati allo Stato da un rapporto di impiego.

 

Secondo il giudice a quo, le questioni sono rilevanti ai fini del decidere, poiché l’esclusione dei magistrati onorari dal novero di coloro che hanno diritto al rimborso di cui all’art. 18, comma 1, del d.l. n. 67 del 1997, come convertito, «costituisce l’unica ragione posta a fondamento dell’atto impugnato nel presente giudizio».

 

Non potrebbe ritenersi invaso lo spazio di discrezionalità appartenente al legislatore, in quanto l’estensione del diritto al rimborso ai magistrati onorari sarebbe una necessaria conseguenza dell’equivalenza tra le loro funzioni e quelle del magistrato professionale.

 

2.– Si è costituita in giudizio la parte privata, chiedendo accogliersi le questioni sollevate e dichiararsi illegittima la norma censurata, «limitatamente alla parte in cui tale norma non prevede il rimborso delle spese legali anche a favore dei magistrati onorari».

 

3.– È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto dichiararsi le questioni inammissibili o, in subordine, infondate.

 

3.1.– Le questioni sarebbero inammissibili per insufficiente motivazione sulla rilevanza, derivante dall’inadeguata descrizione della fattispecie, in quanto l’ordinanza di rimessione non evidenzia in modo specifico il nesso tra l’attività giudiziaria dell’interessata e i fatti dedotti nell’imputazione a suo carico, nesso che invece dovrebbe emergere in termini di stretta inerenza funzionale e non di mera occasionalità.

 

Il TAR Lazio avrebbe inoltre omesso di verificare la propria giurisdizione, che l’Avvocatura generale reputa carente «nella pacifica insussistenza di un rapporto di pubblico impiego».

 

3.2.– Le questioni sarebbero comunque infondate nel merito, poiché la norma censurata ha carattere eccezionale ed esprime una scelta discrezionale del legislatore, non potendosi la tutela estendere dall’una categoria all’altra, considerata «[l]a diversità di status giuridico ed economico fra pubblici impiegati e funzionari onorari».

 

3.3.– In prossimità dell’udienza, l’Avvocatura ha depositato memoria illustrativa.

 

Considerato in diritto

 

1.– Il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 18 (recte: comma 1) del decreto-legge 25 marzo 1997, n. 67 (Disposizioni urgenti per favorire l’occupazione), convertito, con modificazioni, nella legge 23 maggio 1997, n. 135, in riferimento agli artt. 3, 97, 104, primo comma, 107 e 108, secondo comma, della Costituzione, nella parte in cui non riconosce ai funzionari onorari con funzioni equivalenti a quelle dei funzionari di ruolo – e specificamente al giudice di pace – il diritto al rimborso viceversa riconosciuto ai dipendenti statali per le spese legali sostenute nei giudizi di responsabilità, quando questi siano stati promossi per fatti di servizio e si siano conclusi con accertamento negativo della responsabilità.

 

Ad avviso del rimettente, la mancata previsione del rimborso determinerebbe un’irragionevole disparità di trattamento in danno dei funzionari onorari e ciò si tradurrebbe, riguardo ai magistrati onorari, in una lesione dell’indipendenza, oltre che in un ostacolo al buon andamento dell’amministrazione della giustizia.

 

2.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto tramite l’Avvocatura generale dello Stato, ha sollevato due eccezioni di inammissibilità, l’una per carenza di giurisdizione del rimettente e l’altra per insufficiente descrizione della fattispecie.

 

2.1.– L’eccezione relativa al difetto di giurisdizione è priva di fondamento.

 

Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, per determinare l’inammissibilità della questione incidentale di legittimità costituzionale il difetto di giurisdizione del giudice a quo deve essere macroscopico, quindi rilevabile ictu oculi (ex plurimis, sentenze n. 99 e n. 24 del 2020, n. 189 del 2018, n. 269 del 2016, n. 106 del 2013 e n. 179 del 1999; ordinanze n. 318 del 2013, n. 291 del 2011 e n. 167 del 1997).

 

Nella specie, in base a quanto risulta dall’ordinanza di rimessione, la parte privata ha adito il TAR Lazio per ottenere l’annullamento del diniego di rimborso emesso dal Ministero della giustizia e la pertinente pronuncia di condanna, petitum il cui titolo la ricorrente ha indicato nella natura subordinata del suo rapporto di servizio quale giudice di pace, o comunque nell’equiparazione funzionale tra il magistrato onorario e il magistrato professionale, entrambi appartenenti all’ordine giudiziario.

 

In costanza di questi assunti, la sussistenza della giurisdizione amministrativa non può essere esclusa ictu oculi, atteso peraltro che l’Avvocatura generale non ha dedotto nei propri scritti difensivi di aver sollevato l’eccezione di difetto di giurisdizione innanzi al giudice a quo.

 

2.2.– Priva di fondamento è anche l’eccezione di insufficiente descrizione della fattispecie.

 

L’inadeguata descrizione della fattispecie oggetto del giudizio a quo da parte dell’ordinanza di rimessione determina l’inammissibilità della questione incidentale di legittimità costituzionale se e in quanto impedisce il controllo di rilevanza della questione medesima (ex plurimis, sentenze n. 199 e n. 105 del 2019, n. 22 del 2018; ordinanze n. 147 e n. 92 del 2020, n. 103 e n. 64 del 2019, n. 242 del 2018, n. 187 e n. 12 del 2017).

 

Peraltro, in virtù dell’autonomia tra il giudizio incidentale di legittimità costituzionale e il giudizio principale, questa Corte, nel delibare l’ammissibilità della questione, effettua in ordine alla rilevanza solo un controllo “esterno”, applicando un parametro di non implausibilità della relativa motivazione (ex plurimis, sentenze n. 224 e n. 32 del 2020, n. 85 del 2017 e n. 228 del 2016; ordinanze n. 117 del 2017 e n. 47 del 2016).

 

Nell’ordinanza di rimessione, il TAR Lazio ha motivato sulla rilevanza delle questioni nei seguenti termini: posto che l’esclusione dei magistrati onorari dal novero dei soggetti che possono fruire del diritto al rimborso delle spese legali «costituisce l’unica ragione posta a fondamento dell’atto impugnato nel presente giudizio», la declaratoria di illegittimità costituzionale di tale esclusione comporterebbe l’annullamento dell’atto medesimo, «con conseguente obbligo della Amministrazione di rideterminarsi tenendo conto della astratta ammissibilità della ricorrente al beneficio, e procedendo quindi a valutare se sussistano, in concreto, i requisiti indicati dalla norma per concederle il rimborso delle spese legali».

 

Tale motivazione supera il vaglio di non implausibilità, mentre l’eccezione dell’Avvocatura, appuntandosi sull’inadeguata descrizione del nesso funzionale che integra il presupposto oggettivo del diritto al rimborso, si colloca “a valle” delle questioni, viceversa limitate alla astratta titolarità soggettiva di quel diritto.

 

3.– Occorre procedere quindi all’esame di merito delle sollevate questioni, che tuttavia vanno preliminarmente dimensionate, onde garantirne l’aderenza alla fattispecie soggettiva del giudizio a quo.

 

Questo riguarda invero – non genericamente i funzionari onorari con «funzioni sostitutive o integrative, e comunque equivalenti», di cui fa menzione l’ordinanza di rimessione, bensì – quel particolare funzionario onorario che è il giudice di pace, con riferimento al quale, pertanto, il petitum additivo deve essere circoscritto.

 

3.1.– Sempre al fine di individuare esattamente il petitum del giudizio incidentale, occorre altresì precisare che, benché nel dispositivo il giudice a quo abbia fatto riferimento all’intero art. 18 del d.l. n. 67 del 1997, come convertito, il sospetto di illegittimità costituzionale ha ad oggetto, come chiaramente si evince dalla complessiva motivazione dell’ordinanza di rimessione, il solo comma 1 della norma, concernente appunto la titolarità del diritto al rimborso delle spese di patrocinio.

 

Si rammenta che, per costante giurisprudenza di questa Corte, è possibile circoscrivere l’oggetto del giudizio di legittimità costituzionale ad una parte della disposizione censurata, se ciò è suggerito dalla motivazione complessiva dell’ordinanza di rimessione (ex plurimis, sentenze n. 223 del 2020, n. 97 del 2019, n. 35 del 2017 e n. 203 del 2016).

 

4.– La questione sollevata in riferimento all’art. 3 Cost. è fondata.

 

5.– Nel prevedere il rimborso delle spese di patrocinio legale sostenute nei giudizi promossi per fatti inerenti alla funzione e conclusisi con accertamento negativo di responsabilità, l’art. 18, comma 1, del d.l. n. 67 del 1997, come convertito, testualmente individua i beneficiari del rimborso nei «dipendenti di amministrazioni statali» e le «amministrazioni di appartenenza» quali obbligate, sicché è corretta la premessa da cui muove il rimettente, vale a dire l’impossibilità di estendere per via interpretativa il diritto al rimborso a soggetti che operano nell’interesse dell’amministrazione al di fuori da un rapporto di impiego.

 

D’altronde, per univoca giurisprudenza della Corte di cassazione (tra le tante, sezione prima civile, sentenza 10 dicembre 2004, n. 23138) e del Consiglio di Stato (da ultimo, sezione quarta, sentenza 13 gennaio 2020, n. 281), la norma censurata ha carattere eccezionale, è di stretta interpretazione, e quindi non è suscettibile di estensione per analogia.

 

5.1.– L’estensione è stata talora operata dal legislatore per specifiche categorie di funzionari onorari, segnatamente per gli amministratori degli enti locali, ai quali ultimi il beneficio del rimborso è stato invero riconosciuto, sia pure a determinate condizioni (assenza di conflitto di interessi con l’ente amministrato, presenza di nesso causale tra funzioni esercitate e fatti rilevanti, insussistenza di dolo o colpa grave), dall’art. 86, comma 5, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), sostituito dall’art. 7-bis, comma 1, del decreto-legge 19 giugno 2015, n. 78 (Disposizioni urgenti in materia di enti territoriali. Disposizioni per garantire la continuità dei dispositivi di sicurezza e di controllo del territorio. Razionalizzazione delle spese del Servizio sanitario nazionale nonché norme in materia di rifiuti e di emissioni industriali), convertito, con modificazioni, nella legge 6 agosto 2015, n. 125.

 

Anteriormente, la tutela legale di fonte collettiva riconosciuta ai dipendenti degli enti locali dall’art. 67 del d.P.R. 13 maggio 1987, n. 268 (Norme risultanti dalla disciplina prevista dall’accordo sindacale, per il triennio 1985-1987, relativo al comparto del personale degli enti locali), era stata dichiarata non estensibile agli amministratori degli enti medesimi, appunto in difetto di un rapporto di impiego (tra le molte, Corte di cassazione, sezione terza civile, sentenza 25 settembre 2014, n. 20193, e sezione lavoro, sentenza 1° dicembre 2011, n. 25690).

 

5.2.– Il rimborso ha tratti peculiari nei giudizi di responsabilità amministrativa, per i quali l’art. 31, comma 2, del decreto legislativo 26 agosto 2016, n. 174 (Codice di giustizia contabile, adottato ai sensi dell’articolo 20 della legge 7 agosto 2015, n. 124), dispone: «[c]on la sentenza che esclude definitivamente la responsabilità amministrativa per accertata insussistenza del danno, ovvero, della violazione di obblighi di servizio, del nesso di causalità, del dolo o della colpa grave, il giudice non può disporre la compensazione delle spese del giudizio e liquida, a carico dell’amministrazione di appartenenza, l’ammontare degli onorari e dei diritti spettanti alla difesa».

 

Per questa tipologia di giudizi vige quindi un regime particolare, nel quale – come da questa Corte osservato con la sentenza n. 41 del 2020 – il diritto al rimborso, di immediata attuazione giudiziale, non è esposto al rischio di compensazione in caso di proscioglimento nel merito.

 

5.3.– È opportuno altresì rammentare quanto rilevato in occasione della declaratoria di non fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 18, comma 1, della legge della Provincia autonoma di Trento 27 agosto 1999, n. 3 (Misure collegate con l’assestamento del bilancio per l’anno 1999), che, in sede di interpretazione autentica dell’art. 92, comma 1, della legge della Provincia autonoma di Trento 29 aprile 1983, n. 12 (Nuovo ordinamento dei servizi e del personale della Provincia autonoma di Trento), ha riconosciuto «il rimborso anche delle spese legali, peritali e di giustizia sostenute per la difesa nelle fasi preliminari di giudizi civili, penali e contabili […] anche nei casi in cui è stata disposta l’archiviazione del procedimento penale o del procedimento volto all’accertamento della responsabilità amministrativa o contabile».

 

Questa Corte ha evidenziato che tale disposizione, insieme all’art. 18, comma 1, del d.l. n. 67 del 1997, come convertito, e all’art. 31, comma 2, cod. giust. contabile, «si inserisce nel quadro di un complessivo apparato normativo volto a evitare che il pubblico dipendente possa subire condizionamenti in ragione delle conseguenze economiche di un procedimento giudiziario, anche laddove esso si concluda senza l’accertamento di responsabilità» (sentenza n. 189 del 2020).

 

Ai fini del riparto della competenza tra lo Stato e la Provincia autonoma, la medesima sentenza ha affermato che la citata norma, prevedendo il rimborso anche per le fasi preliminari dei giudizi e per quelli conclusi con l’archiviazione, «attiene non al rapporto di impiego – e quindi alla competenza statale in materia di “ordinamento civile” – bensì al rapporto di servizio», appunto perché «volta a soddisfare esigenze, di sicuro rilievo pubblicistico, attinenti all’organizzazione dell’amministrazione provinciale, secondo criteri di efficienza e qualità dei servizi».

 

6.– Ai sensi dell’art. 1, comma 2, della legge 21 novembre 1991, n. 374 (Istituzione del giudice di pace), «[l]’ufficio del giudice di pace è ricoperto da un magistrato onorario appartenente all’ordine giudiziario».

 

L’art. 1 del decreto legislativo 13 luglio 2017, n. 116 (Riforma organica della magistratura onoraria e altre disposizioni sui giudici di pace, nonché disciplina transitoria relativa ai magistrati onorari in servizio, a norma della legge 28 aprile 2016, n. 57), dopo aver ribadito che «[i]l “giudice onorario di pace” è il magistrato onorario addetto all’ufficio del giudice di pace» (comma 1), aggiunge che «[l]’incarico di magistrato onorario ha natura inderogabilmente temporanea, si svolge in modo da assicurare la compatibilità con lo svolgimento di attività lavorative o professionali e non determina in nessun caso un rapporto di pubblico impiego» (comma 3).

 

6.1.– Questa Corte ha più volte affermato che la posizione giuridico-economica dei magistrati professionali non si presta a un’estensione automatica nei confronti dei magistrati onorari tramite evocazione del principio di eguaglianza, in quanto gli uni esercitano le funzioni giurisdizionali in via esclusiva e gli altri solo in via concorrente.

 

Enunciata a proposito del trattamento economico dei componenti delle commissioni tributarie (ordinanza n. 272 del 1999) e per quello dei vice pretori onorari (ordinanza n. 479 del 2000), l’affermazione è stata ripetuta anche per i giudici di pace, sia in tema di cause di incompatibilità professionale (sentenza n. 60 del 2006), sia in ordine alla competenza per il contenzioso sulle spettanze economiche (ordinanza n. 174 del 2012).

 

7.– In sede di rinvio pregiudiziale, la Corte di giustizia dell'Unione europea ha stabilito che l’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, come modificato dall’art. 2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 e ratificato dalla legge 2 agosto 2008, n. 130, deve essere interpretato nel senso che il giudice di pace italiano rientra nella nozione di «giurisdizione di uno degli Stati membri», in quanto organismo di origine legale, a carattere permanente, deputato all’applicazione di norme giuridiche in condizioni di indipendenza (Corte di giustizia dell’Unione europea, sentenza 16 luglio 2020, in causa C-658/18, UX).

 

Nella medesima sentenza, considerate le modalità di organizzazione del lavoro dei giudici di pace, la Corte di giustizia ha affermato che essi «svolgono le loro funzioni nell’ambito di un rapporto giuridico di subordinazione sul piano amministrativo, che non incide sulla loro indipendenza nella funzione giudicante, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare».

 

Quindi, interpretando gli artt. 1, paragrafo 3, e 7 della direttiva 2003/88/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 novembre 2003, concernente taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro, nonché le clausole 2 e 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso il 18 marzo 1999, allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, la Corte di Lussemburgo, riportata la figura del giudice di pace alla nozione di «lavoratore a tempo determinato», ha stabilito, con riferimento al tema specifico delle ferie annuali retribuite, che differenze di trattamento rispetto al magistrato professionale non possono essere giustificate dalla sola temporaneità dell’incarico, ma unicamente «dalle diverse qualifiche richieste e dalla natura delle mansioni di cui detti magistrati devono assumere la responsabilità».

 

Nell’ambito di tale valutazione comparativa assume rilievo – osserva ancora la Corte di giustizia – la circostanza che per i soli magistrati ordinari la nomina debba avvenire per concorso, a norma dell’art. 106, primo comma, Cost., e che a questi l’ordinamento riservi le controversie di maggiore complessità o da trattare negli organi di grado superiore.

 

8.– La differente modalità di nomina, radicata nella previsione dell’art. 106, secondo comma, Cost., il carattere non esclusivo dell’attività giurisdizionale svolta e il livello di complessità degli affari trattati rendono conto dell’eterogeneità dello status del giudice di pace, dando fondamento alla qualifica “onoraria” del suo rapporto di servizio, affermata dal legislatore fin dall’istituzione della figura e ribadita in occasione della riforma del 2017.

 

Questi tratti peculiari non incidono tuttavia sull’identità funzionale dei singoli atti che il giudice di pace compie nell’esercizio della funzione giurisdizionale, per quanto appunto rileva agli effetti del rimborso di cui alla norma censurata.

 

La ratio di tale istituto – individuata da questa Corte, come già visto, nella sentenza n. 189 del 2020, con richiamo al fine di «evitare che il pubblico dipendente possa subire condizionamenti in ragione delle conseguenze economiche di un procedimento giudiziario, anche laddove esso si concluda senza l’accertamento di responsabilità» – sussiste per l’attività giurisdizionale nel suo complesso, quale funzione essenziale dell’ordinamento giuridico, con pari intensità per il giudice professionale e per il giudice onorario.

 

In questo senso, come pure rilevato dalla medesima sentenza, il beneficio del rimborso delle spese di patrocinio «attiene non al rapporto di impiego […] bensì al rapporto di servizio», trattandosi di un presidio della funzione, rispetto alla quale il profilo organico appare recessivo.

 

9.– Deve rammentarsi quanto questa Corte ha avuto modo di osservare all’indomani dell’emanazione della legge n. 374 del 1991, istitutiva del giudice di pace, cioè che «mentre il giudice conciliatore era per più ragioni un giudice minore, il giudice di pace si affianca – limitatamente al giudizio di primo grado – alla magistratura ordinaria nell’auspicata prospettiva che questo più elevato livello, così realizzato, consenta una risposta più adeguata, da parte dell’ordine giudiziario nel suo complesso, alla sempre crescente domanda di giustizia» (sentenza n. 150 del 1993).

 

Particolarmente significativa agli effetti dell’odierna questione – che involge le spese di patrocinio nei giudizi di responsabilità – appare la posizione del giudice di pace nei giudizi di rivalsa dello Stato a titolo di responsabilità civile, in quanto l’art. 7, comma 3, della legge 13 aprile 1988, n. 117 (Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati), mentre nel testo originario limitava la responsabilità del giudice conciliatore al solo caso di dolo, nel testo modificato dall’art. 4, comma 1, della legge 27 febbraio 2015, n. 18 (Disciplina della responsabilità civile dei magistrati), non distingue il giudice di pace da quello professionale, entrambi chiamati a rispondere anche per negligenza inescusabile.

 

10.– Attesa l’identità della funzione del giudicare, e la sua primaria importanza nel quadro costituzionale, è irragionevole che il rimborso delle spese di patrocinio sia dalla legge riconosciuto al solo giudice “togato” e non anche al giudice di pace, mentre per entrambi ricorre, con eguale pregnanza, l’esigenza di garantire un’attività serena e imparziale, non condizionata dai rischi economici connessi ad eventuali e pur infondate azioni di responsabilità.

 

Ciò rilevato sul piano della titolarità soggettiva, resta fermo che l’insorgenza del diritto al rimborso richiede sempre – anche per il giudice di pace – gli estremi oggettivi indicati dall’art. 18, comma 1, del d.l. n. 67 del 1997, come convertito, e quindi, per giurisprudenza costante, l’esistenza di un nesso causale e non meramente occasionale tra la funzione esercitata e il fatto contestato (ex multis, Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 8 novembre 2018, n. 28597, e, da ultimo, Consiglio di Stato, sezione quarta, sentenza 28 settembre 2020, n. 5655).

 

11.– Per tutte le argomentazioni che precedono, deve essere dichiarata, con riferimento all’art. 3 Cost., l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, comma 1, del d.l. n. 67 del 1997, come convertito, nella parte in cui non prevede che il Ministero della giustizia rimborsi le spese di patrocinio legale al giudice di pace nelle ipotesi e alle condizioni stabilite dalla norma stessa.

 

12.– Restano assorbite le questioni riferite agli ulteriori parametri.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, comma 1, del decreto-legge 25 marzo 1997, n. 67 (Disposizioni urgenti per favorire l’occupazione), convertito, con modificazioni, nella legge 23 maggio 1997, n. 135, nella parte in cui non prevede che il Ministero della giustizia rimborsi le spese di patrocinio legale al giudice di pace nelle ipotesi e alle condizioni stabilite dalla norma stessa.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 novembre 2020.

 

F.to:

 

Giancarlo CORAGGIO, Presidente

 

Stefano PETITTI, Redattore

 

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

 

Depositata in Cancelleria il 9 dicembre 2020.