Sentenza n. 194 del 2019

SENTENZA N. 194

ANNO 2019

 

Commenti alla decisione di

 

I. Carlo Padula Le decisioni della Corte costituzionale del 2019 sul decreto sicurezza, in questa Rivista, Studi, 2019/II, 377

 

II. Gabriele Conti, Troppo presto per giudicare... ma con qualche premessa interpretativa generale. I ricorsi in via principale di cinque Regioni contro il c.d. "decreto sicurezza eimmigrazione, per g.c. del Forum di Quaderni Costituzionali

 

III. Alessio Rauti, Il decreto sicurezza di fronte alla Consulta. L’importanza (e le incertezze) della sentenza n. 194 del 2019, per g.c. del Forum di Quaderni Costituzionali

 

IV. Carlo Padula, Le decisioni della Corte costituzionale del 2019 sul decreto sicurezza, per g.c. del Forum di Quaderni Costituzionali

 

 

 

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Giorgio LATTANZI;

Giudici: Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 1, 12 e 13 del decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113 (Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata), convertito, con modificazioni, nella legge 1° dicembre 2018, n. 132, nonché dell’intero decreto-legge, promossi con ricorsi della Regione autonoma Sardegna e delle Regioni Umbria, Emilia-Romagna, Basilicata, Marche, Toscana e Calabria, notificati il 31 gennaio-4 febbraio, l’1-6 febbraio, il 29 gennaio, l’1-6 febbraio, il 31 gennaio-4 febbraio e l’1 febbraio 2019, depositati in cancelleria l’1, il 4, il 5, il 6 e l’8 febbraio 2019, iscritti rispettivamente ai numeri 9, 10, 11, 12, 13, 17 e 18 del registro ricorsi 2019 e pubblicati nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica numeri 10, 11, 12 e 13, prima serie speciale, dell’anno 2019.

Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;

uditi nella camera di consiglio del 18 giugno 2019 e nell’udienza pubblica del 19 giugno 2019 i Giudici relatori Marta Cartabia, Daria de Pretis, Nicolò Zanon e Augusto Antonio Barbera;

uditi gli avvocati Massimo Luciani per la Regione Umbria, Giandomenico Falcon e Andrea Manzi per la Regione Emilia-Romagna, Stefano Grassi per la Regione Marche, Marcello Cecchetti per la Regione Toscana, Giuseppe Naimo e Vincenzo Cannizzaro per la Regione Calabria e gli avvocati dello Stato Giuseppe Albenzio e Ilia Massarelli per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.– La Regione Umbria, con ricorso notificato il 31 gennaio-4 febbraio 2019 e depositato il 1° febbraio 2019 (reg. ric. n. 10 del 2019), ha impugnato diverse disposizioni del decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113 (Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata), convertito, con modificazioni, nella legge 1° dicembre 2018, n. 132, e tra queste gli artt. 1, 12 e 13.

In particolare, dell’art. 1 ha censurato: il comma 1, lettere a), b), c), d), e), f), i), l), m), n), numero 2), n-bis), o), p), e q); il comma 2; il comma 3, lettera a), numeri 1) e 2); il comma 6; il comma 7; il comma 8 e il comma 9.

Dell’art. 12 ha censurato tutte le disposizioni di cui si compone, a eccezione: del comma 1, lettere a-bis) e a-ter); del comma 2, lettera d), numero 1-bis) e del comma 7.

Dell’art. 13, comma 1, ha censurato: la lettera a), numero 2; la lettera b) e la lettera c).

La Regione Umbria opera una ricostruzione del complessivo intervento normativo operato dal d.l. n. 113 del 2018 e, in via preliminare, si sofferma sull’incidenza «delle norme impugnate nelle attribuzioni costituzionali» della ricorrente, cui le prime arrecherebbero «un grave pregiudizio».

A tale proposito, la ricorrente ricorda che l’art. 117, secondo comma, lettere b) e h), della Costituzione, ricomprende le materie «immigrazione» e «ordine pubblico e sicurezza» tra quelle assegnate alla competenza esclusiva dello Stato. Tuttavia, la stessa Costituzione, all’art. 118, terzo comma, riconoscerebbe esplicitamente l’esistenza di un profondo legame fra queste materie e quelle di competenza concorrente, affidate anche alla cura delle Regioni, tra le quali «tutela e sicurezza del lavoro», «istruzione», «tutela della salute», «previdenza complementare e integrativa», «coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario», tutte considerate rilevanti nel caso di specie.

La ricorrente sostiene che la Corte costituzionale, con riferimento alla materia «immigrazione», avrebbe riconosciuto la possibilità di interventi legislativi delle Regioni in ambiti diversi da quelli attinenti alle politiche di programmazione dei flussi d’ingresso e di soggiorno nel territorio nazionale, quali, ad esempio, il diritto allo studio o all’assistenza sociale, attribuiti alla competenza concorrente e residuale delle Regioni (sono citate le sentenze n. 299 e n. 134 del 2010). Le norme censurate coinvolgerebbero anche competenze che la Regione Umbria avrebbe già «puntualmente esercitato».

Infine, la ricorrente osserva che «i migranti, oltre che un onere per le Regioni (a causa dei servizi che esse devono erogare), sono per esse anche una risorsa, perché il loro apporto lavorativo è necessario per il buon funzionamento dei programmi di sviluppo regionali. Sottrarre queste risorse senza alcun coinvolgimento delle Regioni è dunque in sé violativo della loro sfera di autonomia».

Di qui, l’asserita legittimazione «alla contestazione delle disposizioni» impugnate.

1.1.– Quanto al merito delle censure, con specifico riferimento all’art. 1 del d.l. n. 113 del 2018, la ricorrente lamenta la violazione degli artt. 2, 3, 10, secondo e terzo comma, 117, secondo, terzo e quarto comma, 118 e 119 Cost.; degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 15, lettera c), e 18 della direttiva 2011/95/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, recante norme sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonché sul contenuto della protezione riconosciuta; dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 6, 10, comma 1, 17, 23 e 24 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici adottato a New York il 16 dicembre 1966, entrato in vigore il 23 marzo 1976, ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881, e agli artt. 2, 3 e 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848.

Nel ricostruire la disciplina dell’istituto del permesso di soggiorno per motivi umanitari, la ricorrente sottolinea in particolare che, prima dell’intervento del decreto-legge impugnato, l’art. 5, comma 6, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), stabiliva che «[i]l rifiuto o la revoca del permesso di soggiorno possono essere altresì adottati sulla base di convenzioni o accordi internazionali, resi esecutivi in Italia, quando lo straniero non soddisfi le condizioni di soggiorno applicabili in uno degli Stati contraenti, salvo che ricorrano seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano. Il permesso di soggiorno per motivi umanitari è rilasciato dal questore secondo le modalità previste nel regolamento di attuazione». Con l’art. 1 del d.l. n. 113 del 2018, l’inciso contenente la clausola di salvaguardia riferita ai «seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano» è stato soppresso, così come la prevista possibilità del rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari da parte del questore.

A seguito della modifica normativa – prosegue la Regione – il generale permesso di soggiorno per motivi umanitari è stato sostituito da una pluralità di fattispecie tipizzate dallo stesso decreto-legge oggetto di censura, e il suo rilascio sarebbe ora consentito quando lo straniero «possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali, ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione» (art. 19, comma 1, del t.u. immigrazione); quando vi siano «fondati motivi» che egli possa «essere sottopost[o] a tortura» (art. 19, comma 1.1); per «cure mediche» (art. 19, comma 2, lettera d-bis); per «calamità» (art. 20-bis); per «atti di particolare valore civile» (art. 42-bis); per «protezione speciale» (art. 32, comma 3, del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25, recante «Attuazione della direttiva 2005/85/CE recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato»).

Dal quadro normativo riportato dalla difesa regionale emergerebbe una situazione tale per cui gli stranieri, che prima avrebbero potuto godere del permesso di soggiorno per motivi umanitari, per effetto dell’intervento legislativo in esame risulterebbero irregolari qualora non si trovassero nelle condizioni di cui all’art. 19, commi 1 e 1.1, del novellato t.u. immigrazione o in quelle ulteriori per le quali il medesimo testo unico o il d.lgs. n. 25 del 2008 prevedono il rilascio di un permesso; detta irregolarità si estenderebbe anche a chi, già in possesso del permesso per motivi umanitari, ne subisca la revoca oppure non ne ottenga il rinnovo alla luce della novella legislativa, rispettivamente ai sensi dei commi 1 e 8 dell’impugnato art. 1.

1.1.1.– Alla luce di quanto dedotto, la ricorrente assume che le norme censurate incidano illegittimamente, non solo sulle attribuzioni attinenti alla funzione legislativa ex art. 117, terzo comma, Cost., ma anche su quelle relative alle funzioni amministrative ai sensi dell’art. 118, primo comma, Cost., in quanto la Regione sarebbe costretta a rimodulare dette funzioni, tanto con riferimento alla loro disciplina, quanto al loro concreto esercizio, dovendo escludere dalla platea dei destinatari gli stranieri che, in virtù della nuova legislazione statale, non potranno più ottenere il rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno per motivi umanitari.

1.1.2.– In secondo luogo, ad avviso della Regione Umbria, sarebbe violato l’art. 3 Cost. e con esso il legittimo affidamento dei privati: da un lato, quello dei titolari di un permesso di soggiorno ottenuto in virtù della precedente disciplina, dall’altro, quello di coloro che confidavano nel rilascio del permesso sempre alla luce della disciplina previgente.

La giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, quella della Corte europea dei diritti dell’uomo nonché quella della Corte costituzionale ammetterebbero l’incidenza su situazioni soggettive pregresse (cosiddetti diritti quesiti) solo a condizione che l’intervento legislativo sia necessario, proporzionato e motivato dal riferimento a interessi costituzionalmente meritevoli di protezione; condizioni che, tuttavia, non ricorrerebbero nella specie.

1.1.3.– In terzo luogo, sarebbero violati gli artt. 2 e 3 Cost. perché verrebbe operata un’irragionevole distinzione tra coloro che, a parità di condizioni di rilascio, dopo l’entrata in vigore del d.l. n. 113 del 2018, non potranno più godere del permesso di soggiorno e coloro che invece potranno mantenerlo ugualmente alla luce delle sopravvenienze normative, distinzione tanto più irragionevole se si considera la sua ripercussione sul godimento delle prestazioni pubbliche.

La disparità di trattamento rileverebbe anche sotto un altro profilo. Secondo la giurisprudenza civile e amministrativa, i requisiti per concedere il permesso di soggiorno per motivi umanitari riguarderebbero le speciali esigenze relative alla «tutela della famiglia e dei minori, ricongiungimento familiare, persecuzioni dovute a ragioni etniche, religiose o politiche» (Consiglio di Stato, sezione sesta, sentenza 10 settembre 2008, n. 4317), nonché al «rischio effettivo di essere sottoposto a pena di morte, tortura o trattamenti inumani o degradanti» (Corte di cassazione, sezione prima civile, ordinanza 24 marzo 2011, n. 6879). Poiché le fattispecie individuate dalla giurisprudenza non coinciderebbero integralmente con quelle tipizzate dal legislatore, distinguere coloro che versano in tali condizioni da coloro che presentano i requisiti per i nuovi «casi speciali» violerebbe il principio di uguaglianza, in quanto entrambi i gruppi ricomprenderebbero persone «vulnerabili» secondo la giurisprudenza della Corte EDU, per le quali lo Stato deve necessariamente apprestare misure volte a evitare che vengano sottoposte a trattamenti inumani e degradanti. Conseguentemente, sarebbe violato anche l’art. 117, primo comma, Cost. «atteso che la giurisprudenza ora citata fa leva sull’art. 3 CEDU».

1.1.4.– Per la ricorrente, sarebbe altresì violato l’art. 10, terzo comma, Cost., che riconosce il diritto di asilo nel territorio nazionale allo straniero cui sia impedito nel proprio paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche. Il venir meno della formula «motivi umanitari» a fondamento del rilascio del permesso di soggiorno – che, si evidenzia nel ricorso, rispondeva alla necessità, imposta dall’art. 10, terzo comma, Cost., di approntare ai richiedenti asilo una tutela elastica, in quanto «consustanziale alla "configurazione ampia del diritto di asilo”», secondo le statuizioni della Corte di Cassazione, sezione prima civile, sentenza 23 febbraio 2018, n. 4455 – avrebbe fatto venir meno anche la pienezza della relativa tutela, ora relegata a singole fattispecie tipizzate, per ciò solo inidonee a realizzare le prescrizioni costituzionali.

1.1.5.– La norma impugnata contrasterebbe poi con gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 15, lettera c), e 18 della direttiva 2011/95/UE, perché escluderebbe dal regime di protezione sussidiaria proprio le persone che, ove rientrassero nel paese di origine, verrebbero esposte alla «minaccia grave individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale».

1.1.6.– Le norme impugnate violerebbero inoltre gli artt. 2, 10, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., in riferimento agli artt. 2, 3 e 8 CEDU, e agli artt. 6, 10, comma 1, 17, 23 e 24 del Patto internazionale sui diritti civili e politici. L’allontanamento dal territorio italiano dei soggetti esclusi dal regime di protezione comprometterebbe irrimediabilmente il diritto al rispetto della vita privata e familiare di cui all’art. 8 CEDU e agli artt. 17, 23 e 24 del Patto. A causa della povertà del paese di provenienza, poi, sarebbe a rischio anche la loro vita e sicurezza alimentare, in violazione degli artt. 2 e 3 CEDU e degli artt. 6 e 10, comma 1, del Patto. Ne deriverebbe l’ulteriore violazione dell’art. 2 Cost., perché verrebbero così compromessi i diritti inviolabili degli interessati.

1.1.7.– Da ultimo, secondo la Regione, le norme censurate inciderebbero sugli ambiti di autonomia finanziaria riservati alle Regioni ai sensi dell’art. 119 Cost. A tal proposito, la ricorrente osserva che ai sensi dell’art. 35, comma 3, del t.u. immigrazione «le cure ambulatoriali ed ospedaliere urgenti o comunque essenziali, ancorché continuative, per malattia ed infortunio» e i «programmi di medicina preventiva a salvaguardia della salute individuale e collettiva» sono in ogni caso «garantiti ai cittadini stranieri presenti sul territorio nazionale, non in regola con le norme relative all’ingresso ed al soggiorno»; gli oneri finanziari che ne derivano resterebbero comunque a carico delle Regioni, a fronte di un aumento del numero di stranieri irregolari presenti sul territorio e della corrispondente riduzione di una loro partecipazione alla spesa pubblica tramite il versamento di imposte e contributi.

1.1.8.– Infine, la ricorrente formula una specifica censura con riguardo all’art. 1, comma 1, lettera f), del d.l. n. 113 del 2018, che, nel novellare l’art. 18-bis del t.u. immigrazione con l’inserimento del comma 1-bis, ha previsto l’accesso dei titolari di permesso di soggiorno «speciali» ai (soli) «servizi assistenziali» e di «studio». In tal modo, ad avviso della Regione, il legislatore statale avrebbe escluso i titolari di detto permesso dall’accesso a servizi sociali diversi da quelli espressamente indicati, così compromettendo manifestamente e illegittimamente le attribuzioni regionali nelle materie di competenza concorrente, quali la «formazione professionale», la «promozione e organizzazione di attività culturali», nonché in quelle di competenza residuale come le «politiche abitative». Ne deriverebbe la violazione dell’art. 117, terzo e quarto comma Cost., in quanto le disposizioni impugnate, sia «autoapplicative» che di dettaglio, non lascerebbero alcun margine di determinazione discrezionale alle Regioni nell’erogazione delle prestazioni assistenziali.

Per le stesse ragioni, risulterebbe violato anche l’art. 118 Cost., essendo sottratto alla Regione ogni spazio di esercizio delle proprie attribuzioni amministrative nelle materie di competenza concorrente o residuale sopra indicate, con particolare riferimento al terzo comma dell’art. 118 Cost., in quanto la disciplina statale non avrebbe previsto alcun obbligo dello Stato di concertare con le Regioni le modalità di assistenza nei confronti dei richiedenti asilo e/o protezione internazionale, nonché nei confronti dei soggetti già riconosciuti titolari di «protezione umanitaria».

1.2.– Con specifico riferimento all’art. 12 del d.l. n. 113 del 2018, la ricorrente ritiene le disposizioni impugnate contrastanti con gli artt. 2, 3, 97, 117, terzo e quarto comma, 118 e 119 Cost., nonché con l’art. 117, primo comma, Cost., in riferimento all’art. 3 CEDU.

La ricorrente ricorda che il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (d’ora innanzi: SPRAR) è il servizio costituito dalla rete di centri di accoglienza gestiti dagli enti locali, che non si limitano ad accogliere i migranti, ma svolgono anche progetti e attività di istruzione, integrazione sociale, informazione, assistenza e orientamento nella costruzione di percorsi individuali e/o collettivi di inserimento socio-economico, sicché le funzioni dei centri SPRAR coinvolgerebbero ambiti attribuiti alle competenze concorrenti e residuali delle Regioni, come quelli del «diritto allo studio» o all’«assistenza sociale», nonché delle «politiche abitative».

Ciò posto, la Regione ricorrente evidenzia che le disposizioni censurate sono intervenute «sulla platea dei beneficiari dei servizi di accoglienza sul territorio che sono prestati dagli enti locali», in quanto tali servizi sono stati ora riservati ai soli titolari delle vigenti forme di protezione internazionale, ivi compresi i permessi speciali introdotti dallo stesso d.l. n. 113 del 2018, oltre che ai minori stranieri non accompagnati. Sono stati invece esclusi dalla possibilità di usufruire dei relativi servizi i richiedenti la protezione internazionale, oltre che i possessori dei precedenti permessi di soggiorno per motivi umanitari, oggi soppressi.

Per tale motivo, si è provveduto a ridenominare lo SPRAR in Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per i minori stranieri non accompagnati (d’ora in avanti: SIPROIMI).

Nel ricostruire la portata delle innovazioni introdotte dall’art. 12 del d.l. n. 113 del 2018, la ricorrente sottolinea che quelle contenute nel comma 1 hanno modificato l’art. 1-sexies del decreto-legge 30 dicembre 1989, n. 416 (Norme urgenti in materia di asilo politico, di ingresso e soggiorno dei cittadini extracomunitari e di regolarizzazione dei cittadini extracomunitari ed apolidi già presenti nel territorio dello Stato), convertito, con modificazioni, in legge 28 febbraio 1990, n. 39, nel senso, già innanzi descritto, di modificare il novero dei destinatari dei servizi territoriali di accoglienza.

Ricorda, ancora, che, con il comma 2 dell’art. 12 del d.l. n. 113 del 2018 sono state modificate tutte le disposizioni del decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142 (Attuazione della direttiva 2013/33/UE recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale, nonché della direttiva 2013/32/UE, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale), nel senso di espungere i frammenti normativi che facevano riferimento ai richiedenti asilo in relazione alle strutture ex SPRAR, alle quali tali soggetti non hanno più accesso, essendo destinati ad essere ospitati solo nelle strutture governative disciplinate dagli artt. 9 e 11 del d.lgs. n. 142 del 2015.

Il comma 3 dell’art. 12 ha modificato il d.lgs. n. 25 del 2008, cancellando dai criteri che definiscono la competenza per territorio delle commissioni territoriali che esaminano le domande di protezione internazionale dei richiedenti asilo quello della collocazione nel centro ex SPRAR, inserendo disposizioni di coordinamento sui portatori di esigenze speciali.

Il comma 5 dell’art. 12 del d.l. n. 113 del 2018 prevede, con una norma transitoria, che i richiedenti asilo presenti nel sistema ex SPRAR alla data di entrata in vigore del decreto-legge, rimangano in accoglienza fino alla scadenza del progetto in corso, già finanziato.

Il successivo comma 5-bis prevede, invece, per i minori non accompagnati richiedenti asilo, che al compimento della maggiore età essi rimangano nel sistema SIPROIMI fino alla definizione della domanda di protezione internazionale.

Il comma 6, infine, detta un’ulteriore norma transitoria per i titolari della protezione umanitaria presenti nel sistema ex SPRAR, stabilendo che essi rimangano in accoglienza fino alla scadenza del periodo temporale previsto dalle disposizioni di attuazione sul funzionamento del medesimo sistema di protezione, e comunque non oltre la scadenza del progetto di accoglienza.

Secondo la Regione Umbria, le disposizioni impugnate produrrebbero un aggravio dei servizi di integrazione e socio-assistenziali ordinari, dedicati alla generalità della popolazione residente, predisposti e finanziati dagli enti locali e dalle Regioni, rendendo «evidente» la lesione delle competenze legislative e amministrative regionali.

Sarebbe, infatti, impedito alla Regione di esercitare le proprie attribuzioni nelle materie di competenza concorrente «istruzione», «formazione professionale», «promozione e organizzazione di attività culturali», nonché nelle materie di competenza regionale residuale «servizi sociali», «assistenza sociale», «diritto allo studio», «politiche abitative», in quanto nei centri governativi, gestiti dall’amministrazione statale, non sarebbe previsto lo svolgimento di alcuna attività socio-assistenziale: tale circostanza renderebbe evidente «che le disposizioni in esame cancellano integralmente le competenze legislative regionali sopra indicate», perché tali disposizioni sarebbero «autoapplicative» e dettagliate, sicché non lascerebbero alla Regione «alcun margine di discrezionale determinazione nell’ottica di un adattamento alle specifiche esigenze della ricorrente», con conseguente violazione dell’art. 117, terzo e quarto comma, Cost.

Risulterebbe, altresì, violato l’art. 118 Cost., in quanto alla Regione sarebbe «sottratto ogni spazio di esercizio delle sue attribuzioni amministrative nelle materie di competenza sopra indicate».

Sarebbe, infine, specificamente violato l’art. 118, terzo comma, Cost., in quanto la disciplina in esame non avrebbe previsto «l’obbligo dello Stato di concertare con le Regioni le modalità di assistenza nei confronti dei richiedenti asilo e/o protezione internazionale, nonché nei confronti dei soggetti già riconosciuti in stato di "protezione umanitaria”».

I medesimi parametri costituzionali sarebbero violati, in seguito all’espulsione dal sistema di accoglienza del titolare del precedente permesso di soggiorno per motivi umanitari senza alcuna verifica circa la capacità di sostentarsi, anche in riferimento: alla tutela dei diritti inviolabili dell’uomo, ex art. 2 Cost., in quanto le norme impugnate comprometterebbero «il minimo di sostegno sociale dovuto a qualunque essere umano»; al principio di ragionevolezza, ex art. 3 Cost., in quanto le disposizioni censurate sarebbero irragionevoli, trattando allo stesso modo «situazioni personali anche assai differenziate»; al principio di buon andamento della P.A. ex art. 97 Cost., in quanto le norme impugnate vanificherebbero «gli sforzi (anche finanziari) sostenuti dagli enti coinvolti nel sistema Sprar», scaricando «il costo economico sociale del migrante sugli ordinari servizi socio-assistenziali approntati e finanziati dalle Regioni e dagli enti locali»; all’art. 117, primo comma, Cost., in riferimento all’art. 3 CEDU, perché, a parere della ricorrente, costituirebbe «trattamento degradante» la cessazione dei servizi di accoglienza già avviati nei confronti di soggetti definiti «vulnerabili», quali sono i richiedenti asilo e, ancor più, coloro che avevano ottenuto il permesso di soggiorno per motivi umanitari secondo la previgente disciplina.

1.3.– Con specifico riferimento all’art. 13 del d.l. n. 113 del 2018, la Regione Umbria ha impugnato le seguenti disposizioni: comma 1, lettera a), numero 2), lettera b) e lettera c), in riferimento agli artt. 2, 3, 10, terzo comma, 97, 117, terzo e quarto comma, 118 e 119 Cost.; all’art. 117, primo comma, Cost., anche in relazione all’art. 2, comma 1, del Protocollo n. 4 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, che riconosce taluni diritti e libertà diversi da quelli che figurano già nella convenzione e nel suo primo protocollo addizionale, adottato a Strasburgo il 16 settembre 1963, e all’art. 12, comma 1, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici.

1.3.1.– La Regione ricorrente precisa che l’art. 13, nella parte oggetto di impugnazione (ad esclusione quindi del comma 1, lettera a, numero 1), ha modificato gli artt. 4 e 5 del d.lgs. n. 142 del 2015 e ne ha abrogato l’art. 5-bis.

In particolare, al comma 1 dell’art. 4 – secondo cui «[a]l richiedente è rilasciato un permesso di soggiorno per richiesta asilo valido nel territorio nazionale per sei mesi, rinnovabile fino alla decisione della domanda o comunque per il tempo in cui è autorizzato a rimanere nel territorio nazionale ai sensi dell’articolo 35-bis, commi 3 e 4, del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25» – è stato aggiunto il seguente periodo (che non è oggetto dell’odierna impugnazione): «[i]l permesso di soggiorno costituisce documento di riconoscimento ai sensi dell’articolo 1, comma 1, lettera c), del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445» (art. 13, comma 1, lettera a, numero 1, del d.l. n. 113 del 2018).

Dopo il comma 1 dell’art. 4 del d.lgs. n. 142 del 2015 è stato aggiunto il comma 1-bis, del seguente tenore: «[i]l permesso di soggiorno di cui al comma 1 non costituisce titolo per l’iscrizione anagrafica ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223, e dell’articolo 6, comma 7, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286» (art. 13, comma 1, lettera a, numero 2, del d.l. n. 113 del 2018).

è stato poi sostituito il comma 3 dell’art. 5 del d.lgs. n. 142 del 2015, che oggi risulta così formulato: «[l]’accesso ai servizi previsti dal presente decreto e a quelli comunque erogati sul territorio ai sensi delle norme vigenti è assicurato nel luogo di domicilio individuato ai sensi dei commi 1 e 2». Al comma 4 dello stesso art. 5 sono state sostituite le parole «un luogo di residenza» con «un luogo di domicilio» (art. 13, comma 1, lettera b, del d.l. n. 113 del 2018).

Infine, l’art. 13, comma 1, lettera c), del d.l. n. 113 del 2018 ha disposto l’abrogazione dell’art. 5-bis del d.lgs. n. 142 del 2015, il quale prevedeva: «1. Il richiedente protezione internazionale ospitato nei centri di cui agli articoli 9, 11 e 14 è iscritto nell’anagrafe della popolazione residente ai sensi dell’articolo 5 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223, ove non iscritto individualmente. 2. è fatto obbligo al responsabile della convivenza di dare comunicazione della variazione della convivenza al competente ufficio di anagrafe entro venti giorni dalla data in cui si sono verificati i fatti. 3. La comunicazione, da parte del responsabile della convivenza anagrafica, della revoca delle misure di accoglienza o dell’allontanamento non giustificato del richiedente protezione internazionale costituisce motivo di cancellazione anagrafica con effetto immediato, fermo restando il diritto di essere nuovamente iscritto ai sensi del comma 1».

Secondo la ricorrente, dal combinato disposto delle norme sopra richiamate discenderebbe che il permesso di soggiorno per richiesta di asilo costituisce un documento di riconoscimento ma non un titolo per l’iscrizione anagrafica, pertanto il titolare di permesso di soggiorno per richiesta di protezione internazionale non potrà essere iscritto all’anagrafe dei residenti. Ciò nondimeno, il richiedente continuerà ad avere accesso ai «servizi» previsti dal d.lgs. n. 142 del 2015 e a quelli «comunque erogati sul territorio» nel luogo di domicilio.

Al riguardo, la difesa regionale rileva come la gran parte dei servizi previsti dal d.lgs. n. 142 del 2015 sia erogata attraverso il diretto coinvolgimento di Regioni ed enti locali e intersechi una pluralità di materie di competenza concorrente della Regione Umbria. Tra questi servizi, comunque garantiti ai richiedenti, sono richiamati: l’assistenza sanitaria (art. 21, comma 1, del d.lgs. n. 142 del 2015); l’istruzione dei minori richiedenti protezione internazionale e dei minori figli di richiedenti protezione internazionale (art. 21, comma 2); la possibilità «di svolgere l’attività lavorativa» (art. 22, comma 1); la partecipazione «ad attività di utilità sociale» (art. 22-bis). Il riferimento a questi servizi confermerebbe, secondo la ricorrente, l’ammissibilità delle censure prospettate.

1.3.2.– Muovendo dalla prospettiva delle prerogative regionali asseritamente menomate, l’art. 13 del d.l. n. 113 del 2018 violerebbe gli artt. 2, 3, 97, 117, terzo e quarto comma, 118 e 119 Cost.

La norma impugnata imporrebbe alle Regioni «alternativamente» di «escludere dall’erogazione di servizi e prestazioni i richiedenti asilo, in violazione dei principi dettati dallo stesso legislatore statale nel d.lgs. n. 142 del 2015», o di «modificare la corrispondente normativa regionale in modo da garantire – a spese delle Regioni medesime, s’intende – determinati servizi e prestazioni anche ai non iscritti all’anagrafe dei residenti».

Secondo la ricorrente, l’esito sarebbe, in entrambi le ipotesi, «paradossale» e in ogni caso «violativo» delle prerogative regionali garantite dall’art. 117, terzo e quarto comma, Cost.

L’illegittimità della norma impugnata ridonderebbe anche in lesione dell’autonomia finanziaria regionale di cui all’art. 119 Cost. e si porrebbe in contrasto con il principio di economicità dell’azione amministrativa, imposto dall’art. 97 Cost. Al riguardo, la Regione sarebbe tenuta a garantire anche ai richiedenti asilo i servizi erogati sul proprio territorio, ma – stante l’impossibilità della loro iscrizione all’anagrafe – non potrebbe considerarli «partecipi a pieno titolo, anche sotto il profilo dei doveri tributari, contributivi, etc., della sua comunità di residenti».

Sarebbe altresì violato l’art. 118 Cost. in considerazione del fatto che il divieto di iscrizione all’anagrafe inciderebbe sull’esercizio delle funzioni amministrative spettanti ai Comuni nelle materie di competenza regionale sopra menzionate.

1.3.3.– L’art. 13 del d.l. n. 113 del 2018 violerebbe, inoltre, gli artt. 3 e 10, terzo comma, Cost., in quanto il legislatore statale, impedendo l’iscrizione anagrafica ai richiedenti asilo, avrebbe riservato un trattamento diverso e deteriore a una particolare categoria di stranieri, dando vita a una discriminazione del tutto irragionevole fondata esclusivamente sul diverso tipo di permesso di soggiorno posseduto. Né potrebbe valere a giustificare siffatta differenza di trattamento «la precarietà del permesso di richiesta asilo», richiamata nella relazione di presentazione del disegno di legge di conversione del d.l. n. 113 del 2018. Al riguardo, la difesa regionale rileva come la durata semestrale sia prevista non solo per il permesso di soggiorno in questione ma anche per quello «per calamità» (art. 20-bis t.u. immigrazione) e per quello «per motivi di protezione sociale» (art. 18 t.u. immigrazione).

1.3.4.– La norma impugnata violerebbe, infine, gli artt. 2, 3 e 117, primo comma, Cost., in riferimento all’art. 2, comma 1, del Protocollo n. 4 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e all’art. 12, comma 1, del Patto internazionale relativo ai diritti civili, poiché «l’irragionevole preclusione all’iscrizione anagrafica min[erebbe] irrimediabilmente anche le garanzie previste dalle fonti sovranazionali richiamate, gravemente compromettendo il diritto (garantito dagli artt. 2 e 3 Cost.) al riconoscimento pubblico del reale rapporto tra persona e territorio dello Stato».

1.4.– Da ultimo, la Regione Umbria prospetta, con riferimento alle disposizioni impugnate, anche la violazione dell’art. 77 Cost. e del principio di leale collaborazione.

1.4.1.– Ad avviso della ricorrente, le norme censurate, adottate tramite decreto-legge, sarebbero carenti dei presupposti di straordinaria necessità e urgenza. Detta carenza emergerebbe dalla apoditticità della relazione di accompagnamento alla legge di conversione, priva di motivazione in ordine alla situazione di fatto che avrebbe legittimato il Governo ad intervenire. In generale, le misure previste dall’atto legislativo sarebbero ordinamentali e di sistema, «per definizione estrane[e] all’ambito legittimamente regolabile con un decreto legge».

1.4.2.– Nel dettaglio, le disposizioni censurate sarebbero tutte eterogenee, riguardando una serie «nutritissima» di oggetti. Con riferimento all’art. 1, poi, la difesa regionale insiste sulla «natura meramente fittizia dell’invocazione delle esigenze di urgenza in ordine a questioni che non hanno nulla a che vedere con il fenomeno del contrasto all’immigrazione clandestina», cui accenna il preambolo. Inoltre, in relazione all’art. 12 del decreto-legge censurato, la Regione precisa come le funzioni dell’ex SPRAR siano «assai articolate», dunque «non disciplinabili in via di interventi di (asserita) necessità e urgenza». Le norme che hanno rivisto detto sistema non sarebbero di immediata applicabilità, prevedendosi l’ultrattività della precedente disciplina per le persone già collocate nei centri. Anche l’art. 13, relativo all’iscrizione anagrafica, sarebbe una misura ordinamentale incompatibile con l’atto fonte utilizzato.

1.5.– La Regione Umbria ritiene violato, inoltre, il principio di leale collaborazione, alla luce del suo mancato coinvolgimento durante l’iter legislativo di approvazione del decreto e nel corso della sua conversione in legge, nonostante l’incidenza dello stesso sulle prerogative regionali.

Laddove si ritenga che il principio di leale collaborazione non trovi applicazione in ordine all’esercizio della funzione legislativa, il vizio denunciato non verrebbe comunque meno, considerato che il coinvolgimento regionale non è stato previsto nemmeno per quegli atti di concreta amministrazione applicativi delle astratte previsioni del decreto-legge.

2.– La Regione Emilia-Romagna, con ricorso notificato il 1°-6 febbraio 2019 e depositato il 4 febbraio 2019 (reg. ric. n. 11 del 2019), ha impugnato molteplici disposizioni del d.l. n. 113 del 2018, tra cui gli artt. 1, 12 e 13.

Dell’art. l, in particolare, ha censurato: il comma l, lettere a), b), d), f), numero 1), i), numero 1), h), o), p), numeri l) e 2); il comma 2, lettera a); il comma 6, lettere a), b), c) e d); il comma 7, lettere a) e b); il comma 8 e il comma 9.

Dell’art. 12 ha impugnato: il comma 1, lettere a), a-bis), a-ter), b), c), d); il comma 2, lettere a), numeri 1) e 2), b), c), d), numeri 1) e 2), f), numeri 1), 2) e 5), g), numeri 1) e 2), h), numeri 1) e 2), h-bis), l), m); il comma 3, lettera a); i commi 4, 5 e 6.

Dell’art. 13, comma 1, ha censurato: la lettera a), numero 2); la lettera b), numeri l) e 2); la lettera c).

In ordine alla legittimazione della Regione all’impugnativa, a tutela delle attribuzioni proprie, unitamente a quelle degli enti locali, la ricorrente riconosce che le disposizioni censurate sono ascrivibili a competenze statali esclusive, quali «diritto di asilo» e «condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea» (art. 117, secondo comma, lettera a, Cost.) nonché «immigrazione» (art. 117, secondo comma, lettera b, Cost.), ma premette di agire per salvaguardare l’esercizio di proprie competenze residuali, tra cui quelle in materia di assistenza sociale e formazione professionale (art. 117, quarto comma, Cost.), e di proprie competenze concorrenti, tra cui quelle relative alla tutela della salute, all’istruzione e alla tutela del lavoro (art. 117, terzo comma, Cost.).

Negli ambiti di propria competenza da ultimi richiamati, infatti, la Regione si troverebbe «condizionata […] a rispettare e sviluppare le scelte contenute nella legislazione statale», di cui soprattutto al t.u. immigrazione e da quest’ultimo espressamente qualificata come normazione di principio per le Regioni (art. 1, comma 4).

Inoltre, secondo la ricorrente, la stessa giurisprudenza costituzionale imporrebbe allo Stato di esercitare le proprie competenze in materia di immigrazione e di condizione giuridica dello straniero in stretto coordinamento con le Regioni, in quanto l’intervento pubblico non potrebbe che riguardare anche ambiti – dall’assistenza all’istruzione, dalla salute all’abitazione – attribuiti alle competenze regionali, residuali o concorrenti.

Già sul piano del riparto costituzionale, osserva la ricorrente, la presenza di interessi e di competenze regionali anche all’interno della competenza esclusiva sulla immigrazione sarebbe oggetto di espresso riconoscimento nell’art. 118, terzo comma, Cost., a mente del quale «la legge statale disciplina forme di coordinamento fra Stato e Regioni nelle materie di cui alle lettere b) e h) del secondo comma dell’art. 117».

Ciò posto, la ricorrente lamenta che lo Stato, nell’esercizio delle proprie competenze, abbia dettato norme incostituzionali, che costringerebbero «l’azione regionale in una cornice normativa illegittima, condizionando e viziando conseguentemente gli stessi atti legislativi ed amministrativi adottati dall’ente regionale nel rispetto di quella cornice».

Tale lesione sarebbe evidente con riguardo alle disposizioni dell’art. l del d.l. n. 113 del 2018, che priverebbero i soggetti – oggi titolari di permesso di soggiorno per motivi umanitari – di specifici diritti, quali il godimento dell’assistenza sanitaria in condizione di parità con i cittadini italiani, il diritto allo studio, il diritto al lavoro e alla formazione professionale, in tal modo interferendo sulle funzioni attualmente svolte dalla Regione: le posizioni soggettive «eliminate» in capo alle persone titolari di permesso di soggiorno per motivi umanitari avrebbero, infatti, natura di «diritti o di interessi pretensivi conformati dalla legislazione regionale e azionabili, sulla base di tale legislazione, nei confronti della Regione, degli enti strumentali della Regione o degli enti locali».

Con particolare riferimento all’art. 12 del d.l. n. 113 del 2018 sarebbe evidente l’interferenza con le funzioni attualmente svolte dalla Regione e quindi la lesione indiretta delle competenze di quest’ultima in tema di assistenza sociale e di quelle amministrative esercitate dai Comuni ai sensi degli artt. 5 e 118, primo comma, Cost.

Infine, in relazione all’art. 13 del d.l. n. 113 del 2018, concernente la residenza anagrafica, la preclusione, o comunque la limitazione della possibilità di ottenerla per i richiedenti asilo, farebbe sì che queste persone, legittimamente presenti sul territorio della Regione e dei suoi Comuni, si troverebbero «impedite» nel godimento di quei servizi per i quali proprio la residenza costituisce presupposto essenziale.

La Regione dichiara, inoltre, di agire – a ciò autorizzata dalla giurisprudenza costituzionale – anche a tutela delle attribuzioni degli enti locali, e segnatamente dei Comuni, che esercitano funzioni in materia di assistenza e di integrazione sociale dei richiedenti asilo e, in generale, degli stranieri, sicché anche gli enti locali avrebbero interesse «ad ottenere che le funzioni da essi esercitate per effetto di vincoli costituzionali […] concretizzati da leggi regionali e statali, non siano guidate da leggi illegittime».

2.1.– Quanto al merito delle censure, con specifico riferimento all’art. 1 del d.l. n. 113 del 2018, la ricorrente formula diversi motivi di ricorso, lamentando in via principale che l’avvenuta soppressione del permesso di soggiorno per motivi umanitari e la sua sostituzione con ipotesi di permesso di soggiorno per «casi speciali» non sarebbe in grado di ricomprendere tutte le ipotesi di protezione risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato.

2.1.1.– Ad avviso della Regione, invero, la precedente clausola generale del permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui all’art. 5, comma 6, del t.u. immigrazione, in quanto clausola aperta ed elastica, non sarebbe sostituibile con la previsione di casi tassativi, i quali, in ragione della loro stessa struttura e conformazione, non potrebbero garantire la copertura dell’intera area di accoglienza dovuta in esecuzione di obblighi costituzionali o internazionali. Pertanto, la nuova disciplina contrasterebbe con gli artt. 2 e 3 Cost., in ragione della violazione dei principi di inviolabilità della persona umana nei suoi diritti fondamentali e nella sua dignità; con l’art. 10, secondo e terzo comma, Cost., atteso che gli obblighi interni e internazionali di protezione dello straniero risulterebbero inosservati; con l’art. 97 Cost., per violazione del principio di ragionevolezza e buon andamento dell’amministrazione in ragione dell’avvenuta individuazione e distinzione, all’interno della popolazione regionale, di un gruppo di persone a condizione giuridica irrimediabilmente degradata; con l’art. 117, primo comma, Cost., per il dichiarato intento del legislatore a non sentirsi vincolato all’adempimento degli obblighi costituzionali e internazionali; con gli artt. 117, terzo e quarto comma, e 118, primo e secondo comma, Cost., perché l’intervento legislativo ridonderebbe sull’esercizio delle competenze regionali in materia di tutela della salute, del lavoro e della formazione professionale e dell’assistenza sociale.

2.1.2.– In via subordinata, la Regione Emilia-Romagna censura la nuova ipotesi di permesso di soggiorno per calamità, introdotta dall’art. l, comma l, lettera h), del d.l. n. 113 del 2018, nella parte in cui limita la possibilità di rilascio di detto titolo ai soli casi in cui lo stato di calamità in cui versi il paese di origine dello straniero sia «contingente ed eccezionale». Tale limitazione, secondo la Regione, escluderebbe tutte le altre ipotesi in cui ricorrano ragioni diverse dalla prevista «calamità contingente ed eccezionale», che non rendono comunque possibile il rientro e la permanenza dello straniero in condizioni di sicurezza, ma sia in ogni caso doveroso il riconoscimento della protezione umanitaria per obbligo costituzionale o internazionale. Vi sarebbe pertanto una violazione degli artt. 2, 3, 10 e 117, primo comma, Cost., ridondante in lesione delle competenze regionali e comunali, garantite dagli artt. 117, terzo e quarto comma, e 118, primo e secondo comma, Cost.

2.1.3.– In terzo luogo, la Regione ravvisa un’ulteriore violazione degli artt. 3, 10, secondo e terzo comma, e 117, primo comma, Cost., nella parte in cui le disposizioni impugnate eliminano il riferimento a «motivi di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano», ove queste siano intese nel senso di precludere il rilascio del permesso di soggiorno in favore dei soggetti comunque meritevoli del titolo in esecuzione di obblighi internazionali e costituzionali, anche se non rientranti nelle circostanze specificamente previste dalle norme sui permessi per casi speciali, ma comunque collegati alla medesima area di protezione.

2.1.4.– La Regione Emilia-Romagna ritiene inoltre che l’abrogazione di ogni riferimento al permesso di soggiorno per motivi umanitari dal t.u. immigrazione privi i soggetti in possesso di un permesso di soggiorno per motivi umanitari di una serie di diritti civili o sociali, quali ad esempio il diritto alla formazione professionale, al lavoro, all’accesso alle prestazioni sanitarie in condizione di parità con i cittadini.

Sotto altro profilo, la ricorrente afferma che l’applicazione immediata delle disposizioni impugnate avrebbe l’effetto di sottrarre ai titolari di un permesso di soggiorno per motivi umanitari ancora in corso di validità, una serie di facoltà e prestazioni erogate dalla Regione o dagli enti locali in materia di tutela del lavoro, di istruzione, di formazione e di avviamento professionale. Da tanto, la Regione ricorrente ricava l’illegittimità di tali norme per violazione degli artt. 2 e 3 Cost. in ragione della privazione di uno status legittimamente acquisito, con violazione del principio dell’affidamento e con incisione di diritti fondamentali della persona, quali il diritto al lavoro e alla formazione professionale di cui all’art. 35 Cost., il diritto all’istruzione ex art. 34 Cost. e il diritto alla salute presidiato dall’art. 32 Cost.

2.1.5.– In quinto luogo, la Regione Emilia-Romagna deduce altresì «la illegittimità costituzionale dell’art. l, commi 8 e 9, per violazione degli artt. 2 e 10, terzo comma, dell’art. 3 Cost., sotto il profilo della tutela dell’affidamento e per disparità di trattamento, nonché dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione ai principi di certezza del diritto e di tutela dell’affidamento sanciti dal diritto europeo». In particolare, ad avviso della Regione ricorrente, il comma 8 sarebbe illegittimo perché non consentirebbe il rinnovo del permesso di soggiorno per motivi umanitari in costanza delle condizioni che lo hanno reso giuridicamente dovuto, mentre il comma 9, a sua volta, sarebbe illegittimo laddove prevede il rilascio solo di un permesso per «casi speciali».

Dette disposizioni, laddove applicate retroattivamente nei confronti degli stranieri che avevano fatto ingresso nel territorio dello Stato prima del 5 ottobre 2018, contrasterebbero con gli artt. 2, 10, terzo comma, 3 (in relazione ai principi di affidamento e di certezza del diritto interno), 117, primo comma, Cost. (per violazione dei principi di affidamento e di certezza del diritto sanciti dal diritto europeo), trattandosi «di persone già presenti sul territorio regionale e quindi integrate nel sistema di assistenza e di protezione sociale apprestato dalla rete regionale, i quali per effetto della interpretazione qui contestata come incostituzionale ne verrebbero esclusi».

2.2.– Quanto all’art. 12 del d.l. n. 113 del 2018, la ricorrente ritiene le impugnate disposizioni lesive degli artt. 2, 3, 4, 5, 11, 35, 97, 114, 117, primo, terzo e quarto comma, 118, 119 e 120 Cost., nonché del principio di leale collaborazione.

Partendo dalla considerazione che l’intervento normativo mira a limitare l’accoglienza nel sistema SPRAR (rinominato SIPROIMI) ai soli titolari di protezione internazionale (compresa quella speciale, sostituitasi, in parte, a quella umanitaria precedentemente esistente) e ai minori stranieri non accompagnati, il ricorso è volto a contestare la legittimità costituzionale «della sottrazione agli enti territoriali dell’accoglienza ai richiedenti asilo e delle risorse destinate ad essa, in quanto tale sottrazione priva le Regioni e gli enti locali di una parte delle funzioni che ad essi spettano».

A tal fine, la ricorrente ricostruisce la disciplina previgente del sistema SPRAR, evidenziando, per quanto qui d’interesse, che esso è finanziato da un fondo nazionale alimentato anche da risorse messe a disposizione dell’Unione europea, da ultimo grazie al Regolamento (UE) del Parlamento europeo e del Consiglio del 16 aprile 2014, n. 516 che istituisce il Fondo Asilo, migrazione e integrazione, che modifica la decisione 2008/381/CE del Consiglio e che abroga le decisioni n. 573/2007/CE e n. 575/2007/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e la decisione 2007/435/CE del Consiglio.

Ricorda che gli enti locali predisponevano un sistema di seconda accoglienza che costituiva il passaggio successivo rispetto alla cosiddetta prima accoglienza, espletata dopo le operazioni di primo soccorso finalizzate a distinguere i richiedenti protezione dai cosiddetti migranti economici, questi ultimi non ammessi sul territorio nazionale.

La ricorrente illustra poi le modifiche apportate dal d.l. n. 113 del 2018, come convertito, con le quali sono state profondamente variate le norme fondamentali di disciplina dell’ex SPRAR contenute nell’art. 1-sexies del d.l. n. 416 del 1989 e nell’art. 14 del d.lgs. n. 142 del 2015 – nei sensi già descritti con riferimento al ricorso della Regione Umbria – introducendo anche una disciplina transitoria.

2.2.1.– Il primo motivo di ricorso investe specificamente l’art. 12, comma 1, lettere a), a-ter), b), c), d); comma 2, lettere a), numeri 1) e 2), b), c), d), numeri 1) e 2), f), numeri 1) e 5), g), numeri 1) e 2), h), numeri 1) e 2); comma 3, lettera a); comma 4 del d.l. n. 113 del 2018.

Secondo la Regione Emilia-Romagna, l’accentramento in sedi e istituzioni statali delle funzioni di accoglienza dei richiedenti asilo comprometterebbe la facoltà delle Regioni di disciplinare – rispetto a soggetti che, in attesa di ulteriori decisioni, legittimamente permangono sul territorio – le forme dell’assistenza ai richiedenti asilo, ivi compresa l’istituzione di strutture idonee e l’individuazione delle funzioni degli enti locali nella materia, ulteriori rispetto a quelle individuate dallo Stato come funzioni fondamentali (tra cui il sistema locale dei servizi sociali).

La Regione e gli enti locali sarebbero perciò privati di funzioni (in materia di assistenza a una particolare categoria di persone, bisognose di accoglienza) di cui sono costituzionalmente titolari e che la ricorrente avrebbe già esercitato, peraltro attribuendo ai Comuni «rilevantissime funzioni» in materia di integrazione sociale dei cittadini stranieri immigrati.

Sarebbero, in tal modo, violati gli artt. 5, 114, 117, terzo e quarto comma e 118, primo comma, Cost., quest’ultimo, in particolare, perché le funzioni di seconda accoglienza ai richiedenti asilo erano correttamente allocate a livello comunale.

Ancora, la concentrazione delle funzioni di accoglienza per i richiedenti asilo nelle strutture governative sarebbe irragionevole e metterebbe a repentaglio basilari diritti riconosciuti dall’art. 2 Cost., per la prospettiva «di sicure violazioni dei diritti umani dei soggetti ospitati», essendo «notorio» che, nei centri statali, le condizioni di accoglienza sarebbero peggiori rispetto a quelle assicurate nelle strutture ex SPRAR, ponendosi al di sotto degli standard imposti dalle norme europee.

2.2.2.– Il secondo motivo di ricorso censura specificamente il comma 1, lettera a-bis), e il comma 2, lettera f), numero 2), dell’art. 12 del d.l. n. 113 del 2018.

Tali disposizioni avrebbero riformulato la disciplina dei finanziamenti ai progetti di accoglienza nel sistema ex SPRAR, precludendo l’accesso degli enti locali al Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo, comprendente anche fondi di provenienza europea relativamente all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale. Inoltre, sarebbe stato ridotto il ruolo spettante alla Conferenza unificata, la quale, a fronte del precedente compito di interlocuzione nel momento dell’emanazione del decreto ministeriale di ripartizione dei fondi, oggi concorrerebbe solo al decreto ministeriale con il quale sono definititi i criteri e le modalità per la presentazione da parte degli enti locali delle domande di contributo per la realizzazione e la prosecuzione dei progetti finalizzati all’accoglienza dei soggetti ammessi al SIPROIMI.

In tal modo, sarebbero violati gli artt. 117 e 119 Cost. e 11 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 5, comma l, lettera b), del regolamento n. 516/2014/UE, in quanto, eliminando il canale di finanziamento per gli ex SPRAR relativamente all’accoglienza dei richiedenti protezione, gli enti locali sarebbero privati di qualunque via per accedere ai finanziamenti per tale tipologia di servizio, che pure sarebbero competenti – insieme alla Regione – a svolgere, nonché esclusi dai fondi europei.

Sarebbero altresì violati gli artt. 3, 97, 120 Cost. e il principio di leale collaborazione, per il ridimensionamento del ruolo assunto dalla Conferenza unificata.

2.2.3.– Il terzo motivo di ricorso colpisce specificamente il comma 2, lettera h-bis), dell’art. 12 del d.l. n. 113 del 2018.

La disposizione prevede, in relazione ai minori non accompagnati, che nel caso di indisponibilità di strutture governative, essi siano accolti temporaneamente dai Comuni in cui si trovano, ma «senza alcuna spesa o onere a carico del Comune interessato all’accoglienza».

La censura è avanzata in via cautelativa, ove la disposizione dovesse essere interpretata nel senso di limitare la possibilità dei Comuni, nell’esercizio di funzioni proprie, di finanziare liberamente le proprie attività. In tal caso, infatti, risulterebbe lesa, a parere della ricorrente, l’autonomia finanziaria degli enti locali, oltre che il principio di buon andamento dell’amministrazione, in violazione degli artt. 97, 118 e 119 Cost.

2.2.4.– Il quarto motivo di ricorso investe specificamente il comma 2, lettera l), dell’art. 12 del d.l. n. 113 del 2018.

La norma abroga la disposizione che prevedeva la possibilità, per i richiedenti asilo che in precedenza usufruivano dei servizi SPRAR, di frequentare corsi di formazione professionale.

A parere della ricorrente, la disposizione censurata violerebbe l’art. 117, terzo e quarto comma, Cost., in connessione con l’art. 35 Cost., ove interpretata nel senso di istituire un divieto in capo alla Regione e agli enti locali di organizzare attività di formazione professionale alle quali i richiedenti protezione internazionale possano partecipare.

2.2.5.– Il quinto motivo di ricorso censura specificamente il comma 2, lettera m), dell’art. 12 del d.l. n. 113 del 2018.

La disposizione riserva ai già titolari di protezione internazionale l’impiego in attività di utilità sociale in favore delle collettività locali, promosse dai prefetti, d’intesa con i Comuni e le Regioni.

Ove interpretata come un divieto rispetto alla possibilità, per Comuni e Regioni, di organizzare tali attività in relazione ai richiedenti asilo, violerebbe le competenze regionali in materia di formazione professionale e tutela del lavoro e, dunque, l’art. 117, terzo e quarto comma, Cost., in connessione con gli artt. 4 e 35 Cost.

2.2.6.– Il sesto motivo di ricorso investe specificamente il comma 5 dell’art. 12 del d.l. n. 113 del 2018.

La disposizione pone la scadenza del progetto quale limite alla permanenza in accoglienza negli ex SPRAR dei richiedenti asilo.

Secondo la ricorrente, sarebbero violati gli artt. 3, 11, 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU in materia di tutela della vita privata e familiare, in quanto, in lesione del principio di ragionevolezza, si porrebbe in diretta violazione dei diritti dei soggetti in accoglienza, i quali da un giorno all’altro si ritroverebbero «privi di qualunque tipo di sostegno ed espulsi dal contesto di vita nel quale erano inseriti».

Sarebbe leso, altresì, l’art. 117, terzo e quarto comma, nonché il principio di sussidiarietà di cui agli artt. 5, 114 e 118 Cost., che al terzo comma prevede forme di coordinamento proprio in materia di immigrazione, e ancora il principio di leale collaborazione di cui all’art. 120 Cost., in quanto la disposizione costringerebbe gli enti locali a espellere i richiedenti asilo dai propri centri, quand’anche le risorse economiche dell’ente oppure quelle fornite dalla Regione nell’ambito delle proprie competenze risultassero perfettamente sufficienti.

2.2.7.– Il settimo motivo di ricorso investe specificamente il comma 6 dell’art. 12 del d.l. n. 113 del 2018.

La norma pone la scadenza del progetto quale limite alla permanenza in accoglienza negli ex SPRAR per i titolari di protezione umanitaria, oggi soppressa.

Secondo la ricorrente, tali soggetti sarebbero espulsi dal sistema dell’accoglienza, con conseguente aggravamento, senza ragione, delle condizioni di permanenza temporanea sul territorio.

Sarebbero, perciò, violati gli artt. 3, 11 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU in materia di tutela della vita privata e familiare, in quanto, in lesione del principio di ragionevolezza, la disposizione impugnata si porrebbe in diretta violazione dei diritti dei soggetti in accoglienza, i quali da un giorno all’altro si ritroverebbero privi di qualunque tipo di sostegno ed espulsi dal contesto di vita nel quale erano inseriti.

2.3.– Con specifico riferimento all’art. 13 del d.l. n. 113 del 2018, la Regione Emilia-Romagna ha impugnato le seguenti disposizioni: comma 1, lettera a), numero 2), lettera b) e lettera c), in riferimento agli artt. 2, 3, 5, 32, 34, 35, 97, 117 e 118 Cost.

2.3.1.– La ricorrente, dopo aver illustrato il quadro normativo, afferma che con la norma impugnata è stata «dimezzata la funzione del [permesso di soggiorno per richiesta asilo] che vale ai fini del riconoscimento, ma non (più), invece, ai fini dell’iscrizione anagrafica presso il Comune».

La difesa regionale ricorda che la residenza è il luogo in cui la persona ha la dimora abituale (art. 43 del codice civile) e che, pertanto, essa corrisponde «ad una situazione di fatto». Rammenta, altresì, che la giurisprudenza di legittimità ha, da molti anni, riconosciuto che quello all’iscrizione anagrafica è «un diritto soggettivo perfetto» (è citata la sentenza della Corte di cassazione, sezioni unite civili, 19 giugno 2000, n. 449).

La ricorrente passa, poi, a esaminare due diverse interpretazioni delle disposizioni impugnate, entrambe comunque non esenti da profili di incostituzionalità.

Secondo una lettura radicale, le norme impugnate impedirebbero l’identificazione e la qualificazione dei richiedenti asilo come residenti. In tal caso, i richiedenti asilo sarebbero soggetti privi di residenza, non identificati nella comunità territoriale in cui si trovano; avrebbero soltanto un domicilio, cioè una sede di affari e interessi, «ma non un luogo nel quale essi, come persone, siano riconosciuti trovarsi abitualmente». In altre parole, le norme impugnate «creerebbero delle persone istituzionalmente di serie B, veri fantasmi sociali, privi persino del diritto di essere ufficialmente considerat[i] come residenti in un luogo», con evidente violazione sia dell’art. 2 Cost., sia del principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., «nel senso più classico e primordiale del termine, con riferimento in questo caso alla discriminazione in base alle "condizioni personali e sociali”». Dal canto loro, le comunità interessate sarebbero private «della possibilità di riconoscere chi ne è di fatto parte stabile e conseguentemente della possibilità di utilizzare il luogo di residenza quale presupposto dell’esercizio delle loro funzioni sia normative che ancor più amministrative».

La ricorrente sostiene che quest’ultima considerazione «risolv[a] in radice anche il problema della ridondanza della questione di legittimità qui posta sulle funzioni regionali»; sarebbe dunque evidente «la violazione di tutte le disposizioni costituzionali che consentono e impongono tali attività di governo e di amministrazione», e in particolare degli artt. 5, 97, 117 e 118 Cost. e ancora prima dell’art. 3 Cost. «quale fondamento del principio di ragionevolezza».

In base alla seconda interpretazione, invece, le norme impugnate non sarebbero volte a privare alcuno del diritto alla residenza ma comporterebbero «"soltanto” l’impossibilità di utilizzare il permesso di soggiorno quale documento utile a determinare la residenza». Permarrebbero, dunque, la possibilità e il diritto di ottenere l’iscrizione anagrafica in base ad altri documenti idonei a provare «il fatto della residenza come dimora abituale». Analogamente resterebbe fermo il dovere delle autorità comunali di accertare lo stesso fatto della residenza, iscrivendo ogni residente nei registri dell’anagrafe. In base a questa diversa interpretazione, le disposizioni impugnate non creerebbero «una categoria di esseri umani privi del diritto e del dovere di essere riconosciuti quali residenti in un luogo», ma non sarebbero comunque esenti dalle censure di illegittimità costituzionale.

Le norme impugnate risulterebbero, infatti, «completamente irragionevoli» in quanto finirebbero con l’ostacolare, piuttosto che con il favorire, «il processo di accertamento della residenza», non potendo essere utilizzato il permesso di soggiorno al fine di ottenere l’iscrizione anagrafica. Parimenti irrazionale risulterebbe l’abrogazione dell’obbligo dei responsabili dei centri di accoglienza di comunicare i nominativi delle persone accolte ai fini dell’accertamento e dell’attestazione della loro residenza. Di qui deriverebbe la violazione del principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.) e del principio di buon andamento dell’amministrazione (art. 97 Cost.).

2.3.2.– L’eliminazione dell’iscrizione anagrafica comporterebbe, inoltre, «conseguenze rilevanti» sull’attività svolta dai Comuni della Regione Emilia-Romagna e da quest’ultima. Infatti, l’amministrazione regionale e quella comunale organizzano i servizi inerenti alla sanità, all’istruzione e all’accesso all’impiego tramite l’iscrizione anagrafica. Pertanto, il divieto di iscrizione anagrafica renderebbe impossibile procedere alla programmazione dei servizi sociali. Verrebbero, inoltre, complicate le funzioni di monitoraggio della popolazione e della sicurezza locale, demandate agli enti comunali. Infine, la mancanza dell’iscrizione anagrafica arrecherebbe una lesione «a funzioni legislative già esercitate nella pienezza delle sue competenze da parte della Regione Emilia-Romagna».

2.3.3.– Oltre che «dal punto di vista degli enti», le norme impugnate risulterebbero irragionevoli anche se considerate «dalla prospettiva del richiedente». In proposito, la ricorrente richiama la giurisprudenza costituzionale nella quale si è affermato che «lo straniero è anche titolare di tutti i diritti fondamentali che la Costituzione riconosce spettanti alla persona» (è citata la sentenza n. 148 del 2008). Tra questi diritti rientra sicuramente il diritto alla salute (art. 32 Cost.), quello all’istruzione (art. 34 Cost.), quello al lavoro (art. 35 Cost.) e, in generale, tutti i diritti tutelati dall’art. 2 Cost.

L’impossibilità di iscrizione ai registri anagrafici renderebbe molto più difficoltoso l’esercizio di questi diritti e l’accesso ai servizi connessi, con conseguente violazione dei parametri costituzionali sopra indicati.

2.3.4.– Da ultimo, le norme impugnate sarebbero contradditorie e generative di disparità di trattamento alla luce di quanto disposto dall’art. 6, comma 7, del t.u. immigrazione, secondo cui, tra l’altro, «[l]e iscrizioni e variazioni anagrafiche dello straniero regolarmente soggiornante sono effettuate alle medesime condizioni dei cittadini italiani con le modalità previste dal regolamento di attuazione».

La disparità di trattamento risiederebbe nel fatto che il permesso di soggiorno per i richiedenti asilo è l’unico a non dare accesso all’iscrizione anagrafica e quindi, tra tutti gli stranieri regolarmente soggiornanti, i richiedenti asilo sarebbero i soli che non possono ottenere l’iscrizione anagrafica e che non possono beneficiare dei servizi connessi.

Sempre in relazione all’art. 6, comma 7, del t.u. immigrazione, vi sarebbero profili ulteriori di disparità. Infatti, il secondo periodo di questa disposizione stabilisce che «[i]n ogni caso la dimora dello straniero si considera abituale anche in caso di documentata ospitalità da più di tre mesi presso un centro di accoglienza». Pertanto, mentre per i titolari della protezione internazionale (che hanno diritto all’iscrizione anagrafica) sarà rilevante la loro dimora abituale ex art. 6, comma 7, del t.u. immigrazione, la medesima situazione di fatto non potrà rilevare per i richiedenti asilo.

3.– La Regione Marche, con ricorso notificato il 1°-6 febbraio 2019 e depositato il 5 febbraio 2019 (reg. ric. n. 13 del 2019), ha impugnato l’intero testo del decreto-legge, nonché singole disposizioni del d.l. n. 118 del 2013, e tra queste, gli artt. 1, 12 e 13.

Dell’art. 1, in particolare, ha impugnato: il comma 1, lettera b), numero 2), lettere e), f), g), h), i), o) e p), numero 1); il comma 2 e il comma 8.

Dell’art. 12 ha impugnato: il comma 1, lettere a), b) e c); il comma 2, lettere f), numero 1), l) e m).

Dell’art. 13, comma 1, ha censurato: le lettere a), numero 2), e c).

La ricorrente ricostruisce il complesso intervento normativo portato dal d.l. n. 113 del 2018, nei termini che si sono ampiamente in precedenza già illustrati, con riferimento ai ricorsi presentati dalle Regioni Umbria ed Emilia-Romagna.

In ordine alla legittimazione della Regione all’impugnativa, a tutela delle attribuzioni proprie, unitamente a quelle degli enti locali, la ricorrente ricorda che il decreto-legge in esame inciderebbe sulle potestà normative, amministrative e organizzative nelle materie che l’art. 117, terzo e quarto comma, Cost. assegna alla competenza legislativa concorrente o residuale delle Regioni.

A queste ultime, infatti, la Costituzione affiderebbe la competenza a regolare e organizzare lo svolgimento di funzioni essenziali per la gestione del fenomeno migratorio, implicanti l’erogazione di molteplici servizi in favore della popolazione straniera stabilitasi nel proprio territorio. Verrebbero in rilievo, in particolare, i servizi per la tutela della salute, la tutela del lavoro e le politiche attive del lavoro, la formazione professionale, l’istruzione, l’assistenza sociale, l’edilizia residenziale pubblica e, in generale, i servizi riferiti a tutte le prestazioni volte a garantire l’inclusione e l’integrazione degli immigrati nel tessuto socio-economico regionale. Tutti settori di intervento rientranti, secondo la ricorrente, nelle materie di competenza legislativa concorrente o residuale delle Regioni e oggetto di una distribuzione multilivello – tra Stato, Regioni ed enti locali — delle corrispondenti funzioni amministrative (ai sensi dell’art. 118, primo comma, Cost.).

La Regione Marche avrebbe esercitato le competenze sopra richiamate sia con atti legislativi sia con attività amministrative.

Secondo la ricorrente, le disposizioni del d.l. n. 113 del 2018 rischierebbero di «vanificare del tutto» gli interventi regionali volti a garantire l’ordinata gestione degli effetti, sul territorio e sulla convivenza sociale, dei fenomeni migratori, con conseguente grave pregiudizio per le Regioni e gli enti locali, chiamati a far fronte alle situazioni di disagio sociale ed economico, degrado urbano ed emarginazione che si verificherebbero laddove venissero meno le «misure di mitigazione».

In particolare, l’abrogazione dell’istituto generale del permesso di soggiorno per motivi umanitari determinerebbe il rischio concreto di un notevole incremento della popolazione straniera irregolarmente presente sul territorio nazionale, con conseguente preclusione dell’erogazione di tutti quei servizi a cui in precedenza i soggetti interessati avevano legittimamente accesso.

A seguito della riforma, i legislatori regionali sarebbero obbligati a introdurre modifiche rilevanti nella legislazione e nell’organizzazione amministrativa riferita all’erogazione dei servizi di accoglienza agli stranieri, «sostenendone i relativi costi (ivi compresa la perdita degli effetti positivi delle misure fin qui adottate)».

In quest’ottica, oltre alle competenze innanzi indicate, verrebbe in rilievo anche la competenza regionale residuale in materia di «polizia amministrativa locale», con particolare riguardo alla sicurezza urbana.

Per questi motivi, le modifiche introdotte dal cosiddetto decreto sicurezza presenterebbero molteplici profili di incostituzionalità ridondanti «senz’altro in lesione delle competenze costituzionali attribuite alla Regione e che quest’ultima ha fino a oggi concretamente esercitato con la sua attività legislativa e con l’organizzazione dei servizi predisposti a favore degli stranieri titolari dei relativi permessi di soggiorno».

3.1.– Quanto al merito dell’impugnativa, la Regione Marche prospetta, in primo luogo, l’illegittimità costituzionale dell’intero testo del d.l. n. 113 del 2018, per violazione dell’art. 77 Cost.

Ad avviso della ricorrente, mancherebbe nel preambolo un’adeguata motivazione in grado di giustificare l’ampiezza di una riforma ordinamentale realizzata tramite decretazione d’urgenza. Inoltre, il decreto-legge in esame avrebbe un contenuto eterogeneo, riguardando plurimi profili che spaziano dall’immigrazione alla protezione internazionale, dalla cittadinanza alla sicurezza, dal contrasto della criminalità organizzata all’organizzazione amministrativa dell’autorità nazionale e locale di pubblica sicurezza. Infine, l’immigrazione viene ritenuta, dalla Regione Marche, un fenomeno ormai ordinario, dinanzi al quale non potrebbero ricorrere i presupposti di straordinaria necessità e urgenza legittimanti l’intervento governativo.

3.2.– Quanto alle singole disposizioni impugnate, con particolare riguardo alle censure rivolte nei confronti dell’art. 1, la ricorrente deduce numerosi profili di incostituzionalità, articolandoli in tre motivi di ricorso.

3.2.1.– Con il primo motivo, la Regione censura il combinato disposto di cui all’art. 1, comma 1, lettera b), numero 2), comma 2 e comma 8, nonché il comma 1, lettere e), f), g), h), i), o), p), numero 1), di detto articolo, per violazione, diretta e indiretta, di diversi parametri costituzionali.

Per effetto delle disposizioni sopra indicate, il ridimensionamento della tutela umanitaria riguarderebbe non solo i richiedenti detta protezione dopo l’entrata in vigore del d.l. n. 113 del 2018, ma anche i titolari del "vecchio” permesso di soggiorno che, pur a condizioni invariate, non potranno più ottenerne il rinnovo e per i quali dovrà invece valutarsi la sussistenza delle condizioni previste dall’art. 19, commi 1 e 1.1, del t.u. immigrazione o la ricorrenza dei «casi speciali». Di qui, l’asserito contrasto con l’art. 2 Cost. e il connesso principio di dignità umana, poiché la novella legislativa escluderebbe dal regime di protezione internazionale soggetti che, costretti a rientrare nel proprio paese d’origine, si vedrebbero lesi nel godimento di diritti fondamentali che concorrono a qualificare la dignità dell’uomo in quanto tale.

Sarebbero altresì violati gli artt. 2 e 3 Cost. sotto il profilo dell’irragionevole lesione della posizione acquisita dagli stranieri in virtù della previgente disciplina e che, senza adeguata normativa transitoria, si ritroverebbero in condizione di irregolarità. Vi sarebbe inoltre una disparità di trattamento tra coloro i quali, a parità di condizioni di rilascio, dopo l’entrata in vigore del d.l. n. 113 del 2018, non potranno più godere del permesso di soggiorno e coloro che potranno mantenerlo, con conseguente discriminazione sul piano del godimento dei diritti e delle prestazioni collegate.

Violato sarebbe poi l’art. 10, terzo comma, Cost., perché la normativa impugnata escluderebbe soggetti che, secondo la giurisprudenza di legittimità, sono titolari del diritto di asilo riconosciuto dalla citata disposizione costituzionale.

Secondo la Regione, poi, le disposizioni impugnate contrasterebbero anche con gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. in riferimento agli artt. 15, lettera c) e 18 della direttiva 2011/95/UE, perché sarebbero esclusi dal regime di protezione ivi disciplinato soggetti che invece avrebbero diritto alla protezione sussidiaria, in quanto esposti, in caso di rimpatrio, alla «minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale».

Parimenti, in violazione degli artt. 10, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., in riferimento agli artt. 6, 10, comma 1, 17, 23 e 24 del Patto internazionale sui diritti civili e politici e agli artt. 2, 3 e 8 CEDU, sarebbero esclusi dal regime di protezione ivi disciplinato soggetti esposti a un serio rischio per la propria vita e sicurezza alimentare, nonché per il loro diritto fondamentale al rispetto della vita privata e familiare.

Ad avviso della Regione Marche, gli evidenziati profili di incostituzionalità sarebbero ancora più gravi in considerazione del fatto che la novella legislativa interviene su un sistema di protezione internazionale «attuato per dare seguito necessario ai principi di cui all’art. 10 Cost. Si deve, infatti considerare che le disposizioni impugnate nel presente ricorso abrogano una disciplina "costituzionalmente obbligatoria”, in quanto sistema normativo che, anche nell’interpretazione giurisprudenziale, ha avuto la funzione di rendere effettivi i diritti fondamentali della persona». Pertanto, si tratterebbe di norme che, una volta venute a esistenza, secondo quanto affermato dalla Corte costituzionale (è citata la sentenza n. 49 del 2000), possono essere oggetto di modifica legislativa, ma non di abrogazione pura e semplice, «così da eliminare la tutela precedentemente concessa, pena la violazione diretta di quel medesimo precetto costituzionale delle cui attuazione costituiscono strumento».

Le disposizioni impugnate, in quanto incostituzionali, inciderebbero illegittimamente sulle attribuzioni legislative regionali riguardanti i servizi erogati in favore degli stranieri in materia di tutela della salute, istruzione, formazione professionale, governo del territorio, ex art. 117, terzo comma Cost., nonché su quelle concernenti i servizi erogati in materia di assistenza sociale di cui all’art. 117, quarto comma, Cost. e sulle relative funzioni amministrative ex art. 118 Cost., con la conseguente necessità di rimodulazione delle stesse funzioni, così da escludere gli stranieri non più qualificabili come «regolarmente soggiornanti» dal godimento delle prestazioni concernenti i servizi sopra elencati, essenziali per la corretta gestione degli effetti sociali e territoriali del fenomeno migratorio.

La Regione ricorrente ritiene dunque evidente la ridondanza dei denunciati profili di incostituzionalità nella lesione delle attribuzioni regionali, che si concretizzerebbe proprio laddove le norme adottate dal legislatore nazionale – nel caso di specie, ritenute dalla ricorrente espressione della competenza esclusiva statale in materia di «diritto di asilo e condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea», nonché di «immigrazione» – pur non contrastando con le regole costituzionali in tema di riparto di competenze tra Stato ed enti territoriali, nondimeno obblighino le Regioni, nell’esercizio delle proprie attribuzioni, a conformarsi a una disciplina legislativa incostituzionale sotto altri profili (richiama, a tal fine, la sentenza n. 145 del 2016). Ciò accadrebbe nel caso in esame, poiché le norme impugnate vincolerebbero illegittimamente le Regioni nella regolamentazione ed erogazione dei servizi di accoglienza in favore degli stranieri, come quello sanitario e quello concernente l’istruzione superiore e la formazione professionale, per i quali alla Regione sarebbe preclusa la determinazione autonoma del volume e delle modalità organizzative delle prestazioni.

La Regione ricorrente ricorda che a essa spetta la facoltà di approvare norme di maggior favore nei confronti degli stranieri nelle materie di propria competenza, alla luce delle direttive europee che riconoscono al legislatore nazionale la possibilità di introdurre disposizioni più favorevoli (ricorda, a tal fine, l’art. 2 della direttiva 2011/95/UE e l’art. 4 della direttiva 2013/33/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale) e del potere di concorrere all’attuazione del diritto europeo attribuitole dall’art. 117, quinto comma, Cost. L’esercizio di detta facoltà, ad avviso della ricorrente, verrebbe precluso dalla riduzione del novero dei soggetti ammessi a fruire dei servizi assistenziali, operata a livello statale.

Infine, la Regione afferma che la normativa statale, «in quanto illegittima costituzionalmente, incide negativamente anche sull’autonomia finanziaria regionale di cui all’art. 119 Cost.», con particolare riguardo a quella in materia sanitaria, tenuto conto che gli oneri delle prestazioni indicate all’art. 35, comma 3, lettere a), b), c), d) e), del t.u. immigrazione, spettanti alle Regioni, aumenteranno in ragione dell’aumento del numero degli stranieri irregolari, analogamente a quanto accadrà per gli oneri da sostenere per i servizi sociali e assistenziali per la formazione professionale e l’edilizia residenziale pubblica.

3.2.2.– Con un secondo motivo di ricorso, la Regione Marche censura l’art. 1, comma 1, lettere e), f), numeri 1) e 2), g), h), i), numeri 1) e 2), del d.l. n. 113 del 2018, nella parte in cui, modificando i permessi di soggiorno umanitari di cui agli artt. 18, comma 2, 18-bis, comma 1, e 22, comma 12-quater, del t.u. immigrazione, e prevedendo ulteriori ipotesi di permesso di soggiorno tipiche con durate e disciplina differenziate, non sarebbe in grado di ricomprendere, nel proprio campo di applicazione, tutte le manifestazioni del diritto di alloggio e del diritto alla formazione che richiedono il possesso di un titolo di permanenza nel territorio nazionale «almeno biennale» (mentre i casi tipici hanno durata più esigua). Ciò determinerebbe, per la ricorrente, una violazione degli artt. 2 e 3 Cost., con riguardo agli stranieri titolari del permesso di soggiorno di cui all’art. 32, comma 3, del d.lgs. n. 25 del 2008.

Tale illegittimità si risolverebbe altresì in lesione indiretta delle attribuzioni regionali relative alle materie cui si riferiscono i diritti non contemplati dalle norme impugnate (ovvero, «formazione professionale», «tutela del lavoro», «assistenza sociale», «edilizia residenziale pubblica»), di cui all’art. 117, terzo e quarto comma, Cost., nonché delle relative competenze amministrative spettanti alla Regione in base all’art. 118, primo comma, Cost.

Inoltre, la normativa statale inciderebbe negativamente anche sull’autonomia finanziaria regionale di cui all’art. 119 Cost., per le medesime ragioni già illustrate con riferimento ai ricorsi di Umbria ed Emilia-Romagna.

3.2.3.– Infine, con un diverso motivo, la Regione censura il combinato disposto dell’art. 1, comma 1, lettera g), del d.l. n. 113 del 2018, con il comma 2 del medesimo articolo, per violazione degli artt. 2, 3 e 32 Cost., in quanto lo speciale permesso di soggiorno per cure mediche, introdotto dalle norme impugnate, non potrebbe essere rilasciato a chi versi in una situazione di salute grave «ma non di particolare o eccezionale gravità», con conseguente lesione indiretta delle attribuzioni regionali relative alla materia «tutela della salute», nonché delle rispettive competenze amministrative, atteso che la Regione sarebbe costretta a negare i servizi essenziali alla persona agli stranieri che, pur versando in gravi situazioni di salute, non rientrino nel campo di operatività di cui al comma 1, lettera g), dell’art. 1.

3.3.– Quanto all’art. 12 del d.l. n. 113 del 2018, esso è censurato nelle parti in cui ha escluso la possibilità che la rete ex SPRAR eroghi i servizi di accoglienza ai soggetti che hanno formulato richiesta di protezione internazionale, ma sono ancora in attesa del pronunciamento dell’autorità amministrativa sulla richiesta medesima.

La ricorrente ritiene le elencate disposizioni lesive degli artt. 2, 3, 10, secondo e terzo comma, 11, 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in riferimento alla direttiva 2103/33/UE, con conseguente lesione indiretta delle attribuzioni legislative in materia di «tutela della salute», «tutela del lavoro», «istruzione», «formazione professionale», «governo del territorio», con riferimento all’edilizia residenziale pubblica, «assistenza sociale», nonché delle relative funzioni amministrative, che gli artt. 117, terzo e quarto comma, e 118 Cost., riconoscono alla Regione, nonché per lesione indiretta dell’autonomia finanziaria regionale garantita dall’art. 119 Cost. e per lesione indiretta delle attribuzioni che l’art. 118 Cost., anche in relazione agli artt. 114 e 117, sesto comma, Cost., riconosce in favore dei Comuni, in riferimento alle indicate materie di competenza legislativa regionale.

Ricorda che la direttiva 2013/33/UE, in particolare con i considerando n. 26 e n. 27, stabilisce l’opportunità di incoraggiare un appropriato coordinamento tra le autorità competenti per quanto riguarda l’accoglienza dei richiedenti, e di promuovere, per questo, «relazioni armoniose» tra le comunità locali e i centri di accoglienza, evidenziando la centralità degli enti territoriali nella gestione del fenomeno migratorio. Del resto, ricorda ancora la ricorrente, le norme costituzionali prescrivono che lo svolgimento delle funzioni e dei servizi pubblici avvenga al livello più vicino possibile rispetto al destinatario della funzione o del servizio medesimi, salvo che per ragioni di differenziazione, sussidiarietà e adeguatezza risulti necessario lo svolgimento di tali attività a un livello organizzativo superiore (art. 118 Cost).

Le disposizioni impugnate avrebbero, invece, «radicalmente precluso» alle Regioni e agli enti locali di esercitare le proprie competenze costituzionalmente garantite nel settore dei servizi di accoglienza in favore degli stranieri richiedenti asilo, sopprimendo drasticamente la rete di interventi precedentemente garantiti a tali soggetti dal sistema SPRAR e conseguentemente accentrando in capo allo Stato le relative competenze.

Ancora, secondo la Regione Marche, i richiedenti asilo, per i quali – in attuazione dell’art. 8 della direttiva 2013/33/UE – non è prevista alcuna limitazione della libertà di circolazione nell’attesa della definizione della loro domanda di protezione, sarebbero liberi di stabilirsi nel territorio regionale e ciò «imporrà agli enti territoriali di attuare misure volte a garantire la salute pubblica e la sicurezza locale», oltre che il decoro urbano e l’ordine pubblico, in ciò impediti dalle disposizioni impugnate, che li priverebbero delle risorse finanziarie del Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo, sicché ogni misura di sostegno agli stranieri dovrà essere attuata dalle amministrazioni locali mediante impiego di risorse proprie, con conseguente lesione dell’autonomia finanziaria garantita dall’art. 119 Cost.

Secondo la ricorrente, inoltre, l’esclusione della possibilità di ricomprendere i richiedenti asilo in programmi di formazione professionale volti all’inserimento lavorativo e di impiego in lavori socialmente utili contrasterebbe con le norme della citata direttiva 2013/33/UE: sarebbero, così, violati gli artt. 2, 3, 10, secondo e terzo comma, 11 e 117, primo comma, Cost., con incisione sulle competenze spettanti, in materia di accoglienza degli stranieri, alle Regioni e ai Comuni, «costretti ad adeguarsi a una normativa incostituzionale e, dunque, a negare» tali provvidenze ai richiedenti.

3.4.– Con specifico riferimento all’art. 13 del d.l. n. 113 del 2018, la Regione Marche ha promosso questioni di legittimità costituzionale delle disposizioni di cui al comma 1, lettera a), numero 2), e lettera c), in riferimento agli artt. 3, 10, terzo comma, 114, 117, terzo, quarto e sesto comma, 118 e 119 Cost.; all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 2, comma 1, del Protocollo n. 4 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, e all’art. 12, comma 1, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici; agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., in relazione alla direttiva 2013/33/UE.

La ricorrente sottolinea, preliminarmente, come la residenza rappresenti «il principale criterio di collegamento tra cittadino e territorio, con rilevanti implicazioni sulla platea dei potenziali beneficiari di misure socio-assistenziali, nonché di quelle rivolte a favorire l’autonomia del cittadino».

3.4.1.– In particolare, la difesa regionale ritiene che la disposizione di cui all’art. 13, comma 1, lettera a), numero 2), «per la parte in cui si debba intendere nel senso di vietare e dunque escludere l’iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo», si ponga in contrasto con vari parametri costituzionali.

Innanzitutto, sarebbero violati gli artt. 3 e 10, terzo comma, Cost., in quanto si realizzerebbe «una irragionevole e sproporzionata disparità di trattamento rispetto ad altri stranieri in condizioni del tutto analoghe», quali i titolari di permessi speciali previsti dall’art. 32, comma 3, del d.lgs. n. 25 del 2008 e dallo stesso d.l. n. 113 del 2018.

Sarebbe violato anche l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 2, comma 1, del Protocollo n. 4 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, e all’art. 12, comma 1, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici. Alla luce delle citate norme internazionali, infatti, i richiedenti asilo, che sono titolari di un diritto all’ingresso nel territorio dello Stato e che quindi si trovano legalmente nel territorio italiano, avrebbero il diritto di fissare all’interno di tale territorio la propria residenza.

Ulteriori ragioni di incostituzionalità sarebbero rinvenibili nella violazione degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., in relazione alla direttiva 2013/33/UE, nella parte in cui quest’ultima riconosce al richiedente asilo il diritto di fruire delle condizioni di accoglienza concernenti la scolarizzazione e l’istruzione dei minori (art. 14 della direttiva), l’accesso al mercato del lavoro (art. 15), la formazione professionale (art. 16), l’assistenza sanitaria e l’alloggio (artt. 17, 18 e 19).

3.4.2.– La ricorrente aggiunge che l’interpretazione dell’impugnato art. 13, comma 1, lettera a), numero 2), nel senso di precludere l’iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo, inciderebbe senz’altro sulle attribuzioni regionali, legislative e amministrative, in materia di tutela della salute, di tutela del lavoro, di istruzione, di formazione professionale, di governo del territorio con riferimento all’edilizia residenziale pubblica, e di assistenza sociale (artt. 117, terzo e quarto comma, e 118 Cost.). La denunciata lesione delle attribuzioni regionali deriverebbe dal fatto che l’iscrizione anagrafica costituisce il presupposto necessario per l’accesso ai servizi e alle prestazioni concernenti le anzidette materie; inoltre, la norma impugnata imporrebbe alla Regione di modificare la propria legislazione vigente.

Le lesioni delle attribuzioni delle Regioni ridonderebbero anche in una lesione delle competenze amministrative spettanti ai Comuni quanto alla tenuta e alla gestione dei registri anagrafici della popolazione residente sul territorio (artt. 114 e 118 Cost.).

3.4.3.– La norma di cui art. 13, comma 1, lettera a), numero 2), impedirebbe, inoltre, ai Comuni di erogare ai richiedenti asilo molteplici servizi essenziali per garantire la loro integrazione socio-economica. Al riguardo, la difesa regionale ricorda che l’iscrizione anagrafica costituisce il presupposto per l’accesso all’assistenza sociale, per la concessione di sussidi e agevolazioni basati sulle condizioni di reddito, per la priorità di accesso ai servizi, per l’applicazione di tariffe inferiori a quelle massime, per la concessione di contributi a parziale o totale copertura delle rette, per l’esenzione della contribuzione al costo dei servizi e per usufruire del reddito di inclusione.

Inoltre, la mancata iscrizione anagrafica inciderebbe sulle politiche attive del lavoro e, in particolare, sulla possibilità per lo straniero di ottenere il riconoscimento dello stato di disoccupazione ai sensi del decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 150 (Disposizioni per il riordino della normativa in materia di servizi per il lavoro e di politiche attive, ai sensi dell’articolo 1, comma 3, della legge 10 dicembre 2014, n. 183). A sua volta, l’assenza dello stato di disoccupazione precluderebbe l’accesso a tutti i servizi di politica attiva del lavoro finanziati dal Fondo Sociale Europeo.

A quanto detto, la difesa regionale aggiunge l’irragionevolezza del sistema normativo derivante dall’art. 13 del d.l. n. 113 del 2018, posto che, da un lato, le norme vigenti riconoscono ai richiedenti asilo il diritto a un alloggio (art. 18 della direttiva 2013/33/UE), mentre, dall’altro lato, la norma impugnata nega agli stessi soggetti la possibilità di ottenere l’iscrizione anagrafica. In questo modo sarebbe inciso anche il buon andamento nell’esercizio delle funzioni dei singoli Comuni, i quali, per svolgere i loro compiti, necessitano di conoscere esattamente il numero dei soggetti stabilmente presenti nel proprio territorio.

Infine, la norma impugnata inciderebbe anche sull’autonomia finanziaria regionale di cui all’art. 119 Cost., «particolarmente sotto il profilo dell’autonomia di spesa in relazione ai servizi erogati per l’integrazione degli immigrati».

4.– La Regione Toscana, con ricorso notificato il 31 gennaio-4 febbraio 2019 e depositato il 6 febbraio 2019 (reg. ric. n. 17 del 2019), ha impugnato, tra gli altri, l’art. 1, comma 1, lettere b) e f), e comma 8, nonché l’art. 13, comma 1, lettera a), numero 2), del d.l. n. 113 del 2018, per violazione degli artt. 2, 3, 10, 32, 97, 117 primo, terzo e quarto comma, e 118 Cost.

4.1.– La Regione evidenzia come le suddette norme incidano su molteplici attribuzioni costituzionali della stessa e che numerosi Comuni toscani hanno altresì chiesto alla medesima di far valere anche la lesione delle attribuzioni degli enti locali, in ragione della «stretta connessione – in particolare nelle materie dell’assistenza sociale, dell’istruzione e dell’edilizia residenziale pubblica – tra le attribuzioni costituzionali regionali e quelle delle autonomie locali, la quale "consente di ritenere che la lesione delle competenze locali sia potenzialmente idonea a determinare una vulnerazione delle competenze regionali”» (vengono citate le sentenze n. 95 del 2007, n. 417 del 2005 e n. 196 del 2004).

4.1.1.– Con il primo motivo di ricorso, la Regione censura, in particolare, l’illegittimità costituzionale del comma 1, lettera b), e del comma 8, dell’impugnato art. 1, per violazione degli artt. 2, 3, 10, 32, 117, primo comma, Cost., nella parte in cui, eliminando l’istituto del generale permesso di soggiorno per motivi umanitari e individuando solo ipotesi tipiche e tassative di permesso di soggiorno, determinerebbero un significativo numero di stranieri irregolari, così causando «una lesione indiretta sulle attribuzioni legislative e amministrative regionali di cui agli artt. 117, terzo e quarto comma, e 118 Cost., in materia di tutela della salute, istruzione, politiche attive del lavoro, assistenza sociale, servizi sociali e formazione professionale».

Secondo la ricorrente, la legislazione e la programmazione regionale che, fino a ora, hanno disciplinato e previsto molteplici misure e interventi in favore dell’integrazione e inclusione sociale dei titolari di permessi di soggiorno umanitario sarebbero fortemente incise dalla novella legislativa, costringendo il legislatore regionale ad adeguarsi alle nuove previsioni. Evidenzia altresì come i nuovi permessi speciali, tipizzati dal decreto-legge, abbiano una durata ridotta a un anno, se non addirittura inferiore, così di fatto escludendo i titolari di detti permessi da alcune prestazioni invece finora erogate (assistenza sociale, accesso agli alloggi di edilizia residenziale pubblica o l’iscrizione al servizio sanitario nazionale).

Quanto sopra detto proverebbe, a dire della Regione, la rilevanza e l’intreccio con materie di sicura competenza regionale, sia concorrente che residuale, come altresì riconosciuto dalla giurisprudenza della Corte costituzionale (di cui ricorda le sentenze n. 61 del 2011, n. 299 e n. 269 del 2010, n. 156 del 2006 e n. 300 del 2005).

Le disposizioni impugnate, quindi, vanificherebbero la legislazione regionale e gli interventi che, sulla base di questa, sono stati programmati ed erogati, con conseguente lesione delle attribuzioni costituzionali nelle materie di cui all’art. 117, terzo e quarto comma, Cost., nonché delle relative funzioni amministrative spettanti ai sensi dell’art. 118 Cost. La Regione sarebbe infatti costretta a rimodulare dette funzioni con esclusione di soggetti «fino a ieri pienamente regolari e fruitori di politiche regionali volte a favorirne l’inclusione sociale, i quali sono divenuti o sono destinati a divenire inesorabilmente irregolari».

Per gli stessi motivi, anche il comma 8 dell’art. 1 – che regola la disciplina transitoria dei permessi umanitari già riconosciuti, stabilendo che alla scadenza potrà essere rilasciato un permesso di soggiorno speciale di durata annuale, rinnovabile, ma non convertibile in permesso per motivi di lavoro – risulterebbe costituzionalmente illegittimo, giacché non permetterebbe al titolare di un permesso di soggiorno per motivi umanitari in corso di validità di ottenerne il rinnovo a condizioni di rilascio invariate.

Ad avviso della Regione, il permesso di soggiorno per motivi umanitari, rilasciabile ai sensi dell’art. 5, comma 6, del t.u. immigrazione nel testo previgente, trovava fondamento negli artt. 2, 3 e 10 Cost., perché consentiva di riconoscere a tutte le persone i diritti inviolabili dell’uomo nel rispetto del dovere di solidarietà, nonché di evitare discriminazioni arbitrarie e irragionevoli (la ricorrente ricorda, a tal fine, la sentenza n. 381 del 1999 in merito a «seri motivi umanitari»).

Tale permesso umanitario sarebbe altresì lo strumento per attuare il diritto di asilo costituzionalmente garantito dall’art. 10, terzo comma, Cost., e darebbe piena attuazione a norme internazionali convenzionali ed europee (artt. 3 e 8 CEDU).

In ragione dei vincoli previsti negli artt. 10, secondo e terzo comma, e 117, primo comma, Cost., secondo la ricostruzione operata dalla Regione ricorrente, non sarebbe pertanto possibile, per il legislatore nazionale, abrogare l’istituto del permesso di soggiorno per motivi umanitari sostituendolo con altri che non garantiscano più un’attuazione completa ed esaustiva ai suddetti parametri. Trattasi, per la Regione, di «leggi costituzionalmente obbligatorie» che possono essere modificate o sostituite, ma «senza arretramenti delle tutele».

Da quanto detto, discenderebbe inoltre la violazione dell’art. 32 Cost. per le restrizioni all’iscrizione al Servizio sanitario regionale.

La ricorrente ritiene che la violazione degli artt. 2, 3 e 10 Cost. sia ancora più accentuata dalla considerazione del particolare impatto delle norme impugnate sui minori stranieri non accompagnati, i quali non potrebbero più beneficiare di un permesso di soggiorno di due anni rinnovabile e convertibile al raggiungimento dei 18 anni o allorché risultino essere in affidamento ai servizi sociali.

Per le considerazioni svolte, la Regione ritiene che le norme impugnate incidano sulle materie della «tutela della salute», dell’«istruzione», delle «politiche attive del lavoro», dell’«assistenza sociale» e dei «servizi sociali», della «formazione professionale» e dunque sulle attribuzioni costituzionalmente garantite alla Regione ai sensi dell’art. 117, terzo e quarto comma, Cost., nonché sulle relative funzioni amministrative spettanti agli enti regionali e locali ex art. 118 Cost. Detta incidenza determinerebbe che stranieri oggi regolari e fruitori degli interventi e delle misure che la Regione Toscana ha attuato sul proprio territorio nelle materie sopra elencate, diverranno irregolari «senza che sia reale […] la possibilità della loro espulsione», con l’effetto di comportare alcuni obblighi conformativi sulle attribuzioni regionali.

4.1.2.– Con un secondo motivo di ricorso, la Regione Toscana denuncia poi l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera f), del d.l. n. 113 del 2018 per violazione degli artt. 2 e 3 Cost., nella parte in cui, nel consentire l’accesso ai servizi assistenziali e allo studio, nonché l’iscrizione nell’elenco anagrafico ai titolari del permesso di soggiorno speciale per stranieri vittime di violenza domestica (art. 18-bis del t.u. immigrazione), lascerebbe fuori dal suo campo applicativo il diritto all’alloggio e alla formazione, così incidendo sulla competenza regionale in materia di «formazione professionale» e «edilizia residenziale pubblica».

Escludendo dal diritto di alloggio e di formazione gli stranieri vittime di violenza domestica, la disposizione censurata discriminerebbe la posizione di questi ultimi, in possesso di un permesso di soggiorno speciale, rispetto a quella dei titolari di un permesso di soggiorno ex art. 32, comma 3, del d.lgs. n. 25 del 2008, e in generale rispetto allo straniero regolarmente soggiornante, così violando gli artt. 2 e 3 Cost.

4.2.– Con specifico riferimento all’art. 13 del d.l. n. 113 del 2018, la Regione Toscana ha impugnato il comma 1, lettera a), numero 2), in riferimento agli artt. 2, 3, 10, 97, 117, terzo e quarto comma, e 118 Cost.; all’art. 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 2, comma 1, del Protocollo n. 4 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, all’art. 12, comma 1, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, all’art. 7 della direttiva 2013/33/UE, all’art. 14 CEDU e all’art. 26 della Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951, ratificata e resa esecutiva con legge 24 luglio 1954, n. 722.

4.2.1.– Preliminarmente, la difesa regionale sottolinea che la norma impugnata si riferisce ai richiedenti asilo, i quali, sino alla definizione della procedura a opera della commissione territoriale (o sino alla decisione del ricorso avverso la pronuncia sulla richiesta di asilo), sono titolari di un permesso di soggiorno e vengono sistemati nelle strutture di prima accoglienza. Al riguardo, la ricorrente precisa che questo procedimento non è di breve durata, tenuto conto che le commissioni impiegano circa due anni per la relativa definizione, cui vanno sommati i tempi dell’eventuale contenzioso.

Pertanto, alla luce delle richiamate norme internazionali, i richiedenti asilo, in quanto soggiornanti legalmente nel territorio italiano, avrebbero il diritto di fissare all’interno di tale territorio la propria residenza.

Inoltre, la norma impugnata, non avendo abrogato l’art. 6, comma 7, del t.u. immigrazione, creerebbe «una situazione di assoluta incertezza sulla normativa applicabile ai richiedenti asilo regolarmente presenti, a danno della efficienza dell’azione amministrativa delle amministrazioni regionali e locali», con conseguente violazione dell’art. 97 Cost.

4.2.2.– La ricorrente aggiunge che l’iscrizione anagrafica è il presupposto per l’accesso all’assistenza sociale, per la concessione di sussidi o agevolazioni previste dalla legislazione statale e regionale basate sulle condizioni di reddito verificate mediante l’indicatore della situazione economica equivalente (ISEE). A sua volta, presupposto per ottenere l’ISEE è la residenza anagrafica.

Inoltre, il richiedente asilo non potrà maturare i requisiti di durata della residenza necessari per l’accesso al reddito di inclusione (REI) di cui al decreto legislativo 15 settembre 2017, n. 147 (Disposizioni per l’introduzione di una misura nazionale di contrasto alla povertà), così come a tutte le altre prestazioni statali, regionali e locali che vengono condizionate dalla durata della residenza.

La norma impugnata inciderebbe anche sulle politiche attive del lavoro, essendo prevista la residenza per l’iscrizione allo stato di disoccupazione di cui al d.lgs. n. 150 del 2015.

Quindi, nella misura in cui sarebbe vietata l’iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo, si precluderebbe alle Regioni e agli enti locali di programmare interventi a loro favore nelle materie dell’assistenza sociale, della formazione professionale, del lavoro, con conseguente violazione degli artt. 117, terzo e quarto comma, e 118 Cost. Peraltro, limitatamente alle materie di potestà concorrente, la norma impugnata non potrebbe ritenersi espressione di un principio fondamentale, non avendo alcuna attinenza con gli ambiti delle politiche attive del lavoro e dell’istruzione.

La disposizione censurata si porrebbe in contrasto anche con l’art. 3 Cost., poiché discriminerebbe in modo irragionevole i richiedenti asilo sia rispetto ai cittadini sia rispetto alle altre categorie di stranieri regolarmente presenti sul territorio, cui l’iscrizione anagrafica non è preclusa.

Inoltre, in considerazione del fatto che l’iscrizione anagrafica è un diritto soggettivo, espressione dell’art. 2 Cost., la sua negazione ai richiedenti asilo violerebbe l’art. 14 CEDU, il quale vieta ogni discriminazione tra cittadini degli Stati membri e stranieri regolarmente soggiornanti. Parimenti violato sarebbe l’art. 26 della Convenzione di Ginevra, dal cui contrasto discenderebbe la violazione dell’art. 10, secondo comma, Cost. e dell’art. 117, primo comma, Cost., perché la disposizione impugnata non sarebbe conforme alle norme e ai trattati internazionali attinenti alla condizione giuridica dello straniero.

La difesa regionale precisa che la violazione degli artt. 2, 3, 10, 97 e 117, primo comma, Cost. può essere fatta valere dalla Regione ricorrente in quanto ridondante sulle competenze legislative regionali in materia di politiche attive del lavoro, di assistenza sociale e servizi sociali, di formazione professionale e istruzione (artt. 117, terzo e quarto comma, Cost.) e sulle relative funzioni amministrative spettanti alle regioni e agli enti locali (art. 118 Cost.).

Secondo la ricorrente l’abrogazione del diritto all’iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo, oltre a rappresentare un atto discriminatorio, imporrebbe al legislatore regionale la modifica della vigente legislazione, determinando l’oggettiva impossibilità, per gli enti locali e per la Regione, di avere contezza del numero effettivo delle persone regolarmente presenti sul territorio e quindi di programmare e organizzare i servizi necessari, e di fondare l’accesso al sistema di welfare sulla residenza.

Inoltre, la norma impugnata avrebbe l’effetto di scorporare i richiedenti asilo dall’insieme degli stranieri regolarmente soggiornanti sul territorio, quanto alla possibilità di accedere ai servizi e agli interventi sociali.

Sempre a detta della difesa regionale, i suddetti profili di incostituzionalità non sarebbero superati dalla disposizione di cui all’art. 13, comma 1, lettera b), numero 1), del d.l. n. 113 del 2018, la quale dispone che «[l]’accesso ai servizi previsti dal presente decreto e a quelli comunque erogati sul territorio ai sensi delle norme vigenti è assicurato nel luogo di domicilio» comunicato alla questura o corrispondente all’indirizzo del centro presso cui il richiedente si trova.

Questa disposizione, infatti, non consentirebbe di superare la previsione (contenuta nella legislazione regionale) della residenza come condizione di accesso al sistema di assistenza sociale; inoltre, l’eliminazione della residenza anagrafica per i richiedenti asilo imporrebbe all’amministrazione regionale e agli enti locali che erogano i servizi socio-sanitari l’organizzazione sulle piattaforme informatiche di due diverse procedure, che complicheranno la gestione e faranno crescere i costi.

Infine, la variabilità del domicilio, rispetto alla stabilità della residenza, renderebbe più difficile organizzare i controlli sui soggetti presenti sul territorio e quindi programmare i servizi socio-sanitari necessari, con il rischio di ingenerare «inefficienze contrarie al principio di buon andamento» di cui all’art. 97 Cost.

5.– La Regione Calabria, con ricorso notificato il 1° febbraio 2019 e depositato l’8 febbraio 2019 (reg. ric. n. 18 del 2019), ha impugnato, tra gli altri, l’art. l, commi 1, 2, 3, 6, 7, 8 e 9; l’art. 12 e l’art. 13 del d.l. n. 113 del 2018.

Dopo aver ricostruito gli effetti dell’intervento normativo – nei termini già ampiamente illustrati in precedenza – la Regione Calabria deduce che le disposizioni impugnate comporterebbero «sensibili condizionamenti sull’autonomia legislativa e amministrativa regionale a causa dalle scelte imposte dalle nuove norme statali».

5.1.– Con specifico riferimento all’art. 1, del d.l. n. 113 del 2018, la ricorrente sottolinea come l’abolizione del permesso umanitario, prevista dalla disposizione impugnata, violerebbe diverse previsioni del testo costituzionale.

Sarebbe in primo luogo violato il diritto di asilo ex art. 10, terzo comma, Cost., impedendo all’ente territoriale di assicurare prestazioni in favore di individui che avrebbero un titolo costituzionale a riceverle.

Risulterebbe altresì violato l’art. 3 Cost., in quanto la nuova disciplina statale determinerebbe una discriminazione «fra i soggetti titolari della protezione internazionale e sussidiaria e i soggetti titolari di protezione costituzionale», così vincolando la Regione a effettuare tale discriminazione nell’erogazione delle prestazioni assistenziali; parimenti lesi sarebbero gli artt. 31, 32, 34 e 35 Cost., in quanto la nuova normativa «impedisce alle Regioni di fornire, ai soggetti titolari del diritto costituzionale di asilo, le prestazioni assistenziali che costituiscono attuazione di tali disposizioni».

Inoltre, l’impugnato art. 1 contrasterebbe con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 8 CEDU, atteso che lo Stato e le Regioni devono esercitare la funzione legislativa nel rispetto degli obblighi internazionali ed europei, mentre la nuova disciplina imporrebbe alle Regioni di non applicare la propria normativa in tema assistenziale in favore di soggetti che potrebbero essere ben radicati nella società, al punto che un loro allontanamento violerebbe il rispetto della vita privata e familiare.

Ad avviso della ricorrente, la nuova normativa, in luogo di un approccio individualizzato, che prenda in considerazione l’esigenza di non pregiudicare in maniera sproporzionata (rispetto alle esigenze di sicurezza e ordine pubblico) il diritto convenzionale al rispetto della vita privata e familiare e il grado di radicamento sociale nel territorio del singolo straniero, avrebbe invece stabilito un illegittimo regime fondato sul divieto generalizzato di rilascio e rinnovo di permessi di soggiorno per motivi umanitari, prevedendo un meccanismo di eccezione fondato su casi tipizzati e particolarmente ristretti.

Infine, in ragione dell’intreccio di competenze statali e regionali in materia di immigrazione, l’intervento legislativo avrebbe richiesto, ad avviso della ricorrente, l’attivazione di strumenti cooperativi, per lo meno nella forma della consultazione, oltre alla previsione di una regolamentazione transitoria di carattere integrato, alla cui formazione avrebbero dovuto partecipare anche le Regioni. L’unilaterale riforma del diritto di asilo violerebbe pertanto il principio di leale collaborazione, che si impone ai sensi degli artt. 5 e 120 Cost. in ambiti caratterizzati da un concorso di competenze inestricabilmente connesse (è richiamata la sentenza n. 251 del 2016).

5.2.– Quanto all’art. 12 del d.l. n. 113 del 2018, la ricorrente ritiene la disposizione lesiva degli artt. 2, 3, 10, 11 e 117, primo comma – con riferimento agli standard internazionali ed europei di accoglienza – terzo e quarto comma, e 118 Cost., nonché del principio di leale collaborazione.

La ricorrente premette che l’oggetto e le finalità dell’intervento legislativo sarebbero individuabili nell’intento di delineare una netta differenziazione tra gli investimenti in termini di accoglienza e integrazione da destinare a coloro che hanno titolo definitivo a permanere sul territorio nazionale, da una parte, e i servizi di prima accoglienza e assistenza, da erogare a coloro che sono in temporanea attesa della definizione della loro posizione giuridica, dall’altra.

La riforma del sistema di accoglienza avrebbe, perciò, accentrato in capo allo Stato le competenze legislative ed amministrative in tema di accoglienza ai richiedenti asilo: lungi dal programmare i flussi d’ingresso degli stranieri, la disposizione mirerebbe a promuovere l’inclusione sociale e il superamento della fase di assistenza, tipiche attività – quelle dell’assistenza e dei servizi sociali – rientranti nelle competenze residuali regionali, che sarebbero, così, compresse in violazione del principio di leale collaborazione.

Tale compressione sarebbe, infatti, evidenziata dal nuovo schema di capitolato d’appalto per la gestione dei centri di accoglienza, approvato con decreto del Ministro dell’interno del 20 novembre 2018, il quale avrebbe radicalmente riformato il sistema dei servizi da riservare ai soggetti ospitati nei centri di prima accoglienza, disciplinando il tema dell’accoglienza e dell’integrazione in maniera così dettagliata da non lasciare spazio alcuno alle competenze regionali o degli enti locali, riducendo tutti i servizi alla persona. La ricorrente ricorda che la legislazione regionale include provvedimenti specificamente tesi a determinare lo standard di accoglienza dei richiedenti protezione internazionale.

Quanto al merito, secondo la Regione Calabria il nuovo regime di accoglienza violerebbe gli standard internazionali ed europei in materia di accoglienza, assistenza e integrazione dei richiedenti, imponendo alle Regioni di esercitare le proprie competenze in difformità rispetto alle regole costituzionali che ne impongono l’osservanza.

La Convenzione di Ginevra del 1951, infatti, non opererebbe alcuna distinzione tra rifugiati e richiedenti asilo, in quanto il provvedimento di riconoscimento dello status di rifugiato avrebbe natura solo dichiarativa, sicché l’imposizione a carico delle Regioni di limitare la fornitura di prestazioni assistenziali solo alle misure di prima accoglienza, assimilando i richiedenti asilo ai migranti irregolari, produrrebbe una irragionevole discriminazione fra soggetti in possesso del medesimo status.

Allo stesso modo, la direttiva 2013/33/UE imporrebbe una valutazione personalizzata delle esigenze degli individui in condizione di vulnerabilità e dei minori, laddove il nuovo capitolato per i servizi di accoglienza non contemplerebbe tale possibilità nell’ambito dei centri governativi.

5.3.– Con specifico riferimento all’art. 13 del d.l. n. 113 del 2018, la Regione Calabria ha impugnato le disposizioni di cui al comma 1, lettera a), numero 2), lettera b) e lettera c), in riferimento agli artt. 2, 3, 10, terzo comma, 11 e 117, primo terzo e quarto comma, Cost.

Preliminarmente, la difesa regionale sottolinea che, sebbene l’anagrafe rientri nelle materie di competenza esclusiva statale, ai sensi dell’art. 117, primo (recte: secondo) comma, Cost., l’esercizio della competenza in questa materia ben può interferire con gli ambiti rimessi alla potestà legislativa delle Regioni, oltre che con le competenze amministrative degli enti locali.

La ricorrente afferma, altresì, che l’iscrizione anagrafica è necessaria per il rilascio del certificato di residenza e del documento di identità, e che tali documenti sono il presupposto per il godimento di alcuni diritti. Al riguardo, la previsione dell’art. 13, comma 1, lettera b), numero 1), non ricomprenderebbe l’intera gamma di diritti previsti dall’ordinamento italiano spettanti all’individuo sulla base della residenza anagrafica.

D’altra parte, secondo la difesa regionale, la stessa relazione illustrativa del disegno di legge di conversione del d.l. n. 113 del 2018 sembrerebbe escludere tale possibilità, limitandosi a sottolineare che «l’esclusione dall’iscrizione anagrafica si giustifica per la precarietà del permesso per richiesta di asilo e risponde alla necessità di definire preventivamente la condizione giuridica del richiedente».

La ricorrente precisa che, ai fini del presente ricorso, rilevano solo i casi di privazione di diritti connessi alla residenza che rientrano nell’ambito delle competenze regionali, fra i quali va ricompreso il diritto all’abitazione, e quindi l’accesso all’edilizia residenziale pubblica, nonché il diritto a ottenere tariffe agevolate per l’accesso a servizi regionali.

Da questo punto di vista, le leggi della Regione Calabria nelle materie sopra indicate costituirebbero attuazione del principio di non discriminazione tra rifugiati e richiedenti asilo che emerge dalla Convenzione di Ginevra e, in particolare, dal suo art. 21 che assicura ai rifugiati legalmente presenti nel territorio dello Stato un trattamento non meno favorevole di quello assicurato ad altri stranieri nell’accesso all’abitazione.

Secondo la difesa regionale, l’illegittimità costituzionale delle norme impugnate si «accentua» alla luce della giurisprudenza costituzionale, secondo cui sono irragionevoli le disposizioni che limitano la platea dei beneficiari di un diritto in ragione di elementi irrazionali o arbitrari (è citata la sentenza n. 306 del 2008).

6.– La Regione autonoma Sardegna, con ricorso notificato il 31 gennaio-4 febbraio 2019 e depositato il 1° febbraio 2019 (reg. ric. n. 9 del 2019), ha impugnato diverse disposizioni del d.l. n. 113 del 2018 e, tra queste, gli artt. 1, 12 e 13.

In particolare, dell’art. 1 ha censurato: il comma 1, lettere a), b), c), d), e), f), i), l), m), n), numero 2), n-bis), o), p), q); il comma 2; il comma 3, lettera a), numeri 1) e 2); il comma 6; il comma 7; il comma 8 e il comma 9.

Dell’art. 12 ha censurato tutte le disposizioni di cui si compone, a eccezione: del comma 1, lettere a-bis) e a-ter); del comma 2, lettera d), numero 1-bis); del comma 7.

Dell’art. 13, comma 1, ha censurato: la lettera a), numero 2; la lettera b); la lettera c).

7.– La Regione Basilicata, con ricorso notificato il 29 gennaio 2019 e depositato il 4 febbraio 2019 (reg. ric. n. 12 del 2019), ha impugnato gli artt. 1 e 13 del d.l. n. 113 del 2018.

8.– In tutti i giudizi si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni promosse siano dichiarate inammissibili e infondate, con argomentazioni non dissimili tra i vari atti di costituzione, che possono essere quindi riassunte unitariamente.

In via preliminare, secondo l’Avvocatura generale i ricorsi sarebbero inammissibili, in ragione della mancanza di un’«adeguata motivazione in merito alla asserita lesione della sfera di competenza regionale, in quanto non suffragata da alcuna argomentazione che non sia apoditticamente fondata sul riparto costituzionale di competenze legislative».

La difesa statale ritiene poi che, secondo la giurisprudenza costituzionale (sono richiamate le sentenze n. 140 del 2015, n. 79, n. 44 e n. 36 del 2014), le Regioni possono invocare parametri diversi da quelli relativi al riparto delle rispettive competenze legislative, soltanto qualora la violazione di tali parametri comporti una compromissione delle attribuzioni regionali costituzionalmente garantite, tali cioè da provocare la ridondanza delle asserite violazioni sul relativo riparto, e siano indicate le specifiche competenze ritenute lese e le ragioni della lamentata lesione. Nel caso di specie, invece, le ricorrenti, nell’indicare le competenze asseritamente lese, si sarebbero limitate a richiamare le leggi regionali in materia senza tuttavia enucleare specificamente le ragioni del dedotto vulnus.

Secondo la difesa statale, «se si seguissero le tesi dell[e] region[i] ricorrent[i], sarebbe sufficiente la presenza di una disposizione regionale attuativa di una normativa statale per impedirne la modifica in eterno».

8.1.– Quanto ai motivi di ricorso relativi all’art. 1 del d.l. n. 113 del 2018, la difesa statale evidenzia come il decreto-legge impugnato investirebbe materie, quale – per quello che qui rileva – l’immigrazione, riservate alla legislazione esclusiva dello Stato, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera b), Cost., e le eventuali ricadute sulle competenze delle Regioni, «che pure potrebbero profilarsi rispetto alle attuali legislazioni regionali, declinate su un assetto definito a livello statuale diverso da quello di recente introdotto», non potrebbero tradursi in un limite al legislatore statale rispetto a materie rientranti nella sua competenza esclusiva.

In particolare – sostiene il Presidente del Consiglio dei ministri – l’impugnato art. 1 sarebbe intervenuto a tipizzare, «analogamente a quanto accade in altri Paesi europei» e in linea con quanto previsto dalla direttiva 2011/95/UE, le forme di tutela di esigenze di carattere umanitario complementare alla protezione internazionale (nelle due ipotesi di status di rifugiato e di quello beneficiario di protezione sussidiaria) i cui presupposti sono esaustivamente individuati dalla direttiva stessa, cui dà attuazione il d.lgs. n. 251 del 2007, le cui norme (in particolare gli artt. 14 e 17) non sarebbero state minimamente incise dal decreto-legge impugnato. Ne deriverebbe, sotto questo profilo, il carattere apodittico e infondato della censura avversa secondo cui l’indicato art. 1 violerebbe gli artt. 15, lettera c) e 18 della direttiva 2011/95/UE.

La difesa statale evidenzia altresì come le norme introdotte dal d.l. n. 113 del 2018 si sostituiscano a una precedente generica definizione normativa (contenuta nel previgente art. 5, comma 6, del t.u. immigrazione), dai contorni non sufficientemente determinati, «seri motivi di carattere umanitario», che in sede di applicazione aveva portato nel tempo a uno «snaturamento» dell’istituto del permesso di soggiorno umanitario, con l’attrazione di situazioni non tutte riconducibili al comune denominatore della tutela dei diritti fondamentali. La nuova disciplina si porrebbe dunque l’intento di ridisegnare la tutela delle esigenze temporanee di carattere umanitario attraverso l’adozione di criteri positivi, integrativi di quelli già rinvenibili nella legislazione vigente, «idonei ad orientare l’attività valutativa dell’autorità competente».

In tale ottica, è stata quindi individuata una nuova ipotesi di protezione (art. 32, comma 3, del d.lgs. n. 25 del 2008, come novellato dall’art. 1, comma 1, lettera a, del d.l. n. 113 del 2018) che correda di uno specifico permesso di soggiorno (per «protezione speciale») il divieto di refoulement già previsto dall’art. 19, commi 1 e 1.1, del t.u. immigrazione. Detto divieto sarebbe inderogabile e avrebbe una portata più ampia del divieto di espulsione previsto dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati.

Il potere e l’obbligo di valutare la ricorrenza di controindicazioni al rimpatrio rimarrebbe quindi attribuito alle competenti commissioni territoriali, allorché non ravvisino i requisiti per il riconoscimento dello status di rifugiato o di beneficiario di protezione sussidiaria. La protezione derivante dal divieto di refoulement opererebbe anche nei confronti di chi ha già ottenuto la protezione internazionale, in sede di revoca o cessazione di detto status, spettando alla Commissione nazionale per il diritto d’asilo la stessa valutazione sulla necessità di una protezione speciale ai sensi dell’art. 33 del d.lgs. n. 25 del 2008, che richiama espressamente il novellato art. 32, comma 3, del medesimo decreto legislativo.

Accanto alla «protezione speciale», il resistente ricorda gli altri «casi speciali» di rilascio di un permesso di soggiorno per esigenze di carattere umanitario: alcuni di essi già presenti nell’ordinamento ed oggetto di ridefinizione a opera dell’impugnato decreto-legge che ne avrebbe lasciato immutate la portata, la durata e le facoltà connesse; altri disciplinati per la prima volta dallo stesso d.l. n. 113 del 2018.

A conferma del livello di tutela accordato dal legislatore alle nuove ipotesi di permesso di soggiorno per esigenze di carattere umanitario, la difesa statale evidenzia come le sezioni specializzate in materia di protezione internazionale e immigrazione istituite presso i tribunali ordinari abbiano competenza anche per le controversie in materia di rifiuto di rilascio, diniego di rinnovo e revoca di tali permessi, «proprio in considerazione della loro riconducibilità ad obblighi internazionali e costituzionali e della loro natura di diritti soggettivi».

Sottolinea inoltre l’Avvocatura generale che le nuove norme non sarebbero intervenute in tema di permessi di soggiorno per minori stranieri non accompagnati, né in materia di diritto all’unità familiare e alla vita privata e familiare, ambiti che continuerebbero a trovare copertura normativa e autonoma disciplina nelle specifiche disposizioni del t.u. immigrazione.

La difesa statale ribadisce la riconducibilità delle norme censurate agli ambiti di competenza legislativa statale esclusiva di cui all’art. 117, secondo comma, lettere a) e b), Cost., evidenziando altresì come la circostanza che la materia dell’immigrazione proietti i suoi effetti su ambiti materiali di competenza regionale, come quelli richiamati nei ricorsi, non renderebbe per ciò solo sindacabili dalle Regioni le scelte del legislatore nazionale in materia di disciplina dell’ingresso e soggiorno dei cittadini stranieri e della loro condizione giuridica.

A tal fine, il Presidente del Consiglio dei ministri richiama la giurisprudenza costituzionale (in primis, la sentenza n. 61 del 2011), che ha riconosciuto come l’intervento pubblico concernente gli stranieri non possa limitarsi al mero controllo dell’ingresso e del soggiorno sul territorio nazionale, dovendo necessariamente considerare altri ambiti, quali l’assistenza sociale, l’istruzione, la salute o l’abitazione, che coinvolgono diverse competenze normative, sia statali che regionali. In tale contesto, si è però precisato che la disciplina dei presupposti per la legittima permanenza dello straniero nel territorio nazionale e delle modalità di regolarizzazione della sua presenza compete esclusivamente allo Stato, pur potendo le Regioni, nell’esercizio delle competenze a esse spettanti, estendere anche agli stranieri irregolari quegli interventi sociali che attengono alla sfera dei diritti inviolabili dell’uomo, di cui all’art. 2 Cost., senza che ciò possa legittimarne in qualche modo la presenza sul territorio nazionale.

Tale assetto, secondo il Presidente del Consiglio dei ministri, non sarebbe assolutamente inciso dalle norme introdotte col decreto-legge impugnato e troverebbe conferma sia nei principi che nelle singole disposizioni del t.u. immigrazione.

Da quanto detto, emergerebbe chiaramente che, seppur intersecanti, le competenze legislative statali e regionali sarebbero nettamente distinte, sicché le Regioni non avrebbero titolo a ricorrere, poiché la regolamentazione dei presupposti per la legittima permanenza in Italia non invaderebbe le competenze regionali.

Tutte le censure sarebbero inammissibili in ragione della mancata configurabilità di violazioni di prerogative regionali e della carenza di adeguata motivazione.

In subordine, dette censure sarebbero comunque infondate alla luce del quadro di tutele garantito dall’ordinamento ai diritti fondamentali dei cittadini stranieri, in parte preesistente e confermato dall’impugnato decreto-legge, in parte da questo riscritto «nel rispetto degli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato».

8.2.– Quanto alle censure rivolte contro l’art. 12 del d.l. n. 113 del 2018, l’Avvocatura generale, in primo luogo, traccia la cornice normativa di riferimento ricavabile dal diritto europeo, individuando, in particolare, la relativa fonte in materia di accoglienza dei richiedenti asilo nella direttiva 2013/33/UE ed evidenziando che i diritti assicurati a coloro che hanno già ottenuto il riconoscimento della protezione internazionale trovano invece la propria regolamentazione nella diversa direttiva 2011/95/UE. A parere della difesa statale, le suddette fonti dimostrerebbero che, in sede europea, la posizione del richiedente asilo è, pertanto, differenziata da quella del titolare di protezione, con l’indicazione espressa delle condizioni di accoglienza da riservare ai richiedenti asilo e dei diritti da assicurare ai titolari di protezione.

Conseguentemente, nell’ordinamento nazionale, le misure di accoglienza vengono disciplinate dal d.lgs. n. 142 del 2015, che dà attuazione alla direttiva 2013/33/UE, mentre i diritti del titolare di protezione sono elencati nel d.lgs. n. 251 del 2007. Non avrebbe, dunque, «alcun fondamento la pretesa equiparazione delle due differenti posizioni, quanto ai diritti, prestazioni e servizi, in specie quelli finalizzati all’inclusione e integrazione, in quanto non supportata dalle fonti normative europee ed internazionali».

Le disposizioni di cui all’art. 12 del d.l. n. 113 del 2018 si inquadrerebbero nell’ambito di una rivisitazione complessiva del sistema statale di accoglienza, nell’ottica di una razionalizzazione dei servizi, diretta ad assicurare ai richiedenti asilo condizioni materiali adeguate a garantire una vita dignitosa, garantendone il sostentamento e la tutela della salute, e a riservare i percorsi di inclusione sociale, funzionali al conseguimento di un’effettiva autonomia personale, ai titolari di protezione internazionale, oltre che ai minori stranieri non accompagnati e ai soggetti per i quali sussistono specifiche esigenze umanitarie.

La limitazione dei servizi da rendere attraverso la rete del SIPROIMI ai titolari di protezione internazionale risiederebbe, dunque, nell’esigenza di riservare prioritariamente l’accesso al sistema finalizzato all’integrazione a quei soggetti la cui condizione è connotata dal requisito della stabilità, rispetto ad altre condizioni di carattere temporaneo.

Tale riorganizzazione del sistema dell’accoglienza, dunque, risponderebbe a criteri di ragionevolezza, ponendosi nell’ottica «di una visione globale del fenomeno migratorio», che tenga anche conto della configurazione dei flussi di ingresso.

8.2.1.– Con specifico riferimento alle norme transitorie di cui ai commi 5 e 6 dell’art. 12 del d.l. n. 113 del 2018, la difesa statale sostiene che esse mirerebbero proprio a non interrompere i progetti di accoglienza in corso, non solo per i richiedenti asilo (comma 5), ma anche per i titolari di protezione umanitaria (comma 6) già presentì nel sistema di protezione alla data di entrata in vigore del decreto-legge, secondo le disposizioni di attuazione sul funzionamento del sistema che fissano in ogni caso dei limiti temporali predeterminati all’accoglienza dei beneficiari di protezione.

Osserva, ancora, la difesa statale che il sistema di seconda accoglienza resterebbe inalterato nelle sue connotazioni strutturali e funzionali, in quanto: continua a essere imperniato sugli enti locali; resta invariato il complesso di prestazioni erogate agli ospiti delle strutture che ne fanno parte; restano altresì invariati il meccanismo e la fonte di finanziamento, risultando modificata esclusivamente la platea dei soggetti destinatari dei servizi resi.

Quanto al presunto ridimensionamento del ruolo della Conferenza unificata prospettato dalla Regione Emilia-Romagna, l’Avvocatura generale deduce che il ricorso non chiarisce in quale modo sarebbero state lese prerogative costituzionalmente riservate alla Regione o agli enti locali (apparendo pertanto, sotto questo profilo, la censura inammissibile); sarebbe evidente, piuttosto, che la riforma, attraendo l’intervento della Conferenza unificata «al ben più qualificato momento» della definizione dei criteri e delle modalità per la presentazione da parte degli enti locali delle domande di contributo per la realizzazione e la prosecuzione dei progetti finalizzati all’accoglienza, non sminuirebbe affatto il contributo della Conferenza stessa.

Infine, la difesa statale evidenzia che la lettera h-bis) del comma 2 dell’art. 12 del d.l. n. 113 del 2018, disposizione alla quale la Regione Emilia-Romagna imputa possibili effetti pregiudizievoli di un’autonoma capacità di spesa comunale per le politiche di integrazione dei minori stranieri non accompagnati, è stata abrogata dall’art. 1, comma 769, della legge 30 dicembre 2018, n. 145 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021).

8.3.– Quanto ai motivi di ricorso relativi all’art. 13 del d.l. n. 113 del 2018, la difesa statale ritiene che la norma in questione sia riconducibile alla competenza legislativa statale in materia di anagrafe (art. 117, secondo comma, lettera i, Cost.); inoltre, i compiti di vigilanza sull’anagrafe sono assegnati al Ministero dell’interno dall’art. 14 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300 (Riforma dell’organizzazione del Governo, a norma dell’articolo 11 della legge 15 marzo 1997, n. 59). Quello dell’anagrafe sarebbe, quindi, un servizio di competenza statale e le relative funzioni sono delegate al sindaco quale ufficiale di Governo, ai sensi dell’art. 54 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali).

Secondo l’Avvocatura, l’esclusione dell’iscrizione all’anagrafe per i richiedenti asilo si fonderebbe sulla «temporaneità del predetto permesso di soggiorno, in attesa della definizione della posizione giuridica del richiedente». In particolare, l’obiettivo perseguito dal legislatore sarebbe quello di scongiurare «il sovraccarico di iscrizioni anagrafiche di richiedenti asilo presso Comuni di piccole dimensioni sul cui territorio si trovano centri di accoglienza, con i conseguenti adempimenti anche in termini di cancellazioni e di ripetuti accertamenti in caso di irreperibilità, e soprattutto per eliminare l’anomalia del rilascio di carte d’identità con validità decennale a cittadini stranieri la cui posizione giuridica sul territorio non è stata ancora definita».

Sarebbe quindi giustificato un trattamento differenziato rispetto agli altri cittadini stranieri regolarmente soggiornanti la cui posizione giuridica è già definita.

Alla luce di queste considerazioni non sarebbe pertinente il richiamo dell’art. 6, comma 7, del t.u. immigrazione, in considerazione della specialità della norma prevista per i richiedenti asilo. Inoltre, dall’esclusione dell’iscrizione anagrafica non discenderebbe alcun pregiudizio ai diritti di questi ultimi, che sono riconosciuti sulla base della titolarità del permesso di soggiorno; in particolare, l’art. 34 dello stesso testo unico elenca il permesso per richiesta di asilo tra quelli che prevedono l’iscrizione obbligatoria al servizio sanitario nazionale. Inoltre, l’impugnato art. 13 fissa nel domicilio il criterio di collegamento idoneo all’accesso ai servizi erogati sul territorio. Sarebbe dunque esclusa la violazione dell’art. 117, secondo (recte: terzo) e quarto comma, Cost.

Parimenti infondate sarebbero anche le censure mosse rispetto agli artt. 2, 3 e 10 Cost.: l’art. 2 Cost. non sarebbe violato perché verrebbe comunque assicurata la tutela dei diritti fondamentali; non vi sarebbe contrasto con l’art. 3 Cost. in considerazione della diversa posizione degli stranieri titolari di altre tipologie di permesso di soggiorno e soprattutto dei cittadini europei; sarebbe esclusa anche la violazione dell’art. 10 Cost., in quanto le norme europee (è citata la direttiva 2013/33/UE) non impongono modalità di registrazione della presenza sul territorio degli Stati membri, diverse dal rilascio di un’autorizzazione al soggiorno valida per la durata del procedimento di esame della domanda. Peraltro, la disciplina europea (art. 2, comma 1, del Protocollo n. 4 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali) e quella internazionale (art. 12, comma 1, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici) presuppongono la legale presenza dello straniero nel territorio dello Stato, sicché sarebbe assurdo richiamare queste disposizioni per censurare una normativa intesa a rendere regolare e legittima la permanenza degli stranieri nel territorio nazionale.

Non si ravviserebbe una violazione dei parametri costituzionali indicati dalle ricorrenti nemmeno in relazione al fatto che il periodo trascorso regolarmente dal richiedente asilo non potrà essere computato ai fini della eventuale successiva richiesta di concessione della cittadinanza; a tal fine, infatti, la legge 5 febbraio 1992, n. 91 (Nuove norme sulla cittadinanza) prenderebbe in considerazione solo la persona a cui lo status di rifugiato è già stato riconosciuto.

8.4.– Quanto alla denunciata illegittimità costituzionale, per violazione dell’art. 77 Cost., delle disposizioni contenute nel decreto-legge, la difesa statale avanza, anzitutto, una duplice eccezione di inammissibilità nei confronti dell’impugnazione rivolta al decreto-legge nella sua interezza.

In primo luogo, la questione sarebbe inammissibile perché verrebbe «sottoposto a censura l’intero testo normativo, adottato dallo Stato nell’esercizio delle proprie competenze, e censurato ex adverso in dettaglio solo per alcuni profili». L’impugnazione regionale di un atto legislativo nella sua interezza, per violazione dei presupposti di cui all’art. 77 Cost., non sarebbe ammissibile, posto che la Regione sarebbe pur sempre sottoposta «ai vincoli di attinenza» connessi alla ripartizione costituzionale di competenze.

Inoltre, e più nello specifico, la ricorrente non avrebbe adeguatamente motivato in ordine alla asserita lesione delle competenze regionali derivante dalla insussistenza dei presupposti di necessità ed urgenza e, dunque, alla ridondanza del vizio sulle attribuzioni che la Costituzione riserva alle Regioni.

Nel merito, la difesa statale insiste sulla non fondatezza delle censure. L’Avvocatura generale riporta a sostegno della sua tesi la giurisprudenza costituzionale che ha affermato come «il sindacato sulla legittimità dell’adozione da parte del Governo di un decreto-legge vada limitato ai casi di evidente mancanza dei presupposti di straordinaria necessità o di manifesta irragionevolezza o arbitrarietà della loro valutazione» (si richiamano, ex plurimis, le sentenze n. 287 e n. 244 del 2016, n. 32 del 2014, n. 22 del 2012, n. 128 del 2008 e n. 171 del 2007). Tale manifesta mancanza non parrebbe ravvisarsi nel caso di specie, poiché il decreto impugnato «anche quando è caratterizzato da disposizioni a contenuto plurimo, articolato e differenziato al suo interno, nondimeno appare fornito di intrinseca coerenza, in quanto le disposizioni che lo compongono presentano una sostanziale omogeneità di scopo».

8.5.– Con riguardo, infine, alla asserita violazione del principio di leale collaborazione, l’Avvocatura generale rileva come non sarebbe individuabile alcun obbligo di consultazione delle Regioni durante la fase di adozione dei decreti-legge, data la peculiarità dei casi in cui questi possono essere adottati e la celerità dei termini per la presentazione degli stessi alle Camere (vengono richiamate le sentenze n. 298 del 2009, n. 275 del 2005 e n. 196 del 2004).

9.– La Regione autonoma Sardegna e la Regione Basilicata, rispettivamente in data 5 e 10 giugno 2019, hanno depositato atto di rinuncia al ricorso, accettata, per entrambe le Regioni, dal Presidente del Consiglio dei ministri con atto depositato il 13 giugno 2019.

10.– In prossimità dell’udienza le Regioni Umbria, Emilia-Romagna, Marche, Toscana e Calabria, e il Presidente del Consiglio dei ministri hanno depositato memorie nelle quali insistono nelle conclusioni già rassegnate, rispettivamente, nei ricorsi e negli atti di costituzione.

Considerato in diritto

1.– Le Regioni Umbria, Emilia-Romagna, Basilicata, Marche, Toscana e Calabria e la Regione autonoma Sardegna hanno promosso plurime questioni di legittimità costituzionale con riguardo all’intero decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113 (Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata), convertito, con modificazioni, nella legge 1° dicembre 2018, n. 132, nonché ad alcune sue disposizioni, fra le quali gli artt. 1, 12 e 13.

2.– Riservata a separata pronuncia la decisione delle questioni vertenti sulle altre disposizioni impugnate con i ricorsi indicati in epigrafe, i giudizi aventi a oggetto gli artt. 1, 12 e 13, nonché l’intero decreto-legge, devono essere riuniti, in ragione della parziale connessione oggettiva e della parziale identità delle questioni all’esame della Corte.

3.– Nelle more del giudizio, la Regione autonoma Sardegna e la Regione Basilicata, rispettivamente in data 5 e 10 giugno 2019, hanno depositato atto di rinuncia al ricorso, accettata, per entrambe le Regioni, dal Presidente del Consiglio dei ministri con atto depositato il 13 giugno 2019.

Ai sensi dell’art. 23 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale deve essere pertanto dichiarata l’estinzione dei giudizi promossi dalle anzidette Regioni (ex plurimis, sentenza n. 201 del 2018).

4.– Quanto alle questioni promosse dalle altre ricorrenti, questa Corte è chiamata preliminarmente a verificare le ragioni addotte dalle Regioni a giustificazione della lamentata incidenza diretta o indiretta di siffatte questioni sulle competenze legislative e amministrative di cui sono titolari esse stesse e gli enti locali, a tutela delle cui attribuzioni le prime possono agire dinanzi a questa Corte (sentenze n. 205 e n. 29 del 2016, n. 220 del 2013, n. 311 del 2012, n. 298 del 2009, n. 169 e n. 95 del 2007, n. 417 del 2005, n. 196 del 2004).

5.– Devono essere anzitutto esaminate le censure relative all’art. 77 Cost., avanzate dalla Regione Marche in relazione all’intero testo del decreto-legge, poiché l’eventuale accoglimento di esse assorbirebbe ogni altra censura.

In particolare, ad avviso della Regione Marche, mancherebbe nel preambolo un’adeguata motivazione in grado di giustificare il ricorso alla decretazione d’urgenza per una così ampia riforma a carattere ordinamentale. Inoltre, il decreto-legge in esame avrebbe un contenuto eterogeneo. Infine, l’immigrazione viene ritenuta, dalla Regione Marche, un fenomeno ormai ordinario, in relazione al quale non potrebbero ricorrere i presupposti di straordinaria necessità e urgenza legittimanti l’intervento governativo in base all’art. 77 Cost. La mancanza dei presupposti di straordinaria necessità ed urgenza vizierebbe l’intero decreto rendendo illegittima per vizio in procedendo anche la relativa legge di conversione.

5.1.– In via preliminare, questa Corte è chiamata a pronunciarsi sulle eccezioni di inammissibilità avanzate dalla difesa statale.

5.2.– In primo luogo, l’Avvocatura generale ritiene inammissibile l’impugnazione dell’intero decreto-legge, perché verrebbe «sottoposto a censura l’intero testo normativo, adottato dallo Stato nell’esercizio delle proprie competenze, e censurato ex adverso in dettaglio solo per alcuni profili».

L’eccezione non è fondata. Questa Corte ritiene ammissibili le questioni, avanzate in via principale, avverso interi atti legislativi, purché l’impugnativa non «comporti la genericità delle censure che non consenta la individuazione della questione oggetto dello scrutinio di costituzionalità», e sempre che le leggi impugnate siano «caratterizzate da normative omogenee e tutte coinvolte dalle censure» (sentenze n. 247 del 2018, n. 14 del 2017 e n. 195 del 2015).

Poiché la Regione Marche ha contestato diversi profili del decreto-legge n. 113 del 2018, tutti riconducibili alla violazione dell’art. 77 Cost, non vi è dunque contraddizione, né disomogeneità rispetto all’oggetto dell’impugnazione regionale dell’intero decreto. La ricorrente ha, infatti, ampiamente motivato in ordine alle possibili ragioni di incostituzionalità dell’atto impugnato in relazione alla carenza dei presupposti di necessità ed urgenza.

5.3.– In secondo luogo, la difesa statale ritiene inammissibile l’impugnazione dell’intero decreto-legge perché la ricorrente non avrebbe adeguatamente motivato la asserita lesione delle competenze regionali derivante dalla pretesa insussistenza dei presupposti di necessità ed urgenza. Non sarebbe stata dimostrata, quindi, la ridondanza del vizio sulle attribuzioni che la Costituzione riserva alle Regioni.

L’eccezione è fondata.

In più occasioni, questa Corte ha avuto modo di affermare che «le Regioni possono evocare parametri di legittimità costituzionale diversi da quelli che sovrintendono al riparto di competenze fra Stato e Regioni solo a due condizioni: quando la violazione denunciata sia potenzialmente idonea a riverberarsi sulle attribuzioni regionali costituzionalmente garantite […] e quando le Regioni ricorrenti abbiano sufficientemente motivato in ordine alla ridondanza della lamentata illegittimità costituzionale sul riparto di competenze, indicando la specifica competenza che risulterebbe offesa e argomentando adeguatamente in proposito» (ex multis, sentenza n. 198 del 2018). L’esigenza di evitare un’ingiustificata espansione dei vizi censurabili dalle Regioni nel giudizio in via d’azione e, quindi, la trasformazione della natura di tale rimedio giurisdizionale obbliga le Regioni stesse a dare conto, in maniera puntuale e dettagliata, della effettiva sussistenza e della portata del «condizionamento» prodotto dalla norma statale impugnata.

5.4.– Il ricorso della Regione Marche appare carente sotto il profilo della motivazione.

Il vizio in ridondanza deve, infatti, essere illustrato in modo da soddisfare un duplice requisito: per un verso, non deve risultare generico, e quindi difettare dell’indicazione delle competenze asseritamente violate; per un altro, non deve essere apodittico, e deve dunque essere adeguatamente motivato in ordine alla sussistenza, nel caso oggetto di giudizio, di un titolo di competenza regionale rispetto all’oggetto regolato dalla legge statale.

Nel caso di specie, non è sufficiente sostenere, come fa la Regione ricorrente, che le disposizioni del decreto-legge «incidono sull’esercizio delle funzioni proprie delle Regioni nei settori della "tutela della salute”, della "tutela del lavoro”, dell’"istruzione”, della "formazione professionale”, del "governo del territorio”, con riferimento all’edilizia residenziale pubblica, e dell’”assistenza sociale”, nonché sulle corrispondenti funzioni amministrative regionali e locali». Di fronte a un atto legislativo, quale il d.l. n. 113 del 2018, a contenuto normativo differenziato, che incide su diversi settori dell’ordinamento giuridico, tutti riferibili, come si vedrà a breve, alla competenza esclusiva dello Stato, la ridondanza del vizio sulle competenze regionali e locali deve essere argomentata in relazione allo specifico contenuto normativo del decreto e alla idoneità dello stesso a obbligare la Regione a esercitare le proprie attribuzioni in conformità a una disciplina legislativa statale in contrasto con norme costituzionali.

6.– Occorre ora passare allo scrutinio delle altre questioni promosse nei confronti degli artt. 1, 12 e 13 del d.l. n. 113 del 2018.

7.– L’art. 1 del d.l. n. 113 del 2018 reca «[d]isposizioni in materia di permesso di soggiorno per motivi umanitari e disciplina di casi speciali di permessi di soggiorno temporanei per esigenze di carattere umanitario». Per effetto di tale articolo, il legislatore ha soppresso l’istituto generale e atipico del permesso di soggiorno per motivi umanitari, di cui all’art. 5, comma 6, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), e in sua vece ha contestualmente previsto alcuni «speciali permessi di soggiorno temporanei per esigenze di carattere umanitario».

Secondo le Regioni ricorrenti la sostituzione di un permesso di soggiorno di carattere generale con alcune fattispecie tipizzate determinerebbe una restrizione dell’ambito di applicazione della protezione per motivi umanitari, con conseguente violazione di numerosi parametri costituzionali (artt. 2, 3, 10, 31, 32, 34, 35 e 97 Cost., oltre all’art. 77 Cost.), europei e internazionali (e quindi anche degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.) e con ricadute, sia pure indirette, sulle competenze concorrenti e residuali delle Regioni in materia di assistenza sociale e sanitaria, di formazione e politiche attive del lavoro, di istruzione ed edilizia residenziale pubblica, oltre che sulle funzioni degli enti locali, in violazione degli artt. 117, terzo e quarto comma, 118 e 119 Cost.

7.1.– Lo scrutinio delle censure prospettate nei confronti dell’art. 1 del d.l. n. 113 del 2018 impone, secondo la costante giurisprudenza costituzionale (tra le più recenti, sentenze n. 116 e n. 100 del 2019, n. 246 e n. 148 del 2018), l’individuazione dell’ambito materiale al quale vanno ascritte le disposizioni impugnate, tenendo conto della loro ratio, della finalità, del contenuto e dell’oggetto della disciplina. Allo scopo si rende dunque necessario ricostruire sinteticamente l’istituto della protezione umanitaria, prima e dopo l’impugnato intervento statale.

7.2.– Il sistema della protezione dello straniero in Italia è articolato su tre livelli: il riconoscimento dello status di rifugiato, la protezione sussidiaria e la protezione umanitaria.

Mentre le prime due forme di protezione trovano fonte diretta nelle normative internazionali ed europee, la protezione umanitaria è un istituto riconducibile a previsioni dell’ordinamento interno.

Lo status di rifugiato è regolato dalla Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951, ratificata e resa esecutiva in Italia con la legge 24 luglio 1954, n. 722, esplicitamente richiamata dalle rilevanti direttive dell’Unione europea come «pietra angolare della disciplina giuridica internazionale relativa alla protezione dei rifugiati» (direttiva 2004/83/CE del Consiglio, del 29 aprile 2004, recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta, poi abrogata dalla direttiva 2011/95/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, recante norme sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonché sul contenuto della protezione riconosciuta). Tale status è riconosciuto a chi si trova fuori dal paese di cui ha la cittadinanza o la dimora abituale e non voglia farvi ritorno «per il timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza a un determinato gruppo sociale» (art. 2, lettera d, della direttiva 2011/95/UE che riprende la Convenzione di Ginevra).

La «protezione sussidiaria» è regolata dalle citate direttive UE ed è accordata a chi non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato, ma nei cui confronti sussistono fondati motivi per ritenere che, se ritornasse nel paese di origine, correrebbe «un rischio effettivo di subire un grave danno» (art. 2, lettera f, della direttiva 2011/95/UE), con ciò intendendosi la pena di morte o l’essere giustiziato, la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante, ovvero la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale (art. 15 della direttiva 2011/95/UE).

Quanto alla «protezione umanitaria», l’art. 6, paragrafo 4, della direttiva 115/2008/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 dicembre 2008, recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, prevede la possibilità – non già l’obbligo – per gli Stati membri di estendere l’ambito delle forme di protezione tipiche sino a ricomprendere «motivi umanitari, caritatevoli o di altra natura», rilasciando allo scopo un apposito permesso di soggiorno. A detta facoltà, gli Stati membri hanno dato attuazione nei modi più vari.

Dunque, lo status di rifugiato e la protezione sussidiaria, specificazione della medesima voce «protezione internazionale», sono accordati in osservanza di obblighi europei e internazionali: il primo per proteggere la persona da atti di persecuzione; la seconda per evitare che questa possa subire un grave danno. Viceversa, la protezione umanitaria è rimessa in larga misura alla discrezionalità dei singoli Stati, per rispondere a esigenze umanitarie, caritatevoli o di altra natura.

Col decreto-legge in esame, il legislatore nazionale è intervenuto solo sull’istituto della protezione umanitaria, senza incidere su quella dovuta in base a obblighi europei e internazionali.

7.3.– Nell’ordinamento italiano, la protezione umanitaria fu immessa per la prima volta a opera dell’art. 14, comma 3, della legge 30 settembre 1993, n. 388, recante «Ratifica ed esecuzione: a) del protocollo di adesione del Governo della Repubblica italiana all’accordo di Schengen del 14 giugno 1985 tra i Governi degli Stati dell’Unione economica del Benelux, della Repubblica federale di Germania e della Repubblica francese relativo all’eliminazione graduale dei controlli alle frontiere comuni, con due dichiarazioni comuni; b) dell’accordo di adesione della Repubblica italiana alla convenzione del 19 giugno 1990 di applicazione del summenzionato accordo di Schengen, con allegate due dichiarazioni unilaterali dell’Italia e della Francia, nonché la convenzione, il relativo atto finale, con annessi l’atto finale, il processo verbale e la dichiarazione comune dei Ministri e Segretari di Stato firmati in occasione della firma della citata convenzione del 1990, e la dichiarazione comune relativa agli articoli 2 e 3 dell’accordo di adesione summenzionato; c) dell’accordo tra il Governo della Repubblica italiana ed il Governo della Repubblica francese relativo agli articoli 2 e 3 dell’accordo di cui alla lettera b); tutti atti firmati a Parigi il 27 novembre 1990», che ha modificato le condizioni di soggiorno degli stranieri regolate dal decreto-legge 30 dicembre 1989, n. 416 (Norme urgenti in materia di asilo politico, di ingresso e soggiorno dei cittadini extracomunitari e di regolarizzazione dei cittadini extracomunitari ed apolidi già presenti nel territorio dello Stato), convertito, con modificazioni, in legge 28 febbraio 1990, n. 39.

Il citato art. 14 della legge n. 388 del 1993 configurava la protezione umanitaria come ipotesi di deroga al rigetto (e alla revoca) della domanda di permesso di soggiorno, deroga consentita appunto quando ricorressero seri motivi di carattere umanitario. Tale articolo, infatti, prevedeva che un provvedimento di rifiuto o di revoca del permesso di soggiorno potesse essere adottato quando lo straniero non soddisfacesse le condizioni di soggiorno applicabili nel territorio di uno degli Stati contraenti, salvo che ricorressero «seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano» (art. 4, comma 12-ter, del d.l. n. 416 del 1989).

Questo originario riferimento alle esigenze di carattere umanitario, suscettibili di evitare il rifiuto o la revoca del permesso di soggiorno, è stato testualmente ripreso dall’art. 5, comma 6, della legge 6 marzo 1998, n. 40 (Disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), per poi sedimentarsi nell’art. 5, comma 6, del t.u. immigrazione, il cui testo prevedeva, fino all’entrata in vigore del decreto-legge in esame, che il rifiuto o la revoca del permesso di soggiorno potessero essere adottati quando lo straniero non soddisfacesse le condizioni di soggiorno salva la ricorrenza di «seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano». Il permesso di soggiorno per motivi umanitari era rilasciato dal questore secondo le modalità previste nel regolamento di attuazione.

A seguito dell’introduzione della protezione internazionale (a opera del decreto legislativo 19 novembre 2007, n. 251, intitolato «Attuazione della direttiva 2004/83/CE recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica del rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta»), nelle due forme del riconoscimento dello status di rifugiato e di beneficiario di protezione sussidiaria, era altresì previsto che, in caso di non accoglimento della domanda di protezione internazionale, le competenti commissioni territoriali trasmettessero gli atti al questore per l’eventuale rilascio del permesso di soggiorno ai sensi dell’art. 5, comma 6, del t.u. immigrazione, qualora sussistessero «gravi motivi di carattere umanitario» (art. 32, comma 3, del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25, intitolato «Attuazione della direttiva 2005/85/CE recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato»).

Per completare il quadro normativo immediatamente precedente all’entrata in vigore della disposizione impugnata, occorre ancora menzionare che, accanto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui all’art. 5, comma 6, il t.u. immigrazione prevedeva altresì alcune fattispecie particolari di permesso di soggiorno (per motivi di protezione sociale, ex art. 18; per particolare sfruttamento lavorativo, ex art. 22, comma 12-quater; per le vittime di violenza domestica, ex art. 18-bis), in cui erano comunque evidenti le esigenze di carattere umanitario sottese alle singole fattispecie.

7.4.– La protezione umanitaria ha ricevuto ampia applicazione nella prassi giurisprudenziale, che ne ha via via precisato i contorni, grazie all’attività interpretativa della giurisprudenza di merito e di legittimità che ha assicurato l’effettività del quadro normativo ora brevemente descritto alla luce delle esigenze di tutela dei diritti fondamentali della persona, garantiti dalla Costituzione e dagli altri strumenti di tutela europea e internazionale.

Secondo la Corte di cassazione, in particolare, il permesso di soggiorno per motivi umanitari si collega al diritto di asilo costituzionale, di cui all’art. 10, terzo comma, Cost., oltre che alla «protezione complementare» che la normativa europea consente agli Stati membri di riconoscere, anche per motivi umanitari o caritatevoli, alle persone che non possono rivendicare lo status di rifugiato e neppure beneficiare della protezione sussidiaria, benché siano minacciate nei propri diritti fondamentali in caso di rinvio nel paese d’origine (così, tra le molte, Cassazione civile, sezioni unite, sentenze 11 dicembre 2018, n. 32177 e n. 32044). Inoltre, nella giurisprudenza di legittimità immediatamente anteriore alle modifiche introdotte dal decreto impugnato, i «seri motivi umanitari» erano tutti accomunati dallo scopo di tutelare situazioni di vulnerabilità attuali o accertate, con giudizio prognostico, come conseguenza discendente dal rimpatrio dello straniero, in presenza di un’esigenza concernente la salvaguardia di diritti umani fondamentali protetti a livello costituzionale e internazionale (Corte di cassazione, sezione prima civile, ordinanza 12 novembre 2018, n. 28996).

7.5.– In tale cornice normativa, è intervenuto l’impugnato art. 1 del d.l. n. 113 del 2018 che ha eliminato dall’art. 5, comma 6, del t.u. immigrazione il riferimento ai «seri motivi di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano» e, più in generale, ha espunto dall’ordinamento ogni riferimento al permesso di soggiorno «per motivi umanitari» contenuto in diversi testi normativi. Tuttavia, la medesima disposizione ha contestualmente delineato una serie di «casi speciali di permessi di soggiorno temporanei per esigenze di carattere umanitario».

In sintesi, per effetto dell’impugnato art. 1 del d.l. n. 113 del 2018, il permesso di soggiorno per motivi umanitari, che scompare come istituto generale e atipico, viene sostituito dai seguenti permessi di soggiorno: a) permessi di soggiorno per «casi speciali» (ipotesi di cui agli artt. 18, 18-bis e 22, comma 12-quater, del t.u. immigrazione); b) permesso di soggiorno per «cure mediche» (ipotesi di cui all’art. 19, comma 2, lettera d-bis); c) permesso di soggiorno per calamità (ipotesi di cui all’art. 20-bis); d) permesso di soggiorno per motivi di particolare valore civile (ipotesi di cui all’art. 42-bis).

I permessi di soggiorno per «casi speciali» (ipotesi di cui agli artt. 18, 18-bis e 22, comma 12-quater, del t.u. immigrazione), sostituiscono i precedenti permessi di soggiorno «per motivi di protezione sociale», «per vittime di violenza domestica» e «per particolare sfruttamento lavorativo», dei quali mantengono sostanzialmente invariata la portata.

In particolare, lo speciale permesso di cui all’art. 18 del t.u. immigrazione è rilasciato dal questore quando siano accertate situazioni di violenza o di grave sfruttamento nei confronti di uno straniero ed emergano concreti pericoli per la sua incolumità per effetto dei tentativi di sottrarsi ai condizionamenti di un’organizzazione criminale dedita allo sfruttamento della prostituzione, al fine di consentirgli di sottrarsi alla violenza e a detti condizionamenti nonché di partecipare a un programma di assistenza e integrazione sociale.

Il permesso di cui al successivo art. 18-bis è rilasciato dal questore a fronte di accertate situazioni di violenza o abuso per consentire alla vittima di sottrarsi alla violenza domestica, con ciò intendendosi «uno o più atti, gravi ovvero non episodici, di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra persone legate, attualmente o in passato, da un vincolo di matrimonio o da una relazione affettiva, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima».

Il permesso di cui all’art. 22, comma 12-quater, è rilasciato dal questore nelle ipotesi di particolare sfruttamento lavorativo, allo straniero che abbia presentato denuncia e cooperi nel procedimento penale instaurato nei confronti del datore di lavoro.

Il permesso di soggiorno per «cure mediche» (di cui all’art. 19, comma 2, lettera d-bis) è rilasciato dal questore agli stranieri che versino in condizioni di salute di particolare gravità, accertate mediante idonea documentazione proveniente da una struttura sanitaria pubblica o da un medico convenzionato con il Servizio sanitario nazionale, e tali da determinare un rilevante pregiudizio alla salute degli stessi in caso di rientro nel paese di origine o di provenienza.

Il permesso di soggiorno per calamità (di cui all’art. 20-bis) è rilasciato dal questore quando il paese verso il quale lo straniero dovrebbe fare ritorno versa in una situazione di contingente ed eccezionale calamità che non consente il rientro e la permanenza in condizioni di sicurezza.

Il permesso di soggiorno per atti di particolare valore civile (di cui all’art. 42-bis), infine, deve essere autorizzato dal Ministro dell’interno, su proposta del prefetto competente, ed è rilasciato nei casi in cui lo straniero abbia compiuto atti di particolare valore civile.

Accanto a dette ipotesi, il legislatore, modificando l’art. 32, comma 3, del d.lgs. n. 25 del 2008, ha poi introdotto un nuovo permesso di soggiorno per «protezione speciale» per i casi in cui non si accolga la domanda di protezione internazionale dello straniero e al contempo ne sia vietata l’espulsione o il respingimento, nell’eventualità che questi «possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali, ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione» (art. 19, comma 1, del t.u. immigrazione), oppure esistano fondati motivi di ritenere che rischi di essere sottoposto a tortura (art. 19, comma 1.1., del t.u. immigrazione).

In sintesi, con l’impugnato art. 1 del d.l. n. 113 del 2018 il legislatore è intervenuto sulle qualifiche che danno titolo ai permessi di soggiorno sul territorio nazionale specificando, in un ventaglio di ipotesi nominate, i «seri motivi di carattere umanitario» prima genericamente enunciati all’art. 5, comma 6, del t.u. immigrazione.

7.6.– Non vi è alcun dubbio che tale intervento sia esercizio di competenze legislative esclusive dello Stato, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, Cost.

Come osservato dalle stesse ricorrenti, viene innanzitutto in rilievo la materia «immigrazione», di cui all’art. 117, secondo comma, lettera b), Cost. Essa infatti comprende, come la giurisprudenza di questa Corte ha già chiarito, non solo gli «aspetti che attengono alle politiche di programmazione dei flussi di ingresso e di soggiorno nel territorio nazionale» (sentenza n. 2 del 2013, così come sentenze n. 61 del 2011, n. 299 del 2010 e n. 134 del 2010), ma, ed è ciò che qui rileva, le condizioni per il rilascio del permesso di soggiorno (sentenza n. 156 del 2006).

Questa Corte ha anche più volte precisato che il legislatore statale gode di «ampia» discrezionalità nella disciplina di detta materia (sentenze n. 277 del 2014, n. 202 del 2013 e n. 172 del 2012), dato che essa è «collegata al bilanciamento di molteplici interessi pubblici» (tra le molte, sentenze n. 172 del 2012 e n. 250 del 2010); e che, pur disponendo di tale ampia discrezionalità, il legislatore naturalmente resta sempre tenuto al rispetto degli obblighi internazionali, sulla base dell’art. 117, primo comma, Cost., e costituzionali (sentenze n. 202 del 2013, n. 172 del 2012 e n. 245 del 2011), compreso il criterio di ragionevolezza intrinseca (tra le altre, sentenza n. 172 del 2012).

Le medesime disposizioni impugnate, peraltro, sono anche espressione della competenza legislativa statale in materia di «diritto di asilo», di cui all’art. 117, secondo comma, lettera a), Cost., che nell’ordinamento costituzionale italiano copre uno spettro più ampio rispetto al diritto dei rifugiati di cui alla citata Convenzione di Ginevra. Per la definizione del contenuto di tale materia, infatti, ci si deve riferire all’art. 10, terzo comma, Cost., che appunto riconosce il «diritto d’asilo nel territorio della Repubblica» come diritto fondamentale dello straniero «al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana».

A favore di un inquadramento delle disposizioni impugnate nella materia «diritto di asilo» depone la consolidata giurisprudenza di legittimità che, in riferimento alla disciplina previgente, aveva ritenuto che il diritto di asilo costituzionale ex art. 10, terzo comma, Cost. avesse ricevuto integrale attuazione grazie al concorso dei tre istituti concernenti la protezione dei migranti: la tutela dei rifugiati, la protezione sussidiaria di origine europea e la protezione umanitaria (tra le molte, Corte di Cassazione, sezione prima civile, ordinanza 15 maggio 2019, n. 13082; sezione sesta civile, ordinanza 19 aprile 2019, n. 11110; sezione sesta civile, ordinanza 4 agosto 2016, n. 16362). Di conseguenza, ogni intervento legislativo che, indipendentemente dal suo contenuto, incida, come quello oggetto delle presenti questioni di costituzionalità, sull’uno o sull’altro dei tre istituti che danno vita nel loro complesso alla disciplina dell’asilo costituzionale deve per ciò stesso essere ascritto alla materia denominata «diritto di asilo», di esclusiva competenza dello Stato, in base all’art. 117, secondo comma, lettera a), Cost.

7.7.– La circostanza che si tratti di disposizioni adottate dallo Stato nell’esercizio di proprie competenze legislative esclusive fa sì che non siano configurabili violazioni dirette del riparto di competenze disegnato dal Titolo V, Parte II, della Costituzione; tuttavia ciò non implica che le Regioni non possano denunciare la violazione di parametri costituzionali diversi da quelli relativi al riparto di competenze, assumendo la lesione indiretta di proprie attribuzioni costituzionalmente garantite (sentenze n. 139, n. 73 e n. 17 del 2018, e n. 412 del 2001).

Con riguardo alle disposizioni in esame, in effetti, le Regioni prospettano lesioni indirette alle loro competenze, lamentando che le modalità attraverso le quali lo Stato ha esercitato le proprie competenze legislative, in quanto asseritamente viziate da illegittimità costituzionale, per la violazione dei parametri costituzionali e internazionali sopra richiamati, condizionerebbero l’esercizio di numerose competenze legislative regionali sia di tipo concorrente che di tipo residuale, in materia di assistenza sociale, tutela della salute, formazione e politiche attive del lavoro, istruzione ed edilizia residenziale pubblica. In particolare, le ricorrenti ritengono che la disposizione impugnata restringerebbe illegittimamente la platea delle persone regolarmente soggiornanti sul territorio e con essa anche quella dei destinatari delle prestazioni sociali garantite dalle Regioni, costringendo queste ultime, al pari degli enti locali di cui esse affermano essere sostituti processuali, a esercitare le loro competenze in contrasto con la Costituzione.

Come già ricordato, questa Corte ha costantemente affermato che le questioni sollevate dalle Regioni in riferimento a parametri non attinenti al riparto delle competenze statali e regionali sono ammissibili quando la disposizione statale, pur conforme al riparto costituzionale delle competenze, obbligherebbe le Regioni – nell’esercizio di altre loro attribuzioni normative, amministrative o finanziarie – a conformarsi a una disciplina legislativa asseritamente incostituzionale, per contrasto con parametri, appunto, estranei a tale riparto (tra le altre, sentenze n. 5 del 2018, n. 287 e n. 244 del 2016). Tuttavia, in presenza di un intervento normativo ascrivibile all’esercizio di potestà legislativa esclusiva spettante allo Stato, affinché una censura basata sulla violazione indiretta delle competenze regionali sia ammissibile, occorre che essa sia adeguatamente argomentata.

7.8.– Alla luce dei suddetti criteri, le questioni aventi a oggetto l’art. 1 del d.l. n. 113 del 2018 non sono ammissibili.

Il vizio di incostituzionalità della legge statale lamentato dalle ricorrenti consisterebbe in una illegittima restrizione dei titoli di soggiorno e nella conseguente illegittima esclusione di una quota di persone dal novero della popolazione regolarmente residente sul territorio e beneficiaria delle prestazioni sociali erogate dalle Regioni (e dagli enti locali). Tutte le censure danno per certo che l’effetto concreto delle disposizioni impugnate sia quello di ridurre il numero dei titolari di un regolare permesso di soggiorno. Tuttavia tale motivazione non è sufficiente a dimostrare la ridondanza in concreto sulle competenze regionali, alla luce del dato normativo come sopra illustrato. Gli argomenti addotti dalle ricorrenti si basano sull’assunto indimostrato che il passaggio da un permesso di soggiorno generale e atipico, per «seri motivi di carattere umanitario», a una serie di «casi speciali», comporti di per sé una restrizione della protezione complementare contraria a Costituzione.

Invero, l’effettiva portata dei nuovi permessi speciali potrà essere valutata solo in fase applicativa, nell’ambito della prassi amministrativa e giurisprudenziale che andrà formandosi, in relazione alle esigenze dei casi concreti e alle singole fattispecie che via via si presenteranno. In proposito, è appena il caso di osservare che l’interpretazione e l’applicazione dei nuovi istituti, in sede sia amministrativa che giudiziale, sono necessariamente tenute al rigoroso rispetto della Costituzione e dei vincoli internazionali, nonostante l’avvenuta abrogazione dell’esplicito riferimento agli «obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano» precedentemente contenuto nell’art. 5, comma 6, del t.u. immigrazione.

In questo senso, del resto, si è espresso, in sede di emanazione del decreto impugnato, il Presidente della Repubblica il quale, nella lettera indirizzata al Presidente del Consiglio dei ministri il 4 ottobre 2018, ha sottolineato che «restano "fermi gli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato”, pur se non espressamente richiamati nel testo normativo, e, in particolare, quanto direttamente disposto dall’art. 10 della Costituzione e quanto discende dagli impegni internazionali assunti dall’Italia». Anche la stessa relazione illustrativa del disegno di legge di conversione conferma che l’intervento legislativo si muove nel solco tracciato dagli obblighi costituzionali e internazionali della Repubblica, da esso, appunto, in nessun modo menomati.

La doverosa applicazione del dato legislativo in conformità agli obblighi costituzionali e internazionali potrebbe rivelare che il paventato effetto restrittivo rispetto alla disciplina previgente sia contenuto entro margini costituzionalmente accettabili. Diversamente questa Corte potrà essere adita in via incidentale, restando ovviamente impregiudicata, all’esito della presente pronuncia, ogni ulteriore valutazione di legittimità costituzionale della disposizione in esame.

Dato quindi il carattere ipotetico e meramente eventuale delle questioni, così come prospettate dalle ricorrenti, non può dirsi dimostrato l’illegittimo condizionamento indiretto delle competenze regionali denunciato nei ricorsi.

7.9.– Va ricordato, infine, che, anche qualora le norme statali impugnate producessero l’effetto di escludere una parte delle persone che in precedenza avrebbe avuto diritto al permesso umanitario dal godimento dei nuovi permessi speciali, non sarebbe comunque impedito oggi alle Regioni di continuare a offrire alle medesime persone le prestazioni in precedenza loro assicurate nell’esercizio delle proprie competenze legislative concorrenti o residuali.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte, infatti, le Regioni possono erogare prestazioni anche agli stranieri in posizione di irregolarità e possono farlo senza che ciò interferisca in alcun modo con le regole per il rilascio del permesso di soggiorno, che restano riservate alla legge statale sulla base della competenza esclusiva in materia di «immigrazione» e «diritto di asilo» (in particolare le sentenze n. 61 e del 2011 e n. 269 del 2010) Le Regioni, del resto, non offrono elementi concreti «in relazione all’entità della compressione finanziaria» (sentenza n. 79 del 2018) che potrebbe derivare da scelte di questo tipo.

Anche sotto questi profili, dunque, le ragioni addotte dalle ricorrenti a sostegno della "ridondanza” non consentono di superare il vaglio di ammissibilità.

8.– Le Regioni Umbria, Emilia-Romagna, Marche e Calabria promuovono questioni di legittimità costituzionale dell’art. 12 del d.l. n. 113 del 2018, avanzando censure variamente articolate, illustrate nel Ritenuto in fatto.

8.1.– Come già evidenziato in relazione all’art. 1 del d.l. n. 113 del 2018, lo scrutinio di tali censure impone l’individuazione dell’ambito materiale al quale va ascritta la disposizione impugnata.

Ciò implica la necessità di una, sia pur sintetica, ricostruzione della disciplina normativa del sistema italiano di accoglienza dei richiedenti asilo.

8.2.– Prima delle modifiche apportate dal cosiddetto decreto sicurezza, l’accoglienza dei richiedenti asilo – all’esito di un percorso evolutivo caratterizzato dalla necessità di gestire "in emergenza” afflussi massicci di cittadini stranieri sul territorio nazionale – era imperniata, in forza delle previsioni del decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142 (Attuazione della direttiva 2013/33/UE recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale, nonché della direttiva 2013/32/UE, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale), su un sistema articolato in più fasi e finanziato dal Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo (d’ora innanzi: FNPSA), istituito dall’art. 1-septies del decreto-legge 30 dicembre 1989, n. 416 (Norme urgenti in materia di asilo politico, di ingresso e soggiorno dei cittadini extracomunitari e di regolarizzazione dei cittadini extracomunitari ed apolidi già presenti nel territorio dello Stato), convertito, con modificazioni, in legge 28 febbraio 1990, n. 39, e successivamente modificato dalla legge 30 luglio 2002, n. 189 (Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo).

Una fase iniziale, dedicata al soccorso, all’assistenza immediata e all’identificazione, si svolgeva nell’ambito di centri governativi situati in corrispondenza dei luoghi maggiormente interessati dagli afflussi (art. 8, comma 2, del d.lgs. n. 142 del 2015). A essa seguiva una fase di prima accoglienza, riservata alla verbalizzazione della domanda di protezione e all’avvio della procedura di esame della stessa, nonché all’accertamento delle condizioni di salute del cittadino straniero: pure tale fase si svolgeva in centri governativi (art. 9 del d.lgs. n. 142 del 2015), anche istituiti in via straordinaria (art. 11 del d.lgs. n. 142 del 2015). La procedura contemplava, infine, il passaggio alla fase di cosiddetta seconda accoglienza: gli stranieri che avessero formalizzato la domanda di asilo e fossero privi di mezzi di sussistenza adeguati, venivano avviati (ai sensi dell’art. 14 del d.lgs. n. 142 del 2015) nelle strutture territoriali che costituivano il Sistema di protezione per i richiedenti asilo e i rifugiati (d’ora innanzi: SPRAR), previsto dall’art. 1-sexies del d.l. n. 416 del 1989, come convertito e successivamente modificato. Tale sistema era affidato agli enti locali, aderenti a esso su base volontaria, previa approvazione di progetti finanziati quasi per intero dal Ministero dell’interno e finalizzati all’inclusione ed integrazione sociale dei soggetti ospitati, grazie ad attività e servizi la cui erogazione era comunque limitata nel tempo, anche per la scarsità dei posti a disposizione rispetto ai soggetti in accoglienza.

L’art. 12 del d.l. n. 113 del 2018 modifica tale sistema, con un complesso reticolo di innovazioni incidenti sia sul d.l. n. 416 del 1989 sia sul d.lgs. n. 142 del 2015.

In linea generale, può affermarsi che lo scopo dell’intervento legislativo è quello di riservare i progetti di integrazione e inclusione sociale, attivati nell’ambito della cosiddetta seconda fase del sistema di accoglienza territoriale previsto dall’articolo 1-sexies del d.l. n. 416 del 1989, come convertito e successivamente modificato, esclusivamente ai soggetti già titolari di protezione internazionale, ai minori stranieri non accompagnati nonché ai titolari di specifici permessi di soggiorno individuati dal cosiddetto decreto sicurezza, che hanno sostituito, come si è visto, il permesso di soggiorno per motivi umanitari.

L’accoglienza dei richiedenti asilo, invece, è assicurata esclusivamente dai centri governativi attivati ai sensi degli articoli 9 e 11 del d.lgs. n. 142 del 2015.

Il comma 1 dell’art. 12 interviene sull’art. 1-sexies del d.l. n. 416 del 1989, modificandone, in particolare, il primo comma, nel senso di restringere la platea di coloro che possono accedere ai servizi territoriali locali (cosiddetti di seconda accoglienza), ora limitata agli stranieri che abbiano un titolo tendenzialmente stabile e definitivo a permanere sul territorio dello Stato.

Viene riformulato anche il comma 2 dell’art. 1-sexies del citato d.l. n. 416 del 1989, che disciplina il finanziamento dei progetti presentati dagli enti locali: la nuova disposizione stabilisce, in particolare, che, con decreto del Ministro dell’interno, sentita la Conferenza unificata (che si specifica debba esprimersi entro trenta giorni) sono definiti i criteri e le modalità per la presentazione da parte degli enti locali delle domande di contributo per la realizzazione e la prosecuzione dei progetti di accoglienza; sempre con decreto del Ministro dell’interno si provvede poi all’ammissione al finanziamento dei progetti presentati dagli enti locali, nei limiti delle risorse disponibili del FNPSA.

Si provvede, inoltre, a ridenominare lo SPRAR in «Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per i minori stranieri non accompagnati» (d’ora innanzi: SIPROIMI).

Il comma 2 dell’art. 12 del d.l. n. 113 del 2018 interviene invece sul d.lgs. n. 142 del 2015, in modo da ristrutturare l’impianto complessivo del sistema di accoglienza, nel senso di espungere i frammenti normativi che facevano riferimento ai richiedenti asilo in relazione alle strutture ex SPRAR, alle quali tali soggetti non hanno più accesso.

Per quanto d’interesse in questa sede, viene eliminata, sempre rispetto ai richiedenti asilo, la distinzione tra la fase di prima accoglienza assicurata nelle strutture governative e la fase di seconda accoglienza nelle strutture gestite dagli enti locali, alle quali ultime i richiedenti protezione internazionale non hanno più accesso.

Viene riformulato l’art. 14 del d.lgs. n. 142 del 2015, sin dalla sua rubrica, che non è più dedicata alla disciplina del «Sistema di accoglienza territoriale», ma alle «Modalità di accesso al sistema di accoglienza». Vengono puntualmente abrogate le parti concernenti l’ex SPRAR e, all’esito delle modifiche introdotte, la disposizione prevede che il richiedente che ha formalizzato la domanda e che risulta privo di mezzi sufficienti a garantire una qualità di vita adeguata al sostentamento proprio e dei propri familiari, ha accesso, con questi ultimi, alle misure di accoglienza disciplinate dal medesimo decreto (ossia a quelle garantite dai centri governativi di accoglienza di cui agli artt. 9 e 11).

Dell’art. 22 del d.lgs. n. 142 del 2015, che disciplina il lavoro e la formazione professionale per i richiedenti asilo, viene abrogato il comma 3, che prevedeva, per questi ultimi, la possibilità di frequentare corsi di formazione professionale, eventualmente previsti dal programma dell’ente locale nell’ambito del servizio territoriale di accoglienza.

Infine, ed analogamente, l’art. 22-bis del d.lgs. n. 142 del 2015, che disciplina la partecipazione ad attività di utilità sociale, viene novellato, con la sostituzione nei commi 1 e 3 dell’espressione «richiedenti protezione internazionale» con l’espressione «titolari di protezione internazionale».

I commi 5, 5-bis e 6 dell’art. 12 del d.l. n. 113 del 2018 contengono disposizioni transitorie, dedicate a coloro che fossero già accolti nell’ambito del sistema SPRAR alla data di entrata in vigore del cosiddetto decreto sicurezza.

Nel caso dei richiedenti asilo (comma 5) si prevede che essi rimangano nel sistema ex SPRAR fino alla scadenza del progetto di accoglienza in corso già finanziato. Viene ribadita la continuità dell’accoglienza per i neo maggiorenni richiedenti asilo (comma 5-bis) fino alla definizione della domanda di protezione internazionale. Infine, quanto ai titolari di protezione umanitaria (comma 6), si prevede che essi restino all’interno dell’ex SPRAR fino alla scadenza del periodo previsto dalle disposizioni di attuazione sul funzionamento del sistema medesimo e comunque non oltre la scadenza del progetto di accoglienza.

Il comma 7 dell’art. 12, infine, prevede una clausola di neutralità finanziaria.

8.3.– Le Regioni ricorrenti, in generale, ascrivono la disciplina impugnata alla materia «immigrazione», di cui all’art. 117, secondo comma, lettera b), Cost., di competenza esclusiva statale.

Si è già osservato che la giurisprudenza di questa Corte riconduce alla materia «immigrazione», tra l’altro, gli interventi pubblici connessi alla programmazione dei flussi di ingresso ovvero al soggiorno degli stranieri nel territorio nazionale.

Come illustrato in precedenza – e come confermato dalla relazione di accompagnamento al disegno di legge di conversione del decreto-legge – la normativa in esame non già si occupa dei flussi di ingresso degli stranieri sul territorio nazionale, né semplicemente regola le condizioni del loro soggiorno su di esso. Essa ha invece di mira l’esigenza di riservare prioritariamente l’accesso al sistema finalizzato all’integrazione a quei soggetti la cui condizione è connotata da una tendenziale stabilità, derivante dall’accoglimento della richiesta di protezione internazionale.

Il filo conduttore delle molteplici disposizioni di cui si compone il censurato art. 12, in particolare, è ravvisabile nella rimodulazione della platea di soggetti legittimati a usufruire dei servizi di inclusione e integrazione offerti dalle strutture territoriali, in base ai progetti finanziati, quasi per l’intero, con le risorse del FNPSA.

L’art. 12 del d.l. n. 113 del 2018, dunque, presenta alcune connessioni con il fenomeno migratorio, e le Regioni ricorrenti non errano quando individuano, come ambito materiale parzialmente coinvolto, quello dell’«immigrazione» (art. 117, secondo comma, lettera b, Cost.). Tuttavia, l’intervento normativo di cui si ragiona deve essere inquadrato soprattutto nelle materie «diritto d’asilo» e «condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea» contemplate dall’art. 117, secondo comma, lettera a), Cost., sempre di competenza esclusiva statale. Con ogni evidenza, la disposizione censurata disciplina, infatti, il trattamento di coloro che – una volta fatto ingresso nel territorio dello Stato – richiedono all’Italia protezione internazionale.

8.4.– La riconducibilità dell’art. 12 del d.l. n. 113 del 2018 a materie comunque attribuite alla potestà legislativa esclusiva dello Stato esclude anche in questo caso la configurabilità di violazioni dirette del riparto di competenze disegnato dal Titolo V, Parte II, della Costituzione.

Vero che, secondo la giurisprudenza costituzionale (da ultimo, sentenza n. 2 del 2013), in linea di principio, è riconosciuta la possibilità di interventi legislativi delle Regioni e delle Province autonome con riguardo al fenomeno dell’immigrazione, in relazione ad ambiti materiali – dall’assistenza sociale all’istruzione, dalla salute all’abitazione – attribuiti alla competenza concorrente e residuale delle Regioni (sentenze n. 299 e n. 134 del 2010, n. 156 del 2006, n. 300 del 2005).

Come si è chiarito, tuttavia, si è nel caso di specie al cospetto di un intervento normativo pienamente ascrivibile all’esercizio di plurime competenze esclusive statali, come, del resto, riconosciuto dalle stesse Regioni ricorrenti.

Ne consegue che le censure mosse nei confronti dell’art. 12 prospettano, a ben vedere, lesioni indirette di competenza, in conseguenza della violazione di parametri estranei al Titolo V, Parte II, della Costituzione.

Tale ricostruzione è, del resto, coerente con l’impianto dei ricorsi regionali. Tutte le Regioni ricorrenti hanno, infatti, individuato, in primo luogo, ambiti di propria competenza (o di competenza degli enti locali, le cui attribuzioni esse sono abilitate a tutelare nel giudizio costituzionale), nei quali avrebbero concretamente esercitato funzioni legislative e amministrative. In ciò risiede la ragione dell’evocazione dei parametri di cui agli artt. 114, 117, terzo, quarto e sesto comma, 118, 119 e 120 Cost. In secondo luogo, lamentano che tali ambiti sarebbero stati indirettamente incisi dalla normativa impugnata, ritenuta costituzionalmente illegittima per violazione di parametri estranei al Titolo V, Parte II, della Costituzione.

I parametri costituzionali evocati sono, oltre all’art. 77, gli artt. 3 e 97 Cost., che presidiano i principi di ragionevolezza e buon andamento della pubblica amministrazione; l’art. 2 Cost., che garantisce tutela ai diritti fondamentali delle persone; gli artt. 4 e 35 Cost., sul diritto al lavoro; gli artt. 10, 11 e 117, primo comma, Cost. in riferimento al rispetto degli obblighi internazionali ed europei, e in relazione a diversi parametri interposti, costituiti da norme della CEDU e da norme di diritto dell’Unione.

8.5.– Ciò posto, tutte le questioni sollevate sono inammissibili, come eccepito dall’Avvocatura generale dello Stato, per difetto di motivazione sull’asserita lesione indiretta delle competenze delle Regioni e degli enti locali.

Secondo la già menzionata giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 145 del 2016; in senso analogo, successivamente, sentenze n. 198 e n. 137 del 2018), le questioni sollevate dalle Regioni in riferimento a parametri non attinenti al riparto delle competenze statali e regionali «sono ammissibili al ricorrere di due concomitanti condizioni: in primo luogo, la ricorrente deve individuare gli ambiti di competenza regionale – legislativa, amministrativa o finanziaria – incisi dalla disciplina statale, indicando le disposizioni costituzionali sulle quali, appunto, trovano fondamento le proprie competenze in tesi indirettamente lese (ex plurimis, sentenze n. 83 e n. 65 del 2016, n. 251 e n. 89 del 2015); e, in secondo luogo, la Corte deve ritenere che sussistano competenze regionali suscettibili di essere indirettamente lese dalla disciplina impugnata (ex plurimis, sentenze n. 220 e n. 219 del 2013). Ciò si verifica quando la disposizione statale, pur conforme al riparto costituzionale delle competenze, obbligherebbe le Regioni – nell’esercizio di altre loro attribuzioni normative, amministrative o finanziarie – a conformarsi a una disciplina legislativa asseritamente incostituzionale, per contrasto con parametri, appunto, estranei a tale riparto».

Pertanto, come pure già detto, affinché una censura siffatta sia ammissibile, in presenza di un intervento normativo ascrivibile all’esercizio di potestà legislativa esclusiva spettante allo Stato, occorre che venga enunciata e adeguatamente argomentata la compressione degli spazi di autonomia pur sempre spettanti alle Regioni nell’ambito del complesso fenomeno di governo dell’immigrazione.

Negli odierni giudizi, le Regioni ricorrenti hanno prospettato, come effetto delle disposizioni impugnate, la lesione indiretta delle proprie competenze (e di quelle degli enti locali), in particolare in relazione a una determinata categoria di soggetti, costituita dai richiedenti asilo, oggi esclusi dal sistema territoriale di accoglienza. Esse asseriscono che l’esercizio di tali competenze, in relazione a tale categoria di soggetti, sarebbe del tutto «impedito», ovvero «condizionato» – nel senso che sarebbe loro imposto di esercitare le suddette funzioni in modo costituzionalmente illegittimo, con lesione di parametri appunto non attinenti al riparto delle competenze statali e regionali – oppure, ancora, «aggravato» sul piano finanziario.

Tuttavia, la motivazione che esse adducono a sostegno delle censure non appare adeguata, alla luce dello stesso dato normativo come in precedenza illustrato.

Come sottolineato anche dalla difesa statale, a seguito dell’entrata in vigore della disposizione impugnata, il sistema territoriale di accoglienza resta, infatti, sostanzialmente invariato, per quanto riguarda la sua organizzazione, l’ampiezza della rete territoriale e le modalità di accesso a tale sistema da parte degli enti locali.

Oggetto di modifica risulta essere la platea dei soggetti ammessi a beneficiare dell’accoglienza territoriale. Va da sé che questo dato è tutt’altro che secondario o irrilevante, poiché, ora, i richiedenti asilo non accedono, alle stesse condizioni precedenti, alla seconda fase del sistema di accoglienza. Su questo aspetto, ogni ulteriore valutazione di legittimità costituzionale resta ovviamente impregiudicata. Quel che in questa sede rileva è che nessuna delle norme impugnate importa obblighi, divieti o condizionamenti, a carico delle Regioni e dei Comuni, tali da impedire loro di esercitare, anche a favore dei richiedenti asilo – al di fuori del sistema territoriale di accoglienza – le proprie attribuzioni legislative o amministrative, nelle (più sopra indicate) materie di competenza concorrente o residuale, ovvero tali da costringerli a esercitare dette attribuzioni secondo modalità costituzionalmente illegittime per lesione di parametri costituzionali non attinenti al riparto delle competenze statali o regionali.

Restano pienamente in vigore, infatti, tutte le norme del d.lgs. n. 286 del 1998 che consentono, ed anzi auspicano, interventi siffatti in favore dei cittadini stranieri in genere.

L’art. 3, comma 5, del d.lgs. n. 286 del 1998, ad esempio, autorizza Regioni, Province e Comuni, nell’ambito delle rispettive attribuzioni e dotazioni di bilancio, ad adottare provvedimenti concorrenti al perseguimento dell’obiettivo di rimuovere gli ostacoli che di fatto impediscono il pieno riconoscimento dei diritti e degli interessi riconosciuti agli stranieri nel territorio dello Stato, con particolare riguardo a quelli inerenti all’alloggio, alla lingua, all’integrazione sociale, nel rispetto dei diritti fondamentali della persona umana.

L’art. 40 del medesimo decreto, ancora, dispone che le Regioni, in collaborazione con le Province e con i Comuni e con le associazioni e le organizzazioni di volontariato, predispongono centri di accoglienza destinati a ospitare, anche in strutture per ospitare cittadini italiani o cittadini di altri Paesi dell’Unione europea, stranieri regolarmente soggiornanti (quali sono appunto i richiedenti asilo) per motivi diversi dal turismo, che siano temporaneamente impossibilitati a provvedere autonomamente alle proprie esigenze alloggiative e di sussistenza; in tali centri di accoglienza le Regioni provvedono, ove possibile, ai servizi sociali e culturali idonei a favorire l’autonomia e l’inserimento sociale degli ospiti.

Il successivo art. 42, dal canto suo, prevede che lo Stato, le Regioni, le Province e i Comuni, nell’ambito delle proprie competenze, anche in collaborazione con le associazioni di stranieri e con le organizzazioni stabilmente operanti in loro favore, nonché in collaborazione con le autorità o con enti pubblici e privati dei Paesi di origine, favoriscono una serie di attività di tipo sociale e assistenziale volte, tra l’altro, all’effettuazione di corsi della lingua e della cultura di origine, alla diffusione di ogni informazione utile al positivo inserimento nella società italiana degli stranieri medesimi, alla conoscenza e alla valorizzazione delle espressioni culturali, ricreative, sociali, economiche e religiose degli extracomunitari regolarmente soggiornanti.

È ben vero che Regioni e Comuni, se riterranno di intervenire, dovranno reperire ulteriori risorse. Da un lato, tuttavia, ciò non sorprende, poiché si tratterebbe del necessario ricorso al potere di spesa, sulla base di scelte di priorità di natura politica compiute in ambito regionale; dall’altro, non possono che corrispondentemente sottrarsi alle censure regionali le pertinenti scelte di priorità di spesa compiute dal legislatore statale, in settori di sua esclusiva competenza.

In ogni caso, anche ad ammettere che scelte statali di questa natura possano incidere negativamente sulle Regioni, la motivazione dei ricorsi non raggiunge la soglia che consente l’accesso allo scrutinio di merito. Anche sotto questo specifico profilo, infatti, la motivazione che nei ricorsi dovrebbe giustificare la ridondanza, in termini di lesione dell’autonomia finanziaria presidiata dall’art. 119 Cost., non assurge al livello di completezza sufficiente a superare la soglia dell’ammissibilità.

Questa Corte, ancora di recente (sentenza n. 79 del 2018), ha ritenuto ben possibile motivare anche tramite l’indicazione dell’art. 119 Cost. la ridondanza di questioni sollevate su parametri costituzionali che non riguardano la ripartizione di competenze tra Stato e Regioni. Tuttavia, ha ritenuto necessario che, in questi casi, la Regione ricorrente «argomenti in concreto in relazione all’entità della compressione finanziaria lamentata e alla sua concreta incidenza sull’attività di competenza regionale». Ha perciò dichiarato inammissibili questioni promosse attraverso censure che lamentavano effetti negativi sulle finanze regionali meramente «generici e congetturali», poiché ciò rendeva solo astrattamente configurata e del tutto immotivata in concreto la pretesa lesione dell’esercizio delle funzioni amministrative regionali.

Stante l’assenza, in ciascuno dei ricorsi, di idonee considerazioni in materia, tali affermazioni sono agevolmente estensibili anche agli odierni giudizi, sicché le questioni promosse nei confronti dell’art. 12 del d.l. n. 113 del 2018 devono essere dichiarate inammissibili per difetto di motivazione sull’asserita lesione indiretta delle competenze delle Regioni e degli enti locali.

9.– Le Regioni Umbria, Emilia-Romagna, Marche, Toscana e Calabria impugnano l’art. 13, comma 1, lettera a), numero 2), del d.l. n. 113 del 2018; le Regioni Umbria, Emilia-Romagna e Calabria anche le lettere b) e c) del comma 1 dell’art. 13; la Regione Marche anche la lettera c) dello stesso comma. Le ricorrenti formulano censure variamente articolate sia rispetto a parametri relativi al riparto di competenze tra Stato e Regioni sia in relazione a parametri ulteriori, per la cui illustrazione si rinvia a quanto riportato nel Ritenuto in fatto.

Anche in questo caso si rende preliminarmente necessario individuare l’ambito materiale di pertinenza delle norme impugnate, al fine di verificare l’ammissibilità delle censure promosse in relazione a parametri diversi da quelli relativi al riparto di competenze. è dunque opportuna una, sia pure sintetica, ricostruzione del quadro normativo in cui le disposizioni impugnate si inseriscono.

9.1.– L’art. 13 del d.l. n. 113 del 2018 apporta una serie di modifiche agli artt. 4 e 5 del decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142 (Attuazione della direttiva 2013/33/UE recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale, nonché della direttiva 2013/32/UE, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale), e ne abroga l’art. 5-bis.

In particolare, l’art. 13 impugnato si compone di un solo comma, che è articolato, al suo interno, in tre lettere (a, b e c).

La lettera a) modifica l’art. 4 del d.lgs. n. 142 del 2015 e reca due disposizioni (contraddistinte dai numeri 1 e 2): con la prima (che non è oggetto di impugnazione) è aggiunto il seguente periodo al comma 1 del citato art. 4: «Il permesso di soggiorno costituisce documento di riconoscimento ai sensi dell’articolo 1, comma 1, lettera c), del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445.» (numero 1); con la seconda (che è impugnata da tutte le Regioni ricorrenti) è inserito, dopo il comma 1 del citato art. 4, il comma 1-bis del seguente tenore: «Il permesso di soggiorno di cui al comma 1 non costituisce titolo per l’iscrizione anagrafica ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223, e dell’articolo 6, comma 7, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286.» (numero 2).

La lettera b) modifica l’art. 5 del d.lgs. n. 142 del 2015 e reca due disposizioni (contraddistinte dai numeri 1 e 2, espressamente impugnate dalle Regioni Umbria, Emilia-Romagna e Calabria ma implicitamente anche dalle altre ricorrenti): con la prima è così sostituito il comma 3 del citato art. 5: «L’accesso ai servizi previsti dal presente decreto e a quelli comunque erogati sul territorio ai sensi delle norme vigenti è assicurato nel luogo di domicilio individuato ai sensi dei commi 1 e 2.» (numero 1); con la seconda è così modificato il comma 4 del citato art. 5: «le parole "un luogo di residenza” sono sostituite dalle seguenti: "un luogo di domicilio”» (numero 2).

Infine, la lettera c) dispone l’abrogazione dell’art. 5-bis del d.lgs. n. 142 del 2015, che disciplinava le modalità di iscrizione anagrafica del richiedente protezione internazionale.

9.2.– Dal contenuto sopra descritto delle disposizioni recate dall’art. 13 del d.l. n. 113 del 2018, e in particolare di quelle fatte oggetto di impugnazione, emerge con chiarezza che le stesse devono essere lette congiuntamente, costituendo, ciascuna, un frammento di un quadro normativo unitario per ratio e per contenuto, come confermato dal fatto che le lettere a), b) e c) del comma 1 del citato art. 13 incidono su tre disposizioni (a loro volta consecutive) del d.lgs. n. 142 del 2015 (artt. 4, 5 e 5-bis).

Altrettanto chiaramente risulta che le stesse disposizioni vanno ricondotte agli ambiti di competenza legislativa esclusiva dello Stato relativi a «diritto di asilo e condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea» (art. 117, secondo comma, lettera a, Cost.) e alle «anagrafi» (art. 117, secondo comma, lettera i, Cost.). Argomenti decisivi in tal senso sono: la sedes materiae (d.lgs. n. 142 del 2015, relativo, tra l’altro, all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale) in cui si inseriscono le disposizioni impugnate; lo specifico tenore letterale dell’art. 13, comma 1, lettera a), numero 2), che richiama la disciplina dell’iscrizione anagrafica; l’interpretazione sistematica del Capo II del Titolo I del d.l. n. 113 del 2018, recante «Disposizioni in materia di protezione internazionale», oltre che dello stesso Titolo I, recante «Disposizioni in materia di rilascio di speciali permessi di soggiorno temporanei per esigenze di carattere umanitario nonché in materia di protezione internazionale e di immigrazione». D’altra parte, che le norme impugnate siano da ricondurre a tali competenze legislative statali non è negato dalle ricorrenti (ed è anzi espressamente riconosciuto nel ricorso dell’Emilia Romagna).

Nemmeno è rinvenibile una incidenza delle stesse disposizioni sulle competenze amministrative proprie dei Comuni, posto che i servizi gestiti dai Comuni in materia di anagrafe restano pur sempre «servizi di competenza statale» (così la rubrica dell’art. 14 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 «Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali») e le relative funzioni sono esercitate dal sindaco «quale ufficiale di Governo».

Ciò nondimeno, le ricorrenti ritengono che, anche volendo escludere la sussistenza di una violazione diretta delle competenze regionali e degli enti locali, le norme impugnate – in ragione del fatto che la legislazione regionale e quella statale prevedono la residenza come presupposto per l’accesso e il godimento di taluni servizi erogati dalle Regioni e dagli enti locali – comportino una indiretta lesione delle loro competenze e di quelle degli enti locali e su questo presupposto ne lamentano l’illegittimità in relazione all’art. 77 Cost., per quanto riguarda l’impugnazione della Regione Umbria, e agli artt. 2, 3, 5, 10, terzo comma, 32, 34, 35 e 97 Cost., oltre che alle norme del diritto dell’Unione europea e ai trattati internazionali richiamati sopra.

Le Regioni ricorrenti fondano, dunque, la loro legittimazione a ricorrere sulla ricaduta indiretta, su ambiti in cui le stesse hanno competenza, di una normativa, quella concernente le modalità di iscrizione anagrafica dei richiedenti protezione internazionale, riconducibile a materie di potestà legislativa esclusiva dello Stato. Tale ricaduta si collegherebbe all’inevitabile condizionamento che le disposizioni censurate produrrebbero sulla platea dei destinatari dei servizi previsti dalla normativa regionale a favore dei residenti (dai quali dovrebbero essere esclusi i richiedenti asilo).

La motivazione svolta dalle ricorrenti si snoda, quindi, attraverso un doppio passaggio argomentativo: il primo è volto a rappresentare una ricaduta indiretta della normativa impugnata sulle competenze regionali in materia di salute, istruzione, formazione professionale, servizi e politiche sociali; il secondo a dimostrare la violazione di parametri costituzionali diversi da quelli attinenti al riparto di competenze.

Con riferimento a tale profilo dei gravami regionali – e ribadita l’impossibilità di ascrivere le disposizioni censurate ad ambiti materiali rimessi in tutto o in parte alle Regioni – si deve richiamare quanto osservato supra con riferimento alle impugnazioni già esaminate, e cioè che, in astratto, non può escludersi che, nei casi in cui sussista una lesione ancorché mediata delle loro attribuzioni costituzionali, le Regioni siano legittimate a contestare norme statali per violazione di parametri costituzionali diversi da quelli attinenti al riparto di competenze. Come più volte ricordato, questa Corte ha, infatti, variamente configurato le forme e i modi della «ridondanza» sulle competenze regionali di questioni aventi a oggetto una normativa statale, giungendo a ritenere ammissibili anche questioni promosse avverso disposizioni riconducibili ad ambiti materiali riservati allo Stato (tra le più recenti, sentenze n. 139, 73 e 17 del 2018, n. 170 del 2017).

In questi casi, tuttavia, come già precisato sopra, grava sulla Regione ricorrente un onere motivazionale particolare, ossia quello di dimostrare, in concreto, ragioni e consistenza della lesione indiretta delle proprie competenze, non essendo sufficiente l’indicazione in termini meramente generici o congetturali di conseguenze negative per l’esercizio delle attribuzioni regionali.

Questo necessario passaggio argomentativo risulta carente nei ricorsi introduttivi del presente giudizio, che si limitano a postulare un’astratta attitudine delle norme contestate a incidere su ambiti assegnati alla Regione e agli enti locali, ma di tale incidenza non danno conto in maniera che essa possa essere valutata da questa Corte. Né a tali fini risulta decisivo il fatto (ripetutamente messo in evidenza nei ricorsi) che numerose leggi delle Regioni ricorrenti prevedono l’erogazione di servizi a favore dei residenti, dando con ciò rilievo al requisito della residenza. Sebbene si tratti di normativa emanata nell’esercizio delle competenze legislative regionali in materia di sanità, istruzione, formazione professionale e politiche sociali, resta indimostrata la ridondanza su tali attribuzioni delle questioni fatte valere nel presente giudizio, le quali, come visto, attengono allo status del richiedente protezione internazionale.

Da quanto precede deriva un difetto di motivazione sulla ridondanza delle prospettate censure sulle competenze regionali e degli enti locali, con la conseguenza che, restando impregiudicata ogni altra valutazione della legittimità costituzionale delle disposizioni contestate, le stesse censure non superano il vaglio dell’ammissibilità.

Le questioni promosse devono essere, quindi, dichiarate inammissibili.

10.– Dalle considerazioni che precedono consegue infine l’inammissibilità delle censure prospettate con riguardo alla violazione del principio di leale collaborazione, di cui agli artt. 5 e 120 Cost.

Questa Corte ha costantemente affermato che il principio di leale cooperazione viene in rilievo negli ambiti in cui si verifica un intreccio di competenze statali e regionali (da ultima e per tutte, sentenza n. 161 del 2019).

Come risulta dall’analisi sin qui svolta, nel caso in esame il legislatore statale ha invece esercitato le competenze che la Costituzione gli ha attribuito in via esclusiva in materia di diritto di asilo, condizione giuridica dello straniero, immigrazione e anagrafi, sicché il principio di leale cooperazione non è stato correttamente invocato.

Vero è che questa Corte ha affermato che l’accoglienza dei migranti prevede l’intervento coordinato di Stato e Regioni, ciascuno nel proprio ambito di competenza (sentenze n. 2 del 2013, n. 61 del 2011, n. 299 e n. 134 del 2010, n. 156 del 2006 e n. 300 del 2005). A tal fine, tuttavia, l’art. 118, terzo comma, Cost. nella materia dell’«immigrazione» contempla l’ipotesi di «forme di coordinamento fra Stato e Regioni», stabilite dalla legge statale, soltanto a valle, e cioè in relazione all’esercizio delle funzioni amministrative, e non a monte, in relazione all’esercizio della stessa funzione legislativa statale che è, e rimane, di competenza esclusiva dello Stato.

In ogni caso, nella fattispecie in esame, il legislatore statale è intervenuto con lo strumento del decreto-legge ed è appena il caso di sottolineare che la natura e le caratteristiche di tale atto, come risultano dall’art. 77 Cost., escludono in radice la possibilità di prevedere forme di consultazione delle Regioni nell’ambito della decretazione d’urgenza.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riservata a separate pronunce la decisione delle altre questioni di legittimità costituzionale promosse con i ricorsi indicati in epigrafe;

riuniti i giudizi,

1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1, 12 e 13 del decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113 (Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata), convertito, con modificazioni, in legge 1° dicembre 2018, n. 132, promosse dalle Regioni Umbria, Emilia-Romagna, Marche, Toscana e Calabria, in riferimento agli artt. 2, 3, 4, 5, 10, secondo e terzo comma, 31, 32, 34, 35, 77, secondo comma, 97, 114, 117, terzo, quarto e sesto comma, 118 e 119 e 120 della Costituzione, nonché al principio di leale collaborazione e agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., in riferimento: agli artt. 2, 3, 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848; all’art. 2, comma 1, del Protocollo n. 4 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali; agli artt. 6, 10, comma 1, 12, comma 1, 17, 23 e 24 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici adottato a New York il 16 dicembre 1966, entrato in vigore il 23 marzo 1976, ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881; all’art. 26 della Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951, ratificata e resa esecutiva con legge 24 luglio 1954, n. 722; all’art. 5, comma 1, lettera b), del regolamento (UE) n. 516/2014 del Parlamento europeo e del Consiglio del 16 aprile 2014, che istituisce il Fondo Asilo, migrazione e integrazione, che modifica la decisione 2008/381/CE del Consiglio e che abroga le decisioni n. 573/2007/CE e n. 575/2007/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e la decisione 2007/435/CE del Consiglio; agli artt. 15, lettera c), e 18 della direttiva 2011/95 UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, recante norme sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonché sul contenuto della protezione riconosciuta (rifusione); alla direttiva 2013/33 UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale (rifusione), con i ricorsi indicati in epigrafe:

2) dichiara estinto il processo, relativamente alle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1, 12 e 13 del d.l. n. 113 del 2018, come convertito, promosse dalla Regione autonoma Sardegna, con il ricorso indicato in epigrafe;

3) dichiara estinto il processo, relativamente alle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 13 del d.l. n. 113 del 2018, come convertito, promosse dalla Regione Basilicata, con il ricorso indicato in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 giugno 2019.

F.to:

Giorgio LATTANZI, Presidente

Marta CARTABIA – Daria de PRETIS – Nicolò ZANON – Augusto BARBERA, Redattori

Filomena PERRONE, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 24 luglio 2019.