Sentenza n. 213 del 2020

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SENTENZA N. 213

 

ANNO 2020

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

 

Presidente: Mario Rosario MORELLI;

 

Giudici: Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA,

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 2 (recte: 22), primo comma, lettera c), della legge 30 aprile 1969, n. 153 (Revisione degli ordinamenti pensionistici e norme in materia di sicurezza sociale), dell’art. 10, comma 6, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503 (Norme per il riordinamento del sistema previdenziale dei lavoratori privati e pubblici, a norma dell’articolo 3 della legge 23 ottobre 1992, n. 421) e dell’art. 1, comma 189, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), promosso dalla Corte d’appello di Torino, sezione lavoro, nel procedimento vertente tra B. C. e l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), con ordinanza del 1° marzo 2019, iscritta al n. 127 del registro ordinanze 2019 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 37, prima serie speciale, dell’anno 2019.

 

Visti l’atto di costituzione dell’INPS, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nell’udienza pubblica del 22 settembre 2020 il Giudice relatore Silvana Sciarra;

 

uditi l’avvocato Antonella Patteri per l’INPS e l’avvocato dello Stato Federico Basilica per il Presidente dei Consiglio dei ministri;

 

deliberato nella camera di consiglio del 22 settembre 2020.

 

Ritenuto in fatto

 

1.– Con ordinanza iscritta al registro ordinanze n. 127 del 2019, la Corte d’appello di Torino, sezione lavoro, ha sollevato, «in relazione» all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 (recte: 22), primo comma, lettera c), della legge 30 aprile 1969, n. 153 (Revisione degli ordinamenti pensionistici e norme in materia di sicurezza sociale), dell’art. 10, comma 6, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503 (Norme per il riordinamento del sistema previdenziale dei lavoratori privati e pubblici, a norma dell’articolo 3 della legge 23 ottobre 1992, n. 421) e dell’art. 1, comma 189, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica).

 

La prima delle disposizioni censurate è collocata nella parte della legge n. 153 del 1969 che detta la «Disciplina del cumulo della pensione con la retribuzione» (artt. 20-22). Essa, nel riferirsi a coloro che risultano «iscritti alle assicurazioni obbligatorie per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti dei lavoratori dipendenti, dei lavoratori delle miniere, cave e torbiere, dei coltivatori diretti, mezzadri e coloni, degli artigiani e degli esercenti attività commerciali», sottopone il diritto alla pensione alla condizione che tali soggetti «non prestino attività lavorativa subordinata alla data della presentazione della domanda di pensione».

 

La seconda delle disposizioni censurate è stata introdotta dall’art. 11, comma 9, della legge 24 dicembre 1993, n. 537 (Interventi correttivi di finanza pubblica). Tale disposizione, nel dettare la disciplina del «cumulo tra pensioni e redditi da lavoro dipendente ed autonomo», ha stabilito quanto segue: «Le pensioni di anzianità a carico dell’assicurazione generale dei lavoratori dipendenti e delle forme di essa sostitutive, nonché i trattamenti anticipati di anzianità delle forme esclusive con esclusione delle eccezioni di cui all’articolo 10 del decreto-legge 28 febbraio 1986, n. 49, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 aprile 1986, n. 120, in relazione alle quali trovano applicazione le disposizioni di cui ai commi 1, 3 e 4 del presente articolo, non sono cumulabili con redditi da lavoro dipendente nella loro interezza, e con i redditi da lavoro autonomo nella misura per essi prevista al comma 1 ed il loro conseguimento è subordinato alla risoluzione del rapporto di lavoro».

 

La terza delle disposizioni censurate ha stabilito quanto segue: «Con effetto sui trattamenti liquidati dalla data di cui al comma 185, le pensioni di anzianità a carico dell’assicurazione generale obbligatoria dei lavoratori dipendenti e delle forme di essa sostitutive, nonché i trattamenti anticipati di anzianità delle forme esclusive della medesima, non sono cumulabili, limitatamente alla quota liquidata con il sistema retributivo, con redditi da lavoro di qualsiasi natura e il loro conseguimento è subordinato alla risoluzione del rapporto di lavoro. A tal fine trovano applicazione le disposizioni di cui ai commi 3, 4, e 7 dell’articolo 10 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503. Ai lavoratori che alla data del 30 settembre 1996 sono titolari di pensione, ovvero che hanno raggiunto il requisito contributivo di 36 anni o quello di 35 anni, quest’ultimo unitamente a quello anagrafico di 52 anni, continuano ad applicarsi le disposizioni di cui alla previgente normativa. Il regime previgente continua ad applicarsi anche nei confronti di coloro che si pensionano con 40 anni di contribuzione ovvero con l’anzianità contributiva massima prevista dall’ordinamento di appartenenza, nonché per le eccezioni di cui all’articolo 10 del decreto-legge 28 febbraio 1986, n. 49, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 aprile 1986, n. 120».

 

2.– In punto di fatto, il giudice rimettente riferisce di dover giudicare sull’appello presentato contro la sentenza del Tribunale ordinario di Torino n. 1382 del 17 luglio 2017.

 

In primo grado, B. C. aveva proposto ricorso contro l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), deducendo di essere stato dipendente della Sitfa spa dal 1968 e di essersi dimesso con decorrenza 31 dicembre 2007. Successivamente – come riferisce il giudice rimettente – egli aveva iniziato, con la medesima società, un nuovo rapporto di lavoro a tempo parziale con decorrenza 7 gennaio 2008 e cessazione in data 26 aprile 2012. A seguito di domanda presentata in data 28 gennaio 2008, l’INPS gli aveva corrisposto la pensione di anzianità con decorrenza 1° febbraio 2008. Tuttavia, a seguito di ulteriore domanda presentata in data 25 maggio 2012 – volta a ottenere la liquidazione del supplemento di pensione in ragione del lavoro prestato tra il 7 gennaio 2008 e il 25 aprile 2012 – l’INPS, con comunicazioni del 4 aprile 2014 e del 6 maggio 2016, ha chiesto la restituzione della somma di euro 278.781,87, assumendo l’indebita percezione della pensione a partire dal 1° febbraio 2008 «in quanto la pensione di anzianità non spettava “per mancata cessazione dell’attività lavorativa”».

 

B. C., pertanto, nel dedurre il suo «buon diritto a percepire il citato trattamento pensionistico, cumulabile con i redditi da lavoro, nonché l’illegittimità della richiesta di ripetizione, anche derivante dall’applicabilità dell’art. 13 L. 412/91», ha chiesto – previo accertamento dell’infondatezza della pretesa dell’INPS – la condanna dell’Istituto alla restituzione dei ratei di pensione trattenuti dal mese di luglio 2016 e non corrisposti.

 

Con la sentenza appellata, il Tribunale di Torino ha respinto le domande proposte dal B. C., il quale ha quindi proposto appello, chiedendo la riforma della sentenza di primo grado. L’INPS si è costituito nel giudizio di appello, chiedendone la reiezione.

 

2.1.– Ciò premesso, la Corte d’appello di Torino solleva, d’ufficio, questione di legittimità costituzionale dell’art. 22, primo comma, lettera c), della legge n. 153 del 1969, «nella parte in cui prevede, come requisito di accesso alla pensione di anzianità, che gli assicurati “non prestino attività lavorativa subordinata alla data di presentazione della domanda di pensione”», nonché delle norme successive (art. 10, comma 6, del d.lgs. n. 503 del 1992 e art. 1, comma 189, della legge n. 662 del 1996) «che ribadiscono tale condizione».

 

2.1.1.– In punto di rilevanza, il giudice rimettente evidenzia che la richiesta di ripetizione avanzata dall’INPS nei confronti di B. C. è basata proprio sull’(assenza del) requisito indicato dall’art. 22, primo comma, lettera c), della legge n. 153 del 1969. Tale requisito è poi ribadito dalle altre due disposizioni sottoposte al vaglio di questa Corte.

 

Si tratterebbe, secondo il rimettente, di disposizioni tutt’oggi in vigore. La tesi della loro «eventuale abrogazione», per effetto del successivo «sviluppo normativo» in materia di cumulo tra trattamento pensionistico e redditi da lavoro, sarebbe stata sconfessata dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, sviluppatasi dal 1984 e fino ai giorni nostri, secondo cui il requisito dell’inoccupazione avrebbe tuttora natura di elemento costitutivo del diritto alla pensione di anzianità.

 

Nel caso di specie, al momento della domanda di pensione di anzianità (28 gennaio 2008) l’assicurato aveva risolto il precedente rapporto di lavoro, ma aveva già avviato il nuovo rapporto di lavoro subordinato, con decorrenza dal 7 gennaio 2008.

 

Secondo il giudice rimettente, pertanto, non poteva essere riconosciuto il suo diritto alla pensione di anzianità, poiché non sussisteva il requisito dello stato di inoccupazione.

 

2.1.2.– Quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente osserva quanto segue.

 

Le disposizioni relative al requisito della inoccupazione «rispondevano alla ratio di “manifestare” lo stato di bisogno dell’assicurato» e sono state introdotte in un momento in cui vigeva «un rigido divieto di cumulo tra il trattamento di anzianità e le retribuzioni derivanti da rapporti di lavoro subordinato».

 

Successivamente, il quadro normativo sarebbe «radicalmente mutato». A partire dall’art. 72, comma 1, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2001)», sarebbero state introdotte «disposizioni che progressivamente approdano alla previsione di totale cumulabilità delle pensioni dirette di anzianità a carico dell’AGO con i redditi da lavoro dipendente». Il rimettente richiama, al riguardo, l’art. 44 della legge 27 dicembre 2002, n. 289, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2003)», e l’art. 19 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, in legge 6 agosto 2008, n. 133.

 

Tale evoluzione normativa avrebbe incidenza nella fattispecie per cui è causa.

 

Ancor prima di iniziare il nuovo rapporto di lavoro subordinato con la propria società datrice di lavoro, B. C. aveva maturato, ai sensi dell’art. 44 della legge n. 289 del 2002, «una posizione contributiva tale da poter fruire del regime di totale cumulabilità tra redditi da lavoro dipendente e pensione di anzianità». Il rimettente sostiene che «se avesse presentato la domanda di pensione nell’intervallo temporale, anche minimo, tra la risoluzione del precedente rapporto di lavoro con la Sitfa e l’instaurazione del successivo, l’Inps avrebbe riconosciuto il diritto alla pensione di anzianità e l’assicurato avrebbe potuto fruire del regime di totale cumulabilità».

 

Apparirebbe «ormai priva di ragionevolezza» la permanenza del requisito dello stato di inoccupazione al momento della presentazione della domanda di pensione. Le previsioni normative che richiedono tale requisito non sarebbero più sorrette, a giudizio del rimettente, «dalla ratio consistente nello stato di bisogno che giustifica l’erogazione del trattamento».

 

3.– Con atto depositato il 1° ottobre 2019 è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato.

 

La difesa erariale, preliminarmente, eccepisce l’inammissibilità della questione sotto due distinti profili.

 

In primo luogo, la questione sarebbe inammissibile per mancata completa ricostruzione del quadro normativo di riferimento. L’ordinanza di rimessione si sarebbe limitata «a una serie di brevi richiami ad alcune delle previsioni intervenute nel tempo sulla materia», senza tuttavia offrirne una ricostruzione organica e senza coglierne l’«effettiva ratio».

 

In secondo luogo, l’inammissibilità deriverebbe «dall’estrema genericità» delle argomentazioni spese per sostenere la violazione dell’art. 3 Cost. e del principio di ragionevolezza. Tale violazione sarebbe «affermata in modo apodittico ed immotivato», senza alcun vaglio delle ragioni sottese all’evoluzione del quadro normativo («peraltro neppure individuato nella completezza delle previsioni via via introdotte»). In sostanza, secondo l’Avvocatura dello Stato, la questione così sollevata finirebbe «per lamentare indirettamente – come violazione dei parametri costituzionali – la stessa mancata declaratoria di retroattività delle previsioni che sarebbero venute ad elidere il divieto di cumulo tra pensione di anzianità e altri redditi da lavoro dipendente e che – conseguentemente – avrebbero eliminato lo stato di inoccupazione dai presupposti per il riconoscimento del trattamento pensionistico».

 

Nel merito, peraltro, la questione sarebbe infondata.

 

L’ordinanza di rimessione confonderebbe due distinti profili: l’uno, sostanziale, concernente il divieto di cumulo tra pensione di anzianità e reddito da lavoro; l’altro, formale, che individua l’inoccupazione quale requisito per la domanda di riconoscimento della pensione di anzianità.

 

Quanto al primo dei due profili, il giudice a quo ometterebbe di confrontarsi con un «dato essenziale», costituito dal passaggio dal sistema “retributivo” a quello “contributivo”. Non sarebbe affrontato il tema del bilanciamento, da parte del legislatore, di contrapposte esigenze economiche e sociali, anche in relazione alle «contingenti emergenze finanziarie», evocate dalla giurisprudenza costituzionale (sono richiamate le sentenze n. 241 del 2016 e n. 416 del 1999 di questa Corte).

 

Quanto al secondo profilo – definito come «autonomo» rispetto al primo – l’Avvocatura richiama la giurisprudenza della Corte di cassazione (citata anche dal rimettente) secondo cui il trattamento pensionistico di anzianità è subordinato alla condizione di cessazione dell’attività lavorativa alla data di presentazione della domanda. Proprio la mancanza di tale requisito comporterebbe, nella fattispecie sottoposta al giudizio del rimettente, l’impossibilità di riconoscere il diritto all’erogazione del trattamento pensionistico. In tale prospettiva, risulterebbe «addirittura irrilevante» la questione di costituzionalità sul cumulo tra pensione e reddito da lavoro, questione che potrebbe essere affrontata «solo dopo aver superato il preliminare profilo “formale” della sussistenza del diritto alla pensione».

 

4.– Con atto depositato il 1° ottobre 2019, si è costituito in giudizio l’INPS, parte appellata nel giudizio a quo, concludendo per l’infondatezza della questione di costituzionalità.

 

L’INPS, preliminarmente, precisa che l’art. 22, primo comma, lettera c), della legge n. 153 del 1969 è stato interpretato dallo stesso istituto, in via amministrativa, «nel senso che la condizione di non prestare attività lavorativa subordinata deve sussistere l’ultimo giorno del mese nel quale è fatta la domanda». Ciò al fine di soddisfare l’esigenza del lavoratore di mantenere lo stipendio «anche nell’arco di tempo tra la presentazione della domanda e l’ultimo giorno del mese per poi passare a godere della pensione dal primo giorno del mese successivo». L’INPS aggiunge che l’assicurato può presentare domanda di pensione di anzianità «in un certo giorno di un certo mese e deve risultare cessato dall’attività lavorativa dipendente l’ultimo giorno di quello stesso mese, per poi accedere alla pensione, da inoccupato, il primo giorno del mese successivo».

 

Sarebbe, pertanto, affetta da «travisamento» l’affermazione, contenuta nell’ordinanza di rimessione, secondo cui, se l’assicurato avesse presentato domanda nel breve intervallo temporale tra la risoluzione del precedente rapporto di lavoro e l’instaurazione del successivo, l’INPS gli avrebbe riconosciuto il diritto alla pensione di anzianità e il regime di totale cumulabilità. Al contrario, egli non avrebbe comunque visto garantito quel diritto, «poiché lavorava come dipendente l’ultimo giorno del mese della domanda».

 

Il giudice rimettente non avrebbe tenuto conto della differenza tra accesso a pensione e regime di cumulo tra reddito e pensione. L’accesso alla pensione, coerentemente con i principi di cui all’art. 38 Cost., si giustificherebbe in relazione allo «stato di bisogno», inteso come «la condizione di chi lascia la vita lavorativa». In tale quadro, la condizione della cessazione dell’attività di lavoro dipendente sarebbe «coerente con la natura della pensione che costituisce l’esito di un rapporto assicurativo nel quale l’evento tutelato è proprio la cessazione dal lavoro», e consisterebbe in «un presupposto destinato ad incidere sul momento genetico del diritto».

 

Né vi sarebbe alcuna contraddizione con la disciplina del cumulo, attinente al diverso e successivo momento dell’esecuzione del rapporto obbligatorio già sorto. In tale frangente verrebbero in rilievo scelte di «politica previdenziale» lasciate alla discrezionalità del legislatore, cui spetta stabilire se affiancare al requisito dell’inoccupazione (quale condizione per l’accesso alla pensione) il divieto di cumulo dei redditi percepiti dopo tale accesso.

 

Del resto, consentire l’accesso alla pensione anche a coloro che non abbiano cessato la propria attività lavorativa porterebbe a «sovvertire la funzione dell’istituto, sganciandolo da ogni valutazione circa la sua naturale vocazione a sostituire il reddito da lavoro dipendente».

 

Considerato in diritto

 

1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe, la Corte d’appello di Torino, sezione lavoro, ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 (recte: 22), primo comma, lettera c), della legge 30 aprile 1969, n. 153 (Revisione degli ordinamenti pensionistici e norme in materia di sicurezza sociale), «nella parte in cui prevede che gli iscritti alle assicurazioni obbligatorie per la invalidità, la vecchiaia ed i superstiti dei lavoratori dipendenti abbiano diritto alla pensione di anzianità a condizione che “non prestino attività lavorativa subordinata alla data della presentazione della domanda di pensione”».

 

La Corte rimettente dubita anche della costituzionalità delle «norme successive», che «ribadiscono tale condizione», e le individua nell’art. 10, comma 6, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503 (Norme per il riordinamento del sistema previdenziale dei lavoratori privati e pubblici, a norma dell’articolo 3 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), nonché nell’art. 1, comma 189, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica).

 

Nella controversia sottoposta, in grado d’appello, alla cognizione del giudice a quo, un lavoratore dipendente è stato chiamato in giudizio dall’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) per aver indebitamente beneficiato di un trattamento di anzianità erogatogli per quattro anni.

 

Secondo l’INPS, tale erogazione non sarebbe spettata in quanto il lavoratore, al momento della domanda di pensione, aveva già avviato – peraltro con lo stesso datore di lavoro – un nuovo rapporto di lavoro, così facendo venir meno il requisito della “inoccupazione”.

 

Secondo la Corte rimettente, tale requisito sarebbe in contrasto con il principio di ragionevolezza, in quanto «non rispondente ai canoni di cui all’art. 3 della Costituzione». Esso è stato introdotto quando vigeva il divieto di cumulo tra trattamento di anzianità e reddito da lavoro e sarebbe ancora in vigore, come attestato dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, intesa quale «diritto vivente». Tuttavia, il quadro normativo sarebbe poi radicalmente cambiato, poiché quel divieto è stato sostituito da una regola opposta, che consente il cumulo tra pensione e retribuzione. Apparirebbe ormai priva di ragionevolezza la perdurante vigenza del requisito della “inoccupazione”, non più assistito, come in origine, dallo stato di bisogno che giustifica l’erogazione del trattamento.

 

2.– Nell’intervenire in giudizio, il Presidente del Consiglio dei ministri ha preliminarmente eccepito l’inammissibilità della questione per l’incompleta ricostruzione del quadro normativo di riferimento e per l’«estrema genericità» delle argomentazioni spese dal rimettente quanto al profilo della non manifesta infondatezza.

 

Entrambe le eccezioni, da trattare congiuntamente, sono fondate.

 

2.1.– La disciplina relativa al cumulo fra trattamento pensionistico e retributivo, posta a fondamento della censura di incostituzionalità per contrasto con l’art. 3 Cost., è evocata dal rimettente senza scandirne l’evoluzione diacronica e senza indagare la ratio sottesa alle disposizioni medesime. L’ordinanza di rimessione si limita a citare, in senso cronologico, le disposizioni che, a partire da quanto in origine previsto dall’art. 22, settimo comma, della legge n. 153 del 1969, hanno via via disciplinato la materia, giungendo infine a consentire il cumulo tra pensione e retribuzione.

 

Senza addentrarsi in un’analisi testuale e sistematica delle disposizioni, la Corte rimettente richiama l’art. 72, comma 1, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2001)», l’art. 44 della legge 27 dicembre 2002, n. 289, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2003)», e l’art. 19 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, in legge 6 agosto 2008, n. 133.

 

Pur sostenendo che, per effetto della successione di tali norme, sarebbe divenuto irragionevole il requisito della “inoccupazione” ai fini del riconoscimento del diritto alla pensione di anzianità, la Corte rimettente non ha approfondito i tratti più significativi dell’evoluzione normativa in materia di cumulo tra pensione e redditi da lavoro ma, soprattutto, ha omesso di illustrare le ragioni dell’affermato legame fra disciplina del cumulo e disciplina dei presupposti del diritto alla pensione di anzianità e di individuarne la ratio sottostante.

 

Le disposizioni censurate sono presentate in ordine cronologico al solo fine di far emergere un dato ritenuto comune: il legislatore avrebbe ancorato il sorgere del diritto al trattamento pensionistico di anzianità all’assenza di un rapporto di lavoro. Le norme richiamate, sia pure con enunciazioni diverse, intenderebbero collegare la condizione dello stato di inoccupazione del lavoratore alla questione del divieto di cumulo fra trattamento pensionistico e reddito lavorativo. Il diritto del lavoratore all’erogazione della pensione di anzianità, condizionato allo stato di “inoccupazione”, risulterebbe connesso a tale divieto.

 

2.2.– La ricostruzione del quadro normativo fornita dal giudice a quo si presenta lacunosa.

 

Ai fini dell’ammissibilità della questione di costituzionalità, questa Corte non ritiene sufficiente la mera evocazione di disposizioni distinte, collocate in contesti normativi diversi, senza che siano illustrati i nessi che fra le stesse intercorrono.

 

Le lacune evidenziate finiscono per riverberarsi sul petitum formulato dal giudice a quo, quanto alla mancata individuazione del momento in cui, nel susseguirsi delle disposizioni censurate, si sarebbe manifestato un vulnus tale da inficiarne la costituzionalità.

 

La Corte rimettente omette inoltre di esaminare compiutamente il «diritto vivente» della Corte di cassazione, con riferimento alla perdurante vigenza del requisito della inoccupazione. Tale giurisprudenza si sofferma su quest’ultimo requisito e sulla disciplina del cumulo tra pensione e reddito da lavoro, per segnalare che si tratta di regole e fasi distinte (Corte di cassazione, sezione sesta civile, ordinanza 20 luglio 2018, n. 19337, pur richiamata dal rimettente; inoltre, anche più di recente, Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 27 maggio 2019, n. 14417).

 

Tanto basta per ritenere carenti gli argomenti posti a sostegno del requisito della non manifesta infondatezza della questione di costituzionalità, poiché le lacune prima evidenziate si riflettono sull’iter argomentativo che il rimettente pone a fondamento delle censure (ex multis, ordinanze n. 147, n. 108 e n. 42 del 2020 e n. 202 del 2018).

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 22, primo comma, lettera c), della legge 30 aprile 1969, n. 153 (Revisione degli ordinamenti pensionistici e norme in materia di sicurezza sociale), dell’art. 10, comma 6, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503 (Norme per il riordinamento del sistema previdenziale dei lavoratori privati e pubblici, a norma dell’articolo 3 della legge 23 ottobre 1992, n. 421) e dell’art. 1, comma 189, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dalla Corte d’appello di Torino, sezione lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 settembre 2020.

 

F.to:

 

Mario Rosario MORELLI, Presidente

 

Silvana SCIARRA, Redattore

 

Roberto MILANA, Cancelliere

 

Depositata in Cancelleria il 14 ottobre 2020.