Sentenza n. 120 del 2020

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SENTENZA N. 120

 

ANNO 2020

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

 

composta dai signori: Presidente:

 

Marta CARTABIA;

 

Giudici: Aldo CAROSI, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI,

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 4-ter (recte: dell’art. 3, comma 4-ter) del decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 346 (Approvazione del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta sulle successioni e donazioni), come introdotto dall’art. 1, comma 78, lettera a), della legge 27 dicembre 2006, n. 296, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2007)», promosso dalla Commissione tributaria regionale dell’Emilia-Romagna nel procedimento vertente tra l’Agenzia delle entrate-Direzione provinciale di Parma e N. B. e altri, con ordinanza del 1° febbraio 2019, iscritta al n. 125 del registro ordinanze 2019 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 37, prima serie speciale, dell’anno 2019.

 

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito il Giudice relatore Luca Antonini nella camera di consiglio del 6 maggio 2020, svolta ai sensi del decreto della Presidente della Corte del 20 aprile 2020, punto 1), lettera a);

 

deliberato nella camera di consiglio del 6 maggio 2020.

 

Ritenuto in fatto

 

1.– Con ordinanza depositata il 1° febbraio 2019, la Commissione tributaria regionale (CTR) dell’Emilia-Romagna ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 29 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4-ter (recte: dell’art. 3, comma 4-ter) del decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 346 (Approvazione del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta sulle successioni e donazioni), come introdotto dall’art. 1, comma 78, lettera a), della legge 27 dicembre 2006, n. 296, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2007)», nella parte in cui non include tra i trasferimenti di aziende o rami di esse, di quote sociali e di azioni che non sono soggetti all’imposta sulle successioni e donazioni anche quelli a favore del coniuge del dante causa.

 

La disposizione censurata, nella formulazione applicabile ratione temporis nel giudizio principale, prevedeva che: a) «[i] trasferimenti, effettuati anche tramite i patti di famiglia di cui agli articoli 768-bis e seguenti del codice civile a favore dei discendenti, di aziende o rami di esse, di quote sociali e di azioni non sono soggetti all’imposta» (primo periodo); b) «[i]n caso di quote sociali e azioni di soggetti di cui all’articolo 73, comma 1, lettera a), del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, il beneficio spetta limitatamente alle partecipazioni mediante le quali è acquisito o integrato il controllo ai sensi dell’articolo 2359, primo comma, numero 1), del codice civile» (secondo periodo); c) «[i]l beneficio si applica a condizione che gli aventi causa proseguano l’esercizio dell’attività d’impresa o detengano il controllo per un periodo non inferiore a cinque anni dalla data del trasferimento, rendendo, contestualmente alla presentazione della dichiarazione di successione o all’atto di donazione, apposita dichiarazione in tal senso» (terzo periodo); d) «[i]l mancato rispetto della condizione di cui al periodo precedente comporta la decadenza dal beneficio, il pagamento dell’imposta in misura ordinaria, della sanzione amministrativa prevista dall’articolo 13 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 471, e degli interessi di mora decorrenti dalla data in cui l’imposta medesima avrebbe dovuto essere pagata» (ultimo periodo).

 

2.– Le questioni sono sorte nell’ambito di un giudizio che trae origine dai ricorsi, successivamente riuniti, proposti avverso due avvisi di accertamento e liquidazione della maggiore imposta di successione dovuta sulla scorta della presentazione di una dichiarazione di successione con richiesta di applicazione del beneficio previsto dalla norma denunciata.

 

Secondo quanto riferito dal rimettente, gli avvisi impugnati sono stati emessi con riguardo all’azienda compresa nell’asse ereditario. L’Agenzia delle entrate, poiché il coniuge beneficiario del trasferimento non poteva godere dell’esenzione introdotta dalla disposizione censurata, ha liquidato l’imposta nei suoi confronti, notificando il provvedimento impositivo anche ai coeredi quali obbligati in solido.

 

Accolti i ricorsi in primo grado, l’Agenzia delle entrate ha interposto appello, dolendosi dell’errore di diritto del giudice di prime cure, che aveva esteso al coniuge l’esenzione benché questa fosse prevista dall’art. 3, comma 4-ter, del d.lgs. n. 346 del 1990 esclusivamente in caso di trasferimento a favore dei discendenti.

 

3.– In punto di rilevanza, il giudice a quo osserva, da un lato, che l’esenzione oggetto dell’odierno scrutinio riguarda unicamente i trasferimenti a favore dei discendenti del dante causa; dall’altro, che il sopravvenuto art. 1, comma 31, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2008)» – il quale ha interpolato la norma censurata includendo nel novero dei beneficiari dell’agevolazione anche il coniuge –, è entrato in vigore il 1° gennaio 2008 e, non avendo natura retroattiva, non è applicabile nel processo principale, concernente una successione aperta nel 2007.

 

3.1.– Quanto alla non manifesta infondatezza, la CTR ritiene che l’art. 3, comma 4-ter, del d.lgs. n. 346 del 1990 rechi un vulnus, innanzitutto, all’art. 3, primo comma, Cost., in relazione al principio di eguaglianza.

 

L’omessa inclusione del coniuge del dante causa tra i beneficiari dei trasferimenti che non sono soggetti all’imposta di successione e donazione si tradurrebbe, infatti, in un’irragionevole disparità di trattamento.

 

In particolare, il giudice a quo, nel richiamare l’orientamento di questa Corte secondo cui l’ambito di applicazione delle disposizioni di agevolazione fiscale non può essere esteso se non quando lo esiga la ratio dell’agevolazione stessa, ritiene che nel caso di specie ricorra proprio tale ipotesi.

 

In questa prospettiva, sostiene che la suddetta esenzione sarebbe preordinata ad assicurare la «continuità familiare della gestione aziendale», della quale la continuità «generazionale» costituirebbe una specificazione.

 

Di conseguenza, a parere del rimettente, non sarebbe ravvisabile una giustificazione ragionevole del diverso regime fiscale riservato al destinatario del trasferimento a seconda che questo sia il coniuge o il discendente del dante causa, giacché in ambedue i casi ricorrerebbe la stessa esigenza di mantenere il complesso aziendale «all’interno dell’ambito familiare».

 

3.1.1.– Alla luce di siffatte considerazioni, risulterebbe violato, secondo la CTR, anche l’art. 29 Cost., in quanto l’esclusione del coniuge dall’agevolazione tributaria comprometterebbe la «tutela del nucleo familiare».

 

3.1.2.– A sostegno delle dedotte violazioni, il giudice a quo argomenta, infine, osservando che la materia successoria conoscerebbe altri «esempi» nei quali il legislatore tributario – al fine di facilitare la circolazione dei beni aziendali all’interno del «nucleo familiare allargato» – avrebbe riconosciuto agevolazioni fiscali senza operare distinzioni tra i suoi componenti. Menziona, in particolare, le fattispecie disciplinate dai commi 3, 4 e 4-bis dell’art. 25 del d.lgs. n. 346 del 1990, i quali prevedono una riduzione dell’imposta ove nell’attivo ereditario siano compresi: a) fondi rustici, a condizione, tra l’altro, che l’erede o il legatario siano coltivatori diretti e che la devoluzione avvenga nell’ambito di una famiglia diretto-coltivatrice (comma 3); b) immobili o parti di essi adibiti all’esercizio dell’impresa e devoluti nell’ambito di una impresa artigiana familiare (comma 4); c) infine, aziende, quote di società di persone o beni strumentali all’esercizio di arti e professioni, purché, tra l’altro, ubicati in comuni montani con meno di cinquemila abitanti o nelle frazioni con meno di mille abitanti se situati in comuni montani di maggiori dimensioni (comma 4-bis).

 

4.– È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o manifestamente infondate.

 

4.1.– L’eccezione d’inammissibilità è basata, in primo luogo, sulla natura additiva della pronuncia richiesta.

 

Sotto altro profilo, le questioni sollevate sarebbero inammissibili in quanto riguardano una materia connotata da ampia discrezionalità del legislatore, salva la manifesta violazione del canone della ragionevolezza.

 

4.2.– Nel merito, l’Avvocatura generale evidenzia, innanzitutto, che la norma censurata è applicabile anche al trasferimento per effetto del patto di famiglia di cui all’art. 768-bis del codice civile.

 

Questo contratto, previsto dall’art. 2 della legge 14 febbraio 2006, n. 55 (Modifiche al codice civile in materia di patto di famiglia), sarebbe difatti diretto ad agevolare la successione nell’azienda o nelle partecipazioni societarie dell’imprenditore solo in favore dei suoi discendenti e non anche degli altri familiari: in tale prospettiva, la delimitazione soggettiva dell’esenzione prevista dalla norma denunciata sarebbe del tutto coerente, in quanto disposta a favore degli unici soggetti che possono essere destinatari del trasferimento in virtù del patto di famiglia.

 

D’altra parte, prosegue l’Avvocatura generale, è vero che la norma agevolativa censurata si applica anche ai trasferimenti per donazione o successione mortis causa, sicché essa non potrebbe essere giustificata esclusivamente sulla base della evidenziata coerenza con la disciplina del patto di famiglia; nondimeno, il favor manifestato dal legislatore tributario nei confronti dei soli discendenti troverebbe fondamento nella ulteriore considerazione che le generazioni più giovani sarebbero maggiormente idonee a garantire l’avvicendamento nella gestione aziendale.

 

Né argomenti a favore della necessaria equiparazione tra i discendenti e il coniuge potrebbero essere desunti dalle disposizioni, richiamate dal rimettente, di cui ai commi 3, 4 e 4-bis dell’art. 25 del d.lgs. n. 346 del 1990: i benefici fiscali da esse previsti, infatti, non riguarderebbero qualsiasi trasferimento di azienda, come nella fattispecie disciplinata dalla norma denunciata, bensì situazioni particolari che, in quanto tali, appaiono meritevoli di una riduzione dell’imposta.

 

Secondo la difesa statale, nemmeno potrebbe trarsi argomento a sostegno della dedotta disparità di trattamento dalla modifica successivamente apportata al censurato comma 4-ter dell’art. 3 del d.lgs. n. 346 del 1990 dall’art. 1, comma 31, della legge n. 244 del 2007, per effetto del quale il beneficio in parola è stato esteso anche ai trasferimenti effettuati a favore del coniuge. Tale estensione, che non risponderebbe alla sopra evidenziata ratio dell’esenzione dall’imposta, sarebbe difatti del tutto eccezionale e, di conseguenza, inidonea ad assurgere a tertium comparationis dal quale desumere l’asserita violazione del principio di eguaglianza.

 

Né sulla scorta della novella appena menzionata potrebbe, infine, sostenersi la compromissione dell’art. 29 Cost., dal momento che la tutela costituzionale della famiglia non impone in ogni caso un’assoluta parità di trattamento tra i suoi componenti.

 

Considerato in diritto

 

1.– La Commissione tributaria regionale (CTR) dell’Emilia-Romagna dubita, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 29 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 4-ter (recte: dell’art. 3, comma 4-ter) del decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 346 (Approvazione del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta sulle successioni e donazioni), come introdotto dall’art. 1, comma 78, lettera a), della legge 27 dicembre 2006, n. 296, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2007)», nella parte in cui non include tra i trasferimenti di aziende o rami di esse, di quote sociali e di azioni che non sono soggetti all’imposta sulle successioni e donazioni anche quelli a favore del coniuge del dante causa.

 

La disposizione censurata, nella formulazione applicabile ratione temporis nel giudizio principale, prevede che: a) «[i] trasferimenti, effettuati anche tramite i patti di famiglia di cui agli articoli 768-bis e seguenti del codice civile a favore dei discendenti, di aziende o rami di esse, di quote sociali e di azioni non sono soggetti all’imposta» (primo periodo); b) «[i]n caso di quote sociali e azioni di soggetti di cui all’articolo 73, comma 1, lettera a), del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, il beneficio spetta limitatamente alle partecipazioni mediante le quali è acquisito o integrato il controllo ai sensi dell’articolo 2359, primo comma, numero 1), del codice civile» (secondo periodo); c) «[i]l beneficio si applica a condizione che gli aventi causa proseguano l’esercizio dell’attività d’impresa o detengano il controllo per un periodo non inferiore a cinque anni dalla data del trasferimento, rendendo, contestualmente alla presentazione della dichiarazione di successione o all’atto di donazione, apposita dichiarazione in tal senso» (terzo periodo); d) «[i]l mancato rispetto della condizione di cui al periodo precedente comporta la decadenza dal beneficio, il pagamento dell’imposta in misura ordinaria, della sanzione amministrativa prevista dall’articolo 13 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 471, e degli interessi di mora decorrenti dalla data in cui l’imposta medesima avrebbe dovuto essere pagata» (ultimo periodo).

 

Nello specifico si tratta, come risulta dalla norma, di un regime agevolativo opzionale: i beneficiari del trasferimento non sono tenuti, infatti, a corrispondere l’imposta sulle successioni e donazioni a condizione che proseguano l’esercizio dell’attività di impresa o detengano il controllo per un periodo non inferiore a cinque anni dalla data del trasferimento, rendendo contestualmente apposita dichiarazione in tal senso nella dichiarazione di successione o nell’atto di donazione.

 

Ad avviso del Collegio rimettente, la norma denunciata lederebbe, in primo luogo, l’art. 3 Cost., in relazione al principio di eguaglianza, in considerazione della irragionevole disparità del regime fiscale al quale assoggetta i discendenti e il coniuge del dante causa.

 

Secondo la CTR, la disciplina dettata dall’art. 3, comma 4-ter, del d.lgs. n. 346 del 1990 sarebbe difatti preordinata a favorire la «continuità familiare» nella gestione aziendale e il «mantenimento del complesso all’interno dell’ambito familiare»: finalità il cui perseguimento sarebbe assicurato anche nel caso in cui il trasferimento avvenga a favore del coniuge del dante causa, con conseguente ingiustificata disparità di trattamento.

 

Poiché la norma censurata avrebbe, in sostanza, la funzione di tutelare la famiglia, l’esclusione del coniuge dall’esenzione in parola recherebbe inoltre un vulnus all’altro parametro evocato, cioè all’art. 29 Cost.

 

2.– L’Avvocatura generale dello Stato ha preliminarmente eccepito l’inammissibilità delle questioni sollevate, limitandosi, sotto un primo profilo, a sostenere che ciò deriverebbe dal fatto che il rimettente, chiedendo l’estensione dell’agevolazione al coniuge del dante causa, «invoca una pronuncia chiaramente additiva».

 

L’eccezione non è fondata, perché si basa esclusivamente sull’assunto, palesemente infondato, secondo cui a questa Corte sarebbe inibito emettere (e al rimettente richiedere) una pronuncia additiva.

 

È qui sufficiente ricordare, in contrario, sia la costante giurisprudenza che ammette in generale tale tipo di pronuncia, sia quella che specificamente consente di estendere le agevolazioni fiscali quando lo esiga l’identità di ratio (ex plurimis, sentenza n. 242 del 2017).

 

2.1.– È parimenti infondata l’ulteriore eccezione d’inammissibilità, formulata dall’Avvocatura generale sotto il profilo dell’ampia discrezionalità di cui gode il legislatore nella materia tributaria.

 

Se è infatti vero che le disposizioni che prevedono agevolazioni fiscali costituiscono esercizio di un potere discrezionale, ciò tuttavia non preclude l’intervento di questa Corte, dal momento che tale discrezionalità è pur sempre censurabile «per la sua eventuale palese arbitrarietà o irrazionalità […]» (ex plurimis, sentenze n. 264 e n. 177 del 2017). L’Avvocatura stessa, del resto, nel prospettare l’inammissibilità, afferma che il sindacato di legittimità è possibile in caso di «manifesta incongruità» delle scelte legislative e, al fine di escludere che nella specie ricorra un’ipotesi di tal genere, finisce per contestare nel merito la fondatezza delle censure.

 

3.– Nel merito le questioni non sono fondate.

 

È opportuno peraltro inquadrare sotto il profilo del contesto ordinamentale l’esenzione disposta dall’art. 3, comma 4-ter, del d.lgs. n. 346 del 1990.

 

3.1.– L’introduzione, negli Stati membri della Comunità europea, di forme di agevolazione sulle imposte di successione e donazione con riguardo al passaggio generazionale delle imprese è stata a suo tempo sollecitata dalla Raccomandazione 94/1069/CE della Commissione europea sulla successione nelle piccole e medie imprese, adottata il 7 dicembre 1994 (cui ha fatto seguito la Comunicazione 98/C 93/02 della Commissione relativa alla trasmissione delle piccole e medie imprese, adottata il 27 marzo 1998).

 

Sul rilievo che il Libro bianco sulla crescita, la competitività e l’occupazione dell’anno precedente menzionava «la successione nelle imprese quale settore prioritario cui apportare dei miglioramenti», la Commissione prendeva atto della «inadeguatezza di alcune parti della legislazione degli Stati membri, soprattutto in materia di diritto societario, successorio e fiscale», constatando «che ogni anno diverse migliaia di imprese sono obbligate a cessare la loro attività a causa di difficoltà insormontabili inerenti alla successione; [e] che tali liquidazioni hanno ripercussioni negative sul tessuto economico delle imprese nonché sui loro creditori e lavoratori».

 

La Raccomandazione evidenziava quindi come «uno dei principali ostacoli al buon esito della successione familiare» fosse costituito dal correlativo onere fiscale, al punto che «il pagamento delle imposte di successione o di donazione rischia di mettere in pericolo l’equilibrio finanziario dell’impresa e quindi la sua sopravvivenza».

 

Invitava pertanto gli Stati membri ad «adottare le misure necessarie per facilitare la successione nelle piccole e medie imprese al fine di assicurare la sopravvivenza delle imprese [stesse] ed il mantenimento dei posti di lavoro» (art. 1) e, tra queste, segnalava anche l’opportunità di «incoraggiare fiscalmente l’imprenditore a trasferire la sua impresa tramite vendita o cessione ai dipendenti, soprattutto quando non vi sono successori nell’ambito della famiglia» (art.1).

 

Nello specifico, oltre a invitare a ridurre la tassazione delle plusvalenze in caso di vendita o cessione (art. 7), la Raccomandazione sollecitava gli Stati a «ridurre, purché l’attività dell’impresa prosegua in modo effettivo per un certo periodo minimo, i tributi sugli attivi strettamente legati all’esercizio dell’impresa in caso di trasferimento tramite donazione o successione ereditaria, in particolare le imposte di successione, di donazione e di registro» (art. 6).

 

3.2.– Tali sollecitazioni cadevano in un momento storico in cui il tributo successorio era sensibilmente gravoso non solo negli altri Paesi europei, ma anche in Italia, dove l’imposta si articolava in un prelievo unitario, calcolato sia sul valore delle singole quote ereditarie, sia sul valore globale dell’asse. In particolare, per il coniuge e i discendenti beneficiari del trasferimento, l’onerosità del carico fiscale era solo parzialmente attenuata dall’esenzione prevista per la loro quota ereditaria e dalle franchigie sull’asse globale, tenuto conto che su questo gravavano comunque aliquote progressive per scaglioni che variavano, da ultimo, dal 7 al 27 per cento.

 

Successivamente, però, con la riforma dell’imposta sulle successioni e donazioni disposta dall’art. 69 della legge 21 novembre 2000, n. 342 (Misure in materia fiscale), il legislatore, tenendo conto delle indicazioni della predetta Raccomandazione, ha notevolmente ridimensionato il peso fiscale delle successioni.

 

In via generale, infatti, è stata abrogata l’imposizione progressiva sull’asse ereditario globale netto, prevedendosi una tassazione proporzionale sulla singola quota nella limitata misura, quanto al coniuge e ai parenti in linea retta, del 4 per cento al netto della franchigia.

 

Inoltre, in particolare per facilitare i trasferimenti mortis causa o per donazione delle aziende, delle azioni e delle quote sociali, è stato eliminato il riferimento al valore dell’avviamento nella determinazione della base imponibile ed è stato esteso alle donazioni (art. 25, comma 4-ter, del d.lgs. n. 346 del 1990) il regime agevolato già in precedenza introdotto nell’art. 25, comma 4-bis, del d.lgs. n. 346 del 1990 dall’art. 3, comma 28, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), consistente in una riduzione dell’imposta afferente alle aziende ubicate in territori montani. Tale disposizione prevede una riduzione dell’imposta afferente alle aziende, quote di società di persone o beni strumentali ubicati in Comuni montani con meno di cinquemila abitanti o nelle frazioni con meno di mille abitanti (anche se situate in comuni montani di maggiori dimensioni), trasferiti al coniuge o al parente entro il terzo grado del defunto, «a condizione che gli aventi causa proseguano effettivamente l’attività imprenditoriale per un periodo non inferiore a cinque anni dalla data del trasferimento».

 

Regimi tributari agevolativi volti a tutelare specifici assetti imprenditoriali della piccola e media impresa in vista della continuità dell’attività economica erano peraltro già stati previsti – a determinate condizioni – nell’art. 25 del d.lgs. n. 346 del 1990 con riguardo agli immobili adibiti all’esercizio dell’impresa nell’ambito di un’impresa artigiana familiare (comma 4) e ai fondi rustici devoluti a coltivatori diretti in ambito familiare (comma 3), cui si era aggiunta la peculiare disciplina agevolativa finalizzata a «favorire la continuità dell’impresa agricola» nel caso di successione o donazione a beneficio di discendenti entro il terzo grado aventi i requisiti dei cosiddetti giovani agricoltori (art. 14 della legge 15 dicembre 1998, n. 441, recante «Norme per la diffusione e la valorizzazione dell’imprenditoria giovanile in agricoltura», e successive modificazioni).

 

3.3.– A poca distanza dalla legge n. 342 del 2000 è poi intervenuta la legge 18 ottobre 2001, n. 383 (Primi interventi per il rilancio dell’economia), che, con l’art. 13, da un lato, ha soppresso l’imposta sulle successioni e donazioni e, dall’altro, ha mantenuto un’imposizione solo sulle donazioni tra estranei o affini o parenti in linea collaterale oltre il quarto grado (superata la franchigia di 350 milioni di lire).

 

3.4.– Tale soppressione, tuttavia, ha costituito una isolata parentesi nell’ambito dello sviluppo dell’ordinamento tributario, perché con l’art. 2, commi da 47 a 54, del decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262 (Disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), così come sostituito in sede di conversione dalla legge 24 novembre 2006, n. 286, il legislatore, per un verso, ha abrogato il suddetto art. 13 e, per l’altro, ha sostanzialmente “reintrodotto” la soppressa imposta sulle successioni e donazioni.

 

Ciò è avvenuto, da un lato, sostanzialmente riportando in vigore le norme del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta sulle successioni e donazioni di cui al d.lgs. n. 346 del 1990, nel testo vigente alla data del 24 ottobre 2001 e, dunque, con le descritte modifiche derivanti dal disposto dell’art. 69 della legge n. 342 del 2000; dall’altro, innalzando sensibilmente la franchigia a favore del coniuge e dei parenti in linea retta (portata a 1.000.000 di euro per ciascun beneficiario).

 

Peraltro, in linea con i sopra ricordati inviti della Commissione, con la legge 14 febbraio 2006, n. 55 (Modifiche al codice civile in materia di patto di famiglia), il legislatore ha anche introdotto, nell’ambito della disciplina sulle successioni del codice civile, l’istituto del patto di famiglia (artt. 768-bis e seguenti cod. civ.), che consente, in un’ottica preordinata ad assicurare la continuità dell’impresa, la programmazione strategica del passaggio generazionale («ad uno o più discendenti», ai sensi dell’art. 768-bis cod. civ.) dell’impresa stessa, anche in deroga al divieto dei patti successori di cui all’art. 458 cod. civ.

 

3.5.– In definitiva, nell’ordinamento italiano, al momento dell’introduzione da parte del legislatore, con la legge finanziaria del 2007, della nuova agevolazione tributaria sul passaggio generazionale dell’azienda, dei rami aziendali, delle quote sociali e delle azioni: era stato sensibilmente ridotto in via generale il peso dell’imposta di successione e donazione; erano stati previsti regimi tributari agevolativi al fine di facilitare, in particolari contesti, la successione nell’attività imprenditoriale; erano stati introdotti specifici strumenti contrattuali diretti a permettere una programmazione strategica del passaggio generazionale dell’impresa.

 

La norma denunciata ha quindi previsto un ulteriore regime fiscale, particolarmente favorevole, che comporta – a determinate condizioni – la totale esenzione in occasione del passaggio generazionale per successione mortis causa o per donazione.

 

Dalla scelta di collocare questa agevolazione nell’art. 3 del d.lgs. n. 346 del 1990 deriva altresì che, in forza del rinvio ad esso disposto dagli artt. 1, comma 2, e 10, comma 3, del decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 347 (Approvazione del testo unico delle disposizioni concernenti le imposte ipotecaria e catastale), relativo alle imposte ipotecaria e catastale, l’esenzione da imposta operi, alle stesse condizioni, anche con riferimento a questi tributi (altrimenti dovuti nel caso in cui l’azienda comprenda immobili).

 

4. – Una volta ricostruito il contesto normativo in cui si inserisce la norma in questione, è necessario, quale ulteriore premessa, chiarire in quale species essa si inquadri nell’ambito dell’ampio genus delle cosiddette agevolazioni fiscali, che non rappresentano un “accidente” dei sistemi tributari, quanto piuttosto il modo di risolvere complessi problemi di ponderazione degli interessi e dei valori in gioco in materia di imposizione.

 

Si tratta di una ponderazione rimessa in primo luogo alla valutazione discrezionale del legislatore, ma pur sempre sindacabile da questa Corte sotto il profilo della proporzionalità del bilanciamento operato, in particolare quando viene in causa una vera e propria deroga al dovere di tutti di concorrere alle spese pubbliche in base alla propria capacità contributiva (artt. 2, 3 e 53 Cost.), con ricaduta sulle connesse finalità redistributive e sulle esigenze di finanziamento dei diritti costituzionali (sentenza n. 288 del 2019).

 

4.1 – È peraltro utile anche precisare che soprattutto in questo ambito i sistemi fiscali, condizionati dall’alto tasso di dinamismo delle politiche finanziarie, difficilmente tendono a svilupparsi come costruzioni concettualmente ordinate, dando invece vita a figure spesso caratterizzate da eterogeneità in termini definitori e da una notevole approssimazione del linguaggio normativo.

 

Tuttavia, è comunque possibile e opportuno, sul piano della giustificazione costituzionale, operare una distinzione – di massima, poiché le interconnessioni rimangono sempre possibili – tra i diversi istituti agevolativi.

 

In alcuni casi è, infatti, comunque ravvisabile la prevalenza di un carattere strutturale, dal momento che la sottrazione all’imposizione (o la sua riduzione) è resa necessaria dall’applicazione coerente e sistematica del presupposto del tributo (ad esempio per evitare doppie imposizioni) o dalla ricognizione dei soggetti passivi oppure dal rilievo di una minore o assente capacità contributiva (che il legislatore può riscontrare in relazione ad alcune circostanze di fatto o alla particolare fisionomia del tributo). In siffatte ipotesi, si è in presenza di agevolazioni previste per finalità intrinseche al prelievo.

 

In altri istituti, invece, la natura di agevolazione è propriamente riscontrabile, perché, a differenza di quelli appena descritti, essi presuppongono l’esistenza di una capacità contributiva coerente con la struttura del tributo, ma, in deroga (già, in tal senso, sentenza n. 159 del 1985) al dictum de omni di cui all’art. 53, primo comma, Cost., prevedono, per motivi extrafiscali, forme di esenzione, di tassazione sostitutiva più favorevole o altre misure comunque dirette a rendere meno gravoso o non incidente il carico tributario in relazione a determinate fattispecie.

 

All’interno di questa categoria di agevolazioni è poi possibile distinguere tra quelle in cui la finalità extrafiscale perseguita dal legislatore appare riconducibile all’attuazione di altri principi costituzionali (quali, a titolo esemplificativo, la tutela della famiglia, del diritto alla salute o lo sviluppo della previdenza) e quelle per le quali, invece, questa prospettiva teleologica non è individuabile. Al riguardo va precisato che il difetto di tale prospettiva non rende queste ultime agevolazioni di per sé in contrasto con la Costituzione, salvo quando la finalità extrafiscale non sia in alcun modo riconducibile a motivi attinenti al bene comune e assuma piuttosto il tratto di un mero privilegio. Rimane fermo, in ogni caso, che il suddetto difetto, nell’ambito del sindacato sulla violazione del principio di eguaglianza tributaria, implica uno scrutinio particolarmente rigoroso sulla sussistenza di una eadem ratio che ne giustifichi l’estensione in riferimento alle fattispecie ritenute escluse.

 

4.2.– Venendo quindi alle censure del rimettente, che si fondano sulla mancata inclusione del coniuge nel novero dei soggetti esenti dal pagamento dell’imposta, con un vulnus agli artt. 3 e 29 Cost., assume rilievo la specifica struttura della norma in questione, che appare riconducibile, innanzitutto, all’ambito delle agevolazioni propriamente tali.

 

Essa, infatti, dispone un’esenzione a fronte di una riconosciuta capacità contributiva, essendo l’imposizione delle successioni e donazioni «giustificata dall’arricchimento dell’erede o del beneficiario e quindi in ragione della capacità contributiva di questi ultimi, che risulta nuova e autonoma anche rispetto alle imposte a suo tempo versate dal dante causa» (sentenza n. 54 del 2020): non presenta quindi alcun carattere strutturale, come del resto è evidentemente confermato anche dalla sua natura opzionale.

 

L’esenzione in discorso mira dunque ad agevolare – attraverso l’eliminazione dell’onere fiscale correlato al trasferimento per successione o donazione – la continuità generazionale dell’impresa nell’ambito dei discendenti nella famiglia in occasione della successione mortis causa, rispetto alla quale il trasferimento a seguito di donazione può rappresentare una vicenda sostanzialmente anticipatoria.

 

Tale scopo della norma è innanzitutto evincibile dal suo tenore letterale che, da un lato, riguarda esclusivamente complessi aziendali, partecipazioni sociali e azioni; dall’altro, subordina la fruizione del beneficio alla condizione che i discendenti «proseguano l’esercizio dell’attività d’impresa o detengano il controllo» per un periodo di almeno cinque anni.

 

Ciò trova ulteriore conferma nei lavori preparatori, da cui emerge che il legislatore, in presenza della garanzia di prosecuzione dell’attività dell’azienda da padre a figlio, ha adottato la scelta di escludere l’imposizione, «al fine di facilitare il passaggio generazionale delle imprese a carattere familiare, che costituiscono […] una delle componenti essenziali della struttura produttiva del Paese» (relazione della VI Commissione permanente presso la Camera dei deputati sul disegno di legge recante la legge finanziaria per il 2007).

 

4.3.– La finalità di agevolare la continuità della gestione familiare di un’impresa, per come considerata nella struttura della esenzione in oggetto, appare eccedente rispetto al favor familiae espresso dall’art. 29 Cost.

 

In ipotesi, solo in particolari casi, come ad esempio quello dell’impresa familiare, dove è prevalente l’aspetto del lavoro del titolare e dei suoi familiari (sovente anche rispetto a quello del capitale), una connessione è semmai ipotizzabile, ma non certo nella generalizzazione disposta dalla norma in oggetto.

 

L’intervento legislativo in esame, inoltre, si differenzia da altre misure fiscali invece pacificamente riconducibili alla tutela costituzionale della famiglia, come, ad esempio, le deduzioni o le detrazioni per i figli a carico, che rispondono appunto allo scopo di favorire il dovere dei genitori di «mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio» (art. 30, primo comma, Cost.), e, al contempo, di considerare la minore capacità contributiva che deriva dall’assolvimento di tale dovere.

 

Pertanto la norma oggetto dell’odierno scrutinio, che soprattutto prescinde completamente dalla verifica di uno stato di bisogno, risulta eccedente rispetto alla protezione offerta dai «principali precetti costituzionali (artt. da 29 a 31 Cost.) posti a tutela della famiglia e, in particolare, delle situazioni di potenziale fragilità in essa ravvisabili» (sentenza n. 54 del 2020).

 

4.4.– L’agevolazione disposta dalla norma in esame eccede altresì, per come strutturata, l’ambito di operatività dell’art. 41 Cost., che costituisce l’altro riferimento costituzionale a cui essa potrebbe essere astrattamente riferibile e che quindi, a prescindere dalle censure del remittente, deve comunque essere preso in considerazione da questa Corte per poter debitamente inquadrare la natura della esenzione in oggetto.

 

Del resto, spesso le agevolazioni fiscali costituiscono un tipico ed efficace strumento di politica economica finalizzato a incentivare, orientare o rilanciare il sistema produttivo: esse, pertanto, ben possono risultare riconducibili, in varie forme e modi, proprio all’ambito dell’art. 41 Cost.

 

L’agevolazione in esame, tuttavia, non è destinata direttamente all’impresa ma ad agevolarne la continuità a favore dei discendenti nel momento del passaggio generazionale.

 

Da questo punto di vista va allora considerato che, in via più generale, l’esigenza di garantire la continuità aziendale nella giurisprudenza di questa Corte è stata valorizzata in particolare in quanto preordinata alla garanzia del diritto al lavoro, laddove il legislatore ha «inteso realizzare un intervento diretto a garantirne la continuità ed a permettere la conservazione del rilevante valore dell’azienda (costituita da una pluralità di beni e rapporti, di varia natura), al fine di scongiurare, in tal modo, anche una grave crisi occupazionale» (sentenza n. 270 del 2010); in nome quindi, tra l’altro, dell’«interesse costituzionalmente rilevante al mantenimento dei livelli occupazionali e [del] dovere delle istituzioni pubbliche di spiegare ogni sforzo in tal senso» (sentenza n. 85 del 2013).

 

In astratto, anche la finalità perseguita dall’agevolazione in oggetto, con riguardo all’aspetto inerente alla continuazione dell’attività produttiva, potrebbe rispondere all’esigenza di evitare che il peso delle imposte nel momento della successione possa generare difficoltà finanziarie tali da mettere in pericolo la sopravvivenza dell’impresa, con una conseguente perdita dei posti di lavoro e ulteriori ripercussioni sul tessuto economico: del resto anche in altri ordinamenti sono previste forme analoghe di agevolazione, che peraltro raramente dispongono una esenzione totale, le quali si raccordano però a ben più gravosi carichi fiscali sulle successioni.

 

In concreto, tuttavia, l’esenzione di cui all’art. 3, comma 4-ter, del d.lgs. n. 346 del 1990 viene accordata prescindendo da qualsiasi considerazione delle dimensioni dell’impresa, di particolari congiunture economiche sfavorevoli o di indici dai quali sia desumibile la difficoltà dei successori nel corrispondere l’imposta e si inserisce in un sistema impositivo, come quello attualmente vigente in Italia, caratterizzato (quanto ai discendenti e al coniuge che qui rilevano) da un’aliquota pari al 4 per cento e da franchigie consistenti.

 

Sebbene si sia in presenza di un’imposizione (in senso lato) di tipo patrimoniale, non risulta immediato ipotizzare che i problemi di liquidità derivanti dagli oneri conseguenti alla vigente imposta di successione possano, nella normalità dei casi, mettere in pericolo la sopravvivenza dell’impresa.

 

Si tratta, in ogni caso, di un rischio realisticamente più riferibile e ragionevolmente più giustificabile con riguardo alle piccole e medie imprese piuttosto che alle grandi: l’oggetto della citata Raccomandazione della Commissione europea era, non a caso, limitato alle prime.

 

Pertanto risulta in concreto eccessivo che anche trasferimenti di grandi aziende, di rami di esse o di quote di società, che possono valere centinaia di milioni o addirittura diversi miliardi di euro, vengano interamente esentati dall’imposta, anche quando i beneficiari sarebbero pienamente in grado di assolvere l’onere fiscale.

 

Ciò rende l’esenzione in discorso, per come strutturata, in parte disallineata rispetto alla finalità, in sé certamente meritevole di tutela, di garantire la sopravvivenza dell’impresa e quindi di evitare la dissipazione dell’universo dei valori sociali ad essa indubbiamente riferibili, che derivano dalla sua capacità, in varie forme e modi, di promuovere l’utilità sociale.

 

Inoltre, per effetto congiunto del comma 1 dell’art. 58 del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi), e dell’art. 8, comma 1-bis, del d.lgs. n. 346 del 1990, a differenza di quanto avviene nel caso di vendita dell’azienda, il trasferimento per causa di morte o atto gratuito non costituisce realizzo di plusvalenze dell’azienda stessa e il relativo avviamento è escluso dalla determinazione della base imponibile del tributo sulle successioni e donazioni. Pertanto, l’esenzione in oggetto, azzerando completamente il carico fiscale, potrebbe anche costituire un disincentivo alla vendita, favorendo sì, anche da questo punto di vista, la continuità della proprietà dell’impresa, ma all’interno della stessa comunità familiare: ciò, tuttavia, non è detto che assicuri, direttamente o indirettamente, un’idonea qualità manageriale (problema tanto più grave quanto maggiori sono le dimensioni dell’impresa).

 

Infine, sempre riguardo alle finalità sociali, va notato che l’agevolazione in oggetto può anche favorire una concentrazione della ricchezza che prescinde da una ragionevole approssimazione al merito e alle capacità individuali, ostacolando così la mobilità socio-economica e l’uguaglianza delle opportunità di partecipazione sociale.

 

Tali elementi portano quindi a concludere che la norma in parola, data la sua attuale struttura, non solo non coincide con un interesse sempre riconducibile all’art. 41 Cost., ma può condurre, con riguardo all’applicazione alle grandi imprese, anche ad esiti, come detto, eccedenti rispetto allo scopo, dal momento che quanto più ampie sono le esenzioni fiscali, tanto più impegnativi dovrebbero essere i requisiti idonei a giustificarle.

 

Peraltro, va oltretutto considerato che la suddetta esenzione si applica anche ai trasferimenti, mortis causa o per liberalità, di quote sociali e azioni di società non residenti nel territorio nazionale (anche se sempre limitatamente a quelle partecipazioni che consentano di acquisire o integrare il controllo ai sensi dell’art. 2359, primo comma, numero 1, cod. civ.). Tale esenzione, pertanto, difetta strutturalmente della possibilità di trovare un’ipotetica giustificazione quale disincentivo rispetto al fenomeno, altamente pregiudizievole per la Repubblica italiana – data la conseguente, rilevante, perdita di gettito – delle migrazioni, rese convenienti anche a causa della mancanza di un’armonizzazione comunitaria delle imposte dirette, delle sedi legali delle imprese in Paesi che possono sostenere regimi fiscali ben più competitivi di quello nazionale.

 

È significativo, da ultimo, ricordare che, con sentenza del 17 dicembre 2014, il Tribunale costituzionale tedesco, investito della questione su rinvio della Corte federale delle finanze, ha dichiarato incompatibile con il principio di eguaglianza – assegnando un congruo termine al legislatore per intervenire – l’agevolazione fiscale (analoga a quella oggetto dell’odierno scrutinio, ma meno ampia, più rigorosa con riferimento alla conservazione dei posti di lavoro e soprattutto inserita in un contesto in cui l’imposizione è nettamente più elevata) prevista dalla normativa tedesca in tema di imposte sulle successioni e sulle donazioni in occasione del passaggio del patrimonio aziendale per successione mortis causa, ritenendola sproporzionata nella parte in cui, estendendosi oltre l’ambito delle piccole e medie imprese, prescinde da ogni verifica delle effettive esigenze delle imprese agevolate.

 

5. – Così chiarita, nei termini sopra descritti, la natura della misura agevolativa introdotta dal legislatore, è da escludere che l’omessa estensione al coniuge dell’agevolazione tributaria in discorso sia censurabile sotto i profili evidenziati dal rimettente.

 

5.1.– Innanzitutto, non è fondata la censura inerente alla lesione dell’art. 3 Cost., in relazione al principio di uguaglianza.

 

Quando, infatti, viene in considerazione un intervento agevolativo come quello qui descritto, si impone (come si è chiarito supra, punto 4.1) uno scrutinio particolarmente rigoroso in ordine alla sussistenza di una eadem ratio che possa condurre al riscontro di una violazione del principio di eguaglianza.

 

Nello specifico, lo scopo della norma denunciata, come sopra visto, è quello di incentivare la continuità di un’attività d’impresa da parte dei discendenti all’interno della famiglia del dante causa in occasione della successione mortis causa, rispetto alla quale, come pure si è detto, il trasferimento a seguito di donazione rappresenta una vicenda sostanzialmente, anche se non necessariamente, anticipatoria.

 

Tale ratio non è identicamente riferibile tanto al caso in cui la trasmissione avvenga a favore dei discendenti stessi quanto a quello in cui il trasferimento sia effettuato a favore del coniuge.

 

È vero, infatti, che vi è un elemento oggettivo comune ad entrambe le fattispecie poste a confronto, giacché anche il trasferimento al coniuge può realizzare l’obiettivo della continuità dell’impresa.

 

Tuttavia, un primo dato differenziale deriva dalla circostanza che l’esenzione in parola si pone, anche diacronicamente, in linea di continuità con la previsione normativa che solo poco tempo prima aveva introdotto nel codice civile il patto di famiglia (art. 768-bis cod. civ.); un nuovo contratto tipico che, ponendosi espressamente in deroga al generale divieto dei patti successori di cui all’art. 458 cod. civ. e prevedendo la necessaria partecipazione del coniuge e di tutti i legittimari, consente all’imprenditore di trasferire l’azienda o le partecipazioni societarie esclusivamente in favore dei discendenti e non anche del coniuge, il quale, al pari degli altri soggetti che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione dell’imprenditore stesso, sarà soddisfatto, qualora non vi rinunzi, con il pagamento di una somma corrispondente al valore della quota a questo spettante ai sensi degli artt. 536 e seguenti cod. civ.

 

Il legislatore, quindi, da un lato ha previsto uno specifico strumento contrattuale volto a facilitare la successione in una particolare tipologia di beni unicamente a favore dei discendenti; dall’altro, nell’esercizio del suo potere discrezionale, ha limitato a tali soggetti anche il beneficio fiscale oggetto dell’odierno scrutinio.

 

Un ulteriore elemento differenziale deriva dalla considerazione per cui i discendenti – essendo generalmente più giovani del coniuge del dante causa – rappresentano, secondo l’id quod plerumque accidit, coloro che più sono in grado di proiettare l’esercizio dell’attività produttiva in un orizzonte temporale maggiormente esteso o quanto meno nel limite minimo di cinque anni dal trasferimento imposto dal legislatore.

 

La scelta legislativa di circoscrivere il beneficio alla sola ipotesi del passaggio intergenerazionale a favore dei discendenti appare quindi non arbitraria, essendo giustificata in una prospettiva di “maggiore durata” della continuità dell’attività economica: il trasferimento al coniuge non è, pertanto, pienamente assimilabile a quello a favore del discendente.

 

Sulla scorta delle considerazioni svolte, non risulta dunque una piena omogeneità tra le situazioni messe a confronto, tale da far ritenere che il legislatore sia incorso nella manifesta arbitrarietà.

 

Né è di ostacolo a tale conclusione la circostanza che l’esenzione sia stata in seguito estesa al coniuge dalla legge 24 dicembre 2007, n. 244, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2008)»: la non manifesta irragionevolezza della limitazione del beneficio non comporta difatti, di per sé, la preclusione della possibilità di ampliarne in seguito la concreta fruibilità. Rientra infatti nella discrezionalità del legislatore, ovviamente nel limite della ragionevolezza, valutare la “misura” della continuità che si vuole garantire con l’agevolazione.

 

Nemmeno conducono a diversa conclusione le disposizioni menzionate dal rimettente quali «esempi» di estensione, in caso di successione, di agevolazioni fiscali «senza distinzione ai componenti del nucleo familiare superstite».

 

È infatti vero che l’art. 25 del d.lgs. n. 346 del 1990 prevede una riduzione dell’imposta di successione e donazione con riguardo: a) ai fondi rustici compresi nell’attivo ereditario, ove devoluti al coniuge o ai parenti in linea retta nonché a fratelli o sorelle del defunto, sempre che tali soggetti siano coltivatori diretti e che la devoluzione avvenga nell’ambito di una famiglia diretto-coltivatrice, per tale intendendosi quella che «si dedica direttamente e abitualmente alla coltivazione dei fondi e all’allevamento e governo del bestiame […]» (comma 3); b) agli immobili compresi nell’attivo ereditario adibiti all’esercizio dell’impresa, ove devoluti al coniuge o a parenti in linea retta entro il terzo grado defunto, purché ciò avvenga «nell’ambito di una impresa artigiana familiare, come definita della legge 8 agosto 1985, n. 443, e dell’art. 230-bis del codice civile» (comma 4); c) se ubicati in comuni montani o in frazioni di essi di piccole dimensioni, alle «aziende, quote di società di persone o beni strumentali» trasferiti al coniuge o al parente entro il terzo grado del defunto, a condizione che gli aventi causa proseguano l’attività imprenditoriale per cinque anni (comma 4-bis).

 

Nondimeno, è palese che si tratti di previsioni normative volte ad incentivare – ma, a differenza dell’agevolazione denunciata, attraverso una riduzione e non per mezzo della completa esenzione dall’imposta – specifici settori produttivi (come quello dell’attività agricola svolta da una famiglia diretto-coltivatrice o quello dell’impresa familiare artigiana) o a incoraggiare l’esercizio dell’attività imprenditoriale ove questa, tenendo conto della peculiare situazione ambientale e, quindi, di mercato in cui si svolge, potrebbe rivelarsi di scarsa o comunque minore redditività rispetto ad altri contesti territoriali.

 

Si è, in definitiva, al cospetto di fattispecie rispetto alle quali il legislatore ha discrezionalmente individuato la platea dei soggetti beneficiari della riduzione dell’imposta in considerazione delle specifiche peculiarità che le caratterizzano.

 

5.2.– Per le ragioni sopra esposte (supra, punto 4.3) nemmeno fondata è la censura afferente alla lesione dell’art. 29 Cost. che il rimettente argomenta sulla scorta di deduzioni sostanzialmente sovrapponibili a quelle poste a sostegno della violazione del principio di eguaglianza.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 4-ter, del decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 346 (Approvazione del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta sulle successioni e donazioni), come introdotto dall’art. 1, comma 78, lettera a), della legge 27 dicembre 2006, n. 296, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2007)», sollevate, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 29 della Costituzione, dalla Commissione tributaria regionale dell’Emilia-Romagna con l’ordinanza indicata in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 maggio 2020.

 

F.to:

 

Marta CARTABIA, Presidente

 

Luca ANTONINI, Redattore

 

Roberto MILANA, Cancelliere

 

Depositata in Cancelleria il 23 giugno 2020.