Sentenza n. 150 del 2019

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SENTENZA N. 150

ANNO 2019

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

Presidente: Giorgio LATTANZI;

Giudici: Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 17 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271 (Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale), promosso dal Tribunale amministrativo regionale per la Liguria nel procedimento vertente tra C. D. S. e il Ministero della giustizia e altro, con ordinanza del 6 aprile 2018, iscritta al n. 107 del registro ordinanze 2018 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 34, prima serie speciale, dell’anno 2018.

Visti l’atto di costituzione di C. D. S., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 21 maggio 2019 il Giudice relatore Daria de Pretis;

uditi l’avvocato Ardo Arzeni per C. D. S. e l’avvocato dello Stato Beatrice Gaia Fiduccia per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 6 aprile 2018, iscritta al n. 107 reg. ord. 2018, il Tribunale amministrativo regionale per la Liguria ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 17 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271 (Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale) in riferimento agli artt. 3 e 97, primo comma, della Costituzione, nella parte in cui non prevede che, nel procedimento disciplinare nei confronti degli ufficiali e degli agenti di polizia giudiziaria iniziato a seguito di condanna penale per i medesimi fatti oggetto di incolpazione, si applichino i termini per la promozione e la conclusione del procedimento stabiliti dall’art. 9, comma 2, della legge 7 febbraio 1990, n. 19 (Modifiche in tema di circostanze, sospensione condizionale della pena e destituzione dei pubblici dipendenti).

Le questioni sono sorte nel corso di un giudizio promosso da C. D. S., vice questore aggiunto della Polizia di Stato, per l’annullamento della decisione emessa il 27 ottobre 2014 dalla commissione competente a decidere sui ricorsi nei procedimenti disciplinari contro gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria. La decisione impugnata ha confermato la sanzione della sospensione per quattro mesi dall’impiego, irrogata a C. D. S. dalla commissione disciplinare presso la Corte di appello di Genova sulla base della sua condanna definitiva alla pena principale di tre anni e otto mesi di reclusione, nonché alla pena accessoria dell’interdizione temporanea per cinque anni dai pubblici uffici, per i reati di cui agli artt. 110, 61, numero 2), e 419 del codice penale, in relazione ai fatti verificatisi nella notte tra il 21 e il 22 luglio 2001 nell’istituto scolastico «Armando Diaz» durante il vertice “G8” di Genova.

Il giudice a quo riferisce che il ricorrente nel processo principale lamenta, tra l’altro, l’eccessiva durata del procedimento disciplinare e la violazione dei termini perentori per l’avvio, lo svolgimento e la conclusione del procedimento stesso, previsti dall’art. 9, comma 2, della legge n. 19 del 1990, alla cui stregua il «procedimento disciplinare […] deve essere proseguito o promosso entro centottanta giorni dalla data in cui l’amministrazione ha avuto notizia della sentenza irrevocabile di condanna e concluso nei successivi novanta giorni». Precisa che, nel caso di specie, tra la notizia della sentenza irrevocabile e la notifica dell’atto di incolpazione sarebbero trascorsi più di sette mesi e comunque sarebbe trascorso oltre un anno dall’avvio del procedimento fino alla sua conclusione.

1.1.– Le questioni sarebbero rilevanti, in quanto, né l’art. 17 censurato, né l’art. 127 del codice di procedura penale, in esso richiamato, prevedono termini perentori per l’avvio e la conclusione del procedimento disciplinare nei confronti degli ufficiali e degli agenti di polizia giudiziaria a seguito di una sentenza penale irrevocabile di condanna per gli stessi fatti addebitati nell’incolpazione. Il processo principale non potrebbe dunque essere definito indipendentemente dalla risoluzione delle questioni.

Neppure sarebbe possibile interpretare la norma censurata in senso costituzionalmente orientato, per la univocità del suo dato letterale e per la specialità del procedimento disciplinare regolato dagli artt. 16 e 17 delle norme att. cod. proc. pen., che non contempla la sanzione della destituzione, prevista invece dall’art. 9 della legge n. 19 del 1990, norma da assumere a tertium comparationis. Una diversa soluzione interpretativa, perseguita mediante «l’applicazione analogica» dei termini previsti in quest’ultima disposizione, «si tradurrebbe in un’inammissibile operazione additiva del dettato legislativo».

1.2.– La mancata previsione, nella norma censurata, di termini perentori per l’avvio e per la conclusione del procedimento, a pena di decadenza del potere disciplinare, determinerebbe un’ingiustificata disparità di trattamento degli ufficiali e degli agenti di polizia giudiziaria, in contrasto con i principi di uguaglianza e di ragionevolezza sanciti dall’art. 3 Cost., rispetto alla «generalità dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche in regime di diritto pubblico» di cui all’art. 3 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), e segnatamente rispetto al citato art. 9, comma 2, della legge n. 19 del 1990, che esprimerebbe lo «statuto» di tutti gli altri dipendenti pubblici.

Analoga disparità di trattamento sussisterebbe anche considerando la normativa dettata dall’art. 55-ter, comma 4, del d.lgs. n. 165 del 2001 per i dipendenti delle amministrazioni pubbliche in regime di diritto privato, la quale tuttavia, ad avviso del giudice a quo, non potrebbe fungere da tertium comparationis, «stante l’elemento differenziatore costituito dalla natura privatistica del relativo statuto giuridico».

A sostegno della non manifesta infondatezza della questione il rimettente richiama gli argomenti svolti da questa Corte nella sentenza n. 104 del 1991, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell’art. 3 Cost., il combinato disposto degli artt. 20, 64, 65, 72 e 74 della legge 31 luglio 1954, n. 599 (Stato dei sottufficiali dell’Esercito, della Marina e dell’Aeronautica), nella parte in cui non prevedevano che si applicassero anche al procedimento disciplinare instaurato nei confronti dei sottufficiali delle Forze armate, a seguito di una sentenza definitiva di proscioglimento o assoluzione con formula non liberatoria, i termini di avvio e di conclusione del procedimento disciplinare nei confronti dei dipendenti pubblici civili previsti dagli artt. 97, terzo comma, prima parte, 111, ultimo comma, e 120, primo comma, del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato).

1.3.– L’art. 17 delle norme att. cod. proc. pen. violerebbe anche il principio di buon andamento della pubblica amministrazione di cui all’art. 97, primo comma, Cost., sotto i profili dell’economicità e della speditezza dell’azione amministrativa, dei quali gli artt. 1, comma 2, 2 e 2-bis della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi) costituirebbero specifica applicazione

La fissazione per legge di termini perentori di inizio e fine del procedimento risponderebbe all’esigenza dell’incolpato a un tempestivo e sollecito svolgimento del procedimento disciplinare e, al contempo, all’interesse dell’amministrazione alla tutela della propria immagine e del proprio prestigio, potenzialmente appannati dal mancato o anche soltanto ritardato esercizio del potere disciplinare.

2.– Con atto depositato il 17 luglio 2018 si è costituito in giudizio il ricorrente nel processo principale, che ha concluso per l’accoglimento delle questioni, aderendo alle ragioni esposte dal giudice a quo.

3.– Con atto depositato il 18 settembre 2018 è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per l’infondatezza delle questioni.

Secondo l’Avvocatura, il giudice a quo non avrebbe adeguatamente vagliato la possibilità di interpretare la norma censurata in modo conforme a Costituzione.

Il procedimento descritto dall’art. 17 delle norme att. cod. proc. pen. avrebbe natura speciale, essendo diretto all’irrogazione delle sanzioni disciplinari – la censura e, nei casi più gravi, la sospensione dall’impiego per un tempo non eccedente i sei mesi – previste dal precedente art. 16 delle stesse norme di attuazione per gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria che abbiano violato le disposizioni di legge attinenti all’esercizio delle funzioni a essi affidate.

In assenza dell’indicazione, nella norma censurata, di termini iniziali e finali del procedimento disciplinare promosso (o proseguito dopo la sospensione) in seguito a sentenza penale irrevocabile di condanna per gli stessi fatti, troverebbe applicazione anche per tale procedimento la previsione generale dell’art. 5, comma 4, della legge 20 marzo 2001, n. 97 (Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato nei confronti dei dipendenti della pubblica amministrazione), secondo cui «[i]l procedimento disciplinare deve avere inizio o, in caso di intervenuta sospensione, proseguire entro il termine di novanta giorni dalla comunicazione della sentenza all’amministrazione o all’ente competente per il procedimento disciplinare» e «deve concludersi entro centottanta giorni decorrenti dal termine di inizio o di proseguimento, fermo quanto disposto dall’articolo 653 del codice di procedura penale».

La legge n. 97 del 2001 disciplinerebbe infatti in via generale e completa il rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare nei confronti dei dipendenti della pubblica amministrazione, dopo che, con l’art. 9 della legge n. 19 del 1990, introdotto a seguito della sentenza di questa Corte n. 971 del 1988, il legislatore ha vietato ogni automatismo tra la condanna penale e la destituzione degli stessi pubblici dipendenti.

Non sussisterebbe, pertanto, il vuoto legislativo denunciato dal giudice a quo.

Sul piano soggettivo, l’art. 5, comma 4, della citata legge n. 97 del 2001 si applicherebbe «nei confronti dei dipendenti indicati nel comma 1 dell’art. 3» della stessa legge, vale a dire nei confronti di tutti i dipendenti «di amministrazioni o di enti pubblici ovvero di enti a prevalente partecipazione pubblica» in regime di diritto pubblico, mentre per i dipendenti pubblici “contrattualizzati” vale la diversa disciplina prevista dall’art. 55-ter del d.lgs. n. 165 del 2001. Non avrebbe rilievo il fatto che il richiamato art. 3, comma 1, della legge n. 97 del 2001 indica una serie di reati addebitati al dipendente («delitti previsti dagli articoli 314, primo comma, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater e 320 del codice penale e dall’articolo 3 della legge 9 dicembre 1941, n. 1383»), in quanto tale indicazione, secondo la giurisprudenza sia di legittimità che amministrativa, avrebbe solo lo scopo di definire la fattispecie del trasferimento d’ufficio a seguito di rinvio a giudizio, disciplinata dalla stessa disposizione richiamata.

Nemmeno il riferimento contenuto nell’art. 5, comma 4, della legge n. 97 del 2001 alla «estinzione del rapporto di lavoro e impiego» varrebbe ad escludere la compatibilità della disposizione con la speciale disciplina del procedimento a carico degli ufficiali e degli agenti di polizia giudiziaria, in quanto la previsione di termini certi per la sanzione “espulsiva” ben potrebbe trovare ragionevole applicazione anche nelle ipotesi meno gravi delle sanzioni “conservative” del rapporto, come quelle previste dall’art. 16 delle norme att. cod. proc. pen.

Considerato in diritto

1.– Il Tribunale amministrativo regionale per la Liguria dubita della legittimità costituzionale dell’art. 17 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271 (Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale), in riferimento agli artt. 3 e 97, primo comma, della Costituzione, nella parte in cui non prevede che, nel procedimento disciplinare nei confronti degli ufficiali e degli agenti di polizia giudiziaria instaurato a seguito di definitiva condanna penale per i medesimi fatti oggetto di incolpazione, si applichino i termini per la promozione e la conclusione del procedimento stabiliti dall’art. 9, comma 2, della legge 7 febbraio 1990, n. 19 (Modifiche in tema di circostanze, sospensione condizionale della pena e destituzione dei pubblici dipendenti), secondo il quale «[l]a destituzione può sempre essere inflitta all’esito del procedimento disciplinare che deve essere proseguito o promosso entro centottanta giorni dalla data in cui l’amministrazione ha avuto notizia della sentenza irrevocabile di condanna e concluso nei successivi novanta giorni».

Ad avviso del rimettente, la mancata previsione, nella norma censurata, di termini perentori per l’avvio e per la conclusione del procedimento, a pena di decadenza del potere disciplinare, determinerebbe un’ingiustificata disparità di trattamento degli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria, in contrasto con i principi di uguaglianza e di ragionevolezza sanciti dall’art. 3 Cost., rispetto alla «generalità dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche in regime di diritto pubblico» di cui all’art. 3 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), e segnatamente rispetto al citato art. 9, comma 2, della legge n. 19 del 1990, che esprimerebbe lo «statuto» di tutti gli altri dipendenti pubblici.

L’art. 17 censurato violerebbe anche il principio di buon andamento della pubblica amministrazione di cui all’art. 97 Cost., sotto i profili dell’economicità e della speditezza dell’azione amministrativa, a garanzia delle quali è diretta la fissazione per legge di termini perentori di inizio e fine del procedimento.

2.– Le questioni sono inammissibili.

Le censure mosse all’art. 17 delle norme att. cod. proc. pen. investono il rapporto tra il processo penale e il procedimento disciplinare, nel caso in cui quest’ultimo sia instaurato nei confronti di un ufficiale di polizia giudiziaria condannato con sentenza penale irrevocabile per gli stessi fatti, essendo contestata, in particolare, la mancata previsione, nella disposizione censurata, di termini di decadenza per l’inizio e per la conclusione del procedimento disciplinare in essa regolato.

Il giudice a quo assume a tertium comparationis della denunciata disparità di trattamento la disciplina – qualificata dallo stesso rimettente come «statuto di tutti gli altri dipendenti pubblici» – contenuta all’art. 9, comma 2, della legge n. 19 del 1990 con riguardo alla destituzione dei pubblici dipendenti, ma, come osserva nelle sue difese l’Avvocatura, non considera l’evoluzione normativa della materia.

Il quadro normativo di riferimento per quanto attiene agli effetti del giudicato penale nei procedimenti disciplinari contro i pubblici dipendenti è stato profondamente innovato dalla legge 27 marzo 2001, n. 97 (Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche), la quale per un verso prevede che anche la sentenza penale irrevocabile di condanna e quella di applicazione della pena su richiesta abbiano efficacia nel giudizio disciplinare (artt. 1 e 2, modificativi, rispettivamente, degli artt. 653 e 445 del codice di procedura penale), per altro verso regola il rapporto tra processo penale e procedimento disciplinare.

L’art. 5, comma 4, prevede in particolare che, nel caso sia pronunciata sentenza penale irrevocabile di condanna «nei confronti dei dipendenti indicati nel comma 1 dell’articolo 3» della stessa legge n. 97 del 2001, «l’estinzione del rapporto di lavoro o di impiego può essere pronunciata a seguito di procedimento disciplinare», che «deve avere inizio o, in caso di intervenuta sospensione, proseguire entro il termine di novanta giorni dalla comunicazione della sentenza all’amministrazione o all’ente competente per il procedimento disciplinare» e «deve concludersi entro centottanta giorni decorrenti dal termine di inizio o di proseguimento».

Per quello che qui rileva, il richiamato art. 3, comma 1, della legge n. 97 del 2001 prevede che, «[s]alva l’applicazione della sospensione dal servizio in conformità a quanto previsto dai rispettivi ordinamenti, quando nei confronti di un dipendente di amministrazioni o di enti pubblici ovvero di enti a prevalente partecipazione pubblica è disposto il giudizio per alcuni dei delitti previsti dagli articoli 314, primo comma, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater e 320 del codice penale e dall’articolo 3 della legge 9 dicembre 1941, n. 1383, l’amministrazione di appartenenza lo trasferisce ad un ufficio diverso da quello in cui prestava servizio al momento del fatto, con attribuzione di funzioni corrispondenti, per inquadramento, mansioni e prospettive di carriera, a quelle svolte in precedenza».

Nell’interpretazione offerta dalla giurisprudenza civile e amministrativa, l’art. 5, comma 4, della legge n. 97 del 2001 ha in sostanza riformulato la disciplina dell’art. 9, comma 2, della legge n. 19 del 1990 relativamente ai rapporti tra il procedimento penale conclusosi con sentenza irrevocabile di condanna e il procedimento disciplinare instaurato (o proseguito dopo la sospensione) per gli stessi fatti (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze 5 ottobre 2016, n. 19930; 7 dicembre 2012, n. 22210; 10 marzo 2010, n. 5806) ed è applicabile non solo ai dipendenti pubblici soggetti al giudizio per i delitti indicati nel richiamato comma 1 dell’art. 3, ma a tutto il settore del pubblico impiego, ivi compresi gli appartenenti alle Forze armate e alla Polizia di Stato (Consiglio di Stato, sezione sesta, sentenza 18 settembre 2015, n. 4350).

Il menzionato richiamo al comma 1 dell’art. 3 è diretto infatti ad attrarre nell’ambito di applicazione della nuova disciplina tutto il settore dei dipendenti «di amministrazioni o di enti pubblici ovvero di enti a prevalente partecipazione pubblica», con l’obiettivo, desumibile dal titolo della legge, di sottoporre a una disciplina unitaria il «rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche» (Consiglio di Stato, sezione sesta, sentenza 6 aprile 2009, n. 2112; nello stesso senso, Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 5 ottobre 2016, n. 19930, secondo la quale il rinvio al comma 1 dell’art. 3 «non può che riferirsi solo alla espressione “dipendente di amministrazioni o di enti pubblici ovvero di enti a prevalente partecipazione pubblica”, mentre la tipologia di reati contenuta nel medesimo art. 3, comma 1, concorre a definire la specifica fattispecie» disciplinata da tale disposizione, vale a dire il trasferimento d’ufficio a seguito di rinvio a giudizio).

Sempre nell’applicazione giurisprudenziale, inoltre, l’art. 5, comma 4, della legge n. 97 del 2001 trova applicazione nei procedimenti disciplinari destinati a sfociare in qualsiasi sanzione, non solo in quelle che comportano l’estinzione del rapporto di lavoro o di impiego (Consiglio di Stato, sentenza n. 2112 del 2009, secondo la quale restringere la portata della norma ai procedimenti disciplinari destinati a sfociare in una misura espulsiva significherebbe «compiere una non consentita inversione logica, facendo dipendere la struttura del procedimento dall’esito finale dello stesso, che proprio il procedimento potrà determinare»).

2.1.– La disposizione censurata avrebbe, dunque, dovuto essere valutata in riferimento al contesto normativo e giurisprudenziale così ricostruito, tenendo conto in particolare della disciplina della legge n. 97 del 2001 – certamente applicabile ratione temporis alla fattispecie dedotta nel giudizio a quo sulla base della descrizione che ne fornisce il rimettente – e della sua interpretazione da parte della giurisprudenza.

In questo contesto, sarebbe stato onere del rimettente dare conto delle ragioni della assunta permanente vigenza dell’art. 9, comma 2, della legge n. 19 del 1990 e della sua idoneità a fungere da tertium comparationis in seguito alla sostanziale riformulazione, operata dall’art. 5, comma 4, della legge n. 97 del 2001, della disciplina dei termini di inizio (o di prosecuzione) e di conclusione del procedimento disciplinare.

Ugualmente sarebbe stato necessario stabilire la relazione fra lo speciale procedimento nei confronti degli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria e il nuovo regime dei termini, ed esplorare, sulla scia dell’orientamento giurisprudenziale che riconosce una portata generale alla disposizione non considerata dal rimettente, la possibilità di escludere il prospettato vulnus costituzionale.

La specialità della disciplina contenuta agli artt. 16, 17 e 18 delle norme att. cod. proc. pen. – che regola le condotte illecite, le sanzioni irrogabili, la titolarità dell’azione disciplinare, la tutela del contraddittorio e il diritto di difesa dell’incolpato, nonché la composizione delle commissioni di disciplina – trova ragione nella dipendenza funzionale della polizia giudiziaria dall’autorità giudiziaria. Nella prospettiva del rimettente, tuttavia, essa non osta all’applicabilità al procedimento ivi disciplinato (art. 17 delle norme att. cod. proc. pen.) dei termini stabiliti dall’art. 5, comma 4, della legge n. 97 del 2001, posto che la stessa normativa speciale non tratta espressamente del rapporto tra il processo penale e il procedimento disciplinare.

2.2.– La circostanza che il rimettente non abbia ricostruito in modo completo il quadro normativo, né abbia esaminato i profili indicati di applicabilità della disciplina intervenuta, anche solo per negarne rilievo o consistenza, compromette irrimediabilmente l’iter logico argomentativo posto a fondamento delle censure sollevate. Ciò che, secondo la costante giurisprudenza costituzionale, ne preclude lo scrutinio, incidendo sull’ammissibilità delle questioni (ex plurimis, sentenze n. 27 del 2015, n. 165 del 2014 e n. 276 del 2013; ordinanze n. 244 del 2017 e n. 194 del 2014).

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 17 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271 (Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale), sollevate dal Tribunale amministrativo regionale per la Liguria, in riferimento agli artt. 3 e 97, primo comma, della Costituzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 maggio 2019.

F.to:

Giorgio LATTANZI, Presidente

Daria de PRETIS, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 19 giugno 2019.