Ordinanza n. 46 del 2020

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ORDINANZA N. 46

ANNO 2020

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

 

Presidente: Marta CARTABIA;

 

Giudici: Aldo CAROSI, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI,

 

ha pronunciato la seguente

 

ORDINANZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 11, commi 1, lettera a), e 4, del decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 (Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190), promosso dal Tribunale ordinario di Vercelli nel procedimento vertente tra P. T. e la Prefettura - Ufficio territoriale del Governo di Vercelli e altro, con ordinanza del 15 febbraio 2019, iscritta al n. 84 del registro ordinanze 2019 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 24, prima serie speciale, dell’anno 2019.

 

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nella camera di consiglio del 29 gennaio 2020 il Giudice relatore Daria de Pretis;

 

deliberato nella camera di consiglio dell’11 febbraio 2020.

 

Ritenuto che il Tribunale ordinario di Vercelli, con ordinanza del 15 febbraio 2019 (reg. ord. n. 84 del 2019), ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 11, commi 1, lettera a), e 4 del decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 (Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190), in riferimento all’art. 3 della Costituzione;

 

che la questione è sorta nel corso di un giudizio promosso da P. T. nei confronti della Prefettura - Ufficio territoriale del Governo di Vercelli e del Ministro dell’interno, avente per oggetto il decreto del 20 dicembre 2018 con cui il Prefetto di Vercelli ha dichiarato la sussistenza in capo a P. T. di una causa di sospensione di diritto dalla carica di Sindaco di B. ai sensi dell’art. 11, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 235 del 2012, secondo cui «[s]ono sospesi di diritto dalle cariche indicate al comma 1 dell’articolo 10 […] coloro che hanno riportato una condanna non definitiva per uno dei delitti indicati all’articolo 10, comma 1, lettere a), b) e c)»;

 

che il giudice a quo riferisce che la sospensione dalla carica di sindaco si fonda su una sentenza di condanna non definitiva per il delitto di concorso in peculato di cui agli artt. 110 e 314 del codice penale, compreso tra quelli indicati all’art. 10, comma 1, lettera c), del d.lgs. n. 235 del 2012, e che la condanna è stata pronunciata dalla Corte di appello di Torino il 24 luglio 2018, in riforma della sentenza di assoluzione pronunciata in primo grado dal Tribunale ordinario di Torino il 5 gennaio 2017 con la formula «perché il fatto non sussiste»;

 

che la norma è censurata nella parte in cui prevede la sospensione per diciotto mesi dalle cariche indicate all’art. 10, comma 1, del d.lgs. n. 235 del 2012 anche di coloro che, già assolti con sentenza di primo grado, abbiano riportato in appello condanna non definitiva per uno dei delitti indicati allo stesso art. 10, comma 1, lettere a), b) e c);

 

che, quanto alla rilevanza, il rimettente precisa che per definire la controversia è necessario applicare la norma censurata, poiché il provvedimento prefettizio impugnato, pur non indicando la durata del periodo di sospensione dalla carica di sindaco, non sarebbe per ciò solo illegittimo, dovendo essere «integrato dal disposto del comma 4 dell’art. 11» del d.lgs. n. 235 del 2012, secondo cui «[l]a sospensione cessa di diritto di produrre effetti decorsi diciotto mesi» (primo periodo);

 

che, quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente osserva che la condanna in appello determina una durata differente della sospensione dalla carica a seconda che l’amministratore sia stato assolto oppure sia stato già condannato in primo grado: in caso di condanna in appello a seguito di una assoluzione in primo grado la durata della sospensione sarebbe, come visto, di diciotto mesi, mentre in caso di condanna confermata in appello sarebbe di dodici mesi, stante che ai sensi del secondo periodo del citato comma 4, qualora «l’appello proposto dall’interessato avverso la sentenza di condanna sia rigettato anche con sentenza non definitiva, decorre un ulteriore periodo di sospensione che cessa di produrre effetti trascorso il termine di dodici mesi dalla sentenza di rigetto» (secondo periodo);

 

che da tale assetto normativo sorgerebbe un’ingiustificata disparità di trattamento dei condannati per la prima volta in secondo grado rispetto a coloro che, per lo stesso delitto, abbiano riportato una doppia sentenza di condanna, in quanto solo nei confronti di questi ultimi la sospensione dalle cariche avrebbe una durata di dodici mesi anziché di diciotto, con violazione dei principi di uguaglianza e di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost.;

 

che secondo il rimettente – che evoca lo scopo perseguito dal legislatore con il d.lgs. n. 235 del 2012, di allontanare chi ha commesso determinati reati dall’amministrazione della cosa pubblica anche con misure cautelari, come la sospensione dalla carica, in attesa della definitività della condanna – la posizione di chi sia stato assolto in primo grado e condannato in appello per un delitto quale il peculato «non è certamente più censurabile, né più pericolosa per la pubblica amministrazione, rispetto a quella di chi sia stato condannato per lo stesso reato tanto in primo quanto in secondo grado», cosicché sarebbe «irragionevole prevedere che, per effetto della sentenza di condanna in appello, l’allontanamento dalla carica pubblica sia di dodici mesi per chi ha già riportato una precedente condanna e di diciotto mesi per chi sia stato assolto in primo grado»; in quanto «all’amministratore con la posizione processuale più lieve», perché condannato in appello dopo l’assoluzione in primo grado, verrebbe contraddittoriamente consentito di riprendere l’esercizio della carica «sei mesi dopo l’amministratore con la posizione processuale più gravosa», perché soggetto alla doppia sentenza di condanna, in contrasto con la finalità di tutela della cosa pubblica perseguita dal d.lgs. n. 235 del 2012 e con la necessità di non comprimere eccessivamente il diritto di elettorato passivo garantito dall’art. 51 Cost.;

 

che la disparità di trattamento non sarebbe giustificata dall’esigenza di evitare a chi sia stato già condannato in primo grado, e abbia perciò già subito la sospensione dalla carica per diciotto mesi, «l’inflizione di una nuova sospensione di pari durata»: ad avviso del rimettente, la previsione censurata potrebbe sì «essere ragionevole avendo riguardo alla complessiva posizione di colui che riporta una doppia condanna», ma rimarrebbe «comparativamente l’irrazionalità della disposizione [...] che infligge al condannato soltanto in secondo grado una sospensione maggiore (di diciotto mesi, anziché dodici)», non comprendendosi «perché, all’esito della pronuncia di una condanna in grado di appello, l’assolto in primo grado sia trattato più severamente del condannato anche in primo grado»;

 

che nemmeno sarebbe possibile interpretare diversamente l’art. 11, comma 4, del d.lgs. n. 235 del 2012, in quanto la durata della sospensione è stabilita dal legislatore «in misura fissa e predeterminata», non modificabile dal giudice;

 

che, con atto depositato il 2 luglio 2019, è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per l’inammissibilità e comunque per l’infondatezza della questione;

 

che, secondo la difesa erariale, la questione sarebbe inammissibile per la palese erroneità del presupposto interpretativo della «normativa di riferimento» su cui si fonda, in quanto il rimettente individuerebbe il tertium comparationis della lamentata disparità di trattamento in una situazione insussistente in astratto e, pertanto, non verificabile in concreto, come quella di chi, condannato in appello per uno dei reati di cui all’art. 10, comma 1, lettere a), b e c), del d.lgs. n. 235 del 2012, sia assoggettato a un periodo di sospensione dalla carica pubblica di “soli” dodici mesi;

 

che l’art. 11, comma 4, dello stesso d.lgs. n. 235 del 2012 detterebbe, in via generale, una disciplina uniforme sulla durata della sospensione dalle cariche elettive, che in caso di condanna del pubblico funzionario (comminata in primo grado o per la prima volta in appello) è di diciotto mesi;

 

che, prevedendo poi un «ulteriore» periodo di sospensione di dodici mesi nel caso di rigetto dell’appello avverso la sentenza di condanna, la norma renderebbe evidente che l’unica ipotesi di sospensione di dodici mesi, per effetto della cosiddetta “doppia sentenza conforme”, è quella di chi sia già stato sospeso dalla carica per un periodo massimo di diciotto mesi a seguito della condanna in primo grado: con il risultato che la durata massima della sospensione potrà essere di diciotto o di trenta mesi complessivi e mai, in nessun caso, di “soli” dodici mesi;

 

che l’affermazione del rimettente, secondo cui «[a]ppare […] irragionevole prevedere che, per effetto della pronuncia della sentenza di condanna in appello, l’allontanamento dalla carica pubblica sia di dodici mesi per chi ha già riportato una precedente condanna e di diciotto mesi per chi sia stato assolto in primo grado», sarebbe pertanto frutto di un palese errore interpretativo, in quanto chi riporta una condanna confermata in appello subirebbe un periodo massimo di sospensione non di dodici mesi, bensì di trenta;

 

che, in subordine, la questione sarebbe comunque infondata per l’insussistenza della lamentata disparità di trattamento;

 

che, per la natura essenzialmente cautelare della sospensione (è citata la sentenza n. 276 del 2016), la norma censurata delineerebbe un’equilibrata disciplina, contemperando, bilanciandoli, il diritto di elettorato passivo e il buon andamento dell’amministrazione: a fronte di una sentenza di condanna non definitiva, il legislatore fa prevalere per un periodo di diciotto mesi l’interesse alla salvaguardia della funzione elettiva nelle more della definizione giudiziale, comprimendo il diritto di elettorato passivo per un ulteriore periodo massimo di dodici mesi ove la condanna sia confermata in appello, ma tali finalità diventano recessive e si ritraggono, consentendo la riespansione del diritto di elettorato passivo, se i tempi di definizione del processo si prolungano oltre quei limiti di durata massima della sospensione;

 

che, alla luce di questi principi, non si potrebbe condividere l’affermazione del rimettente secondo cui irragionevolmente la norma tratterebbe l’assolto in primo grado e condannato in appello «più severamente» del condannato in primo e in secondo grado, e ciò non soltanto perché, come visto, chi riporta una doppia sentenza conforme di condanna non subirebbe un trattamento più lieve, ma soprattutto perché l’esigenza di proporzionalità insita nel sistema andrebbe commisurata al grado di avvicinamento alla “certezza processuale” della colpevolezza, onde quanto più si è vicini a tale momento, tanto più l’esigenza di tutelare l’onorabilità della carica e il buon andamento dell’amministrazione dovrebbe prevalere sull’esigenza di tutelare il diritto di elettorato passivo;

 

che, per questa ragione, il legislatore avrebbe discrezionalmente stabilito in diciotto mesi la durata massima della sospensione nel caso di condanna comminata da un solo giudice (in primo o in secondo grado) e ne avrebbe prolungato la durata di altri dodici mesi nel caso di conferma della condanna da parte del giudice d’appello, salva la decadenza dalla carica una volta sopravvenuto il giudicato;

 

che non rileverebbe il fatto che, come osserva il rimettente, il condannato per la prima volta in appello può rientrare nell’esercizio della carica «sei mesi dopo» il condannato in entrambi i gradi, giacché invece la situazione complessiva di quest’ultimo, che subisce la sospensione di dodici mesi sul presupposto di averla già subita al massimo per diciotto, comporta una maggiore compressione del diritto di elettorato passivo;

 

che le parti del processo principale non si sono costituite in giudizio.

 

Considerato che il Tribunale ordinario di Vercelli dubita della legittimità costituzionale dell’art. 11, commi 1, lettera a), e 4 del decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 (Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190), in riferimento all’art. 3 della Costituzione;

 

che la questione è sorta nel corso di un giudizio vertente sul decreto con cui il Prefetto di Vercelli ha dichiarato la sussistenza in capo al Sindaco di B. di una causa di sospensione di diritto dalla carica ai sensi dell’art. 11, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 235 del 2012, secondo cui «[s]ono sospesi di diritto dalle cariche indicate al comma 1 dell’articolo 10 […] coloro che hanno riportato una condanna non definitiva per uno dei delitti indicati all’articolo 10, comma 1, lettere a), b) e c)»;

 

che la norma è censurata nella parte in cui prevede la sospensione per diciotto mesi dalle cariche indicate all’art. 10, comma 1, del d.lgs. n. 235 del 2012 anche di coloro che siano stati assolti con sentenza di primo grado, ma abbiano riportato in appello condanna non definitiva per uno dei delitti indicati allo stesso art. 10, comma 1, lettere a), b) e c);

 

che il rimettente solleva una questione di disparità di trattamento normativo, lamentando la violazione del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost.;

 

che le situazioni messe a confronto sono quelle di coloro che, già assolti in primo grado, sono stati condannati in secondo grado in via non definitiva per un reato che comporta la sospensione di diritto dalle cariche elettive negli enti locali (come il ricorrente nel processo principale, che riveste la carica di sindaco di un Comune piemontese ed è stato condannato in appello per peculato dopo essere stato assolto in primo grado dalla medesima imputazione con formula piena) e di coloro che hanno invece riportato per lo stesso reato una cosiddetta “doppia sentenza conforme” di condanna, anch’essa non definitiva;

 

che la disparità di trattamento consisterebbe nel fatto che gli uni sono soggetti alla sospensione dalla carica per la durata di diciotto mesi, ai sensi dell’art. 11, comma 4, primo periodo, del d.lgs. n. 235 del 2012, ai sensi del quale «[l]a sospensione cessa di diritto di produrre effetti decorsi diciotto mesi», mentre gli altri subirebbero la sospensione per la minore durata di dodici mesi, ai sensi dello stesso comma 4, secondo periodo, ai sensi del quale «[n]el caso in cui l’appello proposto dall’interessato avverso la sentenza di condanna sia rigettato anche con sentenza non definitiva, decorre un ulteriore periodo di sospensione che cessa di produrre effetti trascorso il termine di dodici mesi dalla sentenza di rigetto»;

 

che quest’ultima norma è dunque assunta a tertium comparationis;

 

che, quanto alla rilevanza, il rimettente offre un’interpretazione plausibile dell’art. 11, comma 4, primo periodo, del d.lgs. n. 235 del 2012, nel senso che la sospensione automatica dalla carica di amministratore locale, in riferimento alla fattispecie dedotta nel giudizio a quo (condanna non definitiva per peculato), produce effetti per diciotto mesi senza distinguere tra condanna pronunciata in primo grado o per la prima volta in appello: il presupposto di tale efficacia va infatti ricercato nella previsione del comma 1, lettera a), dello stesso art. 11, che fa dipendere la sospensione dalla «condanna non definitiva» per uno dei delitti previsti all’art. 10, comma 1, lettere a), b) e c), del d.lgs. n. 235 del 2012, essendo indifferente il grado di giudizio nel quale essa è pronunciata;

 

che le stesse considerazioni portano poi a ritenere che l’oggetto della questione sia stato correttamente individuato dal rimettente nei commi 1, lettera a), e 4 (limitatamente al primo periodo) dell’art. 11 del d.lgs. n. 235 del 2012, poiché dal loro combinato disposto deriva la regola per determinare la durata della sospensione concretamente applicabile nel giudizio a quo, che investe anche gli effetti nel tempo di tale misura;

 

che l’eccezione di inammissibilità proposta dal Presidente del Consiglio dei ministri per «erronea individuazione della fattispecie astratta che costituisce il tertium comparationis» non è fondata, in quanto la ragione dedotta riguarda il merito;

 

che, nel merito, la questione è manifestamente infondata;

 

che il giudice a quo, muovendo da un’interpretazione del tertium comparationis palesemente erronea, ha infatti messo a confronto situazioni non comparabili, perché non omogenee;

 

che, come visto, il rimettente assume a tertium comparationis l’art. 11, comma 4, secondo periodo, del d.lgs. n. 235 del 2012 sul convincimento che, alla stregua di tale disposizione, i condannati in primo grado con sentenza confermata in appello ricevano un trattamento più favorevole, subendo la sospensione automatica dalla carica per un periodo inferiore (dodici mesi) a quello previsto dalla norma censurata per coloro che, assolti in primo grado, siano condannati in appello (diciotto mesi);

 

che, tuttavia, come parimenti visto, il secondo periodo del comma 4 prevede che in caso di rigetto dell’appello avverso la sentenza di condanna decorra un «ulteriore» periodo di sospensione che cessa di produrre effetti trascorso il termine di dodici mesi dalla sentenza di rigetto;

 

che, in quanto «ulteriore», tale periodo non decorre isolatamente, ma si aggiunge, senza soluzione di continuità, a quello che consegue in via automatica alla condanna pronunciata in primo grado, la cui efficacia non cessa se entro il termine di diciotto mesi sopravviene la sentenza di conferma in appello;

 

che tale conclusione, agevolmente desumibile sul piano letterale, è confermata sul piano sistematico dalla previsione dell’art. 8, comma 3, del d.lgs. n. 235 del 2012, che regola l’efficacia della sospensione nell’analoga fattispecie della condanna dei titolari di cariche regionali, stabilendo che «[l]a sospensione cessa di diritto di produrre effetti decorsi diciotto mesi», ma «[l]a cessazione non opera» se entro tale termine «l’impugnazione in punto di responsabilità è rigettata anche con sentenza non definitiva», derivando da ciò che «la sospensione cessa di produrre effetti decorso il termine di dodici mesi dalla sentenza di rigetto»;

 

che, nell’ipotesi di rigetto dell’appello, il condannato può dunque rimanere sospeso di diritto dalla carica per un periodo complessivo di trenta mesi;

 

che, di fatto, tale periodo potrà essere – e probabilmente sarà di regola – inferiore, in misura variabile a seconda della durata reale del giudizio d’appello e del concreto svolgersi delle vicende processuali successive, ciò che tuttavia non rileva ai fini del giudizio di comparazione, nel quale sono poste a confronto le fattispecie normative che prevedono i termini massimi di efficacia della sospensione;

 

che la scelta legislativa di prolungare gli effetti della sospensione è diretta a corrispondere, anche dopo la conferma della condanna per reati di particolare gravità o contro la pubblica amministrazione, alle permanenti esigenze cautelari che giustificano l’automatica applicazione della misura «in attesa che l’accertamento penale si consolidi nel giudicato» (sentenza n. 276 del 2016), determinando la decadenza dalla carica (art. 11, comma 7, del d.lgs. n. 235 del 2012);

 

che in questo contesto l’abbreviazione del periodo di efficacia della sospensione stessa, decorrente dalla sentenza di primo grado (dodici mesi anziché diciotto), costituisce il non irragionevole esito di un ulteriore bilanciamento operato dal legislatore tra gli interessi in gioco, al fine di evitare un’eccessiva compressione nel tempo del diritto di elettorato passivo, tenuto conto del periodo di allontanamento dalla carica già trascorso;

 

che il legislatore ha così «tempera[to] in maniera non irragionevole gli effetti automatici della sentenza di condanna non definitiva in ragione del trascorrere del tempo e della progressiva stabilizzazione della stessa pronuncia» (sentenza n. 36 del 2019), rispondendo la gradualità di tali effetti alla generale esigenza di proporzionalità e adeguatezza della misura rispetto alla possibile lesione dell’interesse pubblico causata dalla permanenza dell’eletto nell’organo elettivo (sentenza n. 276 del 2016);

 

che, a fronte della descritta situazione, colui che, assolto in primo grado e poi condannato in appello, viene sospeso per un periodo massimo di diciotto mesi, non è trattato «più severamente del condannato anche in primo grado», come afferma il giudice a quo, ma riceve invece, per effetto della sentenza d’appello che ne accerta per la prima volta la responsabilità, lo stesso trattamento riservato a chi riporta la condanna già in primo grado; e ciò senza contare che nei suoi confronti non potrebbe mai decorrere un «ulteriore» periodo di sospensione di dodici mesi, mancandone in astratto il presupposto (id est, la conferma della condanna in appello);

 

che il giudice a quo mostra di cogliere l’effettiva portata della disciplina, là dove ammette che essa potrebbe dirsi ragionevole «avendo riguardo alla complessiva posizione di colui che riporta una doppia condanna», per sottrarlo a un periodo di sospensione di eccessiva durata, ma non ne tiene conto nel formulare il giudizio comparativo tra le due situazioni;

 

che, in tale ambito, si limita a confrontare i diversi termini di sospensione successivi alla sentenza di secondo grado, osservando che al condannato in appello dopo l’assoluzione in primo grado sarebbe irrazionalmente consentito di riprendere l’esercizio della carica «sei mesi dopo l’amministratore con la posizione processuale più gravosa», senza considerare che nel caso di rigetto dell’appello, cumulandosi il periodo di dodici mesi a quello già trascorso, la disciplina è nel complesso più severa proprio in ragione della «posizione processuale più gravosa» del condannato, con la conseguenza che lo iato temporale denunciato non comporta un’ingiustificata disparità di trattamento per chi, riportando invece la condanna solo in appello, non ha subito un precedente periodo di sospensione;

 

che la norma censurata e il tertium comparationis disciplinano pertanto situazioni non omogenee;

 

che, per costante giurisprudenza costituzionale, la violazione del principio di uguaglianza sussiste qualora situazioni sostanzialmente identiche siano disciplinate in modo ingiustificatamente diverso e non quando alla diversità di disciplina corrispondano situazioni non assimilabili (ex plurimis, sentenze n. 155 del 2014, n. 108 del 2006 e n. 340 del 2004);

 

che l’eterogeneità delle situazioni poste a confronto rende dunque «priva di fondamento la censura in ordine alla assunta violazione del principio di “parità di trattamento”» (sentenza n. 215 del 2014) e inidonea la norma indicata come tertium comparationis a svolgere tale funzione (sentenza n. 276 del 2016);

 

che è così esclusa la sussistenza dell’irragionevole disparità di trattamento lamentata dal giudice a quo e, con essa, la violazione dell’art. 3 Cost.;

 

che le considerazioni svolte inducono a ritenere la manifesta infondatezza della questione sollevata.

 

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 1, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 11, commi 1, lettera a), e 4 del decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 (Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190), sollevata dal Tribunale ordinario di Vercelli, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l’11 febbraio 2020.

 

F.to:

 

Marta CARTABIA, Presidente

 

Daria de PRETIS, Redattore

 

Roberto MILANA, Cancelliere

 

Depositata in Cancelleria il 9 marzo 2020.