Ordinanza n. 60 del 2019

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ORDINANZA N. 60

ANNO 2019

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Giorgio LATTANZI;

Giudici: Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 13, commi 1, 2 e 3, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 545 (Ordinamento degli organi speciali di giurisdizione tributaria ed organizzazione degli uffici di collaborazione in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), promosso dalla Commissione tributaria provinciale di Novara, nel procedimento vertente tra Mauro Bolognesi e l’Agenzia delle entrate - Direzione provinciale di Novara, con ordinanza del 4 aprile 2018, iscritta al n. 105 del registro ordinanze 2018 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 33, prima serie speciale, dell’anno 2018.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 20 febbraio 2019 il Giudice relatore Daria de Pretis.

Ritenuto che con ordinanza del 4 aprile 2018, iscritta al n. 105 reg. ord. 2018, la Commissione tributaria provinciale di Novara ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 13, commi 1, 2 e 3, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 545 (Ordinamento degli organi speciali di giurisdizione tributaria ed organizzazione degli uffici di collaborazione in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), in riferimento agli artt. 101, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848;

che le questioni sono sorte nel corso di un giudizio promosso da un contribuente nei confronti dell’Agenzia delle entrate - Direzione provinciale di Novara, con l’impugnazione del silenzio-rifiuto formatosi sull’istanza di rimborso dell’IVA pagata negli anni 2015 e 2016 sulle accise applicate alla fornitura domestica di energia elettrica;

che, ad avviso del rimettente, le norme censurate, che disciplinano il trattamento retributivo dei componenti delle commissioni tributarie, non assicurano l’apparenza di indipendenza del giudice tributario richiesta dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in tema di equo processo e violano i principi costituzionali del giusto processo e dell’indipendenza dei giudici;

che l’invocato parametro convenzionale interposto sarebbe «direttamente applicabil[e]» nel giudizio a quo, in quanto in esso «si controverte in materia di tributi armonizzati»;

che, in un primo senso, le norme censurate pregiudicherebbero l’indipendenza del giudice, nella parte in cui stabiliscono che la determinazione, la liquidazione e il pagamento del compenso spettante ai componenti delle commissioni tributarie siano effettuati «d[a]lla stessa amministrazione i cui provvedimenti sono soggetti al controllo giurisdizionale», vale a dire «il Ministro delle finanze» (quanto alla determinazione dei compensi), la «direzione regionale delle entrate, nella cui circoscrizione ha sede la commissione tributaria di appartenenza» (quanto alla liquidazione), e il «dirigente responsabile della segreteria della commissione» (quanto al pagamento);

che, sotto un secondo profilo, l’inadeguatezza dei compensi corrisposti ai giudici tributari pregiudicherebbe la loro immagine di indipendenza e imparzialità «verso l’esterno», in contrasto con l’art. 6, paragrafo 1, CEDU (è citata la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo 27 novembre 2008, Miroshnik contro Ucraina, alla cui stregua l’indipendenza sarebbe pregiudicata se elementi decisivi per il mantenimento di un tenore di vita decoroso del giudice dipendessero da scelte gestionali dell’autorità governativa);

che, ad avviso del rimettente, le norme censurate potrebbero essere sottoposte allo scrutinio di costituzionalità, pur non disciplinando il merito o lo svolgimento del processo principale, in quanto il legislatore potrebbe altrimenti costituire una giurisdizione illegittima e sottrarre al controllo di questa Corte disposizioni potenzialmente lesive degli obblighi internazionali dello Stato, dei diritti fondamentali dell’uomo e del principio del giusto processo;

che nemmeno sarebbe esperibile un’interpretazione costituzionalmente orientata della disciplina, sia per la sua inequivocità, sia perché un diverso trattamento economico potrebbe essere ipotizzato solo in base a un intervento «del tutto creativo» sottratto ai poteri del giudice, né l’attivazione di altri «rimedi processuali» da parte dei componenti della commissione rimettente potrebbe scongiurare il vizio di costituzione del giudice determinato dal difetto di indipendenza, che riguarderebbe non il singolo componente ma il complesso dei giudici tributari;

che, con atto depositato in cancelleria l’11 settembre 2018, è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o comunque manifestamente infondate;

che l’inammissibilità deriverebbe in primo luogo dal difetto di rilevanza, in quanto le norme censurate, disciplinando la materia dei compensi spettanti ai componenti delle commissioni tributarie, non inciderebbero né sul rapporto in ordine al quale il giudice rimettente è chiamato a decidere, né sulla composizione dell’organo giudicante; e neppure potrebbe condurre a diverse conclusioni la paventata sottrazione delle stesse norme al controllo di costituzionalità, in quanto la disciplina in esame potrebbe essere sottoposta allo scrutinio della Corte in via incidentale, ad esempio nel corso di un giudizio promosso da un giudice tributario che contestasse l’ammontare del compenso ricevuto;

che le questioni sarebbero inoltre inammissibili, come ritenuto da questa Corte con l’ordinanza n. 227 del 2016, pronunciando su un’analoga questione relativa alle stesse norme, per genericità e mancanza di autosufficienza, sia in ordine all’attuale regime dei compensi spettanti ai giudici tributari, sia in ordine al diverso regime che dovrebbe operare a seguito dell’auspicata pronuncia di incostituzionalità, la cui portata demolitoria non soddisferebbe comunque l’interesse prospettato dal rimettente, realizzabile solo con un intervento legislativo ampiamente discrezionale;

che, nel merito, l’interveniente osserva che il giudice a quo muoverebbe dall’erroneo presupposto che il Ministero dell’economia e delle finanze, competente a erogare i compensi, sia la stessa amministrazione i cui provvedimenti sono soggetti al controllo giurisdizionale, trattandosi invece di un soggetto distinto dalle agenzie fiscali istituite con il decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300 (Riforma dell’organizzazione del Governo, a norma dell’articolo 11 della legge 15 marzo 1997, n. 59);

che le questioni sarebbero comunque infondate, in quanto i compensi dei giudici tributari sono determinati con un decreto ministeriale assunto sulla base di parametri fissati direttamente dalla legge (ex art. 13, comma 2, del d.lgs. n. 545 del 1992) e vengono materialmente erogati dalla direzione generale delle entrate e dal dirigente responsabile della segreteria della commissione tributaria (ex art. 13, comma 3, dello stesso d.lgs.) nell’esercizio di attività vincolate ed esecutive, inidonee a determinare un vulnus all’indipendenza e all’imparzialità del giudice tributario.

Considerato che la Commissione tributaria provinciale di Novara dubita della legittimità costituzionale dell’art. 13, commi 1, 2 e 3, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 545 (Ordinamento degli organi speciali di giurisdizione tributaria ed organizzazione degli uffici di collaborazione in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), nella parte in cui stabilisce che la determinazione, la liquidazione e il pagamento del compenso spettante ai componenti delle commissioni tributarie siano effettuati, rispettivamente, dal «Ministro delle finanze», dalla «direzione regionale delle entrate, nella cui circoscrizione ha sede la commissione tributaria di appartenenza», e dal «dirigente responsabile della segreteria della commissione», in riferimento agli artt. 101, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848;

che le questioni sono sorte nel corso di un giudizio promosso da un contribuente nei confronti dell’Agenzia delle entrate - Direzione provinciale di Novara, con l’impugnazione del silenzio-rifiuto formatosi sull’istanza di rimborso dell’IVA pagata sulle accise applicate alla fornitura domestica di energia elettrica;

che questioni analoghe a quelle in esame, riguardanti le norme sulla misura o la liquidazione del trattamento economico delle commissioni tributarie, sono state dichiarate inammissibili da questa Corte per difetto di rilevanza, perché non incidenti, né sul rapporto in ordine al quale il giudice è chiamato a decidere, né sulla composizione o costituzione dell’organo giudicante;

che, in particolare, con riguardo allo stesso art. 13 del d.lgs. n. 545 del 1992 – censurato nella parte in cui, al comma 2, prevede per i giudici tributari «un compenso aggiuntivo per ogni ricorso definito» –, questa Corte ha affermato che «[…] la norma censurata riguarda esclusivamente la misura del compenso del giudice tributario e, pertanto, non attiene né alla “composizione”, né alla costituzione del giudice medesimo, cioè alla legittimazione di questo ad esercitare le proprie funzioni, e neppure deve essere applicata dal rimettente nel giudizio principale» (ordinanza n. 180 del 2006);

che la stessa conclusione era stata raggiunta (sentenza n. 196 del 1982; ordinanze n. 447 del 1991, n. 331 e n. 326 del 1987) con riguardo ad analoghe questioni aventi ad oggetto la previgente disciplina sul trattamento economico dei componenti delle commissioni tributarie, contenuta nell’art. 12 del d.P.R. 28 ottobre 1972, n. 636 (Revisione della disciplina del contenzioso tributario);

che questi principi sono stati confermati di recente da questa Corte con la sentenza n. 164 del 2017, pronunciata su questioni sollevate in via incidentale in giudizi dove non era direttamente applicabile la disciplina – in quelle sedi censurata – introdotta dalla legge 13 aprile 1988, n. 117 (Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati), come modificata dalla legge 27 febbraio 2015, n. 18 (Disciplina della responsabilità civile dei magistrati);

che neppure si profila il pericolo, paventato dal giudice a quo, di una sostanziale sottrazione della disciplina oggetto del presente giudizio al controllo di costituzionalità, essendo agevole ipotizzare, come ha osservato l’interveniente, che possano insorgere controversie sui compensi dei giudici tributari e che nel loro ambito possano essere sollevate questioni analoghe (sentenza n. 196 del 1982, nella quale si afferma che la disciplina sul trattamento economico non trova applicazione da parte delle commissioni tributarie, in quanto «essa attiene invece alla regolamentazione del rapporto che si costituisce fra i componenti le commissioni e l’Amministrazione finanziaria competente a liquidare e pagare i corrispettivi in parola e le controversie che possono sorgere al riguardo vanno sottoposte ad altri giudici del nostro ordinamento»);

che le questioni presentano, altresì, gli ulteriori profili preliminari di inammissibilità già rilevati da questa Corte con ordinanza n. 227 del 2016, pronunciata prima dell’ordinanza di rimessione su questioni identiche per norme denunciate, parametri evocati e motivi di censura, ma non considerata dal giudice a quo;

che anche in quel giudizio, esteso alla più ampia disciplina ordinamentale e organizzativa della giustizia tributaria, oltre che alle disposizioni processuali in tema di astensione del giudice, si deduceva che l’apparenza di indipendenza dei giudici tributari sarebbe lesa dalla disciplina del loro trattamento retributivo, sotto entrambi gli aspetti qui prospettati, senza fornire indicazioni sul diverso assetto che dovrebbe caratterizzare il regime della determinazione, della liquidazione e del pagamento delle retribuzioni dei giudici, in luogo di quello censurato, ovvero sul diverso sistema retributivo che sarebbe idoneo a superare, secondo il giudice a quo, l’attuale inadeguatezza dei compensi;

che – come afferma l’ordinanza n. 227 del 2016 – «queste omissioni comportano l’indeterminatezza e l’ambiguità dei petita, e di conseguenza, secondo la costante giurisprudenza costituzionale, l’inammissibilità delle questioni (ex plurimis, sentenze n. 220 e n. 218 del 2014, n. 220 del 2012, n. 186 e n. 117 del 2011; ordinanze n. 269 del 2015, n. 266 del 2014, n. 335, n. 260 e n. 21 del 2011)»;

che un’altra ragione di inammissibilità – rilevata anch’essa nell’ordinanza n. 227 del 2016 – deriva dal fatto che il giudice a quo ha richiesto a questa Corte un intervento creativo caratterizzato da un grado di manipolatività tanto elevato da investire l’intero sistema che regola il trattamento retributivo dei giudici e da eccedere così «i poteri di intervento della Corte, implicando scelte affidate alla discrezionalità del legislatore (ex plurimis, sentenze n. 248 del 2014 e n. 252 del 2012; ordinanze n. 269 del 2015, n. 156 del 2013, n. 182 del 2009, n. 35 del 2001 e n. 117 del 1989)»;

che lo stesso giudice a quo, oltre a non addurre argomenti nuovi rispetto a quelli già esaminati nella citata ordinanza n. 227 del 2016, finisce con riconoscere l’ampia discrezionalità che connota la disciplina della materia, là dove ammette che un inquadramento economico dei giudici tributari diverso da quello stabilito dalle norme censurate si tradurrebbe in un intervento di carattere «del tutto “creativo”», non realizzabile dal giudice comune in via di interpretazione, senza considerare che lo stesso carattere preclude anche l’auspicato intervento di questa Corte;

che, in conclusione, le questioni devono essere dichiarate manifestamente inammissibili.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 13, commi 1, 2 e 3, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 545 (Ordinamento degli organi speciali di giurisdizione tributaria ed organizzazione degli uffici di collaborazione in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), sollevate, in riferimento agli artt. 101, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, dalla Commissione tributaria provinciale di Novara, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 febbraio 2019.

F.to:

Giorgio LATTANZI, Presidente

Daria de PRETIS, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 20 marzo 2019.