Sentenza n. 281 del 2019

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SENTENZA N. 281

ANNO 2019

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Aldo CAROSI;

Giudici: Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 1, lettera c), e 24 della legge della Regione Lazio 22 ottobre 2018, n. 7 (Disposizioni per la semplificazione e lo sviluppo regionale), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri, con ricorso notificato il 24-28 dicembre 2018, depositato in cancelleria il 28 dicembre 2018, iscritto al n. 87 del registro ricorsi 2018 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 5, prima serie speciale, dell’anno 2019.

Visto l’atto di costituzione della Regione Lazio;

udito nell’udienza pubblica del 20 novembre 2019 il Giudice relatore Silvana Sciarra;

udito l’avvocato dello Stato Francesca Morici per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Rodolfo Murra per la Regione Lazio.

Ritenuto in fatto

1.– Con ricorso iscritto al n. 87 del reg. ric. 2018, il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso, tra le altre, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 3 e 24 della legge della Regione Lazio 22 ottobre 2018, n. 7 (Disposizioni per la semplificazione e lo sviluppo regionale), in riferimento all’art. 117, terzo comma, della Costituzione.

1.1.– È impugnato l’art. 3, comma 1, lettera c), della citata legge regionale che introduce un nuovo art. 67-bis alla legge della Regione Lazio 28 ottobre 2002, n. 39 (Norme in materia di gestione delle risorse forestali), rubricato «Ricostituzione dei soprassuoli percorsi da incendio», il quale così dispone: «Nel rispetto di quanto previsto dall’articolo 10 della L. 353/2000 e successive modifiche, ai fini della ricostituzione dei soprassuoli delle zone boscate e dei pascoli percorsi dal fuoco censiti nel catasto incendi di cui al comma 2 del medesimo articolo, i proprietari, gli affittuari, i locatari o i soggetti che esercitano un diritto reale di godimento sui suddetti soprassuoli possono procedere all’esecuzione di interventi a carattere selvicolturale o di ingegneria naturalistica. Nei primi quindici mesi dall’evento calamitoso, gli interventi di cui al primo periodo che non prevedono l’impiego di risorse finanziarie pubbliche possono essere realizzati senza l’autorizzazione di cui all’articolo 45, previa comunicazione. Per i soprassuoli compresi all’interno delle aree naturali protette regionali, si applicano le disposizioni di cui all’articolo 33, comma 3, della L.R. 29/1997».

Secondo il Presidente del Consiglio dei ministri tale nuova disposizione si porrebbe in contrasto con l’art. 117, terzo comma, Cost., in relazione alla norma interposta di cui all’art. 10 della legge 21 novembre 2000, n. 353 (Legge-quadro in materia di incendi boschivi). Essa infatti introdurrebbe una tutela insufficiente a evitare i pregiudizi conseguenti alla ricostruzione del soprassuolo percorso dal fuoco, avuto riguardo a quanto dispone la richiamata norma statale la quale, al comma 1, quarto (recte: sesto) periodo, prevede quanto segue: «Sono vietate per cinque anni, sui predetti soprassuoli, le attività di rimboschimento e di ingegneria ambientale sostenute con risorse finanziarie pubbliche, salvo specifica autorizzazione concessa dal Ministro dell’ambiente, per le aree naturali protette statali, o dalla regione competente, negli altri casi, per documentate situazioni di dissesto idrogeologico e nelle situazioni in cui sia urgente un intervento per la tutela di particolari valori ambientali e paesaggistici». Mentre, quindi, la legge statale, «a prescindere dalla presenza di risorse pubbliche» (come si specifica in ricorso), obbligherebbe in ogni caso le Regioni a rilasciare i necessari atti autorizzatori, la norma regionale impugnata, rispondendo unicamente a un’esigenza di semplificazione, introdurrebbe la possibilità di intervenire senza autorizzazione e in base a una mera comunicazione, così finendo per ridurre i margini di salvaguardia fissati a livello statale senza, tuttavia, bilanciare le esigenze di semplificazione con quelle di salvaguardia. Tale norma, inoltre, non conterrebbe alcuna clausola di salvaguardia per quelle fattispecie peculiari (quali le aree contermini a parchi naturalistici, riserve nazionali o regionali e/o z.p.s. – zone a protezione speciale – ovvero in caso di aree con rischio idrogeologico) in cui la tutela dell’ambiente imporrebbe più alti margini di attenzione e sarebbe, quindi, ancor più necessaria la previa autorizzazione anche a fini di salvaguardia dell’incolumità pubblica.

Risulterebbe, pertanto, violato il riparto costituzionale delle competenze legislative, relativamente alle materie del «governo del territorio» e della «protezione civile» oggetto di competenza concorrente delle Regioni, in quanto, nel caso di specie, l’attività legislativa regionale avrebbe i connotati di «una produzione normativa autonoma e originale nel quadro e nel contesto dei principi fondamentali della materia dettati dalla legislazione nazionale».

1.2.– L’art. 24 della legge reg. Lazio n. 7 del 2018, rubricato «Misure urgenti in favore delle aree colpite dagli eventi sismici del 2016. Modifiche alla legge regionale 22 dicembre 1999, n. 38 “Norme sul governo del territorio” e successive modifiche», è censurato, in primo luogo, limitatamente ai commi da 1 a 8 e, in secondo luogo, relativamente al comma 9. Quanto ai primi otto commi, si deduce la violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., in quanto, nel consentire ai proprietari di immobili dichiarati inagibili, a seguito dell’evento sismico del 2016, di installare strutture temporanee e amovibili senza necessità di alcun titolo abilitativo, fatta eccezione per la sola autorizzazione comunale, introdurrebbe una disciplina che andrebbe al di là del mero intervento di dettaglio o di completamento della normativa statale sulla ricostruzione dei territori colpiti dagli eventi sismici, con particolare riguardo all’art. 4-bis del decreto-legge 17 ottobre 2016, n. 189 (Interventi urgenti in favore delle popolazioni colpite dagli eventi sismici del 2016), convertito, con modificazioni, in legge 15 dicembre 2016, n. 229.

Il comma 9 del citato art. 24, mediante la sua lettera b), introduce un nuovo comma 3-ter all’art. 55 della legge della Regione Lazio 22 dicembre 1999, n. 38 (Norme sul governo del territorio), il quale così dispone: «Ai fini della ricostruzione degli edifici legittimi o legittimati, esistenti nelle zone agricole alla data del 24 agosto 2016, ricadenti nei comuni della Regione individuati nell’allegato 1 del d.l. 189/2016 convertito dalla L. 229/2016, sono consentiti gli interventi di ristrutturazione edilizia che comportano modificazioni della sagoma di cui all’articolo 3, comma 1, lettera e) e dell'articolo 10, comma 1, lettera c) del D.P.R. 380/2001 e successive modifiche». Questa disposizione si porrebbe a propria volta in contrasto con lo stesso parametro costituzionale sopra indicato per difformità rispetto alla disciplina statale di riferimento costituita, in particolare, dall’art. 30 del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito, con modificazioni, in legge 9 agosto 2013, n. 98, la quale avrebbe limitato l’operatività delle nuove disposizioni sul rispetto della sagoma solo per quegli edifici situati nel centro storico urbano, e non anche per quelli posti in zona agricola, ferma restando la necessità del permesso di costruire.

2.– Si è costituita in giudizio la Regione Lazio, in persona del proprio Presidente pro tempore, depositando documenti e chiedendo il rigetto del ricorso.

La Regione preliminarmente osserva che l’intendimento dell’intera legge reg. Lazio n. 7 del 2018, come risulterebbe anche dalla sua intitolazione, sarebbe stato quello di velocizzare e rendere più snelle e fruibili talune procedure amministrative, anche allo scopo di favorire l’accesso dei consociati ai vantaggi, benefici e misure di sostegno che la Regione mette a disposizione della collettività. Si tratterebbe, cioè, di una complessiva operazione di «semplificazione amministrativa», in chiave di accelerazione dei processi decisionali, di fruibilità delle opportunità esistenti, di «approccio pragmatico alla soluzione di problemi (creati anche da eventi calamitosi ed imprevedibili)».

Con riguardo alla dedotta illegittimità costituzionale dell’art. 3 della legge regionale de qua, la Regione evidenzia che tale disposizione, contrariamente a quanto assunto dal ricorrente, si porrebbe nel solco di quanto previsto dalla normativa statale di principio che, all’art. 10, comma 1, della legge n. 353 del 2000, con riferimento alle attività di rimboschimento e di ingegneria ambientale sui soprassuoli percorsi dal fuoco, si sarebbe limitata a imporre un vincolo di natura temporale (consistente nel divieto quinquennale di esercizio) solo per quelle attività che risultino sostenute con risorse finanziarie pubbliche, rispondendo con ciò alla ratio di consentire una preventiva verifica sul corretto impiego di queste ultime. In definitiva, la norma impugnata non si porrebbe in contrasto con la legislazione statale di principio, ma si limiterebbe a introdurre, nel rispetto del menzionato art. 10 della legge n. 353 del 2000, misure di semplificazione atte a favorire concretamente, per un periodo di tempo limitato, il recupero dei territori percorsi dal fuoco, facendo comunque salvo l’obbligo di comunicazione preventiva in capo ai soggetti esecutori degli interventi e favorendo di conseguenza l’attività di controllo, a valle, da parte delle competenti autorità.

Con riguardo, poi, alle norme di cui ai commi da 1 a 8 dell’art. 24 della legge reg. Lazio n. 7 del 2018, nonché al nuovo comma 3-ter dell’art. 55 della legge reg. Lazio n. 38 del 1999, introdotto dal comma 9 del medesimo art. 24 impugnato, la difesa regionale evidenzia che esse detterebbero misure non prettamente emergenziali né di protezione civile, non potendosi quindi intendere quale normativa di dettaglio rispetto a quella prevista dal d.l. n. 189 del 2016, come convertito. In particolare, l’intendimento di queste norme regionali – laddove consentono l’installazione di strutture temporanee e rimuovibili senza necessità di titolo edilizio, salva l’autorizzazione comunale, e laddove consentono interventi di ristrutturazione edilizia pur se comportanti modificazione della sagoma – sarebbe stato quello di scongiurare fenomeni di abbandono del territorio, specialmente da parte dei proprietari degli immobili dichiarati inagibili ma non residenti negli stessi (i titolari delle cosiddette seconde case), ossia da parte di quei soggetti che, come tali, sarebbero esclusi dalle misure statali di protezione civile.

Del resto – aggiunge la difesa regionale – la collocazione sul suolo di manufatti in via transitoria e momentanea (consentita, come visto, dai commi da 1 a 8 dell’art. 24 citato) sarebbe rispondente alla legge statale di riferimento (in quanto «attività libera»), a condizione che il bene sia effettivamente utilizzato per finalità provvisorie e che sia facilmente rimuovibile. Nel caso di specie, la «transitorietà» sarebbe legata ai tempi di ricostruzione, non dipendenti dalla volontà dei proprietari, e consentirebbe a costoro di mantenere un «punto di appoggio precario» nei territori colpiti dal sisma. Quanto alla possibilità, consentita dal comma 9 dell’art. 24 citato, di modificare nelle zone agricole la sagoma dell’edificio in sede di ristrutturazione edilizia (comunque, a parità di volume), la Regione evidenzia che essa dipenderebbe dall’esigenza di ricostruire gli edifici crollati o demoliti anche su un più esteso unico piano. Ciò comunque non contrasterebbe con la previsione statale invocata dal ricorrente (e relativa solo alle parti storiche degli insediamenti urbani), in quanto riferita esclusivamente alle zone rurali.

 

3.– Con successiva memoria, il Presidente del Consiglio dei ministri ha ribadito le censure di cui al ricorso. In particolare, ha sottolineato che l’art. 10 della legge n. 353 del 2000, invocato – come visto – quale norma interposta, introdurrebbe un complessivo sistema di divieti per le attività da compiersi sui territori percorsi dal fuoco, mitigato dalla previsione della possibilità di interventi di rimboschimento e di ingegneria ambientale qualora finanziati con risorse pubbliche e, comunque, previa autorizzazione. Risulterebbero viceversa vietati gli interventi da realizzarsi con risorse private. In contrasto con quest’ultima previsione, la legge regionale impugnata introdurrebbe invece la possibilità di realizzare interventi finanziati con risorse private, senza autorizzazione e in base alla mera comunicazione entro i primi quindici mesi dall’evento.

Considerato in diritto

1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato, tra le altre, diverse disposizioni della legge della Regione Lazio 22 ottobre 2018, n. 7 (Disposizioni per la semplificazione e lo sviluppo regionale).

Riservata a separata pronuncia la decisione delle ulteriori questioni proposte con il medesimo ricorso, lo scrutinio deve essere qui limitato a quelle aventi a oggetto gli artt. 3 e 24, rispetto alle quali è dedotta la violazione dell’art. 117, terzo comma, della Costituzione per contrasto con la normativa statale di principio dettata nelle materie concorrenti del «governo del territorio» e/o della «protezione civile».

La prima delle questioni sollevate riguarda il nuovo art. 67-bis della legge della Regione Lazio 28 ottobre 2002, n. 39 (Norme in materia di gestione delle risorse forestali), quale introdotto dall’art. 3, comma 1, lettera c), della legge reg. Lazio n. 7 del 2018, rubricato «Ricostituzione dei soprassuoli percorsi da incendio». Le censure statali si appuntano, in particolare, sul regime di assenso che la legge regionale stabilisce per gli «interventi a carattere selvicolturale o di ingegneria naturalistica» finalizzati alla ricostituzione dei soprassuoli delle zone boscate e dei pascoli percorsi dal fuoco: la norma impugnata prevede che, entro i primi quindici mesi dall’evento calamitoso, tali interventi, qualora non finanziati con risorse pubbliche, possono essere realizzati con mera comunicazione, senza l’autorizzazione che la stessa legge regionale n. 39 del 2002 prescrive, all’art. 45, per gli «interventi di utilizzazione forestale» non previamente oggetto di pianificazione.

Tale previsione si porrebbe in contrasto con quanto stabilisce l’art. 10, comma 1, sesto periodo, della legge 21 novembre 2000, n. 353 (Legge-quadro in materia di incendi boschivi), a norma del quale sarebbe invece prevista, per simili interventi di ricostituzione naturalistica, un’apposita autorizzazione del Ministro dell’ambiente o della Regione competente. La norma regionale impugnata, escludendo l’autorizzazione e prevedendo la sola comunicazione, introdurrebbe quindi «una tutela insufficiente a evitare pregiudizi conseguenti alla ricostruzione del soprassuolo percorso dal fuoco». Le censure dello Stato lamentano inoltre la mancanza, nella norma regionale impugnata, di alcuna «clausola di salvaguardia» per «fattispecie peculiari» nelle quali la tutela dell’ambiente richiederebbe più alti margini di attenzione. Si fa riferimento, qui, alle «aree che siano contermini a parchi naturalistici, riserve nazionali o regionali e/o zps [zone a protezione speciale]», nonché a quelle «situazioni ove siano riscontrabili aree di rischio idrogeologico».

1.1.– La questione non è fondata.

L’art. 10, comma 1, della legge n. 353 del 2000 detta previsioni volte a garantire il recupero naturalistico dei soprassuoli boschivi e pascolivi distrutti dal fuoco, con l’obiettivo di combattere il fenomeno degli incendi provocati “ad arte” (per convertire le zone di vegetazione in zone “cementificate”) e mirando, quindi, a impedire che l’area possa ricevere una diversa destinazione per il solo fatto dell’evento incendiario, salva comunque la possibilità di costruirvi opere pubbliche a salvaguardia della pubblica incolumità e dell’ambiente. A tal fine essa impone stringenti divieti ad tempus (non può essere mutata la destinazione dei luoghi per almeno quindici anni, con vincolo da richiamarsi negli atti di compravendita a pena di nullità; non possono essere costruiti edifici, o strutture o infrastrutture per insediamenti civili o produttivi per un periodo di dieci anni; si fa divieto di pascolo e di caccia per dieci anni). La previsione di siffatti divieti costituisce uno standard di tutela ambientale non derogabile, in peius, dal legislatore regionale, come questa Corte ha affermato dichiarando l’illegittimità costituzionale di una legge regionale che aveva fissato un divieto di caccia su detti soprassuoli per soli dodici mesi dall’evento, con evidente «riduzione della soglia minima di tutela» (sentenza n. 303 del 2013, punto n. 11 del Considerato in diritto).

Tra i divieti così imposti dalla disposizione dello Stato vi è anche quello, rilevante per il presente giudizio, riguardante le «attività di rimboschimento e di ingegneria ambientale sostenute con risorse finanziarie pubbliche». Tali attività non possono essere eseguite per un periodo di cinque anni dall’evento calamitoso, salva la specifica autorizzazione ministeriale o regionale. è importante evidenziare che detto divieto è previsto solo per quelle attività che risultino «sostenute con risorse finanziarie pubbliche». Nulla viene, invece, prescritto per le attività di ricostituzione naturalistica che siano finanziate con risorse non pubbliche che, di conseguenza, devono considerarsi sempre consentite.

L’art. 67-bis della legge reg. Lazio n. 39 del 2002 si pone in linea con la previsione statale. Esso, invero, si riferisce testualmente solo agli interventi «che non prevedono l'impiego di risorse finanziarie pubbliche», ammettendone la realizzazione previa semplice comunicazione. Così disponendo, questa norma persegue evidenti finalità di semplificazione, in quanto viene ridotta l’area di intervento necessario dell’autorizzazione prevista dall’art. 45 della stessa legge regionale n. 39 del 2002 (autorizzazione che, in base a quest’ultima norma, dovrebbe normalmente assistere gli «interventi di utilizzazione forestale» da compiersi al di fuori della programmazione regionale), mantenendosi al contempo entro l’area non normata dalla legge statale assunta quale parametro interposto, quella cioè degli interventi non finanziati con risorse pubbliche. Di conseguenza, non sussiste la lamentata riduzione della «soglia minima di tutela» imposta dal legislatore statale.

A conclusioni analoghe deve pervenirsi circa la dedotta mancanza, nell’art. 67-bis introdotto dall’impugnato art. 3, comma 1, lettera c), della legge reg. Lazio n. 7 del 2018, di una qualche «clausola di salvaguardia» per quelle fattispecie «peculiari» che, secondo il ricorrente, non potrebbero prescindere da una tutela ambientale rafforzata.

Anche sotto questo ulteriore profilo non è, infatti, ravvisabile alcun arretramento per effetto della disposizione da ultimo richiamata rispetto alla tutela ambientale tipica delle aree protette (quali richiamate dall’art. 10, comma 1, della legge n. 353 del 2000), e ciò avuto riguardo alla formulazione del terzo periodo del citato art. 67-bis, nel quale viene richiamato l’art. 33, comma 3, della legge della Regione Lazio 6 ottobre 1997, n. 29 (Norme in materia di aree naturali protette regionali), a norma del quale «Qualsiasi intervento sul patrimonio forestale all’interno dell’area naturale protetta deve essere comunque sottoposto a preventivo nulla osta dell’organismo di gestione ai sensi dell’articolo 28». Quest’ultima disposizione, a sua volta, impone una stringente verifica di conformità con le prescrizioni di natura ambientale che caratterizzano la specifica area protetta interessata dagli interventi. Anche quelli di ricostituzione dei soprassuoli percorsi da incendio, qualora ubicati all’interno di un’area naturale protetta regionale, dovranno pertanto essere sottoposti al previo nulla-osta dell’ente di gestione dell’area protetta, con ciò essendo quindi ben individuabile quella particolare «clausola di salvaguardia» la cui mancanza è invece lamentata nel ricorso.

Tale clausola di salvaguardia, peraltro, è senz’altro estensibile pure ai soprassuoli dei territori pascolivi (nonostante che il richiamato art. 33, comma 3, della legge reg. Lazio n. 29 del 1997 imponga il nulla-osta dell’organismo di gestione solo per gli interventi che riguardino il «patrimonio forestale» dell’area naturale protetta). L’estensione della tutela anche ai terreni pascolivi deriva, infatti, direttamente dallo stesso art. 67-bis della legge reg. Lazio n. 39 del 2002 il quale, laddove effettua il richiamo all’art. 33, comma 3, della legge reg. Lazio n. 29 del 1997, ciò fa con riferimento a qualsiasi intervento oggetto del medesimo art. 67-bis, quindi anche con riferimento alla «ricostituzione dei soprassuoli [...] dei pascoli percorsi dal fuoco».

Il mantenimento di un adeguato grado di protezione ambientale, del resto, non viene meno neanche nell’ipotesi (pure indicata dal ricorrente) in cui i territori percorsi dal fuoco, ubicati all’interno delle aree protette regionali, siano interessati da profili di rischio idrogeologico. Soccorre, in proposito, quanto dispone l’art. 3 della legge reg. Lazio n. 29 del 1997, secondo cui la «difesa degli equilibri idraulici ed idrogeologici» costituisce uno degli obiettivi del sistema delle aree naturali protette regionali. Appare dunque imprescindibile che l’ente di gestione, al momento di rilasciare il nulla-osta ai sensi degli artt. 33 e 28 della stessa legge, debba procedere a valutare anche gli aspetti più strettamente collegati all’equilibrio idrogeologico del territorio, in particolar modo laddove l’area risulti già interessata da vincoli idrogeologici o da una determinata classificazione di rischio idrogeologico. Ciò, peraltro, è confermato al livello della legge statale di riferimento, che è la legge 6 dicembre 1991, n. 394 (Legge quadro sulle aree protette), il cui art. 1 indica anche nella «difesa e ricostituzione degli equilibri idraulici e idrogeologici» la finalità dell’istituzione delle aree naturali protette.

Infine, le preoccupazioni del ricorrente in merito a un possibile abbassamento del livello di tutela ambientale per quei territori che, pur non rientrando all’interno di un’area naturale protetta, siano a essa «contermini», sono parimente destituite di fondamento se si ha riguardo all’incipit della norma impugnata, che fa espressamente salvo il «rispetto di quanto previsto dall’articolo 10 della L. 353/2000 e successive modifiche». Questa previsione rende chiaro l’effettivo intendimento del legislatore regionale. Si sottopongono in tal modo tutte le attività di ricostituzione dei soprassuoli percorsi da incendio alle medesime garanzie di salvaguardia ambientale prescritte a livello statale, anche nelle situazioni in cui il territorio da ricostituire, pur ubicato al di fuori di un’area naturale protetta regionale, soffra – per riprendere i termini utilizzati dalla norma statale – di «documentate situazioni di dissesto idrogeologico», ovvero venga a trovarsi «nelle situazioni in cui sia urgente un intervento per la tutela di particolari valori ambientali e paesaggistici».

2.– La seconda questione promossa dal Presidente del Consiglio dei ministri sulla legge reg. Lazio n. 7 del 2018 concerne l’art. 24, rubricato «Misure urgenti in favore delle aree colpite dagli eventi sismici del 2016. Modifiche alla legge regionale 22 dicembre 1999, n. 38 “Norme sul governo del territorio” e successive modifiche», limitatamente ai commi da 1 a 8. Si tratta di disposizioni che, al dichiarato fine di «scongiurare fenomeni di abbandono del territorio», consentono ai proprietari degli immobili divenuti inagibili a seguito degli eventi sismici del 2016 di installare strutture abitative temporanee e amovibili «previa autorizzazione comunale», sullo stesso sito oppure anche su diversi terreni ubicati nello stesso Comune (così il comma 1).

La difesa regionale ha evidenziato l’intendimento qui perseguito, quello cioè di rendere più facile e veloce l’iter preordinato all’installazione di tali strutture. A tal fine, in particolare, sono stati dettati i commi seguenti, recanti numerose e varie norme di contorno che disciplinano le condizioni e le modalità di rilascio dell’autorizzazione comunale (comma 2: le spese di installazione sono a carico dei richiedenti; comma 3: non è richiesto alcun titolo abilitativo, a eccezione dell’autorizzazione, e nemmeno è richiesta la conformità allo strumento urbanistico generale del Comune; commi 4 e 5: vengono indicate le condizioni in presenza delle quali è concessa l’autorizzazione e le modalità per la presentazione della relativa domanda; comma 6: si prevede il termine di 30 giorni per il rilascio dell’autorizzazione, salvo il successivo formarsi del silenzio-assenso; comma 7: si specifica che le strutture amovibili dovranno essere rimosse entro il termine prescritto, altrimenti innescandosi il regime sanzionatorio previsto per le opere abusive; comma 8: si rimanda alla Giunta regionale l’adozione di apposite linee guida per il corretto inserimento paesaggistico delle strutture abitative temporanee, invitandosi al contempo la Regione a promuovere intese finalizzate all’individuazione di procedure in via d’urgenza per il rilascio dell’autorizzazione).

Anche in questo caso il ricorrente evoca il parametro dell’art. 117, terzo comma, Cost., sostenendo che questa complessiva disciplina andrebbe al di là del mero intervento di dettaglio o di completamento della normativa statale sulla ricostruzione dei territori colpiti dagli eventi sismici. Come norma interposta viene richiamato l’art. 4-bis del decreto-legge 17 ottobre 2016, n. 189 (Interventi urgenti in favore delle popolazioni colpite dagli eventi sismici del 2016), convertito, con modificazioni, in legge 15 dicembre 2016, n. 229.

2.1.– Si deve qui preliminarmente osservare che l’articolo oggetto della presente questione è stato modificato con la legge della Regione Lazio 18 dicembre 2018, n. 12 (Disposizioni in materia di prevenzione e riduzione del rischio sismico. Ulteriori disposizioni per la semplificazione e l’accelerazione degli interventi di ricostruzione delle aree colpite dagli eventi sismici del 2016 e successivi), entrata in vigore in concomitanza con la presentazione del ricorso dello Stato. Questa novella aveva introdotto un inciso in coda al comma 1 dell’art. 24.

La successiva legge della Regione Lazio 20 maggio 2019, n. 8 (Disposizioni finanziarie di interesse regionale e misure correttive di leggi regionali varie) ha, peraltro, fatto venir meno quell’inciso, provvedendo sia alla formale abrogazione della norma che lo aveva inserito, sia alla effettiva sua soppressione (così, rispettivamente, l’art. 16, commi 17, lettera c, e 16, lettera b, della medesima legge regionale n. 8 del 2019), cosicché la disposizione oggi all’esame di questa Corte non risulta influenzata dalle successive modifiche.

Pertanto, le modifiche di cui si è detto non determinano cessazione della materia del contendere, in quanto non satisfattive.

2.2.– Nel merito, la questione non è fondata.

L’art. 24 della legge reg. Lazio n. 7 del 2018 è intervenuto, a distanza ragguardevole di tempo dal verificarsi dell’evento sismico, con la finalità – come già visto, espressamente indicata dal legislatore nel suo incipit – di «scongiurare fenomeni di abbandono del territorio». Si intendeva, quindi, venire incontro non tanto all’impellente necessità della popolazione locale di un immediato rientro nelle case di abitazione (finalità, quest’ultima, perseguita, a livello di legislazione statale di emergenza, con le apposite norme del d.l. n. 189 del 2016), quanto piuttosto all’esigenza di favorire il rientro nel territorio di quanti, avendo perso i propri immobili, si erano recati a vivere altrove. In tale quadro, il legislatore regionale, proprio attraverso le disposizioni dei commi da 1 a 8 dell’art. 24 impugnato, ha introdotto misure volte ad agevolare l’ottenimento del titolo edilizio, con modalità che non fossero pregiudizievoli dei concorrenti interessi della tutela del paesaggio e dell’ordinato sviluppo del territorio. In questa prospettiva, non appare dunque pertinente il riferimento del ricorrente alla «normativa emergenziale» dettata dal d.l. n. 189 del 2016 e, con esso, alla stessa materia della «protezione civile», venendo semmai in rilievo questioni riconducibili all’ambito – pur sempre di legislazione concorrente – del «governo del territorio».

Il riferimento del ricorrente anche a quest’ultima materia di legislazione concorrente non può valere ai fini di una declaratoria di illegittimità costituzionale delle disposizioni impugnate. Il profilo dei necessari assensi edilizi per l’installazione delle strutture abitative temporanee e amovibili non risulta, invero, disciplinato da quella che lo Stato, nel ricorso, ha indicato come norma statale interposta. L’art. 4-bis del d.l. n. 189 del 2016, infatti, nel dettare «Disposizioni in materia di strutture e moduli abitativi provvisori», ha stabilito i passaggi procedurali per l’individuazione delle aree da destinare all’insediamento dei containers, nonché per la immediata stipula dei contratti di appalto aventi a oggetto la fornitura di questi ultimi (anche in deroga alle norme del codice dei contratti pubblici), fissando in generale forme di raccordo tra i Comuni interessati e la Protezione civile.

Si tratta quindi, come è evidente, di un complesso di norme che non afferma nulla di specifico in merito agli atti di assenso edilizio per l’installazione delle strutture provvisorie, in merito cioè a quello che costituisce il nucleo delle censure statali avverso la normativa regionale impugnata. La disciplina statale sulla specifica questione degli atti di assenso edilizio per le zone colpite dal sisma del 2016, semmai, si rinviene in altre e diverse disposizioni dello stesso d.l. n. 189 del 2016, non specificamente richiamate né invocate dal ricorrente ai fini dell’odierna disamina di costituzionalità (si vedano, in particolare, l’art. 8-bis, rubricato «Interventi eseguiti per immediate esigenze abitative», nonché gli artt. 11 e 12, che dettano ulteriori disposizioni sui titoli edilizi necessari per la ricostruzione degli immobili danneggiati dal sisma).

Deve, pertanto, respingersi la questione promossa dal ricorrente anche sotto quest’ultimo profilo.

3.– La terza questione sollevata dal Presidente del Consiglio dei ministri concerne, specificamente, il comma 9 dell’art. 24 della legge reg. Lazio n. 7 del 2018. Le censure sono dirette a contestare la lettera b) che introduce un nuovo comma 3-ter all’art. 55 della legge della Regione Lazio 22 dicembre 1999, n. 38 (Norme sul governo del territorio), che così dispone: «Ai fini della ricostruzione degli edifici legittimi o legittimati, esistenti nelle zone agricole alla data del 24 agosto 2016, ricadenti nei comuni della Regione individuati nell’allegato 1 del d.l. 189/2016 convertito dalla L. 229/2016, sono consentiti gli interventi di ristrutturazione edilizia che comportano modificazioni della sagoma di cui all’articolo 3, comma 1, lettera e) e dell’articolo 10, comma 1, lettera c) del D.P.R. 380/2001 e successive modifiche».

Secondo l’Avvocatura dello Stato, questa disposizione violerebbe l’art. 117, terzo comma, Cost. per difformità rispetto alla disciplina statale di riferimento costituita dall’art. 30 del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito, con modificazioni, in legge 9 agosto 2013, n. 98. La tesi del ricorrente è che quest’ultima disposizione, nel modificare il d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), in specie, all’art. 10, per quanto attiene al titolo edilizio necessario per gli interventi di ristrutturazione edilizia che comportano modifica della sagoma (consentendo la SCIA, in luogo del permesso di costruire), avrebbe limitato l’applicazione delle nuove norme solo agli edifici situati nel centro storico urbano, e non anche in zona agricola. Il contrasto, pertanto, sarebbe nel fatto che la legge regionale impugnata avrebbe introdotto una «innovazione» che si riferisce «alle zone agricole, e non a quelle urbane», differentemente da quanto in proposito avrebbe disposto l’art. 30 del d.l. n. 69 del 2013.

3.1.– La questione non è fondata per erroneità del presupposto interpretativo.

Rispetto al testo precedentemente in vigore, l’art. 10, comma 1, lettera c), del t.u. edilizia, quale modificato dall’art. 30 del d.l. n. 69 del 2013 (senza tener conto delle modifiche sopravvenute, non rilevanti per il presente giudizio), non contempla più il riferimento alla «sagoma» laddove individua gli interventi di ristrutturazione edilizia che necessitano del permesso di costruire. Di conseguenza, il mutamento della sagoma è reso possibile mediante semplice SCIA, a meno che non si tratti di immobili vincolati ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137), come emerge dalla parte finale della disposizione, parimente modificata dal d.l. n. 69 del 2013. Il riferimento a una distinzione tra «zone storiche urbane» e non (distinzione cui, in particolare, si soffermano le doglianze del ricorrente) non si rinviene in questa norma ma, semmai, emerge dal testo (parimente introdotto dallo stesso legislatore del 2013) dell’art. 23-bis del t.u. edilizia. Il comma 4 ha qui previsto che, all’interno delle zone omogenee A di cui al decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444 (Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell’art. 17 della L. 6 agosto 1967, n. 765), ossia – per l’appunto – all’interno delle zone urbane che rivestono carattere storico, artistico o di particolare pregio ambientale, i Comuni, con apposita deliberazione da adottarsi entro il 30 giugno 2014, sono chiamati a individuare le aree nelle quali non è applicabile la SCIA «per interventi di demolizione e ricostruzione, o per varianti a permessi di costruire, comportanti modifiche della sagoma». In assenza di tale individuazione, ha ulteriormente precisato il comma 4, «non trova applicazione per le predette zone omogenee A) la segnalazione certificata di inizio attività con modifica della sagoma».

Resta fermo che tale possibilità presuppone la previa, coerente registrazione catastale degli immobili interessati dagli interventi in esame.

La giurisprudenza amministrativa ha ritenuto che, in generale, la novella apportata dal d.l. n. 69 del 2013 ha espunto il limite della sagoma ai fini della possibilità di qualificare come ristrutturazione edilizia gli interventi di demolizione e ricostruzione, facendo comunque salva l’ipotesi degli immobili sottoposti a vincoli, ovvero ricadenti in zone vincolate ai sensi del cod. beni culturali, per i quali continua a valere il rispetto della sagoma, oltre che del volume (Consiglio di Stato, sezione sesta, sentenza 9 ottobre 2018, n. 5801, con specifico riferimento all’art. 10, comma 1, lettera c, del t.u. edilizia). Questa Corte, d’altronde, ha avuto occasione di affermare che i mutamenti introdotti dalla novella del 2013 «hanno rimosso il divieto di alterazione della sagoma nelle ristrutturazioni edilizie» (sentenza n. 224 del 2016).

Erra, pertanto, il ricorrente, laddove afferma che la novella del 2013 avrebbe consentito di effettuare ristrutturazioni edilizie con modifica di sagoma, senza permesso di costruire, nelle sole «zone storiche urbane». Al contrario, in base alla normativa statale richiamata, si ricava la regola generale per cui la ristrutturazione edilizia con modifica di sagoma può sempre prescindere dal rilascio del permesso di costruire, a meno che non si tratti di immobili vincolati (così il nuovo art. 10, comma 1, lettera c, del testo unico), e a meno che non si tratti delle zone omogenee A di cui al d.m. n. 1444 del 1968 specificamente individuate con delibera comunale ovvero in caso di mancanza, per le medesime zone, di tale delibera (così il nuovo art. 23-bis, comma 4, del t.u. edilizia). La previsione regionale impugnata non coinvolge alcuna di queste eccezioni, ma riguarda, esclusivamente, le modifiche di sagoma da compiersi nelle zone agricole dei Comuni colpiti dal sisma. Limitatamente ai profili di censura sollevati dal ricorrente, essa non si discosta quindi dalla descritta normativa statale invocata quale parametro interposto.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riservata a separata pronuncia la decisione delle ulteriori questioni di legittimità costituzionale promosse con il ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri indicato in epigrafe;

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 1, lettera c), e 24 della legge della Regione Lazio 22 ottobre 2018, n. 7 (Disposizioni per la semplificazione e lo sviluppo regionale), promosse, in riferimento all’art. 117, terzo comma, della Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 novembre 2019.

F.to:

Aldo CAROSI, Presidente

Silvana SCIARRA, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 20 dicembre 2019.