ANNO 2018
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO
ITALIANO
LA CORTE
COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Paolo GROSSI Presidente
- Giorgio LATTANZI Giudice
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Mario
Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO
”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giovanni AMOROSO ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale
dell’art. 1, comma 739, della legge
28 dicembre 2015, n. 208, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio
annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)», promosso
dalla Commissione tributaria provinciale di Pescara, nel procedimento vertente
tra Studio Cinque Outdoor srl e il Comune di
Montesilvano e altra, con ordinanza
del 1° febbraio 2017, iscritta al n. 66 del registro ordinanze 2017 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 20, prima serie
speciale, dell’anno 2017.
Visto l’atto di intervento
del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di
consiglio del 6 dicembre 2017 il Giudice relatore Giuliano Amato.
Ritenuto in
fatto
1.– La Commissione tributaria provinciale di
Pescara, con ordinanza del 1° febbraio 2017, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 23, 53, 97, 102, 114, 117, sesto comma, in
relazione all’art. 4, comma 4, della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni
per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla L. Cost.
18 ottobre 2001, n. 3), e 119 della Costituzione,
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 739, della legge 28
dicembre 2015, n. 208, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio
annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)», nella parte in
cui non estende a tutti i Comuni l’efficacia dell’abrogazione della facoltà di
aumento delle “tariffe base” dell’imposta comunale di pubblicità (ICP),
disciplinata dall’art. 11, comma 10, della legge 27 dicembre 1997, n. 449
(Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica), come modificato
dall’art. 30, comma 17, della legge 23 dicembre 1999, n. 488, recante
«Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato.
(Legge finanziaria 2000)».
La disposizione censurata prevede che:
«[l]’articolo 23, comma 7, del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito,
con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, nella parte in cui abroga
l’articolo 11, comma 10, della legge 27 dicembre 1997, n. 449, relativo alla
facoltà dei comuni di aumentare le tariffe dell’imposta comunale sulla pubblicità,
ai sensi e per gli effetti dell’articolo 1 della legge 27 luglio 2000, n. 212,
si interpreta nel senso che l’abrogazione non ha effetto per i comuni che si
erano già avvalsi di tale facoltà prima della data di entrata in vigore del
predetto articolo 23, comma 7, del decreto-legge n. 83 del 2012».
2.– La
Commissione tributaria provinciale rimettente riferisce di essere chiamata a
pronunciarsi a seguito dell’impugnazione di un atto di accertamento relativo
all’imposta comunale sulla pubblicità del Comune di Montesilvano per l’anno
2015 – sostitutivo di un precedente atto e recante una rimodulazione degli
importi dovuti a seguito di mediazione tributaria – censurato in relazione alle
modalità di accertamento dell’imposta, con richiesta, altresì, di sollevare
questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 739, della legge n.
208 del 2015.
2.1.– Premette il giudice a
quo che l’imposta comunale sulla pubblicità è disciplinata dal Capo I del
decreto legislativo 15 novembre 1993, n. 507 (Revisione ed armonizzazione
dell’imposta comunale sulla pubblicità e del diritto sulle pubbliche
affissioni, della tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche dei comuni
e delle province nonché della tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi
urbani a norma dell’art. 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421, concernente il
riordino della finanza territoriale), che ha introdotto una “tariffa base” a
carico delle imprese pubblicitarie, applicandola ai Comuni, soggetti attivi di
tale imposta, suddivisi in cinque classi a seconda del numero degli abitanti,
in ossequio all’art. 53 Cost. (art. 2); tariffa base
a cui il regolamento comunale può apportare una serie di maggiorazioni previste
dallo stesso d.lgs. n. 507 del 1993. Il Comune interessato, quindi, entro il 31
marzo dell’anno di riferimento dell’imposta, deve determinare l’ammontare di
essa con le varie maggiorazioni.
Nella
tracciata ricostruzione, il rimettente precisa che l’art. 3, comma 5, del
d.lgs. n. 507 del 1993, dispone, in caso di mancata delibera per gli anni
successivi a quello di adozione del regolamento, che sono prorogate le tariffe
dell’anno precedente (principio di “ultrattività delle tariffe”).
L’art.
11, comma 10, della legge n. 449 del 1997, «nel testo modificato dall’art. 30,
1° comma, n. 388/1999 (recte:
art. 30, comma 17, della legge n. 488 del 1999), ha previsto per i Comuni la
facoltà di stabilire ulteriori maggiorazioni, fino al cinquanta per cento
dell’imposta, in considerazione delle differenti realtà socio-economiche del
territorio di riferimento.
Tale
facoltà è stata sospesa dapprima dall’art. 1, comma 7, del decreto-legge 27
maggio 2008, n. 93 (Disposizioni urgenti per salvaguardare il potere di
acquisto delle famiglie), convertito, con modificazioni, dalla legge 24 luglio
2008, n. 126. La sospensione è stata poi confermata, per il triennio 2009-2011,
dall’art. 77-bis del decreto-legge 25
giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la
semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e
la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 6
agosto 2008, n. 133. Successivamente, l’art. 4, comma 4, del decreto-legge 2
marzo 2012, n. 16 (Disposizioni urgenti in materia di semplificazioni
tributarie, di efficientamento e potenziamento delle
procedure di accertamento), convertito, con modificazioni, dalla legge 26
aprile 2012, n. 44, ha abrogato l’art. 77-bis,
comma 30, del d.l. n. 112 del 2008 e la sospensione,
da esso prevista, del potere degli enti locali di adottare aumenti delle
aliquote.
Limitatamente
alle tariffe dell’imposta di pubblicità, da ultimo, è intervenuto l’art. 23,
comma 7, del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la
crescita del Paese), convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012,
n. 134, che ha definitivamente abrogato la facoltà di disporre le ulteriori
maggiorazioni all’ICP, introdotta dall’art. 11, comma 10, della legge n. 449
del 1997. L’art. 23, comma 11, del d.l. n. 83 del
2012, nondimeno, prevedeva che i procedimenti avviati in data anteriore a
quella di entrata in vigore del decreto-legge fossero disciplinati, fino alla
loro definizione, dalle disposizioni abrogate.
Secondo
il giudice rimettente ciò avrebbe fatto sorgere un problema interpretativo
sull’esatta applicazione di tale normativa, in particolare riguardo alla
circostanza se le delibere comunali confermative delle precedenti delibere,
recanti le tariffe maggiorate, fossero illegittime o comunque disapplicabili
per gli anni successivi al 2012.
Infatti,
molti Comuni avevano inteso la disposizione di cui al citato comma 11 come
clausola di salvaguardia degli aumenti disposti prima dell’abrogazione, che
quindi potevano continuare ad essere applicati; le imprese di pubblicità,
d’altro canto, originavano un notevole contenzioso finalizzato a ripristinare
le tariffe originarie ai sensi del Capo I del d.lgs. n. 507 del 1993.
Sul
punto è intervenuta la sentenza del Consiglio di Stato, sezione quinta, 22
dicembre 2014, n. 6201, stabilendo che le delibere, anche tacite, confermative
delle tariffe applicate in base alla legge n. 449 del l997, poi abrogata,
fossero illegittime; atteso il mutamento della disciplina nazionale di
riferimento, infatti, anche la mera conferma rappresenterebbe una modificazione
delle tariffe, effettuata in base ad una disposizione non più vigente.
Diversamente,
il parere del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana 13
gennaio 2015, n. 368 ha ritenuto che la disposizione in questione comportasse
solamente l’illegittimità di nuovi aumenti, disposti in data successiva
all’entrata in vigore del d.l. n. 83 del 2012.
Impostazione accolta anche dalla successiva giurisprudenza amministrativa, che
ha considerato gli aumenti già disposti applicabili anche successivamente al
2012, attraverso la proroga del regime stabilito dalle norme poi abrogate (così
TAR Veneto, sezione terza, Venezia, sentenza 7 ottobre 2015, n. 1001; TAR
Abruzzo, sezione prima, Pescara, sentenza 15 luglio 2016, n. 269).
La
disposizione censurata, dunque, sarebbe stata adottata dal legislatore proprio
al fine di risolvere tale contenzioso, fornendo un’interpretazione autentica
della norma abrogatrice della facoltà concessa ai
Comuni di aumentare le tariffe.
2.2.–
Secondo il giudice rimettente sarebbe evidente la rilevanza della questione ai
fini della decisione del ricorso sull’atto impugnato. L’individuazione della
tariffa dell’ICP applicabile per l’anno 2015, infatti, sarebbe determinante per
la risoluzione del giudizio, essendo state applicate dal Comune di Montesilvano
le maggiorazioni stabilite dalla legge n. 449 del 1997 (già previste dalla
deliberazione del Consiglio comunale del 23 dicembre 2010, n. 194), in virtù
del principio di “ultrattività” delle tariffe. L’estensione dell’effetto
abrogativo di cui all’art. 23, comma 7, del d.l. n.
83 del 2012, invece, non consentirebbe di richiedere il pagamento dell’imposta
maggiorata.
Se il comma 739 dell’art. l della
legge n. 208 del 2015 non avesse disciplinato i limiti e la portata della disposizione
abrogativa, infatti, la Commissione tributaria provinciale, aderendo alla tesi
della sentenza del Consiglio di Stato n. 6201 del 2014, avrebbe disapplicato la
delibera tacita di proroga delle tariffe dell’ICP. Invece, la disposizione
censurata avrebbe creato due diversi regimi giuridici applicabili in materia di
tariffe sull’ICP, rendendo possibile l’esercizio della facoltà di aumento – o
meglio, di continuare ad applicare l’aumento già deliberato – unicamente per
quei Comuni che si fossero avvalsi di tale facoltà prima della data di entrata
in vigore del predetto decreto-legge.
2.3.–
Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo ritiene opportuno chiarire l’esatta natura della disposizione
oggetto d’esame.
Il legislatore avrebbe utilizzato
lo strumento della disposizione d’interpretazione autentica, ai sensi degli
artt. l, comma 2, e 3, comma 1, della legge 27 luglio 2000, n. 212
(Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente), in quanto
unico caso consentito di disposizioni tributarie retroattive (sono richiamate sentenze n. 314 del
2013, n. 15
del 2012, n.
271 e n. 257
del 2011, n.
209 del 2010, n.
74 del 2008 e n.
234 del 2007).
La disposizione censurata, in
realtà, abrogherebbe parzialmente la disposizione interpretata, privando di
effetti l’abrogazione del potere di aumento delle tariffe per i Comuni che se
ne fossero già avvalsi, facendo così salvi tutti gli atti confermativi degli
aumenti, anche successivi all’entrata in vigore della legge abrogatrice.
Ciò che rileverebbe nella
circostanza in esame, quindi, sarebbe la portata novativa della disposizione,
surrettiziamente retroattiva, stante l’assenza delle possibili varianti di
senso del testo originario; mancherebbe, infatti, qualsiasi appiglio semantico
che giustifichi un’interpretazione riconducibile ad un’abrogazione parziale.
L’obiettivo perseguito dal legislatore sembrerebbe, allora, quello di risolvere
il contenzioso insorto e potenzialmente producibile, legittimando gli aumenti
di imposta reiterati dai Comuni sulla base di una legge ormai abrogata.
Emergerebbe, inoltre, un profilo
di contraddittorietà e d’incoerenza tra norme. L’abrogazione dell’art. 11,
comma 10, della legge n. 449 del 1997 sarebbe tesa ad una stabilizzazione delle
tariffe; l’art. 1, comma 739, della legge n. 208 del 2015, invece, avrebbe
azzerato tale voluntas legis,
«realizzando un doppio regime impositivo irragionevole e soprattutto in
contrasto con i principi di uguaglianza e parità di trattamento, espressione,
peraltro, di un uso distorto della discrezionalità legislativa» (è richiamata
la sentenza n.
313 del 1995).
Non si evincerebbe dalla
denunciata disposizione neppure se la preclusione della facoltà di continuare
ad applicare le tariffe maggiorate valga solo per Comuni che non abbiano mai
operato gli aumenti nel periodo antecedente al d.l.
n. 83 del 2012, oppure anche per quelli che abbiano deliberato gli aumenti per
poi procedere, per intervenute scelte di merito amministrativo, a ripristinare
la tariffa base. In tal modo, le stesse amministrazioni potrebbero anche
decidere di ridurre la percentuale di incremento stabilita, per poi, in un
periodo d’imposta successivo, tornare a operare gli aumenti. Tale ampia facoltà
deriverebbe dalla locuzione introdotta nel comma 739, e sarebbe illegittima in
quanto concessa non già con efficacia erga
omnes, ma solo ad alcuni Comuni, per i quali si
sarebbe ripristinato il regime giuridico preesistente al d.l.
n. 83 del 2012.
La natura stessa della disposizione,
infine, non ne consentirebbe un’interpretazione costituzionalmente orientata,
poiché l’unica interpretazione praticabile imporrebbe di ritenere non
manifestamente infondati i dubbi di costituzionalità. Qualora non vi fosse
stato l’intervento legislativo, invece, sarebbe stato possibile fornire
un’interpretazione coerente con i principi di cui agli artt. 3 e 53 Cost., ritenendo l’abrogazione delle maggiorazioni
tariffarie applicabile a tutti i Comuni.
2.3.1.–
In particolare sarebbero violati gli artt. 3, 53 e 97 Cost.,
poiché dall’applicazione della disposizione censurata conseguirebbe una duplice
irragionevole discriminazione: istituzionale, cioè tra i Comuni, e soggettiva,
ossia tra i contribuenti.
In tal modo, per una categoria di
Comuni si sarebbe creata una nuova tariffa base, consolidando gli aumenti
all’interno dell’imposta; il che rivelerebbe l’estensione della disposizione
censurata ben al di là di quella che si vorrebbe interpretare, incidendo anche
sulla disciplina generale della materia.
Sarebbe del tutto irragionevole e
discriminatorio stabilire per legge che possa procedersi al rinnovo tacito
delle tariffe recanti maggiorazioni sulla base di una legge abrogata, poiché il
rinnovo sarebbe equiparabile ad un nuovo provvedimento di conferma delle
statuizioni comunali, adottato in carenza di una disposizione legislativa che
lo legittimi.
La disposizione lederebbe anche
il principio di progressività di cui all’art. 53, secondo comma, Cost., in quanto la progressività sarebbe ancorata a un
criterio iniquo, ossia all’eventuale “tempestività” di alcuni Comuni
nell’applicare le maggiorazioni nel periodo in cui erano legislativamente
previste.
2.3.2.–
La denunciata disparità di trattamento inciderebbe, inoltre, anche
sull’autonomia finanziaria dei Comuni, violando l’art. 119 Cost.,
in combinato disposto con gli artt. 23 e 117, sesto comma, Cost.
(quest’ultimo in relazione all’art. 4, comma 4, della legge n. 131 del 2003).
Secondo il giudice rimettente la
potestà regolamentare in materia tributaria dei Comuni dovrebbe derivare da una
disciplina legislativa statale che, a sua volta, necessiterebbe di requisiti
minimi di uniformità per gli amministrati. Tali requisiti sarebbero seriamente
compromessi, perché tutti gli aumenti tariffari operati durante il periodo del
blocco degli aumenti sarebbero da considerarsi contra legem, in virtù dell’illegittimità
delle delibere confermative, novative, o semplicemente delle proroghe previste
dal comma 5 dell’art. 3 del d.lgs. n. 507 del 1993, applicate in assenza di copertura
legislativa.
Con l’approvazione dell’art. 1,
comma 739, della legge n. 208 del 2015, dunque, si sarebbe operata una
sanatoria degli aumenti illegittimi sin dalla loro prima adozione, in aperta
violazione di uno dei principi cardine dell’art. 23 Cost.,
creando una copertura legislativa ex post
per tutte le delibere recanti incrementi alle tariffe, anche per quelle
illegittimamente adottate.
2.3.3.– Ai profili di
dubbia legittimità costituzionale sin qui illustrati, si affiancherebbe anche
quello relativo all’illegittima interferenza con la funzione giurisdizionale.
Il giudice rimettente – ritenendo che l’onere di
deliberare ogni anno le tariffe tributarie, sia in forma tacita, sia esplicita,
imporrebbe al Comune di conformare la propria decisione alla norma nazionale di
riferimento vigente – assume che, in virtù dei principi lex posterior derogat
priori e, soprattutto, lex primaria derogat legi subsidiariae,
il mantenimento delle tariffe incrementate negli anni d’imposta successivi
all’abrogazione della disposizione che autorizzava tali incrementi dovrebbe
considerarsi contra ius.
Ciò sarebbe stato già chiarito dalla sentenza del Consiglio di Stato n. 6201
del 2014.
L’art. 1, comma 739, della legge n. 208 del 2015,
con l’obiettivo di realizzare una sanatoria a favore dei Comuni promotori di
prelievi tributari privi di copertura legislativa, avrebbe introdotto una
disciplina innovativa e pseudo-interpretativa, che interferirebbe
illegittimamente con la funzione giurisdizionale (sono richiamate le sentenze n. 155 del
1990, n. 233
del 1988 e n.
187 del 1981).
Il vero naturale destinatario di un intervento
legislativo di interpretazione autentica, d’altronde, sarebbe il giudice, che
applica la legge al caso concreto. Dunque, la circostanza che il Consiglio di
Stato si fosse già espresso con una interpretazione conforme al dettato
legislativo sarebbe sintomatica della effettiva finalità della disposizione
censurata, ossia quella di sanare una diversa interpretazione, peraltro
illegittima e contraria ai principi costituzionali.
La norma censurata, quindi, inciderebbe
negativamente sulle attribuzioni costituzionalmente riservate all’autorità
giudiziaria, violando così l’art. 102 Cost., poiché
travolgerebbe gli effetti di pronunce divenute irrevocabili, definendo
sostanzialmente, con atto legislativo, l’esito dei giudizi in corso (si
richiamano sentenze
n. 209 del 2011, n. 311 del 1995
e n. 155 del
1990).
2.3.4.–
L’ordinanza di rimessione, da ultimo, denuncia, nell’epigrafe e nelle
conclusioni, la violazione dell’art. 114 Cost.
3.– Con atto depositato il 6
giugno 2017 è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le
questioni siano dichiarate inammissibili.
3.1.–
Secondo l’interveniente, la Commissione tributaria provinciale di Pescara fonderebbe
il suo ragionamento su di una lettura erronea della disposizione censurata.
Tale disposizione, di effettiva
interpretazione autentica, si sarebbe limitata a chiarire che l’intervenuta
abrogazione non avrebbe potuto incidere retroattivamente rispetto alle delibere
di aumento delle tariffe anteriori al 2012.
Ciò sarebbe confermato dalla
giurisprudenza amministrativa già formata al riguardo. Il TAR Abruzzo, sezione
prima, Pescara, con la sentenza 15 luglio 2016, n. 267, emessa proprio in un
giudizio in cui era coinvolto lo stesso Comune di Montesilvano, infatti,
avrebbe precisato che «l’abrogazione della norma che prevedeva la possibilità
di aumentare le tariffe, se ha privato (per il futuro) gli enti locali di tale
potere, non ha invece inciso sulle tariffe già deliberate, non essendo stato
disposto alcunché di esplicito riguardo ad esse. Operando l’abrogazione “dalla
data di entrata in vigore del presente decreto-legge”, il comma 739 non
autorizza la conclusione che il legislatore abbia inteso effettuare un
generalizzato ripristino della tariffa base estendendo l’effetto abrogativo
anche alle tariffe legittimamente maggiorate». Dunque, la norma interpretativa
individuerebbe un significato già ricavabile dalla disposizione interpretata,
«limitandosi ad espungere interpretazioni tali da far retroagire l’effetto
abrogativo a data precedente l’entrata in vigore del D.L. n. 83 del 2012.».
L’art. l, comma 739, della legge
n. 208 del 2015, pertanto, ben avrebbe potuto essere interpretato in senso
difforme da quello ritenuto dal giudice a
quo.
Il rimettente, invece, non si
sarebbe dato carico di fornire un’interpretazione costituzionalmente orientata
della norma, tale da delimitarne la portata in conformità al dettato
costituzionale, nel senso di far salve le delibere comunali anteriori al 2012 e
non certo di creare un permanente doppio regime, con enti locali dispensati dal
divieto di aumentare le tariffe anche dopo il 2012. L’avvocatura generale dello
Stato richiama, in proposito, il costante orientamento di questa Corte secondo
cui, «“in linea di principio, le leggi non si dichiarano costituzionalmente
illegittime perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali” (ex multis, sentenza n. 356 del
1996) e conseguentemente, di fronte ad alternative ermeneutiche di questo
tipo, debba essere privilegiata quella che il giudice ritiene conforme a
Costituzione» (è citata la sentenza n. 113 del
2015).
L’inammissibilità della questione
non potrebbe ritenersi superata neanche in base alla natura della disposizione
censurata, che secondo il giudice rimettente escluderebbe in radice la
possibilità d’interpretare la stessa in maniera costituzionalmente orientata.
Infatti, non si comprenderebbe per quale ragione una norma d’interpretazione
autentica non possa essere essa stessa oggetto di diverse interpretazioni.
Considerato
in diritto
1.– La Commissione tributaria provinciale di Pescara,
con ordinanza del 1° febbraio 2017, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3,
23, 53, 97, 102, 114, 117, sesto comma, in relazione all’art. 4, comma 4, della
legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento
della Repubblica alla L. Cost. 18 ottobre 2001, n.
3), e 119 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art.
1, comma 739, della legge 28 dicembre 2015, n. 208, recante «Disposizioni per
la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di
stabilità 2016)».
Tale disposizione interpreta l’art. 23, comma 7, del
decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese),
convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 134 – che abroga la facoltà dei Comuni di aumentare le tariffe
dell’imposta comunale sulla pubblicità prevista dall’art. 11, comma 10, della
legge 27 dicembre 1997, n. 449 (Misure per la stabilizzazione della finanza
pubblica), come modificato dall’art. 30, comma 17, della legge 23 dicembre
1999, n. 488, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e
pluriennale dello Stato. (Legge finanziaria 2000)» – nel senso che l’abrogazione non ha effetto per i
Comuni che si siano già avvalsi di tale facoltà prima della data di entrata in
vigore dello stesso decreto-legge.
2.– Secondo il giudice a quo la disposizione oggetto di
censura, apparentemente d’interpretazione autentica, avrebbe parzialmente
privato di effetti l’abrogazione della facoltà di prevedere maggiorazioni sino
al cinquanta per cento della tariffa base dell’imposta comunale sulla
pubblicità (ICP). In virtù dell’intervento del legislatore, infatti, tale
abrogazione non avrebbe effetto nei confronti dei Comuni che abbiano deliberato
tali maggiorazioni prima dell’entrata in vigore del d.l.
n. 83 del 2012, facendosi così salve le deliberazioni, esplicite o tacite,
successive al 2012.
La disposizione censurata,
quindi, avrebbe portata innovativa, stante l’assenza delle possibili varianti
di senso del testo originario, non sussistendo in esso alcun appiglio semantico
che giustifichi un’interpretazione riconducibile ad un’abrogazione parziale.
L’obiettivo perseguito dal legislatore sarebbe, dunque, soltanto quello di
risolvere il contenzioso insorto, legittimando gli aumenti di imposta reiterati
dai Comuni sulla base di una legge ormai abrogata.
2.1.– L’art. 1, comma 739,
della legge n. 208 del 2015 violerebbe, in primo luogo, gli artt. 3, 53 e 97 Cost., introducendo un irragionevole trattamento
discriminatorio, in relazione ai contribuenti e rispetto ai Comuni, ancorato ad
un dato del tutto inconferente e non dotato di alcuna significatività, quale
l’esser stata adottata in precedenza una deliberazione recante le maggiorazioni
d’imposta.
2.2.– In secondo luogo, sarebbero violati gli artt.
23, 119 e 117, sesto comma, Cost, quest’ultimo in
relazione all’art. 4, comma 4, della legge n. 131 del 2003, poiché la norma
interpretativa ripristinerebbe un regime tributario ormai abrogato, creando una
copertura legislativa ex post per
tutti gli incrementi tariffari successivi al 2012, incidendo illegittimamente
sulla potestà tributaria comunale, in carenza dei requisiti minimi di
imparzialità e uniformità dell’azione amministrativa e di parità di condizioni
tra enti.
2.3.– Risulterebbe leso, altresì,
l’art. 102 Cost., in quanto la disposizione censurata
inciderebbe negativamente sulle attribuzioni costituzionalmente riservate
all’autorità giudiziaria, travolgendo gli effetti di pronunce divenute
irrevocabili e definendo sostanzialmente, con atto legislativo, l’esito dei
giudizi in corso.
2.4.– L’ordinanza di
rimessione denunzia, infine, anche la violazione dell’art. 114 Cost.
3.– L’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito
l’inammissibilità delle questioni, perché il rimettente avrebbe fornito
un’interpretazione della disposizione censurata fondata su un presupposto
erroneo, senza darsi carico di fornire un’interpretazione costituzionalmente
orientata della stessa.
L’eccezione non può essere accolta.
La più recente giurisprudenza di questa Corte
esclude che il mancato ricorso da parte del giudice a quo ad un’interpretazione costituzionalmente orientata possa
essere causa d’inammissibilità di una questione di legittimità costituzionale,
quando vi sia un’adeguata motivazione circa l’impedimento a tale
interpretazione, in ragione del tenore letterale della disposizione (sentenze n. 194,
n. 69 e n. 42 del 2017;
n. 221 del 2015).
Nel caso di specie, il giudice rimettente assume
che l’abrogazione delle maggiorazioni operata dal d.l.
n. 83 del 2012 non consentiva in nessun caso la possibilità di conferma, tacita
o esplicita, delle tariffe maggiorate. Per converso, l’art. 1, comma 739, della
legge n. 208 del 2015, limitando l’effetto dell’abrogazione, consentiva in
realtà la conferma. In ragione di ciò, quindi, non sarebbe possibile darne
un’interpretazione conforme a Costituzione.
4.– Deve ritenersi inammissibile, invece, la
questione sollevata in riferimento all’art. 114 Cost.,
meramente indicato nel dispositivo e nelle premesse dell’ordinanza di
rimessione. Manca, pertanto, un’adeguata motivazione in ordine alle ragioni di
contrasto tra le disposizioni censurate e il parametro costituzionale evocato (sentenze n. 240 del
2017 e n.
219 del 2016).
5.– Le questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 1, comma 739, della legge n. 208 del 2015, sollevate dalla
Commissione tributaria provinciale di Pescara, in riferimento agli artt. 3, 23,
53, 97, 102, 117, sesto comma, in relazione all’art. 4, comma 4, della legge n.
131 del 2003, e 119 Cost., non sono fondate.
5.1.– L’imposta comunale sulla pubblicità (ICP) è
disciplinata dal
Capo I del decreto legislativo 15 novembre 1993, n. 507 (Revisione ed
armonizzazione dell’imposta comunale sulla pubblicità e del diritto sulle
pubbliche affissioni, della tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche
dei comuni e delle province nonché della tassa per lo smaltimento dei rifiuti
solidi urbani a norma dell’art. 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421,
concernente il riordino della finanza territoriale), che prevede, in riferimento alla determinazione
dell’imposta, delle tariffe base (art. 12 e seguenti), variabili in base alla
fascia di appartenenza del Comune, a cui possono essere apportate talune
maggiorazioni. Le modalità applicative dell’ICP sono disciplinate da appositi
regolamenti comunali, in base ai quali l’ammontare dell’imposta,
con le varie maggiorazioni, è determinato dal
Comune interessato entro il 31 marzo dell’anno di riferimento, con decorrenza
dal 1° gennaio dell’anno d’imposta (art. 3, comma 5).
Trova applicazione, inoltre, il principio di “ultrattività
delle tariffe”, prevedendosi che, in caso di mancata delibera per gli anni
successivi a quello di adozione del regolamento, sono prorogate le tariffe
dell’anno precedente. Un principio che l’art. 1, comma 169, della legge 27
dicembre 2006, n. 296, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio
annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2007)», ha esteso a tutti
i tributi locali, stabilendo che «[g]li enti locali deliberano le tariffe e le
aliquote relative ai tributi di loro competenza entro la data fissata da norme
statali per la deliberazione del bilancio di previsione. Dette deliberazioni,
anche se approvate successivamente all’inizio dell’esercizio purché entro il
termine innanzi indicato, hanno effetto dal 1° gennaio dell'anno di
riferimento. In caso di mancata approvazione entro il suddetto termine, le
tariffe e le aliquote si intendono prorogate di anno in anno».
L’art. 11, comma 10, della legge n. 449 del 1997
(come modificato dall’art. 30, comma 17, della legge 488 del 1999) ha
introdotto la facoltà di stabilire ulteriori maggiorazioni all’ICP, fino a un
massimo del 50 per cento della tariffa base.
Tale facoltà è stata poi sospesa dal legislatore
per il triennio 2009-2011 con l’art. 77-bis,
comma 30, del decreto-legge
25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la
semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e
la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 6
agosto 2008, n. 133, recante il
“blocco degli aumenti” per tutti i tributi locali.
Il successivo art. 4, comma 4, del decreto-legge 2 marzo 2012, n. 16
(Disposizioni urgenti in materia di semplificazioni tributarie, di efficientamento e potenziamento delle procedure di
accertamento), convertito, con modificazioni, dalla legge 26 aprile 2012, n. 44, entrato in vigore il 2 marzo 2016, ha abrogato
l’art 77-bis, comma 30, del d.l. n. 112 del 2008. Per l’anno 2012, quindi, i Comuni
potevano disporre nuovamente le maggiorazioni previste dalla legge n. 449 del
1997.
In tale contesto interveniva l’art. 23 del d.l. n. 83 del 2012, entrato in vigore il 26 giugno 2012,
che abrogava (comma 7), con decorrenza da tale data, l’art. 11, comma 10, della
legge n. 449 del 1997, precisando (comma 11) che i procedimenti già avviati
dovevano definirsi in base alle norme abrogate.
5.2.– Ciò premesso, non è
corretta l’interpretazione dell’art. 1, comma 739, della legge n. 208 del 2015,
secondo cui esso ripristinerebbe retroattivamente la potestà di applicare maggiorazioni
alle tariffe per i Comuni che, alla data del 26 giugno del 2012, avessero già
deliberato in tal senso.
La disposizione, invece, si limita a precisare la
salvezza degli aumenti deliberati al 26 giugno 2012, tenuto conto, tra l’altro,
che a tale data ai Comuni era stata nuovamente attribuita la facoltà di
deliberare le maggiorazioni. Era dunque ben possibile che essi avessero già
deliberato in tal senso. Di qui la necessità di chiarire gli effetti
dell’abrogazione disposta dal d.l. n. 83 del 2012,
precisando che la stessa non poteva far cadere le delibere già adottate e che
il 26 giugno del 2012 era il termine ultimo per la validità delle maggiorazioni
disposte per l’anno d’imposta 2012.
Si tratta, quindi, effettivamente di una
disposizione di carattere interpretativo, tesa a chiarire il senso di norme
preesistenti ovvero escludere o enucleare uno dei sensi fra quelli ritenuti
ragionevolmente riconducibili alla norma interpretata, allo scopo di imporre a
chi è tenuto ad applicare la disposizione considerata un determinato
significato normativo (sentenze n. 132 del
2016, n. 127
del 2015, n.
314 del 2013, n.
15 del 2012 e n.
311 del 1995). La scelta legislativa, allora, rientra «tra le possibili
varianti di senso del testo originario, così rendendo vincolante un significato
ascrivibile ad una norma anteriore (ex plurimis: sentenze n. 314 del
2013, n. 15
del 2012, n.
271 del 2011 e n. 209 del 2010)»
(sentenza n. 132
del 2016).
Nulla dice il comma 739, invece, sulla possibilità
di confermare o prorogare, successivamente al 2012, di anno in anno, le tariffe
maggiorate.
Tale facoltà di conferma, esplicita o tacita, delle
tariffe, consentita da altra disposizione, non potrebbe tuttavia estendersi a
maggiorazioni disposte da norme non più vigenti, come aveva sancito la sentenza
del Consiglio di Stato,
sezione quinta, 22 dicembre 2014, n. 6201, in riferimento all’art. 23, comma 7,
del d.l. n. 83 del 2012, ritenendo che anche il potere di conferma, tacita o
esplicita, in quanto espressione di potere deliberativo, debba tener conto
della legislazione vigente. Dunque, venuta meno la norma che consentiva di
apportare maggiorazioni all’imposta, gli atti di proroga tacita di queste
avrebbero dovuto ritenersi semplicemente illegittimi, perché non poteva essere
prorogata una maggiorazione non più esistente.
Sotto tale profilo, la disposizione oggetto di
censura nulla aggiunge. L’intervento interpretativo, infatti, non introduce
alcun doppio regime impositivo e non crea perciò ingiustificate disparità di
trattamento tra i Comuni, né pregiudica la progressività insita nella
suddivisione degli stessi in diverse fasce, ai fini della determinazione
dell’imposta, rientrando invece nei limiti di quella ragionevolezza che deve
caratterizzare anche le disposizioni d’interpretazione autentica (ex multis, sentenze n. 132 del
2016, n. 69
del 2014, n.
271 del 2011, n.
234 del 2007, n.
229 del 1999 e n.
311 del 1995).
Ne deriva, quindi, che non può ritenersi
sussistente alcuna lesione degli artt. 3, 53 e 97 Cost.
5.3.– Neppure può
ritenersi fondata la questione sollevata in riferimento agli artt. 23, 117,
sesto comma, e 119 Cost.
I medesimi argomenti sopra svolti portano ad
escludere, infatti, che sia stato ripristinato, ma solo per alcuni Comuni, il
regime impositivo antecedente al d.l. n. 83 del 2012.
5.4.– Da ultimo, la
denunziata disposizione, non avendo alcuna efficacia sanante nei confronti
delle delibere, successive al 2012, non interferisce in alcun modo con le
prerogative degli organi giurisdizionali e non viola perciò l’art. 102 Cost. (sentenze n. 170 del
2008 e n.
155 del 1990).
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara
inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma
739, della legge 28 dicembre 2015, n. 208, recante «Disposizioni per la
formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità
2016)», sollevata, in riferimento all’art. 114 della Costituzione, dalla
Commissione tributaria provinciale di Pescara, con l’ordinanza indicata in
epigrafe;
2) dichiara non
fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 739,
della legge n. 208 del 2015, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 23, 53,
97, 102, 117, sesto comma, in relazione all’art. 4, comma 4, della legge 5
giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della
Repubblica alla L. Cost. 18 ottobre 2001, n. 3), e
119 Cost., dalla Commissione tributaria provinciale
di Pescara, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 10 gennaio 2018.
F.to:
Paolo GROSSI, Presidente
Giuliano AMATO, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 30 gennaio 2018.