Sentenza n. 223 del 2018

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SENTENZA N. 223

ANNO 2018

 

Commento alla decisione di

 

Gian Luigi Gatta

Non sempre ‘depenalizzazione’ equivale a ‘mitigazione’.

La Corte costituzionale sull’irretroattività delle sanzioni amministrative ‘punitive’ più sfavorevoli di quelle penali

(a proposito della confisca per equivalente per l’insider trading secondario)

 

per g.c. di Diritto Penale Contemporaneo

 

 

 REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-      Giorgio                       LATTANZI                                       Presidente

-      Aldo                           CAROSI                                            Giudice

-      Marta                          CARTABIA                                              

-      Mario Rosario             MORELLI                                                 

-      Giancarlo                    CORAGGIO                                             

-      Giuliano                      AMATO                                                    

-      Silvana                        SCIARRA                                                 

-      Daria                           de PRETIS                                                

-      Nicolò                         ZANON                                                   

-      Franco                        MODUGNO                                             

-      Augusto Antonio       BARBERA                                               

-      Giulio                         PROSPERETTI                                         

-      Giovanni                     AMOROSO                                               

-      Francesco                   VIGANÒ                                                  

-      Luca                           ANTONINI                                               

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 6, della legge 18 aprile 2005, n. 62 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee. Legge comunitaria 2004), promossi dalla Corte di cassazione, con ordinanze del 9 ottobre, del 2 e del 3 novembre, e del 29 dicembre 2017, iscritte rispettivamente ai nn. da 188 a 193 del registro ordinanze 2017 e al n. 33 del registro ordinanze 2018 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 2 e 9, prima serie speciale, dell’anno 2018.

Visti gli atti di costituzione di R. L., di O. S., di M. G., di O. P., di A. C., di E. B. e di E. L., nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella udienza pubblica del 23 ottobre 2018 il Giudice relatore Francesco Viganò;

uditi gli avvocati Giovanni Arieta e Achille Chiappetti per R. L., O. S., M. G., A. C., E. B. e O. P., per quest’ultimo anche Massimo Bonvicini, Luigi Medugno per E. L. e l’avvocato dello Stato Paolo Gentili per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.– Con sette ordinanze di analogo tenore (r.o. nn. 188, 189, 190, 191, 192, 193 del 2017 e n. 33 del 2018) la Corte di cassazione, seconda sezione civile, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 6, della legge 18 aprile 2005, n. 62 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee. Legge comunitaria 2004), in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848.

La disposizione di cui all’art. 9, comma 6, della legge n. 62 del 2005 è censurata nella parte in cui prevede che la confisca per equivalente prevista dall’art. 187-sexies del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52), si applica, allorché il procedimento penale non sia stato definito, anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore della stessa legge n. 62 del 2005, «e ciò pur quando il complessivo trattamento sanzionatorio generato attraverso la depenalizzazione sia in concreto meno favorevole di quello applicabile in base alla legge vigente al momento della commissione del fatto».

Tali questioni costituiscono la sostanziale riproposizione di censure di illegittimità costituzionale – già formulate in sei dei sette giudizi a quibus (più precisamente, quelli cui si riferiscono le ordinanze r.o. nn. 188, 189, 190, 191, 192 e 193 del 2017) – poi dichiarate inammissibili dalla sentenza n. 68 del 2017 di questa Corte. La settima ordinanza di rimessione (r.o. n. 33 del 2018) – che scaturisce da un diverso procedimento concernente, peraltro, fatti strettamente connessi a quelli di cui è causa negli altri procedimenti a quibus – ha oggetto e contenuto sovrapponibili rispetto alle prime sei.

2.– La Corte di Cassazione premette di essere stata investita dei ricorsi proposti avverso le sentenze della Corte d’appello di Brescia con le quali erano state rigettate le opposizioni avverso provvedimenti sanzionatori adottati nei confronti dei ricorrenti dalla Commissione nazionale per le società e la borsa (CONSOB) per l’illecito amministrativo di abuso di informazioni privilegiate, di cui all’art. 187-bis del d.lgs. n. 58 del 1998.

2.1.– I fatti contestati ai ricorrenti – nella loro qualità di insider cosiddetti secondari – erano stati commessi quando erano previsti come reato ai sensi del previgente art. 180, comma 2, del d.lgs. n. 58 del 1998, che prevedeva la pena della reclusione fino a due anni e della multa da venti a seicento milioni di lire, nonché la confisca diretta dei mezzi utilizzati per commettere il reato e dei beni che ne costituivano il profitto.

Successivamente era però intervenuta la legge n. 62 del 2005, che ha depenalizzato la condotta contestata ai ricorrenti, prevedendola quale mero illecito amministrativo nel nuovo art. 187-bis del d.lgs. n. 58 del 1998. Quest’ultima disposizione comminava, nel testo introdotto dalla legge n. 62 del 2005, una sanzione amministrativa pecuniaria da ventimila a tre milioni di euro. L’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998, nella versione introdotta dalla legge n. 62 del 2005, prevedeva inoltre che all’illecito amministrativo in parola fosse sempre applicabile la confisca del prodotto o del profitto dell’illecito e dei beni utilizzati per commetterlo, nonché, qualora ciò non fosse possibile, la confisca di somme di denaro, beni o altre utilità di valore equivalente.

L’art. 9, comma 6, della legge n. 62 del 2005, in questa sede censurato, ha inoltre previsto che le disposizioni sanzionatorie relative al nuovo illecito amministrativo si applicano anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore della presente legge che le ha depenalizzate, quando il relativo procedimento penale non sia stato definito.

Con i provvedimenti impugnati nei vari giudizi a quibus, la CONSOB aveva dunque applicato nei confronti dei ricorrenti – oltre a sanzioni amministrative pecuniarie e alla sanzione accessoria dell’interdizione dagli uffici direttivi ai sensi dell’art. 187-quater del d.lgs. 58 del 1998 – la confisca, anche per equivalente, di beni di proprietà dei trasgressori fino a un valore pari al prodotto dell’illecito.

All’esito dei giudizi di opposizione, tali sanzioni erano state confermate dalla Corte d’appello di Brescia, contro le cui statuizioni i ricorrenti avevano proposto ricorso per cassazione.

La Corte di cassazione, seconda sezione civile, investita da tali ricorsi, aveva già sollevato nel 2015, con sei ordinanze analoghe, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998 e dell’art. 9, comma 6, della legge n. 62 del 2005, per contrasto con gli artt. 3, 25, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 7 CEDU, nella parte in cui le disposizioni censurate prevedono che la nuova confisca per equivalente introdotta dalla legge n. 62 del 2005 si applica anche alle violazioni commesse anteriormente all’entrata in vigore della legge medesima.

2.2.– Con sentenza n. 68 del 2017, peraltro, questa Corte aveva ritenuto inammissibili le censure relative all’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998, rilevando come il dubbio di costituzionalità sollevato dalla Sezione rimettente investisse non già la disciplina della confisca per equivalente contenuta in quella disposizione, bensì soltanto la sua applicabilità retroattiva a fatti commessi prima dell’entrata in vigore della legge n. 62 del 2005, applicabilità discendente dal solo art. 9, comma 6, della legge medesima.

Questa Corte aveva, peraltro, ritenuto inammissibili anche le censure relative all’art. 9, comma 6, della legge n. 62 del 2005 per erroneità del presupposto interpretativo. Secondo la sentenza n. 68 del 2017, infatti, l’ordinanza di rimessione aveva «omesso di tenere conto del fatto che la natura penale, ai sensi dell’art. 7 della CEDU, del nuovo regime punitivo previsto per l’illecito amministrativo comporta un inquadramento della fattispecie nell’ambito della successione delle leggi nel tempo e demanda al rimettente il compito di verificare in concreto se il sopraggiunto trattamento sanzionatorio, assunto nel suo complesso e dunque comprensivo della confisca per equivalente, si renda, in quanto di maggior favore, applicabile al fatto pregresso, ovvero se esso in concreto denunci un carattere maggiormente afflittivo. Soltanto in quest’ultimo caso, la cui verificazione spetta al giudice a quo accertare e adeguatamente motivare, potrebbe venire in considerazione un dubbio sulla legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 6, della legge n. 62 del 2005, nella parte in cui tale disposizione prescrive l’applicazione della confisca di valore e assoggetta pertanto il reo a una sanzione penale, ai sensi dell’art. 7 della CEDU, in concreto più gravosa di quella che sarebbe applicabile in base alla legge vigente all’epoca della commissione del fatto».

2.3.– Riassunti avanti a sé i sei procedimenti dai quali erano scaturite le questioni decise da questa Corte con la sentenza n. 68 del 2017, la Corte di cassazione, seconda sezione civile, propone ora, con le sei ordinanze iscritte ai nn. 188, 189, 190, 191, 192, 193 del r.o. 2017 altrettante nuove questioni di legittimità costituzionale, «reimpostando il petitum e integrando la motivazione dell’ordinanza di rinvio sì da eliminare i vizi e le lacune riscontrati dalla Corte costituzionale, e che avevano impedito l’esame nel merito del dubbio sollevato». Identiche questioni vengono poi sollevate nell’ordinanza iscritta al n. 33 del r.o. 2018.

Più in particolare – come anticipato – la Sezione rimettente solleva ora questioni di legittimità costituzionale del solo art. 9, comma 6, della legge n. 62 del 2005, per contrasto con gli artt. 3, 25, secondo comma, 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 7 CEDU, nella parte in cui la disposizione censurata prevede l’applicabilità della confisca per equivalente disciplinata dall’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998 anche ai fatti commessi prima dell’entrata in vigore della legge n. 62 del 2005, «e ciò pur quando il complessivo trattamento sanzionatorio generato attraverso la depenalizzazione sia in concreto meno favorevole di quello applicabile in base alla legge vigente al momento della commissione del fatto».

2.4.– La rimettente rileva, anzitutto, che l’art. 9, comma 6, della legge n. 62 del 2005 prevede in modo inequivoco l’applicazione delle sanzioni amministrative introdotte dalla legge medesima – comprensive, dunque, della confisca prevista dal nuovo art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998 – anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore della stessa legge n. 62 del 2005, che le ha depenalizzate, salvo che nell’ipotesi in cui il procedimento penale sia stato già definito, circostanza che nella specie non ricorre.

Ciò premesso, il giudice a quo precisa che la misura in questione ha «un contenuto sostanzialmente afflittivo, che eccede la finalità di prevenire la commissione di illeciti, perché non colpisce beni in "rapporto di pertinenzialità” con l’illecito». Tale conclusione, già formulata dalla giurisprudenza di legittimità (ex multis, Corte di cassazione, sezioni unite, sentenza 23 aprile 2013, n. 18374) e avallata da questa Corte (ordinanze nn. 301 e 97 del 2009) con riguardo ad altre figure di confisca per equivalente, comporta in linea di principio l’applicazione a tale misura dello statuto costituzionale e convenzionale della sanzione penale, ai sensi degli artt. 25, secondo comma, Cost. e 7 CEDU.

La stessa sentenza n. 68 del 2017 di questa Corte, osserva la Sezione rimettente, ha d’altronde riconosciuto la finalità di carattere punitivo, e non meramente preventivo, della confisca per equivalente introdotta dalla legge n. 62 del 2005, la quale svolge – anzi – tale funzione «con tratti di significativa afflittività».

Richiamata quindi la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sulla nozione sostanziale di sanzione penale – e in particolare la sentenza 9 febbraio 1995, Welch contro Regno Unito, che aveva ad oggetto proprio l’applicazione retroattiva di un’ipotesi di confisca per equivalente –, la rimettente rammenta come, secondo la giurisprudenza di questa Corte, tutte le misure di carattere punitivo-afflittivo debbano essere soggette alla medesima disciplina della sanzione penale in senso stretto. Questo principio sarebbe bensì di derivazione convenzionale, ma sarebbe al tempo stesso desumibile anche dall’art. 25, secondo comma, Cost., dal momento che, come pure ha chiarito la giurisprudenza di questa Corte, tale precetto costituzionale «può essere interpretato nel senso che ogni intervento sanzionatorio, il quale non abbia prevalentemente la funzione di prevenzione criminale (e quindi non sia riconducibile – in senso stretto – a vere e proprie misure di sicurezza), è applicabile soltanto se la legge che lo prevede risulti già vigente al momento della commissione del fatto sanzionato» (sentenze n. 104 del 2014 e n. 196 del 2010).

Evidenzia allora la Sezione rimettente come sia «l’intero trattamento sanzionatorio introdotto dalla legge di depenalizzazione per l’illecito amministrativo di abuso di informazioni privilegiate di cui al nuovo art. 187-bis [del d.lgs. n. 58 del 1998] a rivestire natura sostanzialmente penale, integrando esso i caratteri di afflittività delineati dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, dato l’elevato importo della sanzione prevista».

In stretta aderenza alle statuizioni della sentenza n. 68 del 2017 di questa Corte, la Sezione rimettente osserva che la confisca per equivalente sarebbe «legittimamente applicabile ai fatti pregressi di abuso di informazioni privilegiate, senza dar luogo a dubbi di costituzionalità, solo quando il nuovo trattamento sanzionatorio per l’illecito depenalizzato, complessivamente ed unitariamente considerato, possa ritenersi non peggiorativo rispetto a quello precedentemente previsto».

La disposizione denunciata risulta invece, secondo il giudice a quo, di dubbia compatibilità con i principi costituzionali e convenzionali evocati, nella misura in cui prevede l’applicabilità «assoluta, incondizionata e inderogabile» della confisca per equivalente anche a fatti pregressi, «quand’anche il complessivo risultato sanzionatorio risultante dalla riforma sia in concreto meno favorevole per il trasgressore rispetto a quello che sarebbe [stato] applicabile in base alla legge vigente all’epoca della commissione del fatto».

In effetti, il complessivo risultato sanzionatorio derivante dalla riforma appare alla Sezione rimettente più gravoso rispetto a quello previsto al momento della commissione del fatto dall’art. 180 del d.lgs. n. 58 del 1998.

Espone il giudice a quo che, in base alla previgente disciplina, la pena prevista per il trasgressore era della «reclusione fino a due anni, congiunta con la multa da venti a seicento milioni di lire, cui doveva aggiungersi la confisca soltanto in forma diretta.

La condanna, inoltre, ai sensi ai sensi dell’art. 182 del medesimo d.lgs. n. 58 del 1998 (allora vigente), comportava sempre l’applicazione delle pene accessorie previste dagli articoli 28, 30, 32-bis e 32-ter del codice penale per una durata non inferiore a sei mesi e non superiore a due anni, nonché la pubblicazione della sentenza su almeno due quotidiani, di cui uno economico, a diffusione nazionale.

Era prevista, inoltre, la possibilità per il giudice di aumentare la multa fino al triplo quando, per la rilevante offensività del fatto, le qualità personali del colpevole o l’entità del profitto che ne era derivato, essa appariva inadeguata anche se applicata nel massimo.

Il trattamento sanzionatorio di cui all’art. 9 della legge n. 62 del 2005 consiste, invece, nella sanzione amministrativa pecuniaria da euro ventimila a euro tre milioni di cui all’art. 187-bis del d.lgs. n. 58 del 1998 (non potendosi tener conto dell’ulteriore modifica apportata dall’art. 39, comma 3, della legge 28 dicembre 2005, n. 262, recante «Disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari», che ha quintuplicato la sanzione).

Anche in questo caso il comma 5 del citato art. 187-bis prevede che le sanzioni possano essere aumentate fino al triplo o fino al maggiore importo di dieci volte il prodotto o il profitto conseguito dall’illecito quando, per le qualità personali del colpevole ovvero per l’entità del prodotto o del profitto conseguito dall’illecito, esse appaiono inadeguate anche se applicate nel massimo.

Inoltre ai sensi dell’art. 187-quater del d.lgs. n. 58 del 1998 sono previste le sanzioni amministrative accessorie della perdita temporanea dei requisiti di onorabilità per gli esponenti aziendali ed i partecipanti al capitale dei soggetti abilitati, delle società di gestione del mercato, nonché per i revisori e i promotori finanziari e, per gli esponenti aziendali di società quotate, dell’incapacità temporanea ad assumere incarichi di amministrazione, direzione e controllo nell’ambito di società quotate e di società appartenenti al medesimo gruppo di società quotate per una durata non inferiore a due mesi e non superiore a tre anni.

Infine, ai sensi del successivo art. 187-sexies, è prevista l’ulteriore sanzione accessoria della confisca del prodotto o del profitto dell’illecito e dei beni utilizzati per commetterlo e, qualora non sia possibile eseguire tale confisca, la stessa può avere ad oggetto somme di denaro, beni o altre utilità di valore equivalente».

Precisa, inoltre, la Sezione rimettente che, nella specie, non emergono dagli atti situazioni che avrebbero impedito la concessione agli autori dell’illecito, in un ipotetico giudizio penale, della sospensione condizionale della pena, la quale si sarebbe estesa ex lege anche alle pene accessorie. Gli autori dell’illecito avrebbero, anzi, potuto beneficiare in quella sede dell’indulto di cui alla legge 31 luglio 2006, n. 241 (Concessione di indulto); e soprattutto, non sarebbe stata loro applicabile la confisca per equivalente di cui al nuovo art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998.

Per i trasgressori incensurati, dunque, «l’applicazione della sanzione penale in concreto sarebbe stata più favorevole rispetto alla sanzione pecuniaria amministrativa irrogata, oggetto di certa riscossione, di ammontare massimo notevolmente superiore e […] con l’aggiunta di una sanzione accessoria del tutto nuova, imprevedibile ed estremamente gravosa quale quella della confisca per equivalente».

Tutto ciò troverebbe definitiva conferma, secondo la Sezione rimettente, nella circostanza che l’insider primario che aveva riferito la notizia privilegiata agli attuali ricorrenti, tutti insider secondari, era stato condannato per la propria condotta – costituente reato anche dopo la novella del 2005, che aveva depenalizzato la sola condotta degli insider secondari – alla pena della reclusione di sei mesi e al pagamento di 100.000 euro di multa, entrambe condizionalmente sospese. Tale trattamento sanzionatorio era stato poi mitigato in appello, ove la pena complessiva a lui applicata (risultante tra l’altro dall’avvenuta conversione della pena detentiva in pena pecuniaria) era stata rideterminata in quella di 140.520 euro di multa, poi ulteriormente ridotta in sede esecutiva a 10.000 euro di multa in applicazione dell’indulto di cui alla legge n. 241 del 2006. E ciò a fronte di sanzioni pecuniarie irrogate dalla CONSOB nei confronti degli attuali ricorrenti pari a centinaia di migliaia di euro, accompagnate dalla sanzione accessoria dell’interdizione dagli uffici direttivi per un periodo di nove mesi e dalla confisca per equivalente di beni per importi, in taluni casi, di diversi milioni di euro.

A parere del giudice a quo, «ciò che risulta determinante ai fini della valutazione di maggiore gravosità» del trattamento sanzionatorio successivo alla riforma è proprio «l’applicazione retroattiva della sanzione accessoria della confisca per equivalente», la quale «determina una tale sproporzione nella pena complessivamente inflitta, rispetto a quella che sarebbe scaturita dall’applicazione del citato art. 180 del d.lgs. n. 58 del 1998, da rappresentare l’elemento che rende in concreto maggiormente afflittivo il complessivo trattamento sanzionatorio derivante dalla legge di depenalizzazione».

Secondo la Sezione rimettente, invece, «una volta eliminata l’applicazione della confisca per equivalente ai fatti antecedenti la sua introduzione, il trattamento sanzionatorio amministrativo (anche se nella sostanza penale) che residua, [riacquisterebbe] quella valenza complessiva di maggior favore naturalmente correlata alle sanzioni amministrative rispetto a quelle corrispondenti penali». E ciò in quanto «la comparazione tra la sanzione penale e quella amministrativa non può risolversi in una stretta equiparazione quantitativa, in quanto la sanzione penale ha una pluralità di effetti negativi, incidendo con forza peculiare non soltanto sulla libertà, ma anche sul complessivo profilo pubblico della persona, segnandolo con lo "stigma” del disvalore sociale derivante da una sentenza di condanna del giudice penale».

2.5.– Conseguentemente, ad avviso del giudice a quo, la disposizione censurata, nella parte in cui prevede l’assoluta e indefettibile applicazione retroattiva della confisca per equivalente, si porrebbe anzitutto in contrasto con l’art. 3 Cost. in riferimento al principio di ragionevolezza, «per eccesso di contenuto sanzionatorio rispetto allo scopo della retroattività della nuova disciplina sanzionatoria, che era di evitare che rimanessero impunite, nella fase transitoria della depenalizzazione, condotte comunque illecite, laddove l’aggiunta della retroattività della confisca per equivalente costituisce un aggravamento sproporzionato non destinato a trovare la propria giustificazione nel riempimento del vuoto punitivo».

La disposizione denunciata contrasterebbe, inoltre, con l’art. 25, secondo comma, Cost., in quanto «il legislatore ha imposto di applicare retroattivamente la confisca per equivalente solo perché si riferisce ad un illecito qualificato come amministrativo nell’ordinamento interno, mentre, nel regime transitorio, avrebbe potuto consentirne l’applicazione – versandosi in un’ipotesi di depenalizzazione accompagnata dall’introduzione di un corrispondente illecito amministrativo – soltanto ove la nuova sanzione completi un trattamento sanzionatorio nel complesso più mite della pena prevista per l’originario reato».

Infine, la disposizione contrasterebbe anche con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 7 CEDU, «perché la norma censurata prescrive l’applicazione retroattiva della confisca per equivalente – "pena” secondo la CEDU, e quindi ricompresa nel nucleo delle garanzie che la convenzione riconosce all’individuo in materia penale – anche qualora il complessivo trattamento sanzionatorio per l’illecito amministrativo sia meno favorevole in concreto del precedente trattamento sanzionatorio applicabile al reato».

2.6.– I prospettati dubbi di illegittimità costituzionale sarebbero, infine, rilevanti, dal momento che i motivi dei ricorsi investono anche l’applicabilità ai fatti di cui è causa della confisca per equivalente, stabilita dall’art. 9, comma 6, della legge n. 62 del 2005 qui censurato, la quale è dunque norma che dovrebbe essere applicata nei giudizi a quibus.

3.– È intervenuto in tutti i giudizi il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto, con sette atti dal contenuto sovrapponibile, che le questioni siano dichiarate inammissibili o, comunque, infondate.

3.1.– Eccepisce in via preliminare l’Avvocatura generale dello Stato l’inammissibilità delle questioni proposte, non avendo il giudice a quo previamente motivato sui motivi di ricorso concernenti la stessa commissione dell’illecito da parte dei ricorrenti.

I primi motivi svolti nei vari ricorsi per cassazione avevano, infatti, ad oggetto profili che riguardavano non solo e non tanto l’applicazione della confisca per equivalente, ma la sussistenza dei presupposti per la stessa applicazione della sanzione principale. Secondo l’Avvocatura generale, pertanto, l’accoglimento anche di una soltanto di queste censure avrebbe reso irrilevante l’esame dell’applicazione retroattiva della confisca per equivalente, precludendo anche l’inflizione delle sanzioni principali.

3.2.– In secondo luogo, le questioni sarebbero inammissibili per difetto di motivazione riguardo alla loro fondatezza [recte, alla loro non manifesta infondatezza], avendo il giudice a quo «omesso di specificare perché nel caso concreto la sanzione della confisca per equivalente determinerebbe l’indicato aggravio sanzionatorio rispetto al previgente regime penale»; aggravio sanzionatorio che, secondo la difesa erariale, poteva in ipotesi non sussistere, laddove il giudice a quo avesse «esaminato ogni possibilità di ridurre la sanzione in questione ad una misura più mite, atta a rendere in concreto il trattamento complessivo, anche includendovi la confisca per equivalente, non più gravoso del previgente trattamento penale».

3.3.– Nel merito, le questioni sarebbero, comunque, infondate.

Infondata sarebbe, anzitutto, la dedotta violazione dell’art. 3 Cost., in quanto la finalità della confisca per equivalente sarebbe quella di evitare che l’autore della violazione si possa appropriare definitivamente del profitto della condotta illecita. Atteso che gli illeciti in questione vengono commessi esclusivamente per finalità di profitto economico, sarebbe coerente con un razionale impianto sanzionatorio (penale o amministrativo) prevedere per tali violazioni, in aggiunta alle sanzioni pecuniarie e a quelle interdittive, anche l’ablazione del profitto derivante dall’illecito. La previsione della confisca per equivalente nel corredo delle misure di reazione agli illeciti depenalizzati del mercato finanziario costituirebbe, pertanto, una «misura del tutto logica, e finanche necessaria; sicché la censura di sproporzione che le muove il giudice a quo appare manifestamente infondata».

Infondati, nella valutazione dell’Avvocatura generale dello Stato, sarebbero altresì i dubbi di legittimità costituzionale relativi al principio di irretroattività sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost. e dall’art. 7 CEDU, «per il tramite dell’art. 117 Cost.».

Quanto all’art. 25, secondo comma, Cost., il legislatore che proceda ad una depenalizzazione avrebbe, infatti, il potere di sostituire le sanzioni penali con sanzioni amministrative che siano in sé oggettivamente adeguate e proporzionate al disvalore del fatto, senza che la legittimità di tale operazione possa essere «vagliata attraverso un eterogeneo, e perciò impossibile, confronto tra la severità del regime sanzionatorio penale soppresso e di quello amministrativo che gli viene sostituito». In materia di sanzioni amministrative, d’altra parte, non vigerebbe il principio della retroattività della lex mitior; sicché non potrebbe «affermarsi che condizione di applicazione di una sanzione amministrativa a fatti pregressi sia la sua maggiore mitezza rispetto al regime precedente». La sola condizione di applicazione sarebbe, piuttosto, la proporzionalità tra il regime sanzionatorio depenalizzato introdotto ed il disvalore complessivo del fatto.

Quanto poi all’art. 7 CEDU, l’Avvocatura generale dello Stato sottolinea che «nelle ipotesi di depenalizzazione viene meno la qualificazione formale del fatto come illecito; il che connota inevitabilmente il regime sopravvenuto come più favorevole, a prescindere dalla quantificazione meramente materiale delle sanzioni, penali prima, e amministrative poi». Rilievo, quest’ultimo, che renderebbe inconferente la discussione sulla natura sostanzialmente penale della confisca per equivalente qui all’esame, anche alla luce della circostanza che – secondo la stessa Avvocatura – i criteri "Engel” elaborati dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo non sarebbero mai stati applicati al principio di cui all’art. 7 CEDU, che in questa sede viene in considerazione.

4.– Si sono costituite le parti private R. L., O. S., M. G., O. P., A. C., E. B. ed E. L., richiamandosi alle argomentazioni svolte dalle ordinanze di rimessione e chiedendo l’accoglimento delle questioni.

5.– In prossimità dell’udienza, i difensori di R. L., O. S., M. G., O. P., A. C. ed E. B. hanno depositato sei memorie, dal contenuto identico, nelle quali hanno in particolare sottolineato che, all’esito della depenalizzazione, il regime sanzionatorio per le condotte dell’insider secondario è oggi, nel suo complesso, più gravoso di quello penale previgente.

6.– Con "memoria unica” depositata in ciascun giudizio, la difesa del Presidente del Consiglio dei ministri ha richiamato, in via preliminare, le eccezioni e gli argomenti già svolti negli atti di intervento, insistendo poi per il rigetto nel merito delle formulate eccezioni di illegittimità costituzionale.

A integrazione di quanto già argomentato, l’Avvocatura dello Stato ha sostenuto che applicare una sanzione amministrativa alle condotte di insider trading cosiddetto secondario, oggettivamente e soggettivamente meno gravi rispetto a quelle di insider trading primario, comporta la necessità, da un lato, che tali fatti non diano luogo a complessi procedimenti penali e, dall’altro, che essi possano essere accertati e repressi nelle forme, pienamente garantite ma anche più spedite, del procedimento amministrativo e del successivo contenzioso civile. La successione dell’illecito amministrativo all’illecito penale rappresenterebbe sempre, infatti, un caso particolare di abolitio criminis, e non già una semplice rimodulazione della gravità della natura e della gravità delle sanzioni. Secondo l’Avvocatura generale dello Stato, il nuovo regime amministrativo dovrebbe, pertanto, di regola applicarsi nella sua integralità anche ai fatti precedentemente sanzionabili sotto il profilo penale, senza che sia lecito scindere alcune parti soltanto, come la confisca per equivalente, dal complessivo trattamento sanzionatorio previsto dal legislatore con l’intervento di depenalizzazione.

Considerato in diritto

1.– La Corte di cassazione, seconda sezione civile, con sette ordinanze di analogo tenore, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 6, della legge 18 aprile 2005, n. 62 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee. Legge comunitaria 2004), in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848.

L’art. 9, comma 6, della legge 18 aprile 2005, n. 62 è censurato nella parte in cui dispone che la confisca per equivalente prevista dall’art. 187-sexies del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52), si applica, allorché il procedimento penale non sia stato definito, anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore della stessa legge n. 62 del 2005, «e ciò pur quando il complessivo trattamento sanzionatorio generato attraverso la depenalizzazione sia in concreto meno favorevole di quello applicabile in base alla legge vigente al momento della commissione del fatto».

Tali questioni costituiscono la sostanziale riproposizione di censure di illegittimità costituzionale precedentemente proposte in sei dei sette giudizi a quibus e dichiarate inammissibili dalla sentenza n. 68 del 2017 di questa Corte. La settima ordinanza di rimessione, che scaturisce da un diverso procedimento – concernente, peraltro, fatti strettamente connessi a quelli di cui è causa negli altri procedimenti a quibus – ha oggetto e contenuto sovrapponibili rispetto alle prime sei.

1.1.– Considerata l’identità delle questioni sottoposte all’esame di questa Corte, i giudizi devono essere riunti per una decisione congiunta.

2.– Davanti al giudice a quo sono impugnate le sentenze con le quali la Corte d’appello di Brescia, rigettando le relative opposizioni, ha confermato l’applicazione, da parte della Commissione nazionale per le società e la borsa (CONSOB), di sanzioni amministrative (pecuniarie, interdittive e confisca per equivalente) conseguenti all’illecito amministrativo di abuso di informazioni privilegiate, previsto dall’art. 187-bis del d.lgs. n. 58 del 1998 e commesso, secondo la stessa CONSOB, da vari insider secondari.

I fatti in questione erano stati commessi quando erano previsti come delitto ai sensi del previgente art. 180, comma 2, del d.lgs. n. 58 del 1998. Le condotte di abuso di informazioni privilegiate commesse da insider secondari sono state in seguito depenalizzate e trasformate in mero illecito amministrativo, ai sensi del nuovo art. 187-bis, dalla legge n. 62 del 2005, la quale ha confermato la rilevanza penale (ai sensi del novellato art. 184 del d.lgs. n. 58 del 1998) soltanto delle condotte degli insider primari.

Conseguentemente, la legge n. 62 del 2005 ha determinato il venir meno per gli insider secondari della sanzione penale originariamente prevista (reclusione fino a due anni e multa da venti a seicento milioni di lire, unitamente alla confisca diretta dei mezzi utilizzati per commettere il reato e dei beni che ne costituiscano il profitto), disponendo invece per il nuovo illecito amministrativo la sanzione pecuniaria amministrativa da ventimila a tre milioni di euro. Il nuovo art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998, nella sua versione originaria introdotta dalla citata legge n. 62 del 2005, ha inoltre disposto la confisca amministrativa del prodotto o del profitto dell’illecito e dei beni utilizzati per commetterlo, nonché – con disposizione innovativa anche rispetto alla disciplina penale previgente – la confisca amministrativa di somme di denaro, beni o altre utilità appartenenti all’autore dell’illecito di valore equivalente, nel caso in cui non sia possibile procedere alla confisca diretta del prodotto, del profitto o dei beni utilizzati per commettere l’illecito.

L’art. 9, comma 6, della legge n. 62 del 2005, in questa sede censurato, prevede che le disposizioni sanzionatorie relative al nuovo illecito amministrativo si applicano anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore della presente legge che le ha depenalizzate, quando il relativo procedimento penale non sia stato definito.

Il giudice a quo dubita che tale applicazione retroattiva di una misura a contenuto afflittivo-sanzionatorio violi i parametri costituzionali sopra menzionati.

3.– Analoghe questioni di legittimità costituzionale della disposizione in parola erano già state sollevate da parte della stessa Seconda sezione della Corte di Cassazione nell’ambito di sei degli attuali sette giudizi a quibus, ed erano state dichiarate inammissibili da questa Corte con la sentenza n. 68 del 2017.

3.1.– In quell’occasione, questa Corte ritenne, in particolare, inammissibile la questione riferita all’art. 3 Cost. in quanto priva di motivazione.

Quanto alle censure riferite agli artt. 25, secondo comma, e 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 7 CEDU, la sentenza in parola riconobbe natura sostanzialmente punitiva alla confisca per equivalente prevista dal nuovo art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998, pur se dipendente da un mero illecito amministrativo; e conseguentemente affermò che tale misura rientra nel raggio applicativo del principio di irretroattività della norma penale sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost., principio che concerne non soltanto le pene definite come tali dall’ordinamento nazionale, ma anche quelle così qualificabili ai sensi dell’art. 7 CEDU.

Tuttavia, questa Corte ritenne che le questioni prospettate dal rimettente poggiassero su un erroneo presupposto interpretativo. Il legislatore del 2005, infatti, non ha privato il fatto di antigiuridicità, ed ha anzi continuato a riprovarlo per mezzo della sanzione amministrativa, considerando in generale quest’ultima sanzione come più favorevole rispetto al precedente trattamento sanzionatorio, di carattere anche formalmente penale. Proprio su tale presunzione riposa, d’altronde, la disposizione dell’art. 9, comma 6, della legge n. 62 del 2005, che rende obbligatori per i fatti pregressi l’imposizione del nuovo regime sanzionatorio, in luogo della pena originariamente prevista.

Ed allora, se il trattamento sanzionatorio complessivamente risultante dall’intervento di depenalizzazione si rivelasse in effetti più favorevole, nulla osterebbe – sempre secondo la sentenza n. 68 del 2017 – alla sua applicazione anche ai fatti pregressi, dal momento che lo stesso art. 7 CEDU riconosce un diritto a beneficiare della lex mitior, in caso di successione nel tempo di leggi che conservino la qualificazione (sostanziale) di reato ad un medesimo fatto. Dal che l’errore del giudice a quo, il quale aveva preso le mosse dal non condivisibile presupposto secondo cui sarebbe, in ogni caso, precluso applicare retroattivamente la confisca (amministrativa) per equivalente, prevista per la prima volta dal nuovo art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998. Infatti, laddove «il complessivo trattamento sanzionatorio generato attraverso la depenalizzazione, nonostante la previsione di tale confisca, fosse in concreto più favorevole di quello applicabile in base alla pena precedentemente comminata, non vi sarebbero ostacoli costituzionali a che esso sia integralmente disposto».

Un ostacolo all’applicazione retroattiva del nuovo trattamento sanzionatorio potrebbe invece ravvisarsi, secondo la sentenza n. 68 del 2017, soltanto laddove tale trattamento, «assunto nel suo complesso e dunque comprensivo della confisca per equivalente», denunciasse un carattere «maggiormente afflittivo» rispetto a quello previgente: evenienza, quest’ultima, che sarebbe però spettato al giudice a quo accertare e adeguatamente motivare.

Proprio il mancato scioglimento di questo preliminare nodo interpretativo da parte del giudice a quo determinò, in quell’occasione, l’inammissibilità delle questioni allora formulate.

3.2.– Le questioni di legittimità costituzionale che vengono ora all’esame di questa Corte si fanno carico dei rilievi contenuti nella sentenza n. 68 del 2017. Le ordinanze relative forniscono – da un lato – una specifica motivazione alla censura relativa all’art. 3 Cost.; e illustrano – dall’altro lato – le ragioni per le quali il complessivo trattamento sanzionatorio sopravvenuto, comprensivo della nuova confisca per equivalente, risulterebbe maggiormente afflittivo rispetto a quello previgente. Ad avviso della Sezione rimettente, proprio tale maggiore afflittività determinerebbe il contrasto della disposizione denunciata con il divieto di applicazione retroattiva della legge penale, sancito dagli artt. 25, secondo comma, e 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 7 CEDU.

4.– L’Avvocatura generale dello Stato eccepisce, in primo luogo, l’irrilevanza delle questioni prospettate, dal momento che le ordinanze di rimessione non avrebbero adeguatamente motivato sull’infondatezza delle censure dei ricorrenti relative alla sussistenza dell’illecito; censure che – se accolte dalla Corte di cassazione – sarebbero idonee a escludere l’applicazione di qualsiasi sanzione, e non solo della confisca per equivalente.

L’eccezione è infondata.

Tutte le ordinanze di rimessione affermano infatti, sia pure succintamente, che le censure dei ricorrenti concernenti la sussistenza dei fatti che integrano l’illecito amministrativo loro contestato appaiono prima facie non fondate e che, nei giudizi a quibus, «la sussistenza dell’illecito deve ritenersi coperta da giudicato». Tale sommaria motivazione, limitata al fumus, deve ritenersi sufficiente ai fini della rilevanza.

5.– L’Avvocatura generale dello Stato eccepisce, altresì, l’inammissibilità delle questioni per difetto di motivazione sulla loro non manifesta infondatezza.

Anche tale eccezione è infondata, avendo la Sezione rimettente ampiamente motivato su tutti i parametri costituzionali evocati. Che poi tali motivazioni siano errate, come sostiene con vari argomenti l’Avvocatura dello Stato, è – all’evidenza – profilo che attiene esclusivamente al merito delle questioni, non alla loro ammissibilità.

6.– Le questioni relative agli artt. 25, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 7 CEDU, sono fondate.

6.1.– È generalmente riconosciuto che dall’art. 25, secondo comma, Cost. («Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso») discende un duplice divieto: un divieto di applicazione retroattiva di una legge che incrimini un fatto in precedenza penalmente irrilevante; e un divieto di applicazione retroattiva di una legge che punisca più severamente un fatto già precedentemente incriminato. Tale secondo divieto è, del resto, esplicitato nelle parallele disposizioni delle carte internazionali dei diritti umani e, più in particolare, nell’art. 7, paragrafo 1, secondo periodo, della CEDU («Parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso»); nell’art. 15, paragrafo 1, secondo periodo, della Convenzione internazionale sui diritti civili e politici, firmata a New York il 16 dicembre 1966, ratificata e resa esecutiva in Italia con la legge 25 ottobre 1977, n. 881 (Patto internazionale sui diritti civili e politici), («Così pure, non può essere inflitta una pena superiore a quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso»); nonché nell’art. 49, paragrafo 1, seconda proposizione, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007 (CDFUE), che riproduce in modo identico la formulazione contenuta nella CEDU.

Entrambi i divieti in parola trovano applicazione anche al diritto sanzionatorio amministrativo, al quale pure si estende, come questa Corte ha già in più occasioni riconosciuto (sentenze n. 276 del 2016 e n. 104 del 2014), la fondamentale garanzia di irretroattività sancita dall’art. 25, secondo comma, Cost., interpretata anche alla luce delle indicazioni derivanti dal diritto internazionale dei diritti umani, e in particolare dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo relativa all’art. 7 CEDU. Anche rispetto alle sanzioni amministrative a carattere punitivo si impone infatti la medesima esigenza, di cui tradizionalmente si fa carico il sistema penale in senso stretto, di non sorprendere la persona con una sanzione non prevedibile al momento della commissione del fatto.

6.2.– Un’ipotesi che merita particolare considerazione è, peraltro, quella in cui il fatto, originariamente previsto come reato, venga successivamente trasformato in mero illecito amministrativo.

Dal punto di vista formale, le nuove sanzioni amministrative, previste in luogo di quelle penali applicabili in precedenza, si connotano qui come sanzioni nuove, delle quali in via generale dovrebbe predicarsi l’applicabilità solo per il futuro in forza dell’art. 11 delle Preleggi. Le leggi di depenalizzazione, tuttavia, di solito prevedono – a mezzo di apposite discipline transitorie – l’applicabilità retroattiva di tali nuove sanzioni ai fatti commessi prima della loro entrata in vigore; e ciò sul duplice presupposto che, da un lato, tali fatti erano già qualificati in termini di illiceità al momento della loro commissione; e che, dall’altro, la sanzione penale all’epoca prevista era più grave di quella, di natura amministrativa, introdotta con la legge di depenalizzazione.

In via generale, una simile tecnica legislativa si sottrae a censure di illegittimità costituzionale. L’applicazione retroattiva delle nuove sanzioni amministrative – ancorché di natura sostanzialmente punitiva, e in quanto tali attratte dall’orbita di garanzia dell’art. 25, secondo comma, Cost. – è di solito compatibile con la norma costituzionale in parola, non venendo in questione l’applicazione retroattiva di un trattamento sanzionatorio più severo di quello vigente al momento del fatto, bensì – all’opposto – l’applicazione retroattiva di un trattamento sanzionatorio che risulta normalmente più favorevole.

Tuttavia, come la sentenza n. 68 del 2017 ha sottolineato, il generale maggior favore di un apparato sanzionatorio di natura formalmente amministrativa rispetto all’apparato sanzionatorio previsto per i reati non può essere dato per pacifico in ogni singolo caso.

Vero è, infatti, che la sanzione penale si caratterizza sempre per la sua incidenza, attuale o potenziale, sul bene della libertà personale (la stessa pena pecuniaria potendo essere convertita, in caso di mancata esecuzione, in sanzioni limitative della libertà personale stessa), incidenza che è, invece, sempre esclusa per la sanzione amministrativa. E vero è, altresì, che la pena possiede un connotato speciale di stigmatizzazione, sul piano etico-sociale, del comportamento illecito, che difetta alla sanzione amministrativa.

Cionondimeno, l’impatto della sanzione amministrativa sui diritti fondamentali della persona non può essere sottovalutato: ed è, anzi, andato crescendo nella legislazione più recente.

Apparati sanzionatori come quelli di cui trattasi nei procedimenti a quibus rappresentano un esempio paradigmatico dell’elevatissima carica afflittiva di talune sanzioni amministrative. In seguito alle modifiche attuate con il decreto legislativo 10 agosto 2018, n. 107, recante «Norme di adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento (UE) n. 596/2014, relativo agli abusi di mercato e che abroga la direttiva 2003/6/CE e le direttive 2003/124/UE, 2003/125/CE e 2004/72/CE», l’illecito amministrativo oggi ridenominato «Abuso e comunicazione illecita di informazioni privilegiate» di cui all’art. 187-bis del d.lgs. n. 58 del 1998 prevede una sanzione amministrativa che può giungere, a carico di una persona fisica, sino all’importo di cinque milioni di euro, aumentabili ai sensi del comma 5 dello stesso art. 187-bis fino al triplo (e dunque fino a quindici milioni di euro) o fino al maggiore importo di dieci volte il profitto conseguito ovvero le perdite evitate per effetto dell’illecito. Tali sanzioni pecuniarie sono, d’altra parte, affiancate dalle sanzioni di carattere interdittivo previste dall’art. 187-quater del d.lgs. n. 58 del 1998, che limitano fortemente le opzioni professionali – e, dunque, il diritto al lavoro – dei soggetti colpiti dalla sanzione; e sono destinate a essere applicate congiuntamente – ai sensi della disposizione in questa sede censurata – alla confisca, diretta e per equivalente, del prodotto e del profitto dell’illecito. Tutte queste sanzioni sono oggi destinate, almeno di regola, a essere pubblicate – «senza ritardo e per estratto» – nei siti internet della Banca d’Italia o della CONSOB (art. 195-bis del d.lgs. n. 58 del 1998), con conseguente, e tutt’altro che trascurabile, effetto stigmatizzante a carico dei soggetti che ne sono colpiti. Con l’ulteriore peculiarità che nessuna di queste sanzioni può essere condizionalmente sospesa, a differenza di quanto accade per le pene.

A fronte di simili scenari, è giocoforza ammettere – come ha fatto, appunto, la sentenza n. 68 del 2017 – che la presunzione di maggior favore del trattamento sanzionatorio amministrativo rispetto al previgente trattamento sanzionatorio penale nell’ipotesi di depenalizzazione di un fatto precedentemente costitutivo di reato non può che intendersi, oggi, come meramente relativa, dovendosi sempre lasciare spazio alla possibilità di dimostrare, caso per caso, che il nuovo trattamento sanzionatorio amministrativo previsto dalla legge di depenalizzazione risulti in concreto più gravoso di quello previgente. Con conseguente illegittimità costituzionale dell’eventuale disposizione transitoria che ne preveda l’indefettibile applicazione anche ai fatti pregressi, per violazione dell’art. 25, secondo comma, Cost.

6.3.– Nel caso ora all’esame, la Sezione rimettente ha ampiamente e plausibilmente motivato (come analiticamente riferito al punto 2.4. del Ritenuto in fatto) sulle ragioni del carattere in concreto maggiormente afflittivo, per i ricorrenti nei giudizi a quibus, del nuovo trattamento sanzionatorio previsto per i fatti di abuso di informazioni privilegiate commessi da insider secondari, costituenti reato prima della legge n. 62 del 2005.

In sintesi, il giudice a quo ha evidenziato come la previgente disciplina comminasse: la reclusione fino a due anni, la multa da venti a seicento milioni di lire (innalzabili sino al triplo in presenza di particolari circostanze); una serie di pene accessorie, unitamente alla pubblicazione della sentenza su almeno due quotidiani; nonché la confisca (diretta) dei mezzi utilizzati per commettere il delitto e dei beni che ne costituiscono il profitto. L’eventuale sospensione condizionale della pena avrebbe, peraltro, consentito all’autore del delitto di sottrarsi a tutte le sanzioni in questione, con la sola eccezione della confisca; e, in ogni caso, gli sarebbe stato applicato ratione temporis l’indulto previsto dalla legge 31 luglio 2006, n. 241 (Concessione di indulto).

La disciplina sopravvenuta per effetto della legge n. 62 del 2005 prevedeva, invece: una sanzione amministrativa pecuniaria da ventimila euro a tre milioni di euro (innalzabili fino al triplo o fino al maggiore importo di dieci volte il prodotto o il profitto conseguito dall’illecito in presenza di particolari circostanze); le sanzioni amministrative accessorie previste dall’art. 187-quater del d.lgs. n. 58 del 1998; la confisca amministrativa (diretta) del prodotto o del profitto dell’illecito e dei beni utilizzati per commetterlo; ovvero, la confisca amministrativa di denaro, beni o altre utilità di valore equivalente a tale prodotto o profitto e ai beni utilizzati per commettere l’illecito. Nessuna di tali sanzioni amministrative poteva, d’altra parte, essere sospesa; né poteva in alcun modo operare, rispetto a sanzioni amministrative, l’indulto previsto dalla menzionata legge n. 241 del 2006.

Il carattere in concreto deteriore del nuovo trattamento scaturito dall’intervento di depenalizzazione appare, inoltre, con particolare evidenza laddove si ponga mente alla sorte dell’insider primario che aveva rivelato le informazioni privilegiate ai ricorrenti nei procedimenti a quibus: insider primario che – secondo quanto illustrato nelle ordinanze di rimessione – è stato alla fine sanzionato con una semplice multa di 10.000 euro, beneficiando tra l’altro del menzionato provvedimento di indulto.

Tali considerazioni mostrano che – contrariamente all’avviso dell’Avvocatura generale dello Stato – la comparazione tra la gravità delle due discipline sanzionatorie (quella penale previgente, e quella amministrativa successiva) è ben possibile, e anzi doverosa, onde evitare l’applicazione retroattiva all’autore dell’illecito di una disciplina di carattere punitivo – al di là della sua formale qualificazione – più gravosa di quella in vigore al momento del fatto, in contrasto con il principio costituzionale qui all’esame. E ciò indipendentemente dal carattere proporzionato o non proporzionato della confisca per equivalente rispetto al disvalore del fatto: profilo, questo, che – contrariamente, ancora, a quanto rilevato dall’Avvocatura generale dello Stato – non viene in questa sede in discussione, le questioni di legittimità costituzionale ora sottoposte a questa Corte concernendo esclusivamente la disciplina transitoria relativa alla sanzione in parola.

6.4.– Da quanto precede discende che la disposizione in questa sede censurata – disponendo l’inderogabile applicazione retroattiva della nuova disciplina sanzionatoria ai fatti pregressi – si pone in contrasto con gli artt. 25, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 7 CEDU, nella parte in cui impone di applicare la nuova disciplina anche qualora essa risulti in concreto più sfavorevole di quella precedentemente in vigore.

Il giudice a quo ha circoscritto il petitum della presente questione di legittimità costituzionale ai soli profili concernenti la confisca per equivalente – delimitando così i poteri decisori di questa Corte ai sensi dell’art. 27, primo periodo, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale) (ex plurimis, sentenze n. 276 e n. 203 del 2016) –, sulla base dell’argomento per cui la ragione del carattere deteriore del nuovo trattamento sanzionatorio dipenderebbe esclusivamente dalla sopravvenuta applicabilità al nuovo illecito amministrativo di questa nuova forma di confisca. Conseguentemente, il censurato art. 9, comma 6, della legge n. 62 del 2005 deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui stabilisce che la confisca per equivalente prevista dall’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998 si applica, allorché il procedimento penale non sia stato definito, anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore della stessa legge n. 62 del 2005, quando il complessivo trattamento sanzionatorio generato attraverso la depenalizzazione sia in concreto più sfavorevole di quello applicabile in base alla disciplina previgente.

7.– L’accoglimento della questione sotto il profilo degli artt. 25, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 7 CEDU, rende superfluo l’esame degli ulteriori motivi di censura, che restano, pertanto, assorbiti.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 6, della legge 18 aprile 2005, n. 62 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee. Legge comunitaria 2004), nella parte in cui stabilisce che la confisca per equivalente prevista dall’art. 187-sexies del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52), si applica, allorché il procedimento penale non sia stato definito, anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore della stessa legge n. 62 del 2005, quando il complessivo trattamento sanzionatorio conseguente all’intervento di depenalizzazione risulti in concreto più sfavorevole di quello applicabile in base alla disciplina previgente.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 ottobre 2018.

F.to:

Giorgio LATTANZI, Presidente

Francesco VIGANÒ, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 5 dicembre 2018.