Sentenza n. 176 del 2018

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SENTENZA N. 176

ANNO 2018

 

 REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-      Giorgio                       LATTANZI                                        Presidente

-      Aldo                           CAROSI                                             Giudice

-      Marta                          CARTABIA                                               ”

-      Mario Rosario            MORELLI                                                  ”

-      Giancarlo                   CORAGGIO                                               ”

-      Giuliano                     AMATO                                                     ”

-      Silvana                       SCIARRA                                                  ”

-      Daria                          de PRETIS                                                 ”

-      Nicolò                        ZANON                                                     ”

-      Franco                        MODUGNO                                              ”

-      Augusto Antonio        BARBERA                                                 ”

-      Giulio                         PROSPERETTI                                          ”

-      Giovanni                    AMOROSO                                               ”

-      Francesco                   VIGANÒ                                                    ”

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma l, lettera c), della legge della Regione Campania 28 luglio 2017, n. 22, recante «Disposizioni sui tempi per gli interventi di riqualificazione ambientale delle cave ricadenti in aree di crisi ed in Zone Altamente Critiche (ZAC) e per le cave abbandonate del Piano Regionale delle Attività Estrattive. Modifiche alla legge regionale 13 dicembre 1985, n. 54», promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 29 settembre-4 ottobre 2017, depositato in cancelleria il 4 ottobre 2017, iscritto al n. 78 del registro ricorsi 2017 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 47, prima serie speciale, dell’anno 2017.

Visto l’atto di costituzione della Regione Campania;

udito nella udienza pubblica del 3 luglio 2018 il Giudice relatore Daria de Pretis;

uditi l’avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Lidia Buondonno per la Regione Campania.

Ritenuto in fatto

1.‒ Con ricorso notificato il 29 settembre-4 ottobre 2017, depositato il 4 ottobre 2017 e iscritto al n. 78 del registro ricorsi del 2017, il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato l’art. 2, comma l, lettera c), della legge della Regione Campania 28 luglio 2017, n. 22, recante «Disposizioni sui tempi per gli interventi di riqualificazione ambientale delle cave ricadenti in aree di crisi ed in Zone Altamente Critiche (ZAC) e per le cave abbandonate del Piano Regionale delle Attività Estrattive. Modifiche alla legge regionale 13 dicembre 1985, n. 54».

La norma impugnata modifica l’art. 25 delle norme di attuazione del «Piano Regionale delle Attività estrattive (P.R.A.E. 2006)» aggiungendo alla fine del comma 20 ‒ il quale così prevede: «Ogni consorzio, istituito nel singolo comparto delle aree suscettibili di nuove estrazioni, deve provvedere, qualora le cave abbandonate non sono coltivate dal proprietario o titolare di un diritto equipollente e siano da affidare in regime concessorio, alla loro ricomposizione ambientale in misura corrispondente ad una superficie estrattiva complessiva non inferiore ai 17,5 Ha con possibilità di coltivazione e di commercializzazione del materiale estratto per un periodo non superiore ai 3 anni riferito alla singola cava» ‒ le seguenti parole: «prorogabile di ulteriori 3 anni. L’istanza di proroga deve essere presentata prima della scadenza prevista, deve essere in relazione a particolari circostanze non dipendenti dalla volontà o dalle capacità degli esercenti, deve essere opportunamente dimostrata e può essere rilasciata dal dirigente competente a condizione che non siano apportate modifiche sostanziali al progetto su cui sono stati espressi i pareri della Conferenza di servizi e di compatibilità ambientale».

Avverso tale disposizione il Governo solleva due ordini di censure.

In primo luogo, la norma denunciata ‒ consentendo la proroga delle concessioni aventi ad oggetto la ricomposizione ambientale delle cave abbandonate con possibilità di coltivazione e commercializzazione dei materiali estratti ‒ violerebbe l’art. 117, primo comma, della Costituzione, per contrasto con i «vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario» in tema di libertà di stabilimento e di tutela della concorrenza dettati dall’art. 12 della direttiva 2006/123/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 12 dicembre 2006 relativa ai servizi nel mercato interno, i cui principi sono stati attuati dagli artt. 14 e 16 del decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59 (Attuazione della direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno). A sostegno della declaratoria di illegittimità costituzionale sono citati i precedenti di questa Corte n. 117 del 2015, n. 2 del 2014, n. 171 del 2013, n. 114 del 2012, n. 213 del 2011, n. 340 e n. 233 del 2010, nonché la sentenza del 14 luglio 2016 della Corte di Giustizia, quinta sezione, nelle cause riunite C-458/14 e C-67/15, Promoimpresa srl e altri.

Sotto altro aspetto, l’articolo censurato eccederebbe la potestà legislativa regionale, sia perché i citati parametri interposti sarebbero espressivi della sfera di competenza esclusiva dello Stato in materia di «tutela della concorrenza», sia perché (più in generale) la disciplina dei contratti pubblici dovrebbe essere ricondotta alle materie della «tutela della concorrenza» (per quanto concerne la disciplina delle procedure di gara) e dell’«ordinamento civile» (con riguardo alla definizione e all’esecuzione del rapporto contrattuale) di cui all’art. 117, secondo comma, lettere e) ed l), Cost.

1.1.‒ Con la memoria depositata in vista dell’udienza pubblica, il Governo in replica alla difesa regionale ha insistito per l’accoglimento del ricorso.

2.‒ La Regione Campania si è costituita in giudizio, eccependo l’inammissibilità del ricorso e la sua infondatezza.

2.1­.‒ Con memoria depositata il 7 giugno 2018, la Regione ha rilevato in via preliminare l’inammissibilità del ricorso in quanto carente di adeguata argomentazione a sostegno delle censure prospettate, limitandosi l’impugnativa del Governo a individuare i parametri costituzionali ritenuti violati.

Nel merito il ricorso sarebbe comunque infondato.

L’intervento normativo in contestazione, finalizzato allo sviluppo razionale e qualificato delle attività estrattive, non interverrebbe sui presupposti di concessione o autorizzazione alla coltivazione delle cave, limitandosi a prevedere la possibilità per i consorzi già esercenti l’attività estrattiva di ottenere un eventuale allungamento dei termini per il completamento delle attività di ricomposizione ambientale, per un tempo congruo (e sino ad un massimo di 3 anni) e commisurato alle esigenze contingenti, ferme restando le condizioni, i vincoli e le prescrizioni del rapporto originario.

La Regione aggiunge che l’istanza di allungamento dei termini non verrebbe concessa automaticamente al richiedente, essendo invece assoggettata a una valutazione, affidata all’autorità competente, circa la sussistenza di «particolari circostanze non dipendenti dalla volontà o dalle capacità degli esercenti».

Considerato in diritto

1.‒ Il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso questioni di legittimità costituzionale dell’articolo dell’art. 2, comma l, lettera c), della legge della Regione Campania 28 luglio 2017, n. 22, recante «Disposizioni sui tempi per gli interventi di riqualificazione ambientale delle cave ricadenti in aree di crisi ed in Zone Altamente Critiche (ZAC) e per le cave abbandonate del Piano Regionale delle Attività Estrattive. Modifiche alla legge regionale 13 dicembre 1985, n. 54», in riferimento all’art. 117, primo e secondo comma, lettere e) ed l), della Costituzione.

2.‒ Preliminarmente, va respinta l’eccezione di inammissibilità del ricorso.

Contrariamente all’assunto della Regione resistente, secondo cui l’atto introduttivo del giudizio sarebbe privo di una «adeguata motivazione che dimostri le violazioni contestate», le doglianze del ricorrente ‒ oltre a individuare con precisione la disposizione impugnata, i parametri costituzionali e la normativa interposta ritenuta rilevante ‒ illustrano con sufficiente chiarezza le ragioni poste a fondamento delle promosse questioni di costituzionalità. L’affermazione secondo cui la proroga automatica delle concessioni in esame, impedendo l’ingresso di altri potenziali operatori economici nel mercato, costituirebbe una barriera all’accesso non consentita dal diritto europeo, il quale prescriverebbe procedure di gara trasparenti e ripetute anche per il conseguimento del diritto di gestire beni o risorse pubbliche scarse, viene argomentata con plurimi riferimenti giurisprudenziali e normativi.

3.‒ Con la prima censura, il Governo sostiene che la disposizione regionale ‒ consentendo la proroga delle concessioni aventi ad oggetto la ricomposizione ambientale delle cave abbandonate con possibilità di coltivazione e commercializzazione dei materiali estratti ‒ violerebbe l’art. 117, primo comma, Cost., in quanto si porrebbe in contrasto con i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario in tema di libertà di stabilimento e di tutela della concorrenza dettati dall’art. 12 della direttiva 12 dicembre 2006, n. 2006/123/CE (direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa ai servizi nel mercato interno), come attuato dagli artt. 14 e 16 del decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59 (Attuazione della direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno).

3.1. ‒ La questione non è fondata.

3.2.‒ Non vi è dubbio che anche l’attività di sfruttamento delle cave ricada nel campo applicativo della direttiva 2006/123/CE, attuata dal d.lgs. n. 59 del 2010, dal momento che tali fonti hanno ad oggetto «qualunque attività economica, di carattere imprenditoriale o professionale, svolta senza vincolo di subordinazione, diretta allo scambio di beni o alla fornitura di altra prestazione» (art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 59 del 2010). La citata disposizione riguarda in particolare il caso specifico in cui il numero di «autorizzazioni» – come vanno qualificate anche le concessioni, in quanto atti formali che i prestatori devono ottenere dalle autorità competenti per esercitare un’attività (considerando n. 39 e art. 4, n. 6, della direttiva 2006/123/CE) – sia limitato a causa della scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche utilizzabili.

Al fine di garantire la libera circolazione dei servizi e l’apertura del mercato a una concorrenza non falsata e più ampia possibile negli Stati membri, l’art. 12 prevede l’obbligo per gli Stati membri di adottare «una procedura di selezione tra i candidati potenziali, che presenti garanzie di imparzialità e di trasparenza e preveda, in particolare, un’adeguata pubblicità dell’avvio della procedura e del suo svolgimento e completamento» e il conseguente rilascio di un’«autorizzazione» per una durata adeguata, ma pur sempre limitata, senza possibilità di «prevedere la procedura di rinnovo automatico», né di «accordare altri vantaggi al prestatore uscente o a persone che con tale prestatore abbiano particolari legami».

In definitiva, alla luce del diritto europeo, la regolazione dell’accesso ai mercati in base a concessione è compatibile con il principio della concorrenza a condizione che: la scelta del concessionario avvenga in base a criteri oggettivi, non discriminatori e nell’ambito di procedure di evidenza pubblica; non sia previsto alcun diritto di proroga automatico in favore del titolare della concessione scaduta o in scadenza, il quale sottrarrebbe, di fatto, il rinnovo della concessione demaniale alle garanzie di tutela della concorrenza; la durata delle concessioni non sia eccessivamente lunga, in quanto durate eccessive stimolano gestioni inefficienti; non vengano riconosciute esclusive, né preferenze, nel conferimento o rinnovo delle concessioni.

In applicazione di tali principi, questa Corte ha ripetutamente affermato che il rinnovo o la proroga automatica delle concessioni del demanio marittimo (sentenze n. 40 del 2017, n. 171 del 2013, n. 213 del 2011) e idrico (sentenza n. 114 del 2012) viola l’art. 117, primo comma, Cost., per contrasto con i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario in tema di libertà di stabilimento e di tutela della concorrenza, dal momento che coloro che in precedenza non gestivano il bene demaniale non hanno la possibilità, alla scadenza della concessione, di prendere il posto del vecchio gestore se non nel caso in cui questi non chieda la proroga o la chieda senza un valido programma di investimenti.

Queste conclusioni sono state avvalorate dalla Corte di Giustizia che, con la sentenza del 14 luglio 2016 nelle cause riunite C-418/14 e C-67/15, Promoimpresa srl e altri, ha statuito che il diritto dell’Unione europea osta a che le concessioni per l’esercizio delle attività turistico-ricreative nelle aree demaniali marittime e lacustri siano prorogate in modo automatico in assenza di qualsiasi procedura di selezione dei potenziali candidati.

3.3.‒ La citata disciplina in tema di contendibilità dei titoli concessori non è tuttavia evocata in modo pertinente con riferimento alla fattispecie normativa qui in contestazione, che non determina in realtà alcuna alterazione ingiustificata degli equilibri del mercato, come emerge con chiarezza dall’analisi della disciplina regionale in cui si inquadra la disposizione censurata.

La legge della Regione Campania 13 dicembre 1985, n. 54 (Coltivazione di cave e torbiere), come modificata dalla legge della Regione Campania 13 aprile 1995, n. 17 (Modifiche ed integrazioni alla legge regionale 13 dicembre 1985, n. 54, concernente la disciplina della coltivazione delle cave e delle torbiere nella Regione Campania) disciplina la funzione di pianificazione e localizzazione territoriale delle attività estrattive. Nel sistema in essa delineato, la coltivazione è consentita solo quando la trasformazione del suolo che essa comporta è prevista dal «piano regionale delle attività estrattive» (P.R.A.E., approvato con ordinanze 7 giugno 2006, n. 11, e 6 luglio 2006, n. 12, del Commissario ad acta). Nell’ottica di contemperare le esigenze della produzione con quelle di tutela dell’assetto del territorio e dell’ambiente, il piano: delimita le aree potenzialmente utilizzabili a fini estrattivi; stabilisce i tipi e le quantità massime di sostanze estraibili rapportati ai fabbisogni stimati del mercato; indica i criteri e le metodologie per la coltivazione e la ricomposizione ambientale delle cave nuove e per il recupero di quelle abbandonate; indica i criteri per le destinazioni finali delle cave a sistemazione avvenuta, perseguendo, ove possibile, il restauro naturalistico, gli usi pubblici e gli usi sociali (art. 2 della legge reg. Campania n. 54 del 1985).

L’art. 4 della medesima legge regionale definisce altresì i titoli che legittimano la coltivazione dei giacimenti, e segnatamente: l’autorizzazione cui è subordinata la coltivazione dei giacimenti in disponibilità dei privati o di enti pubblici e la concessione cui è invece subordinata la coltivazione di quelli appartenenti al patrimonio indisponibile di enti pubblici o di quelli privati quando il proprietario non intraprenda l’attività o non vi dia sufficiente sviluppo.

La scelta del concessionario avviene a seguito di procedura di gara ad evidenza pubblica, svolta secondo il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, al fine di valutare, non solo l’offerta economica, ma anche altri aspetti, quali l’esperienza pregressa, gli ulteriori requisiti di capacità tecnica economica e finanziaria e le modalità di esecuzione degli interventi di coltivazione e di ricomposizione ambientale (art. 11, comma 3, delle norme di attuazione del P.R.A.E.).

Le istanze di autorizzazione o di concessione sono corredate da un progetto di recupero ambientale contenente l’insieme di azioni che si intendono realizzare per il recupero e il ripristino dell’area di cava una volta dismessa l’attività estrattiva. La ricomposizione ambientale, in particolare, deve prevedere: la sistemazione idrogeologica, cioè la modellazione del terreno atta ad evitare frane o ruscellamenti e le misure di protezione dei corpi idrici suscettibili di inquinamento; il risanamento paesaggistico, cioè la ricostituzione dei caratteri generali ambientali e naturalistici dell’area, in rapporto con la situazione preesistente e circostante; la restituzione del terreno agli usi produttivi agricoli, analoghi a quelli precedentemente praticati (art. 9 della legge reg. Campania n. 54 del 1985). A garanzia dell’esecuzione delle opere per il recupero ambientale sono imposti il versamento di una cauzione o la prestazione di idonee garanzie a carico del richiedente relativamente agli interventi atti a garantire il recupero o la ricomposizione del paesaggio naturale alterato (art. 6 della medesima legge reg. e art. 13 delle norme di attuazione del P.R.A.E.).

Le aree suscettibili di nuove estrazioni ‒ ovvero le «porzioni del territorio regionale in cui sono presenti una o più cave autorizzate nelle quali sono consentiti la prosecuzione dell’attività estrattiva, l’ampliamento o l’apertura di nuove cave nel rispetto dei criteri di soddisfacimento del fabbisogno regionale calcolato per provincia» ‒ sono suddivise in comparti estrattivi aventi un’estensione massima di 35 Ha (ettari) (art. 25 delle norme di attuazione del P.R.A.E.).

All’interno di ciascun comparto, il rilascio delle autorizzazioni e concessioni estrattive è subordinato alla costituzione di un consorzio obbligatorio tra tutti gli aventi titolo e alla previa approvazione di un progetto unitario di gestione produttiva (art. 24 della legge reg. Campania n. 54 del 1985 e art. 21 delle norme di attuazione del P.R.A.E.).

Al consorzio obbligatorio è imposto un preciso onere di attività con riferimento alle «cave abbandonate» ‒ per tali dovendosi intendere, ai sensi dell’art. 3 delle norme di attuazione del P.R.A.E., quelle in cui l’attività estrattiva è cessata prima dell’entrata in vigore della legge regionale n. 54 del 1985 ‒ ricadenti all’interno del comparto. Qualora esse non siano coltivate dal proprietario, il consorzio deve provvedere alla «loro ricomposizione ambientale in misura corrispondente ad una superficie estrattiva complessiva non inferiore ai 17,5 Ha con possibilità di coltivazione e di commercializzazione del materiale estratto per un periodo non superiore ai 3 anni riferito alla singola cava.» (art. 25, comma 20, delle norme di attuazione del P.R.A.E.).

Tutto quanto precisato è rilevante per una corretta lettura della disposizione regionale impugnata, la quale ‒ intervenendo sulle norme tecniche di attuazione del piano ‒ si limita ad aggiungere alla disposizione da ultimo citata che la coltivazione coatta delle cave abbondonate è «prorogabile di ulteriori 3 anni» e a precisare altresì che «[l]’istanza di proroga deve essere presentata prima della scadenza prevista, deve essere in relazione a particolari circostanze non dipendenti dalla volontà o dalle capacità degli esercenti, deve essere opportunamente dimostrata e può essere rilasciata dal dirigente competente a condizione che non siano apportate modifiche sostanziali al progetto su cui sono stati espressi i pareri della Conferenza di servizi e di compatibilità ambientale».

3.4.‒ Con la descritta disciplina dunque, sul ragionevole presupposto che non sussiste un mercato disponibile a investire nello sfruttamento di un bene ormai divenuto infruttifero quale una cava abbandonata, è prescritto ai proprietari e ai concessionari (scelti con gara) delle cave attive situate all’interno del comparto estrattivo di riunirsi in consorzio e di provvedere al recupero ambientale delle cave abbandonate, quale condizione per ottenere l’autorizzazione o la concessione. Il titolo abilitativo (concessorio o autorizzatorio) allo svolgimento dell’impresa estrattiva, pur avendo un effetto ampliativo, costituisce perciò, al contempo, fonte di un obbligo specifico in capo al privato, diretto a mitigare l’impatto di determinate attività antropiche.

In questi termini, l’obbligo di ricomposizione ambientale della cava abbandonata, anche quando comporti la sua residua coltivazione, non è orientato a finalità di lucro, in quanto l’eventuale attività di coltivazione deve essere specificamente finalizzata, nelle forme in cui avviene, così come nei suoi proventi, alla ricomposizione del contesto naturale e paesaggistico dei luoghi. I relativi lavori sono finanziati, infatti, sia mediante lo sfruttamento residuo del giacimento ‒ se nella cava abbandonata è accertata la disponibilità di risorse idonee a consentire almeno in parte la copertura dei costi ‒ sia utilizzando i fondi che derivano dall’auto-contribuzione al consorzio posta a carico degli stessi esercenti (gli artt. 10, comma 12, e 11, comma 10, delle norme di attuazione del P.R.A.E. introducono l’obbligo, a carico dei titolari di autorizzazione e di concessione di attività estrattiva, di versare alla Regione Campania un contributo ambientale annuo commisurato al volume di materiale estratto, in aggiunta al contributo già imposto dall’art. 18 della legge regionale n. 54 del 1985, la cui disciplina è poi confluita nell’art. 19 della legge della Regione Campania 30 gennaio 2008, n. 1, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione Campania - Legge finanziaria 2008»).

In tale contesto normativo, la possibilità di un differimento triennale del termine per il completamento delle attività di recupero ambientale – comprensive se del caso anche della residua coltivazione e commercializzazione dei materiali estratti – non accorda alcun «vantaggio al prestatore uscente», ma è diretto solo a consentire, anche con l’obbligo di impiego a tale fine di eventuali proventi dalla coltivazione, l’ultimazione degli interventi di riqualificazione necessari nell’ipotesi in cui il termine originario (definito al momento del rilascio dell’autorizzazione e dell’aggiudicazione della concessione) non sia stato sufficiente per causa non imputabile agli esercenti.

Non sono neppure adombrabili effetti distorsivi incidenti sulla procedura per la selezione del concessionario della cava attiva, in quanto è la stessa disposizione censurata a precisare che la proroga può essere rilasciata «a condizione che non siano apportate modifiche sostanziali» al progetto di recupero ambientale previamente approvato. Senza contare che, essendo la facoltà di proroga prevista in via generale dal P.R.A.E., di tale facoltà deve tenersi sempre conto al momento di stabilire le regole della procedura di selezione dei candidati potenziali.

Tenuto conto infine della sua funzione di garanzia del recupero ambientale del territorio – che consentirebbe fra l’altro di ricondurla nell’area dei motivi imperativi di interesse pubblico che, in base all’art. 12, paragrafo 3, della direttiva 2006/123/CE, gli Stati membri possono tenere in considerazione nella disciplina dei meccanismi di selezione degli operatori – la previsione risulta proporzionata alla finalità che la ispira: il prolungamento del termine di adempimento dell’obbligo di ricomposizione ambientale infatti non è automatico ‒ in quanto richiede la previa verifica di specifiche circostanze «non dipendenti dalla volontà o dalle capacità degli esercenti» ‒ ed è accordato per un periodo limitato, che non appare eccessivo, come risulta dal raffronto con i termini “ordinari” delle autorizzazioni e concessioni per l’attività estrattiva (per la coltivazione di cave ricomprese nelle aree suscettibili di nuove estrazioni e riserva, l’autorizzazione è rilasciata per una durata massima di 20 anni e la concessione per un periodo massimo di 12 anni: artt. 10, comma 9, e 11, comma 8, delle norme di attuazione del P.R.A.E.).

4.‒ Con il secondo motivo di ricorso, il Governo lamenta che la disposizione regionale avrebbe invaso la potestà legislativa esclusiva dello Stato, prevista dall’art. 117, secondo comma, lettere e) ed l), Cost., per un duplice ordine di considerazioni: i citati parametri interposti sarebbero espressivi della sfera di competenza esclusiva dello Stato in materia di «tutela della concorrenza»; più in generale la disciplina dei contratti pubblici deve essere ricondotta alle materie della «tutela della concorrenza» (per quanto concerne la disciplina delle procedure di gara) e dell’«ordinamento civile» (quanto alla definizione e all’esecuzione del rapporto contrattuale).

4.1.‒ Nemmeno tale censura può essere accolta.

4.2.‒ A seguito della riforma del Titolo V della Costituzione, la mancata menzione della materia «cave e torbiere» nei cataloghi del novellato art. 117 Cost. ne ha imposto la riconduzione alla competenza residuale delle regioni, con il limite del rispetto degli standard ambientali e paesaggistici fissati dalle leggi statali (sentenze n. 66 del 2018, n. 210 del 2016, n. 199 del 2014 e n. 246 del 2013).

Se è vero che la tutela della concorrenza, attesa la sua natura trasversale, funge da limite alla disciplina che le regioni possono dettare nelle materie di competenza concorrente o residuale (sentenze n. 165 del 2014, n. 38 del 2013 e n. 299 del 2012), si deve tuttavia rilevare che l’analisi della specifica norma impugnata sopra condotta alla luce del suo oggetto e della sua ratio ha fatto emergere che essa non interferisce sull’assetto concorrenziale del mercato ‒ e non interseca quindi il corrispondente titolo di potestà legislativa statale ‒ stante l’inidoneità della cava abbandonata a fornire «un’occasione di guadagno» per il privato, e la sua attitudine ad assumere rilevanza ai soli fini della salvaguardia dell’ambiente.

Nemmeno il riferimento alla materia dei contratti pubblici è pertinente. Le concessioni in esame, infatti, non hanno ad oggetto una prestazione di servizi determinata dall’ente aggiudicatore, bensì l’esercizio di un’attività economica con clausola prescrittiva di recupero ambientale.

Tale conclusione ‒ come ricorda anche la Corte di giustizia dell’Unione europea nella sentenza 14 luglio 2016, in C-418/14 e C-67/15, Promoimpresa srl e altri, punti 44-47 ‒ è corroborata dal considerando 15 della direttiva 2014/23/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, il quale precisa che «taluni accordi aventi per oggetto il diritto di un operatore economico di gestire determinati beni o risorse del demanio pubblico, in regime di diritto privato o pubblico», mediante i quali l’amministrazione aggiudicatrice «fissa unicamente le condizioni generali d’uso, senza acquisire lavori o servizi specifici, non dovrebbero configurarsi come concessione di servizi» ai sensi di tale direttiva. E, del resto, lo stesso codice dei contratti pubblici (approvato con il decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, recante «Attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d’appalto degli enti erogatori nei settori dell’acqua, dell’energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture») esclude dal proprio ambito di applicazione il caso in cui un soggetto pubblico o privato si impegni a realizzare un’opera pubblica a sua totale cura e spesa e previo ottenimento di tutte le necessarie autorizzazioni (art. 20).

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma l, lettera c), della legge della Regione Campania 28 luglio 2017, n. 22 (Disposizioni sui tempi per gli interventi di riqualificazione ambientale delle cave ricadenti in aree di crisi ed in Zone Altamente Critiche e per le cave abbandonate del Piano Regionale delle Attività Estrattive. Modifiche alla legge regionale 13 dicembre 1985, n. 54), promosse dal Presidente del Consiglio dei ministri, in riferimento agli artt. 117, commi primo e secondo, lettere e) ed l), della Costituzione, con il ricorso indicato in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 luglio 2018.

F.to:

Giorgio LATTANZI, Presidente

Daria de PRETIS, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 23 luglio 2018.