Sentenza n. 261 del 2017

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SENTENZA N. 261

ANNO 2017

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-           Paolo                           GROSSI                                           Presidente

-           Giorgio                        LATTANZI                                        Giudice

-           Aldo                            CAROSI                                                   

-           Marta                           CARTABIA                                             

-           Mario Rosario              MORELLI                                                

-           Giancarlo                     CORAGGIO                                            

-           Giuliano                       AMATO                                                   

-           Silvana                         SCIARRA                                                

-           Daria                            de PRETIS                                               

-           Nicolò                          ZANON                                                   

-           Augusto Antonio       BARBERA                                              

-           Giulio                          PROSPERETTI                                        

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’intero testo del decreto legislativo 25 novembre 2016, n. 219 (Attuazione della delega di cui all’articolo 10 della legge 7 agosto 2015, n. 124, per il riordino delle funzioni e del finanziamento delle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura), nonché dell’art. 1, comma 1, lettera a), numeri 1) e 3), lettera b), numero 2), punto g), e lettera r), numero 1), punti a) ed i), degli artt. 2 e 3, dell’art. 3, commi 1, lettera f), 4 e 10, dell’art. 4 e dell’art. 4, comma 6, del medesimo decreto, promossi dalle Regioni Puglia, Toscana, Liguria e Lombardia con ricorsi notificati il 23-24, il 20-24, il 23-24 e il 24-27 gennaio 2017, depositati in cancelleria il 25 e il 30 gennaio e il 2 febbraio 2017 ed iscritti ai nn. 4, 5, 6 e 7 del registro ricorsi 2017.

Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 7 novembre 2017 il Giudice relatore Augusto Antonio Barbera;

uditi gli avvocati Stelio Mangiameli per la Regione Puglia, Marcello Cecchetti per la Regione Toscana, Gabriele Pafundi per la Regione Liguria, Ulisse Corea per la Regione Lombardia e l’avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.– Le Regioni Puglia, Toscana, Liguria e Lombardia hanno promosso, con quattro distinti ricorsi (rispettivamente notificati il 23-24 gennaio 2017, il 20-24 gennaio 2017, il 23-24 gennaio 2017 ed il 24-27 gennaio 2017), questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto l’intero testo, nonché alcune norme del decreto legislativo 25 novembre 2016, n. 219 (Attuazione della delega di cui all’articolo 10 della legge 7 agosto 2015, n. 124, per il riordino delle funzioni e del finanziamento delle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura).

In particolare, le prime tre ricorrenti hanno impugnato l’intero testo del d.lgs. n. 219 del 2016 in riferimento al principio di leale collaborazione (Regioni Toscana e Liguria), nonché agli artt. 76 della Costituzione e 10, comma 1, della legge 7 agosto 2015, n. 124, recante «Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche» (Regione Puglia), ed agli artt. 76 e 77, primo comma, Cost. (Regione Toscana).

Esse hanno, inoltre, promosso questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto specifiche norme del d.lgs. n. 219 del 2016 ed impugnato: l’art. 1, comma 1, lettera a), numero 1), e l’art. 3 (recte, art. 3, comma 1, primo periodo), in riferimento agli artt. 3, 5, 18 Cost. ed al principio di ragionevolezza (Regione Puglia), nonché l’art. 1, comma 1, lettera a), numero 3), in riferimento agli artt. 76 e 77, comma primo, Cost. (Regione Liguria); l’art. 1, comma 1, lettera r), numero 1), punto i), nella parte in cui sostituisce il comma 10 dell’art. 18 della legge 29 dicembre 1993, n. 580 (Riordinamento delle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura), in riferimento all’art. 117, commi terzo e quarto, Cost. ed al principio di leale collaborazione (Regione Puglia e Regione Toscana), nonché all’art. 3 Cost. ed al principio di ragionevolezza (Regione Puglia) ed all’art. 118 Cost. (Regione Toscana); l’art. 1, comma 1, lettera r), numero 1), punto a), che ha abrogato la lettera c) del comma 1 dell’art. 18 del d.lgs. n. 580 del 1993, in riferimento agli artt. 3, 117, commi terzo e quarto, Cost. ed al principio di ragionevolezza (Regione Puglia); l’art. 3, comma 4, in riferimento agli artt. 76 Cost. e 10, comma 1, legge n. 124 del 2015 ed al principio di leale collaborazione (Regione Puglia), agli artt. 117, terzo e quarto comma, Cost., ed al principio di leale collaborazione (Regioni Toscana e Liguria); l’art. 4, comma 6, in riferimento all’art. 117, comma quarto, Cost. (Regioni Puglia e Toscana), nonché agli artt. 3 e 97 Cost. ed ai principi di leale collaborazione e ragionevolezza (Regione Puglia).

1.1.– La Regione Lombardia ha impugnato: l’intero testo del d.lgs. n. 219 del 2016, in riferimento agli artt. 5, 117, commi terzo e quarto, e 120 Cost. ed al principio di leale collaborazione, deducendo altresì che tale atto normativo violerebbe l’art. 76 Cost., in combinato disposto con gli artt. 5, 117, commi terzo e quarto, 120 Cost., in relazione all’art. 10, comma 2, della legge n. 124 del 2015, come riformulato dalla eventuale pronuncia di illegittimità costituzionale di quest’ultima norma che la Regione chiede alla Corte di adottare in sede di autorimessione, in riferimento agli artt. 5, 117, commi terzo e quarto, 120 Cost. ed al principio di leale collaborazione.

La Regione Lombardia ha anche sollevato questione di legittimità costituzionale di specifiche norme del d.lgs. n. 219 del 2016 e, in particolare: ha impugnato: l’art. 1, comma 1, lettera b), numero 2), punto g), e lettera r), numero 1), punto i), e l’art. 3, comma 10, in riferimento agli artt. 5, 76, 117, commi terzo e quarto, 120 Cost. ed al principio di leale collaborazione; gli artt. 1, 2, 3 e 4, in riferimento agli artt. 76, 117, commi terzo e quarto, Cost. ed al principio di leale collaborazione di cui agli artt. 5 e 120 Cost.; l’art. 3, comma 4, in riferimento al principio di leale collaborazione ed agli artt. 5, 76, 117, commi terzo e quarto, e 120 Cost.; gli artt. 3, comma 1, lettera f), e 4 in riferimento all’art. 76 Cost., in combinato disposto con l’art. 117 Cost., in relazione all’art. 10, comma 1, lettera g), della legge n. 124 del 2015.

2.– L’art. 10 della legge n. 124 del 2015 ha delegato il Governo ad emanare un decreto legislativo avente ad oggetto la riforma dell’organizzazione, delle funzioni e del finanziamento delle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, anche mediante la modifica della legge n. 580 del 1993, come modificata dal decreto legislativo 15 febbraio 2010, n. 23 (Riforma dell’ordinamento relativo alle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, in attuazione dell’articolo 53 della legge 23 luglio 2009, n. 99) ed il conseguente riordino delle disposizioni che regolano la relativa materia.

2.1.– Tutte le ricorrenti svolgono – in linea preliminare e generale e con riguardo alle censure concernenti sia l’intero testo del d.lgs. n. 219 del 2016, sia specifiche disposizioni dello stesso – considerazioni, sostanzialmente coincidenti, in ordine alla materia cui sarebbe riconducibile la disciplina delle camere di commercio.

Secondo la Regione Puglia, la citata legge delega inciderebbe su competenze amministrative delle Regioni (in particolare, su quelle oggetto degli artt. 37 e 38 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, recante «Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59», che reputa vigenti anche dopo la riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione) e, comunque, concernerebbe una materia riservata alla competenza legislativa di tipo residuale (art. 117, comma quarto, Cost.) delle stesse, essendo le camere di commercio «un interlocutore delle Regioni nell’esercizio della competenza in materia di promozione delle attività produttive». La Regione sarebbe dunque legittimata a denunciare la lesione della propria competenza in detta materia, come affermato dalla sentenza n. 29 del 2016. L’incidenza della disciplina su una materia di competenza regionale renderebbe ammissibile, di per sé sola, la denuncia della violazione di parametri costituzionali non compresi nel Titolo V della Parte II della Costituzione.

Argomentazioni analoghe sono svolte dalla Regione Toscana, secondo la quale l’oggetto della disciplina – in particolare, il riordino, l’accorpamento e la riorganizzazione delle funzioni delle camere di commercio – riguarderebbe attribuzioni regionali (la promozione dello sviluppo economico locale, il sostegno delle attività economiche regionali, lo sviluppo della competitività delle imprese nell’economia regionale, il sostegno all’innovazione per i settori produttivi regionali, il commercio, la promozione del turismo e del patrimonio culturale, l’orientamento al lavoro), che sarebbero lese dalla violazione degli artt. 76 e 77, primo comma, Cost. A suo avviso, questa Corte ha affermato: prima della riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione, che la camera di commercio costituisce «un ente pubblico locale dotato di autonomia funzionale, che entra a pieno titolo, formandone parte costitutiva, nel sistema dei poteri locali secondo lo schema dell’art. 118 della Costituzione, diventando anche potenziale destinatario di deleghe dello Stato e della Regione» (sentenza n. 477 del 2000); successivamente, che, «anche quando ha proceduto al trasferimento alle Regioni di funzioni in materia di camere di commercio, il legislatore si è sempre preoccupato di garantire che la costituzione dei consigli camerali fosse disciplinata in maniera omogenea su tutto il territorio nazionale» (sentenza n. 374 del 2007), ferma la necessità che l’intervento statale sia proporzionato all’esigenza di esercizio unitario a livello statale delle funzioni di cui volta per volta si tratta e sia realizzato previa intesa con le Regioni.

La Regione Liguria deduce, analogamente, che la disciplina delle camere di commercio inciderebbe su numerose materie attribuite dall’art. 117, quarto comma, Cost. alla competenza legislativa di tipo residuale delle Regioni, alle quali, già con le riforme riconducibili al cosiddetto «federalismo amministrativo», sono stati attribuiti numerosi compiti relativi allo «sviluppo economico ed alle attività produttive» (art. 11 del d.lgs. n. 112 del 1998). Tale scelta sarebbe stata confermata ed implementata dalla riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione, tenuto conto che le principali materie riferibili all’economia ed alle attività produttive (agricoltura, industria, artigianato, commercio, turismo) sono state ascritte alla competenza residuale delle Regioni (a conforto, sono richiamate le sentenze n. 76 del 2009, n. 94 del 2008, n. 64 del 2007, n. 162 del 2005 e n. 1 del 2004). In particolare, benché questa Corte abbia precisato che la locuzione «sviluppo economico» non identifica una materia, ma «costituisce una espressione di sintesi, meramente descrittiva, che comprende e rinvia ad una pluralità di materie» e l’art. 117 Cost. «contempla molteplici materie caratterizzate da una palese connessione con lo sviluppo dell’economia, le quali sono attribuite sia alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, sia a quella concorrente, sia a quella residuale» (sentenza n. 165 del 2007), sarebbe pacifico che, quando una data disciplina incide su materie attribuite alla competenza regionale concorrente o residuale, l’esistenza di esigenze di carattere unitario legittima l’avocazione in sussidiarietà delle funzioni amministrative (sentenze n. 214 del 2006, n. 383, n. 270 e n. 242 del 2005) e della potestà normativa per l’organizzazione delle stesse, ferma la necessità del rispetto del principio di leale collaborazione, mediante lo strumento dell’intesa (sentenze n. 251 del 2016, n. 165 del 2007, n. 214 del 2006).

Argomenti in larga misura coincidenti con quelli dianzi sintetizzati sono svolti, infine, dalla Regione Lombardia, la quale, in punto di legittimazione, ricorda la giurisprudenza costituzionale secondo cui le Regioni sono legittimate a denunciare le norme statali lesive di attribuzioni degli enti locali. Inoltre, anche ritenendo che le camere di commercio non siano enti locali, le stesse costituiscono, per alcuni aspetti, uno «strumento» per la Regione nella cura degli interessi della popolazione, nello sviluppo del tessuto economico-sociale, nello svolgimento di molteplici funzioni rientranti nella potestà legislativa e amministrativa regionale, e quindi l’illegittimità delle norme statali che le concerne può ridondare in lesione della competenza regionale.

3.– Posta tale premessa, tutte le ricorrenti denunciano, in relazione a profili ed a parametri in parte coincidenti, l’illegittimità costituzionale dell’intero testo del d.lgs. n. 219 del 2016.

3.1.– Secondo la Regione Puglia, tale atto normativo violerebbe gli artt. 76 Cost. e 10, comma 1, della legge n. 124 del 2015, perché non sarebbe stato emanato nel termine stabilito da quest’ultima norma.

Il citato art. 10, comma 1, ha stabilito che la delega avrebbe dovuto essere esercitata entro il termine di dodici mesi dall’entrata in vigore della legge n. 124 del 2015 (avvenuta il 28 agosto 2015 dato che detta legge è stata pubblicata il 13 agosto 2015) e, quindi, entro il 28 agosto 2016, come non sarebbe accaduto.

Nella specie, non sarebbe stata applicabile la proroga del termine prevista dal comma 2 di detta norma e, ad avviso della ricorrente, tale disposizione andrebbe interpretata ritenendo che la proroga avrebbe potuto operare esclusivamente qualora il termine per rendere i pareri nella stessa richiamati fosse scaduto nei trenta giorni anteriori alla scadenza del termine ordinario (28 agosto 2016). Pertanto, sarebbe stato necessario che il termine per rendere i pareri fosse caduto nel periodo compreso tra il 29 luglio ed il 28 agosto 2016. Non rileverebbe che la prima deliberazione del Consiglio dei ministri è stata adottata il 25 agosto 2016 e che la nota con cui è stato richiesto il parere del Consiglio di Stato è del 26 agosto 2016, poiché, «nell’imminenza della scadenza, sarebbe stato onere del Governo adottare la massima diligenza, affinché la richiesta pervenisse in tempo utile per far scattare la proroga» e, quindi, poiché ciò non sarebbe avvenuto, «il presupposto affinché la proroga operasse si è verificato tardivamente».

In contrario, non gioverebbe rilevare che la proroga poteva operare anche se il termine per rendere il parere cadeva nei trenta giorni successivamente al termine ordinario stabilito per l’esercizio della delega; la disposizione andrebbe infatti interpretata «nel senso che comunque il dies a quo da cui contare la scadenza deve rientrare nel termine di delega ordinario. Il che potrebbe anche comportare che il dies ad quem cada successivamente al termine di delega ordinario».

Secondo la Regione Puglia, accogliendo la «interpretazione secondo cui il dies a quo è irrilevante, si arriverebbe al paradosso che la delega legislativa non avrebbe scadenza, perché in ogni caso la richiesta di parere tardiva (post 28 agosto 2016) avrebbe un termine successivo alla scadenza della delega e sarebbe in grado di far scattare "retroattivamente” la proroga» Una tale esegesi sarebbe elusiva dell’art. 76 Cost. e trasformerebbe una legittima possibilità di proroga (previamente prevista dal legislatore) in una censurabile «sanatoria». In definitiva, poiché la proroga in esame presupponeva che la richiesta di parere avrebbe dovuto pervenire entro la data di scadenza naturale della delega (28 agosto 2016), il d.lgs. n. 219 del 2016 sarebbe costituzionalmente illegittimo, per violazione dell’art. 76 Cost., ridondante sul riparto delle competenze legislative, fra Stato e Regioni, tenuto conto delle argomentazioni svolte in linea generale in ordine alla materia oggetto di tale atto normativo.

L’inosservanza del termine di esercizio della delega è stata denunciata anche dalla Regione Toscana, in riferimento agli artt. 76 e 77, primo comma, Cost. A suo avviso, l’art. 10, comma 2, della legge n. 124 del 2015 avrebbe imposto di richiedere prima i pareri della Conferenza unificata e del Consiglio di Stato (da rendere nel termine di quarantacinque giorni), poi quelli delle Camere. Il Governo, trasmettendo lo schema di decreto legislativo contestualmente alla Conferenza unificata, al Consiglio di Stato ed alle Camere, avrebbe violato la scansione stabilita da detta norma, la cui osservanza condizionava la possibilità della proroga del termine di esercizio della delega. L’inosservanza dello «iter di consecutività» dalla stessa previsto comporterebbe il mancato rispetto di tale termine, in violazione degli artt. 76 e 77, primo comma, Cost. e, in considerazione delle deduzioni sopra svolte in ordine alla materia incisa dal d.lgs. n. 219 del 2016, la lesione di detti parametri ridonderebbe sulle competenze della Regione.

3.2.– La Regione Toscana deduce l’illegittimità costituzionale dell’intero testo del d.lgs. n. 219 del 2016 sotto un ulteriore profilo, sostenendo che violerebbe gli artt. 76 e 77, primo comma, Cost. ed il principio di leale collaborazione. Le camere di commercio operano in ambiti di competenza regionale concorrente e residuale e, quindi, a suo avviso, anche in virtù del principio enunciato dalla sentenza n. 251 del 2016, tale atto normativo avrebbe dovuto essere emanato previa intesa con la Conferenza Stato-Regioni, non essendo sufficiente, per ritenere rispettato il principio di leale collaborazione, la previsione del parere della Conferenza unificata di cui all’art. 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281 (Definizione ed ampliamento delle attribuzioni della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano ed unificazione, per le materie ed i compiti di interesse comune delle regioni, delle province e dei comuni, con la Conferenza Stato-città ed autonomie locali).

Censura sostanzialmente identica e la violazione del principio di leale collaborazione, conseguente all’emanazione del d.lgs. n. 219 del 2016, in difetto di previa intesa, sono state eccepite anche dalla Regione Liguria, richiamando la sentenza n. 251 del 2016 (della quale sono trascritte ampie parti) e la materia incisa dallo stesso.

3.3.– Secondo la Regione Lombardia, il d.lgs. n. 219 del 2016 violerebbe gli artt. 117, terzo e quarto comma, 5 e 120 Cost., in quanto è stato emanato previa acquisizione del parere della Conferenza unificata e non dell’intesa. A conforto della censura, la ricorrente richiama la sentenza n. 374 del 2007 e la circostanza che tale atto normativo inciderebbe su competenze concorrenti e residuali delle Regioni.

Nella specie, proprio a causa della previsione della sufficienza del mero parere, lo Stato ha disatteso in modo unilaterale, immotivato e senza intraprendere trattative, il parere reso dalla Conferenza unificata il 29 settembre 2016 ed alcune delle proposte di emendamento (in particolare le proposte numeri 4, 12 e 15, trascritte nel ricorso) allo schema di decreto legislativo, come non avrebbe potuto invece fare se «fosse stata ab origine prescritta l’intesa e non il parere». Secondo la ricorrente, il mancato accoglimento delle proposte di emendamento comporterebbe che «non si è verificata la condizione alla quale la Conferenza ha imprescindibilmente collegato il "segno positivo” del parere», da qualificare «come parere negativo», con conseguente illegittimità del d.lgs. n. 219 del 2016, per violazione del principio di leale collaborazione e dell’art. 117, terzo e quarto comma, Cost.

3.3.1.– In subordine, la ricorrente chiede che, qualora la Corte non accolga la censura concernente l’intero testo del d.lgs. n. 219 del 2016, dichiari comunque costituzionalmente illegittimi l’art. 1, comma 1, lettera b), numero 2), punto g), e lettera r), numero 1), punto i), e l’art. 3, comma 10, di tale atto normativo, perché formulati in difformità dal parere negativo reso dalla Conferenza unificata.

3.3.2.– La Regione Lombardia ha, altresì, promosso questione di legittimità costituzionale dell’intero testo del d.lgs. n. 219 del 2016, in riferimento all’art. 76 Cost., in combinato disposto con gli artt. 5, 117, commi terzo e quarto, 120 Cost. ed in relazione all’art. 10, comma 2, della legge n. 124 del 2015, nella formulazione in tesi risultante dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale di quest’ultima norma, nella parte in cui prevede il parere e non l’intesa della richiamata Conferenza, pronunciata all’esito del giudizio, che la Regione chiede alla Corte di promuovere in via di autorimessione, argomentando in ordine alle ragioni della ipotizzata rilevanza e non manifesta infondatezza della questione, anche richiamando la sentenza n. 251 del 2016.

4.– La Regione Puglia ha impugnato l’art. 1, comma 1, lettera a), numero 1), e l’art. 3 (recte, art. 3, comma 1, primo periodo) del d.lgs. n. 219 del 2016, in riferimento agli artt. 3, 5, 18 Cost. ed al principio di ragionevolezza.

La prima delle norme impugnate ha sostituito il comma 3 dell’art. 1 della legge n. 580 del 1993; la seconda è stata censurata limitatamente alla prima proposizione, secondo cui: «Entro il termine di 180 giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, l’Unioncamere trasmette al Ministero dello sviluppo economico una proposta di rideterminazione delle circoscrizioni territoriali, per ricondurre il numero complessivo delle camere di commercio entro il limite di 60, tenendo conto dei seguenti criteri […]».

Secondo la ricorrente, le camere di commercio rientrano nelle cosiddette autonomie funzionali, tutelate dall’art. 5 Cost. e, benché svolgano funzioni pubbliche, sarebbero altresì espressione del libero associazionismo imprenditoriale tutelato dall’art. 18 Cost. A suo avviso, tali parametri sarebbero lesi dalle norme impugnate, che avrebbero ridotto irragionevolmente il numero delle camere di commercio, per conseguire un non necessario risparmio di spesa. Esse non gravano infatti sul bilancio dello Stato, come risulta dall’art. 18 della legge n. 580 del 1993, che stabilisce quali sono le fonti del finanziamento delle stesse. Dunque, «non si vede per quale ragione non dovrebbero poter sorgere spontaneamente o, comunque, secondo criteri più elastici, pur se vigilate da istituzioni pubbliche». La riduzione del numero delle camere di commercio sarebbe irragionevole e sproporzionata, mirando a conseguire un presunto risparmio di spesa rispetto ad un sistema virtuoso, che anzi allevia il bilancio statale ed è ispirato ad un’autonomia (art. 5 Cost.) e ad una libertà (art. 18 Cost.) costituzionalmente tutelate. 

4.1.– La Regione Liguria ha impugnato il comma 1, «punto» (recte, numero) 3 della lettera a) del comma 1 del citato art. 1, in riferimento agli artt. 76 e 77, comma primo, Cost., che ha sostituito il comma 5 dell’art. 1 della legge n. 580 del 1993, il quale disciplina l’accorpamento delle camere di commercio e la modifica delle circoscrizioni delle stesse.

Secondo la ricorrente, l’art. 10 della legge n. 124 del 2015 prevede tra i principi e criteri direttivi per la ridefinizione delle circoscrizioni territoriali delle camere di commercio solo «l’accorpamento» di due o più camere di commercio: quindi, la norma impugnata, aggiungendo «a tale modalità di ridefinizione anche la "modifica” delle circoscrizioni territoriali», lascerebbe «in tal modo aperta la possibilità di determinare ‘innovativamente’ i nuovi confini degli enti», incorrendo nel vizio di eccesso di delega.

5.– L’art. 1, comma 1, lettera r), numero 1, punto i), del d.lgs. n. 219 del 2016 ha sostituito il comma 10 dell’art. 18 della legge n. 580 del 1993 con la seguente disposizione: «10. Per il finanziamento di programmi e progetti presentati dalla Camere di commercio, condivisi con le Regioni ed aventi per scopo la promozione dello sviluppo economico e l’organizzazione di servizi alle imprese, il Ministro dello sviluppo economico, su richiesta di Unioncamere, valutata la rilevanza dell’interesse del programma o del progetto nel quadro delle politiche strategiche nazionali, può autorizzare l’aumento, per gli esercizi di riferimento, della misura del diritto annuale fino ad un massimo del venti per cento. Il rapporto sui risultati dei progetti è inviato al Comitato di cui all’articolo 4-bis».

Tale norma è stata impugnata in riferimento all’art. 117, commi terzo e quarto, Cost. ed al principio di leale collaborazione dalla Regione Puglia e dalla Regione Toscana, nonché, dalla prima, anche in relazione all’art. 3 Cost. ed al principio di ragionevolezza e dalla seconda anche con riguardo all’art. 118 Cost.

Secondo la Regione Puglia, la norma sarebbe lesiva dell’autonomia delle camere di commercio e delle Regioni, in quanto subordina l’implementazione dei progetti concordati fra detti enti all’avallo ministeriale. Tale controllo sarebbe disarmonico rispetto all’attuale concezione costituzionale dell’autonomia e non rinverrebbe fondamento nell’art. 117, comma terzo, Cost. (in particolare, nella competenza dello Stato a dettare i principi fondamentali in materia di coordinamento della finanza pubblica), poiché il sistema di finanziamento delle camere di commercio è slegato dalla finanza erariale. L’art. 117, comma quarto, Cost. ed il principio di leale collaborazione sarebbero lesi, in quanto l’esercizio della competenza regionale è sottoposta al controllo ministeriale, mentre l’autonomia presuppone un rapporto paritetico fra gli enti.

A suo avviso, la norma impugnata è coordinata irragionevolmente (quindi, in violazione dell’art. 3 Cost.) con il novellato testo dell’art. 2, comma 2, lettera g), della legge n. 580 del 1993. Infatti, se le attività cosiddette aggiuntive possono essere finanziate soltanto mediante il diritto annuale, sarebbe «paradossale che si possa provvedere in merito senza l’aumento della loro unica fonte di finanziamento, né appare proporzionato che la meritevolezza del progetto (che giustificherebbe l’aumento del diritto annuale) sia previamente vagliata da un organo governativo». Peraltro, rileverebbe che il sistema delle camere di commercio è in attivo e di esso la finanza statale si giova (come indicato nel parere reso dalla Conferenza unificata), sicché sarebbe ingiustificabile la previsione di un preventivo controllo del suo «potere impositivo» ed esse, in difetto di una «libera leva» fiscale, potrebbero non essere in grado di condurre attività promozionali.

5.1.– Secondo la Regione Toscana, la norma in esame inciderebbe su ambiti di competenza regionale costituzionalmente garantiti. Il controllo ministeriale, svolto unilateralmente, senza il coinvolgimento delle Regioni, violerebbe le competenze di queste ultime, in quanto è preordinato a stabilire la rilevanza dei progetti e l’ammissibilità del loro finanziamento mediante l’aumento dei diritti annuali e l’esito negativo dello stesso renderebbe impossibile realizzare il progetto per carenza di risorse da parte della camera di commercio.

L’apprezzabile esigenza di contenere i costi a carico delle imprese potrebbe e dovrebbe essere conseguita mediante il coinvolgimento delle Regioni. La disposizione non sarebbe rispettosa dei principi enunciati dalla giurisprudenza costituzionale che, sin dalla sentenza n. 303 del 2003, ha configurato l’intesa quale modalità essenziale dell’attrazione in sussidiarietà allo Stato di potestà legislative che l’art. 117 Cost. attribuisce alla competenza concorrente o residuale delle Regioni (sentenza n. 6 del 2004), precisando che la stessa, in applicazione del canone della leale collaborazione, deve svilupparsi attraverso trattative, strumentali a superare le divergenze (sentenza n. 339 del 2005).

A suo avviso, l’art. 118 Cost. sarebbe leso anche perché le camere di commercio sarebbero «enti pubblici locali dotati di autonomia funzionale, che entrano a pieno titolo, formandone parte costitutiva, nel sistema dei poteri locali». La Regione, in applicazione del principio di sussidiarietà orizzontale (art. 118, ultimo comma, Cost.) deve valorizzare il ruolo di tali enti, «riconoscendo loro attività amministrative di interesse generale in conformità al loro ruolo nella società civile», come stabilito anche dall’art. 7 della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3). La norma in esame violerebbe detto parametro costituzionale, poiché la Regione, in mancanza di risorse finanziarie sufficienti, sarà costretta a non affidare alla camera di commercio le attività oggetto del «programma/progetto» per la promozione dello sviluppo economico e per l’organizzazione di servizi alle imprese.

6.– L’art. 1, comma 1, lettera r), numero 1, punto a), del d.lgs. n. 219 del 2016 ha abrogato la lettera c) del comma 1 dell’art. 18 del d.lgs. n. 580 del 1993, in virtù del quale al finanziamento ordinario delle camere di commercio si provvedeva, tra l’altro, mediante «le entrate e i contributi derivanti da leggi statali, da leggi regionali, da convenzioni o previsti in relazione alle attribuzioni delle Camere di commercio».

Tale norma, secondo la Regione Puglia, violerebbe gli artt. 3, 117, commi terzo e quarto, Cost. ed il principio di ragionevolezza, dato che, escludendo che le camere di commercio possano giovarsi di finanziamenti regionali (o erogati da altri enti), in virtù di convenzioni, comprimerebbe irragionevolmente: l’autonomia regionale, escludendo la possibilità di incentivare le attività produttive e, comunque, di esercitare le competenze di cui all’art. 117, commi terzo e quarto, Cost.; l’autonomia delle camere di commercio, le quali, da un canto non possono fare ricorso al finanziamento mediante aumento del contributo annuale, in difetto di autorizzazione ministeriale, dall’altro non possono fruire di finanziamenti regionali.

 Ad avviso della ricorrente, «ciò che, peraltro, è irragionevole – e, perciò, anche in violazione dell’art. 3 Cost. – rispetto alla disposizione su richiamata» (recte, all’art. 2, comma 2, lettera g, della legge n. 580 del 1993, nel testo sostituito dall’art. 1, comma 1, lettera b, numero 2), del d.lgs. n. 219 del 2016), è che, secondo quest’ultima, «le "attività oggetto di convenzione con le regioni (...) possono essere finanziate (...) esclusivamente in cofinanziamento con oneri a carico delle controparti non inferiori al 50 per cento», facendo in tal modo presumere che sia ammissibile questa fonte di finanziamento. Verosimilmente, per tale ragione la Conferenza unificata, nel rendere parere sullo schema di decreto legislativo, con la proposta n. 9, aveva suggerito di mantenere fra le fonti di finanziamento le entrate derivanti da convenzioni con i soggetti pubblici e privati.

7.– L’art. 3 del d.lgs. n. 219 del 2016 disciplina la riduzione del numero delle camere di commercio mediante accorpamento, razionalizzazioni delle sedi e del personale e, al comma 4, dispone: «Il Ministro dello sviluppo economico, entro i sessanta giorni successivi al termine di cui al comma 1, con proprio decreto, sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, provvede, tenendo conto della proposta di cui al comma 1, alla rideterminazione delle circoscrizioni territoriali, all’istituzione delle nuove camere di commercio, alla soppressione delle camere interessate dal processo di accorpamento e razionalizzazione ed alle altre determinazioni conseguenti ai piani di cui ai commi 2 e 3. Il provvedimento di cui al presente comma è adottato anche in assenza della proposta di cui al comma 1, ove sia trascorso inutilmente il termine ivi previsto, applicando a tal fine i medesimi criteri previsti nei commi 1, 2, 3».

Il richiamato comma 4 è stato impugnato da tutte le ricorrenti.

7.1.– Secondo la Regione Puglia, l’art. 10, comma 1, lettera a) (recte, art. 10, comma 1, lettera b), della legge n. 124 del 2015 disponeva che la «ridefinizione delle circoscrizioni territoriali» avrebbe dovuto essere realizzata dal decreto legislativo e non autorizzava il Governo a stabilire «criteri di ridefinizione» ed a rinviare ad un successivo atto governativo la disciplina della materia. Tale rinvio, da un canto, integrerebbe un’ulteriore profilo di violazione del termine di esercizio della delega (oggetto della censura dianzi sintetizzata), in quanto dimostrerebbe che il Governo non è stato in grado di osservarlo; dall’altro, sottrarrebbe il profilo di maggiore interesse territoriale (la rideterminazione delle circoscrizioni delle camere di commercio) al sindacato di questa Corte, tenuto conto della natura dell’atto che realizza la modifica delle circoscrizioni territoriali.

7.2.– Sotto un ulteriore profilo, il richiamato art. 3, comma 4, secondo la Regione Puglia, incidendo su un ambito materiale in cui si intrecciano competenze legislative statali e regionali, violerebbe il principio di leale collaborazione, in quanto la norma richiede il mero parere della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, anziché l’intesa. A conforto della censura, la ricorrente richiama la sentenza n. 251 del 2016 (di cui riporta ampi stralci) che ha scrutinato altre deleghe previste dalla legge n. 124 del 2015, nonché le pronunce secondo cui, qualora una data disciplina coinvolga plurime materie e non sia possibile stabilire la prevalenza di una di esse, il bilanciamento tra l’esigenza di esercizio unitario delle competenze e la garanzia delle funzioni costituzionalmente attribuite alle autonomie deve essere realizzato mediante il ricorso allo strumento dell’intesa (sentenze n. 65, n. 21 e n. 1 del 2016, n. 88 del 2014 e n. 139 del 2012), vieppiù tenendo conto della «perdurante assenza di una trasformazione delle istituzioni parlamentari e, più in generale, dei procedimenti legislativi» (sentenza n. 278 del 2010).

Nella specie, sussisterebbe un intreccio di competenze non risolvibile in base al criterio di prevalenza, che esigeva la previsione di un adeguato strumento di leale collaborazione, costituito dall’intesa.

Argomentazioni in larga misura omologhe sono svolte dalla Regione Toscana, dalla Regione Liguria e dalla Regione Lombardia che, tuttavia, dalle stesse desumono la violazione da parte della norma impugnata anche dell’art. 117, commi terzo e quarto, Cost.

In particolare, la Regione Toscana rimarca l’inidoneità del parere con riguardo ad un atto che realizza un profondo riordino di enti operanti anche in materie regionali. La norma impugnata, ad avviso della Regione Liguria, realizzerebbe il totale disconoscimento degli interessi regionali in un ambito di attività (lo «sviluppo economico») interessato da numerose competenze regionali riconosciute dall’art. 117, terzo e quarto comma, Cost.

Secondo la Regione Lombardia, lo stesso legislatore statale è consapevole della necessità dell’intesa, prevista infatti dall’art. 1, comma l, lettera a), del d.lgs. n. 219 del 2016, per il caso dell’accorpamento di due o più camere di commercio proposto dai consigli delle stesse. Sarebbe dunque irragionevole la sufficienza del parere per la rideterminazione delle circoscrizioni territoriali e la necessità dell’intesa per l’istituzione delle camere di commercio risultanti dall’accorpamento delle circoscrizioni territoriali. Pertanto, suo avviso, «- a meno di non voler ritenere che vi sia una contraddizione interna alla legge rilevante ex art. 3 Cost. - deve concludersi che nell’art. 3, comma 4, il legislatore sia incorso in un lapsus calami, comunque incostituzionale alla luce dell’art. 117, commi 3 e 4, e del principio di leale collaborazione».

8.– La Regione Lombardia ha altresì impugnato, in riferimento all’art. 76 Cost., in combinato disposto con l’art. 117 Cost., in relazione all’art. 10, comma 1, lettera g), della legge n. 124 del 2015, gli artt. 3, comma 1, lettera f), e 4 del d.lgs. n. 219 del 2016. La prima disposizione stabilisce che, nella rideterminazione delle circoscrizioni territoriali delle camere di commercio, occorreva osservare il criterio della «necessità di tener conto degli accorpamenti deliberati alla data di entrata in vigore della legge 7 agosto 2015, n. 124, nonché di quelli approvati con i decreti di cui all’articolo 1, comma 5, della legge 29 dicembre 1993, n. 580, e successive modificazioni; questi ultimi possono essere assoggettati ad ulteriori o diversi accorpamenti solo ai fini del rispetto del limite di 60 camere di commercio».

Secondo la ricorrente, tale ultima disposizione sarebbe in contrasto con l’art. 10, comma 1, lettera g), della legge n. 124 del 2015 che, imponendo al legislatore delegato la «introduzione di una disciplina transitoria che tenga conto degli accorpamenti già deliberati alla data di entrata in vigore della presente legge», indurrebbe a ritenere che quest’ultimo avrebbe dovuto «prevedere una disciplina transitoria per tutti e soli gli accorpamenti già deliberati alla data di entrata in vigore della legge n. 124 del 2015» e la mancata introduzione della stessa integrerebbe il denunciato vizio di eccesso di delega.

9.– L’art. 4, comma 6, del d.lgs. n. 219 del 2016 stabilisce: «Una copia dei provvedimenti conclusivi di procedimenti amministrativi concernenti attività d’impresa adottati successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto è inviata, con modalità informatica ovvero telematicamente, a cura dei responsabili di tali procedimenti, alla camera di commercio nella cui circoscrizione l’impresa ha sede per il loro inserimento nel fascicolo informatico d’impresa di cui all’articolo 2, comma 1, lettera b). Con decreto del Ministro dello sviluppo economico emanato, ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, e successive modificazioni, entro centottanta giorni dalla data entrata in vigore del presente decreto, sentite le amministrazioni interessate, sono individuati, secondo principi di gradualità e sostenibilità, i termini e le modalità operative di attuazione della disposizione di cui al primo periodo, nonché le modalità ed i limiti con cui le relative informazioni sono rese disponibili per i soggetti pubblici e privati interessati».

Tale norma è stata impugnata dalla Regione Puglia e dalla Regione Toscana, in riferimento all’art. 117, comma quarto, Cost. e dalla prima anche in relazione agli artt. 3 e 97 Cost. ed ai principi di leale collaborazione e ragionevolezza.

Secondo la Regione Puglia, la norma prevede un obbligo di comunicazione indiscriminato e generalizzato che comporterebbe uno sproporzionato ed irragionevole aggravio amministrativo, lesivo del principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.), dell’autonomia organizzativa regionale (art. 117, comma quarto, Cost.) e dell’art. 97 Cost. Inoltre, la previsione che le modalità di trasmissione sono stabilite con decreto ministeriale, senza la previa intesa con la Conferenza Stato-Regioni, violerebbe l’autonomia organizzativa regionale ed il principio di leale collaborazione.

La censura della Regione Toscana consiste e si esaurisce nell’affermazione che «le Regioni hanno propri sistemi informativi per cui è necessario che il decreto del Ministro dello sviluppo economico, che determina i termini e le modalità operative di applicazione di tale obbligo, sia emanato previa intesa con le Regioni e non già solo sentite le medesime, come invece prevede la norma», con conseguente violazione dell’art. 117, quarto comma, Cost., «per interferenza con l’autonomia organizzativa regionale».

10.– In tutti i giudizi si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto il rigetto dei ricorsi.

10.1.– La difesa dello Stato, in relazione al ricorso proposto dalla Regione Puglia, ne eccepisce l’inammissibilità nella parte in cui solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 10 della legge n. 124 del 2015. A suo avviso, le norme della legge delega possono e devono essere impugnate dalla Regione nell’osservanza del termine dell’art. 39 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), qualora il loro contenuto sia sufficientemente determinato e tale da ledere le competenze regionali, requisiti che connoterebbero la suindicata norma.

Nel merito, il resistente sostiene che le camere di commercio, in virtù dell’art. 1 della legge n. 580 del 1993 e dei principi enunciati da questa Corte nella sentenza n. 29 del 2016, sono enti pubblici dotati di autonomia funzionale che svolgono, sulla base del principio di sussidiarietà, funzioni generali per il sistema delle imprese, curandone lo sviluppo nell’ambito delle autonomie locali, sulla base di rapporti convenzionali con le Regioni e con lo Stato. La loro organizzazione e la disciplina relativa al funzionamento delle stesse rientrerebbe nella competenza legislativa esclusiva dello Stato ex art. 117, secondo comma, lettera g), Cost., come sarebbe dimostrato dalla circostanza che l’attribuzione della competenza legislativa esclusiva in materia di «ordinamento delle camere di commercio» alla Regione autonoma Trentino-Alto Adige/Südtirol ha richiesto una specifica previsione in tal senso (artt. 4, numero 8, e 16 del decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1972, n. 670, recante «Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige»).

La riorganizzazione delle camere di commercio realizzata dal d.lgs. n. 219 del 2016 non avrebbe comunque inciso sulle preesistenti competenze delle Regioni, in quanto avrebbe riguardato esclusivamente una fase successiva, diversa da quella concernente l’organizzazione e le regole di funzionamento.

Inoltre, alle camere di commercio sono attribuiti compiti che devono essere disciplinati in modo omogeneo in ambito nazionale – in particolare, anche le materie oggetto degli artt. 3 e 4 del d.lgs. n. 219 del 2016 – con conseguente prevalenza della competenza statale. Ad identica conclusione dovrebbe pervenirsi quanto alla disciplina recata dall’art. 4, comma 6, del d.lgs. n. 219 del 2016, in quanto riconducibile alla materia del coordinamento informativo, statistico e informatico, come sarebbe desumibile dalla sentenza n. 251 del 2016.

Infine, la disciplina delle camere di commercio concernerebbe, almeno sotto alcuni aspetti rilevanti, la materia della concorrenza (art. 117, secondo comma, lettera e, Cost.), esplicantesi attraverso la tenuta e l’aggiornamento del registro delle imprese.

10.1.1.– La censura concernente l’art. 1, comma 1, lettera r), punto i), del d.lgs. n. 219 del 2016, che ha sostituito il comma 10 dell’art. 18 della legge n. 580 del 1993, sarebbe infondata, poiché l’attuale formulazione di quest’ultima disposizione garantisce l’uniforme disciplina dell’aumento del diritto annuale camerale su tutto il territorio nazionale, collegandola alla valutazione ministeriale della rilevanza dell’interesse del programma o progetto, nel quadro delle politiche strategiche nazionali, tenendo conto della prevalenza della competenza statale, allo scopo appunto di garantire una disciplina omogenea in ambito nazionale.

10.1.2.– Non fondate sarebbero altresì le censure aventi ad oggetto gli artt. 3 e 4 del d.lgs. n. 219 del 2016, che riguardano aspetti riconducibili alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, siccome inerenti a profili ordinamentali e informatici che esigono una disciplina omogenea stabilita a livello centrale. In particolare, in riferimento al citato art. 4, comma 6, tale conclusione sarebbe confortata dalla sentenza n. 251 del 2016, la quale ha escluso l’illegittimità di una norma di contenuto omologo a quella in esame (art. 1, comma 1, lettere b, c, g, della legge n 124 del 2015).

Peraltro, sotto alcuni profili, la disciplina delle camere di commercio è riconducibile alla materia «tutela della concorrenza» (art. 117, secondo comma, lettera e, Cost.), che si esplica anche mediante la tenuta e l’aggiornamento del registro delle imprese ed un’opportuna perequazione tra i diversi organismi camerali, utilizzando il meccanismo del diritto annuale e dei diritti di segreteria.

10.1.3.– Relativamente alla censura di violazione del termine di esercizio della delega, la difesa dello Stato deduce che l’avverbio «successivamente» utilizzato nell’art. 10, comma 2, della legge n. 124 del 2015 «determina un ordine procedimentale, a rilevanza meramente interna» e non escludeva la possibilità di richiedere contestualmente i prescritti pareri, con riserva di rimettere alle Camere quelli formulati da Conferenza unificata e Consiglio di Stato. Diversamente, sarebbe svuotata di contenuto la possibilità della proroga, per il caso in cui il termine di sessanta giorni concesso alle Camere fosse scaduto negli ultimi trenta giorni dei dodici mesi per l’approvazione del decreto legislativo.

Nelle specie, è pacifico che le Camere hanno formulato il prescritto parere dopo avere ricevuto quello espresso da Conferenza unificata e Consiglio di Stato, con conseguente irrilevanza della contemporanea richiesta dei pareri. Dirimente nel senso dell’osservanza del termine di esercizio della delega e dell’operatività dei presupposti della proroga è la constatazione che lo schema di decreto legislativo è stato inviato al Consiglio di Stato il 26 agosto 2016, e cioè prima del 28 agosto 2016, così da determinare l’operatività della proroga.

10.1.4.– La censura concernente l’art. 3, comma 4, del d.lgs. n. 219 del 2016 non sarebbe fondata, poiché l’invocata autonomia sarebbe stata rispettata, dato che la norma prevede che la proposta di rideterminazione delle circoscrizioni deve essere formulata da Unioncamere e deve essere sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano.

La deduzione concernente la sottrazione dell’atto di rideterminazione delle circoscrizioni territoriali al controllo di questa Corte deve poi tenere conto del fatto che la norma stabilisce criteri e modalità di determinazione dei contenuti della proposta di riorganizzazione e prevede un procedimento rispettoso delle autonomie coinvolte e del principio di leale collaborazione. Peraltro, la Conferenza unificata, nel parere sullo schema di decreto legislativo, dà atto di avere visionato la nota del Ministero dello sviluppo economico diramata in data 28 settembre 2016 (prot. N. CSR 4291 P-4.23.2.12), contenente le puntuali osservazioni sulle proposte emendative elaborate dalle Regioni e dagli enti locali, con l’indicazione di quelle ritenute condivisibili ed accolte, ad evidente dimostrazione dell’effettivo coinvolgimento delle regioni nell’iter decisionale.

10.1.5.– Secondo la difesa dello Stato, sarebbe inesatto il richiamo della sentenza n. 251 del 2016, poiché in relazione alla riorganizzazione delle camere di commercio manca l’inestricabile intreccio di competenze statali e regionali, che avrebbe reso necessaria l’intesa. Il Governo ha, inoltre, recepito parte delle indicazioni formulate dalla Conferenza unificata e non ha accolto quelle concernenti la modalità di determinazione della misura del diritto annuale, che tuttavia ricade nella materia «sistema tributario», di competenza esclusiva dello Stato (art. 117, secondo comma, lettera e, Cost.), come affermato da questa Corte con la sentenza n. 29 del 2016, con conseguente infondatezza della denunciata violazione del principio di leale collaborazione.

10.1.6.– L’infondatezza della censura concernente l’art. 4, comma 6, del d.lgs. n. 219 del 2016 conseguirebbe, secondo il resistente, alla considerazione che le funzioni inerenti al registro delle imprese sono riconducibili alle materie «anagrafi» e «ordinamento civile» (art. 117, secondo comma, lettere i ed l, Cost.), spettanti alla competenza esclusiva dello Stato. Inoltre, la norma prevedrebbe anche il «coordinamento preventivo con le Regioni mediante il passaggio dalla Conferenza Stato-Regioni ed il conseguimento del parere da parte della stessa».

10.2.– In riferimento al ricorso della Regione Toscana, la difesa dello Stato, a conforto del chiesto rigetto, riproduce sostanzialmente le argomentazioni dianzi sintetizzate nei paragrafi 10.1, 10.1.1., 10.1.2., 10.1.3., 10.1.4., 10.1.5. e 10.1.6. Inoltre, ha eccepito l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’intero testo del d.lgs. n. 219 del 2016, per asserita violazione del principio di leale collaborazione e degli artt. 76 e 77, primo comma, Cost., deducendo che non è stato impugnato l’art. 10 della legge n. 124 del 2015, nell’osservanza del termine dell’art. 39 della legge n. 87 del 1953, come sarebbe stato necessario, poiché i contenuti normativi della delega erano determinati ed univoci e, quindi, in grado di porre in luce l’eventuale lesività da parte della norma di competenze regionali. Ammettere che con l’impugnazione del decreto delegato possa denunciarsi la norma di delega significherebbe, a suo avviso, permettere l’elusione di detto termine. Inoltre, i compiti attribuiti alle camere di commercio sarebbero riconducibili alla competenza legislativa esclusiva dello Stato prevista dall’art. 117, secondo comma, lettera g), Cost. e, sotto alcuni profili a quella della lettera e) di tale parametro e, comunque, devono essere disciplinati in modo omogeneo a livello nazionale. Tanto dovrebbe essere affermato anche con riguardo alle materie oggetto degli artt. 3 e 4 del d.lgs. n. 219 del 2016 e, in particolare in riferimento al citato art. 4, comma 6, sarebbe richiamabile la sentenza n. 251 del 2016, poiché la disciplina dallo stesso recata sarebbe riconducibile alla competenza statale nella materia del «coordinamento informativo statistico e informatico dei dati» (art. 117, secondo comma, lettera r, Cost.).

10.3.– Relativamente alle questioni sollevate dalla Regione Liguria, il resistente svolge considerazioni in larga misura coincidenti con quelle sopra riportate nei paragrafi 10.1, 10.1.4, 10.1.5, per chiedere il rigetto del ricorso proposto dalla predetta.

10.4.– L’Avvocatura generale dello Stato, con riguardo al ricorso della Regione Lombardia, svolge argomentazioni sostanzialmente omologhe a quelle sviluppate in riferimento al ricorso della Regione Puglia, sopra sintetizzate nel paragrafo 10.1, per eccepire l’inammissibilità delle censure aventi ad oggetto l’art. 10 della legge n. 124 del 2015, perché non impugnato nel termine dell’art. 39 della legge n. 87 del 1953. A suo avviso, sarebbe inoltre inammissibile l’istanza con cui la ricorrente sollecita questa Corte a sollevare dinanzi a sé, in via di autorimessione, questione di legittimità costituzionale di detto art. 10, comma 2, trattandosi di richiesta avente carattere elusivo del suindicato termine.

La difesa dello Stato insiste, quindi, per il rigetto delle restanti censure sulla scorta delle argomentazioni dianzi riportate nei paragrafi 10.1, 10.1.4, 10.1.5, 10.1.6. Infine, deduce l’infondatezza della questione avente ad oggetto gli artt. 3, comma 1, lettera f), e 4 del d.lgs. n. 219 del 2016.

11.– In prossimità dell’udienza pubblica hanno depositato memorie le Regioni Puglia, Toscana e Lombardia.

11.1.– La Regione Puglia contesta, nella memoria, che la mancata impugnazione della norma di delega renderebbe inammissibile l’impugnazione del decreto delegato, dato che quest’ultimo determinerebbe una novazione della fonte, e contesta la dedotta riconducibilità dell’intera disciplina recata dal d.lgs. n. 219 del 2016 alla competenza esclusiva dello Stato prevista dall’art. 117, secondo comma, lettera g), Cost.

Relativamente al termine di esercizio della delega, la ricorrente contesta che sia stato dimostrato che la richiesta di parere al Consiglio di Stato è stata inoltrata prima del 28 agosto 2016, ritenendo insufficiente a questo scopo l’attestazione contenuta in detto parere. A suo avviso, sarebbe altresì irrilevante la data di spedizione della richiesta, dato che al procedimento in esame non sarebbe applicabile il principio della scissione degli effetti dell’atto.

In ordine alla questione avente ad oggetto l’art. 3, comma 4, del d.lgs. n. 219 del 2016, la Regione ribadisce la tesi svolta nel ricorso e deduce che l’Avvocatura generale neppure avrebbe contrastato la censura subordinata, con cui essa ha lamentato la mancata previsione dell’acquisizione dell’intesa, anziché del parere della Conferenza Stato-Regioni, sui decreti di ridefinizione delle circoscrizioni territoriali.

A suo avviso, la difesa dello Stato non ha poi svolto nessuna considerazione in ordine alle censure aventi ad oggetto: l’art. 1, comma 1, lettera a); l’art. 3 del d.lgs. n. 219 del 2016; l’art. 1, comma 1, lettera r), di tale atto normativo, nella parte in cui ha abrogato l’art. 18, comma 1, lettera c), della legge n. 580 del 1993.

Sulla censura concernente l’art. 1, comma 1, lettera r), numero 1, punto i), del d.lgs. n. 219 del 2016, la ricorrente sostiene che, anche ritenendo la disciplina del tributo annuale riconducibile al sistema tributario statale, comunque sarebbe illegittima una disciplina che realizzerebbe un significativo depauperamento dell’autonomia funzionale delle camere di commercio.

La Regione Puglia osserva, infine, che anche riconducendo, come sostenuto dal resistente, la disciplina dell’art. 4, comma 6, del d.lgs. n. 219 del 2016 alla materia dell’art. 117, secondo comma, lettera r), Cost., l’obbligo indiscriminato e generalizzato di trasmissione dei dati sarebbe irragionevole e, appunto per questo, lesivo dell’autonomia organizzativa regionale (art. 117, quarto comma, Cost.).

11.2.– La Regione Toscana, nella memoria, deduce che la sentenza di questa Corte n. 278 del 2010 ha affermato che anche la legge di delega soggiace al fondamentale canone dell’interpretazione costituzionalmente conforme. L’interesse della Regione ad impugnarla sussiste dunque soltanto qualora l’unica esegesi possibile della stessa sia quella che prefigura una lesione dell’autonomia regionale; nella specie, soltanto il decreto legislativo avrebbe «reso percepibile ed accertabile l’esistenza in concreto della lesione». Pertanto, a suo avviso, è infondata l’eccezione dell’Avvocatura generale dello Stato, con cui questa ha sostenuto l’inammissibilità del ricorso, per mancata impugnazione della legge delega.

Relativamente alle censure concernenti l’ordine procedimentale di acquisizione dei pareri stabilito dall’art. 10 della legge n. 124 del 2015, la ricorrente ne contesta la rilevanza meramente interna dello stesso e ribadisce che non sarebbe stato osservato il termine finale di esercizio della delega. A suo avviso, neppure avrebbe potuto operare la proroga di detto termine prevista dall’art. 10, comma 2, della legge n. 124 del 2015, tenuto conto che la richiesta di parere sullo schema di decreto delegato sarebbe pervenuta al Consiglio di Stato soltanto il 29 agosto 2016, quindi tardivamente.

In riferimento alla disciplina del diritto annuale delle camere di commercio, la ricorrente deduce che la violazione dei parametri costituzionali evocati conseguirebbe alla circostanza che è stata attribuita soltanto allo Stato la valutazione della rilevanza del progetto che potrebbe fondare l’incremento del diritto camerale.

Nella memoria la ricorrente deduce altresì che la Conferenza unificata aveva condizionato il parere favorevole al recepimento della proposta n. 12, il cui mancato accoglimento conforterebbe l’esistenza della denunciata lesione.

La censura avente ad oggetto l’art. 3, comma 4, del d.lgs. n. 219 del 2016 sarebbe poi confortata dal fatto che il decreto del Ministro dello sviluppo economico dell’8 agosto 2017, recante la rideterminazione delle circoscrizioni territoriali, esplicita che la Conferenza Stato-Regioni non ha formulato il parere a seguito del disaccordo su vari punti del testo; quindi, risulterebbe che proprio a causa della previsione del parere, in luogo dell’intesa, le Regioni non hanno visto considerate le proprie posizioni.

Inoltre, la tesi del resistente, secondo cui il richiamo della sentenza n. 251 del 2016 non sarebbe corretto, poiché la materia oggetto della legge delega spetterebbe alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettere e) e g), Cost., non sarebbe fondata.

A suo avviso, il mancato accoglimento delle proposte di modifica formulate dalla Conferenza unificata con il parere reso sullo schema di decreto delegato ai numeri 4 e 15 confermerebbero che il dialogo istituzionale è stato meramente formale ed inidoneo a garantire le competenze regionali.

In ordine alla questione avente ad oggetto l’art. 4, comma 6, del d.lgs. n. 219 del 2016, la ricorrente osserva, infine, che la riconducibilità della disciplina alla competenza legislativa esclusiva dello Stato nelle materie «anagrafi» e «ordinamento civile», di cui all’art. 117, secondo comma, lettere i) ed l), Cost. non escluderebbe che la stessa incida anche sull’autonomia organizzativa regionale, che sarebbe stata lesa. Inoltre, la Conferenza unificata, con la proposta n. 14 del parere reso sullo schema di decreto delegato, aveva fatto presente detta esigenza che neanche è stata considerata, con conseguente lesione dell’art. 117, quarto comma, Cost., e del principio di leale collaborazione.

11.3.– La Regione Lombardia, nella memoria, contesta anzitutto la fondatezza dell’eccezione del resistente di inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 10 della legge n. 124 del 2015, per decorso del termine di impugnazione e argomenta sull’ammissibilità dell’autorimessione, richiamando alcune pronunce di questa Corte.

La ricorrente contesta altresì che la disciplina in esame possa essere ricondotta alla competenza legislativa esclusiva dello Stato nella materia dell’art. 117, secondo comma, lettera g), Cost., o comunque ad altre materie previste da detto parametro. Indipendentemente dalla considerazione che tale deduzione è stata svolta con limitato riferimento alla regolamentazione del diritto camerale e «della tenuta dei registri» (in relazione alla quale sarebbe comunque non fondata), la stessa, a suo avviso, non potrebbe essere, infatti, giudicata atomisticamente, costituendo «un unicum inscindibile» ed interessando «una pluralità di competenze (legislative ed amministrative) ed interessi facenti capo a livelli di governo diversi».

La Regione Lombardia ribadisce, infine, le deduzioni svolte nel ricorso in ordine alla prospettata necessità di una disciplina transitoria «per tutti e soli gli accorpamenti già deliberati alla data di entrata in vigore della legge n. 124 del 2015».

Considerato in diritto

1.– Le Regioni Puglia (reg. ric. n. 4 del 2017), Toscana (reg. ric. n. 5 del 2017), Liguria (reg. ric. n. 6 del 2017) e Lombardia (reg. ric. n. 7 del 2017) hanno promosso questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto l’intero testo del decreto legislativo 25 novembre 2016, n. 219 (Attuazione della delega di cui all’articolo 10 della legge 7 agosto 2015, n. 124, per il riordino delle funzioni e del finanziamento delle Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura), e gli artt. 1, 2, 3 e 4 (censurati da ciascuna ricorrente nei limiti e nei termini precisati nei paragrafi 1 ed 1.1. del Ritenuto in fatto) del medesimo decreto, per violazione degli artt. 3, 5, 18, 76 e 77, primo comma, (questi ultimi due parametri in relazione all’art. 10, comma 1, della legge 7 agosto 2015, n. 124, recante «Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche»), 97, 117, terzo e quarto comma, 118 e 120 della Costituzione e dei principi di leale collaborazione e di ragionevolezza.

2.– I giudizi, in considerazione della loro connessione oggettiva, devono essere riuniti, per essere decisi con un’unica pronuncia.

3.– Preliminarmente, occorre anzitutto verificare la legittimazione delle ricorrenti ad impugnare disposizioni concernenti la disciplina delle attività e del funzionamento delle camere di commercio, dalle stesse sostenuta con argomentazioni in larga misura coincidenti, volte a dimostrare che tali enti svolgono compiti che riguardano (ed incidono su) attribuzioni regionali costituzionalmente garantite.

Relativamente a detto profilo, va ricordato che questa Corte, con la sentenza n. 86 del 2017, ha svolto una diffusa ricognizione dell’evoluzione delle camere di commercio, offrendone una precisa configurazione, anche alla luce delle riforme realizzate dal d.lgs. n. 219 del 2016. È dunque opportuno rinviare a detta sentenza per l’esame, in dettaglio, di tale evoluzione; qui è sufficiente ribadire che le camere di commercio, fin dalla loro istituzione, hanno assunto un duplice volto: da un lato, organi di rappresentanza delle categorie mercantili; dall’altro, strumenti per il perseguimento di politiche pubbliche, tanto da assumere, agli inizi dello scorso secolo, la natura di enti di diritto pubblico, dotati di personalità giuridica.

Tale qualificazione fu mantenuta in prosieguo (con i passaggi e le modalità descritti nella citata pronuncia), avendole poi la legge 29 dicembre 1993, n. 580 (Riordinamento delle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura), configurate quali «enti autonomi di diritto pubblico», stabilendo che «svolgono, nell’ambito della circoscrizione territoriale di competenza, […] funzioni di interesse generale per il sistema delle imprese, curandone lo sviluppo nell’ambito delle economie locali» (art. 1, comma 1). I successivi interventi normativi hanno allentato i controlli statali, ma il riferimento all’ambito locale non è stato ritenuto limitativo dell’attività svolta, né ha impedito che esse continuino a svolgere funzioni di interesse generale, necessarie per la tutela dei consumatori e per la promozione di attività economiche (indicate analiticamente nella sentenza n. 86 del 2017).

La legge n. 580 del 1993 ha configurato la camera di commercio quale ente pubblico «che entra a pieno titolo, formandone parte costitutiva, nel sistema dei poteri locali secondo lo schema dell’art. 118 della Costituzione, diventando anche potenziale destinatario di deleghe dello Stato e della Regione» (sentenza n. 477 del 2000). Nondimeno, l’art. 1, comma 1, di tale legge (non modificato dal d.lgs. n. 219 del 2016) «non contempla affatto l’asserita attribuzione a dette camere della natura di enti locali, ma sancisce che [...] sono enti pubblici dotati di autonomia funzionale» (sentenza n. 29 del 2016), retti dal principio di sussidiarietà, ai quali sono attribuiti compiti che, se necessario, possono essere disciplinati in «maniera omogenea in ambito nazionale» (sentenza n. 374 del 2007).

Le modifiche da ultimo realizzate con il d.lgs. n. 219 del 2016, benché pregnanti, non hanno alterato i caratteri fondamentali delle camere di commercio. Infatti, come questa Corte ha sottolineato, è stata «realizzata una razionalizzazione e riduzione dei costi del sistema camerale, confermando, tra le altre: l’attribuzione dei compiti in materia di pubblicità legale e di settore mediante la tenuta del registro delle imprese; le funzioni specificatamente previste dalla legge in materia di tutela del consumatore e della fede pubblica, vigilanza e controllo sulla sicurezza e conformità dei prodotti e sugli strumenti soggetti alla disciplina della metrologia legale; le competenze in materia di rilevazione dei prezzi e delle tariffe, rafforzando la vigilanza da parte del Ministero dello sviluppo economico» (sentenza n. 86 del 2017). Accanto a queste sono stati mantenuti compiti che incidono su competenze regionali, tenuto conto della perdurante attribuzione, tra le altre (in via meramente esemplificativa) delle funzioni di sviluppo e promozione del turismo, di supporto alle imprese, di orientamento al lavoro ed alle professioni nella parte in cui concernono anche dette competenze (art. 2, comma 2, della legge n. 580 del 1993, nel testo sostituito dall’art. 1, comma 1, lettera b, numero 2, del d.lgs. n. 219 del 2016).

3.1.– In considerazione di tale configurazione e tenuto conto delle attività svolte dalle camere di commercio, in relazione alle stesse non è evocabile, come eccepito dal resistente, la competenza legislativa esclusiva dello Stato prevista dall’art. 117, secondo comma, lettera g), Cost. La giurisprudenza costituzionale, benché ne abbia negato la natura di enti locali, ha infatti già affermato «la possibilità per la Regione di denunciare la legge statale per dedotta violazione di competenze degli enti locali», riconoscendone dunque la legittimazione ad impugnare norme che le riguardano, quando incidenti su attribuzioni regionali (sentenza n. 29 del 2016).

Peraltro, le camere di commercio svolgono compiti che esigono una disciplina omogenea in ambito nazionale e, come è stato osservato, non compongono un arcipelago di entità isolate, ma costituiscono i terminali di un sistema unico di dimensioni nazionali che giustifica l’intervento dello Stato.

Il catalogo dei compiti da esse espletati (art. 2, comma 2, della legge n. 580 del 1993, nel testo sostituito dall’art. 1, comma 1, lettera b, numero 2, del d.lgs. n. 219 del 2016) rende tuttavia palese che gli stessi, come sopra precisato, sono riconducibili a competenze sia esclusive dello Stato, sia concorrenti, sia residuali delle Regioni (negli ambiti dell’industria, del commercio, dell’artigianato, dell’agricoltura). In relazione alle norme che le riguardano neppure è quindi possibile evocare, in astratto ed in linea generale, la competenza esclusiva dello Stato prevista dall’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., come eccepito dall’Avvocatura generale. Inoltre, queste funzioni talora sono inestricabilmente intrecciate (soprattutto con riguardo ai profili strutturali e di funzionamento di detti enti); talaltra sono invece suscettibili di essere precisamente identificate e distintamente considerate, in riferimento ai singoli compiti svolti dalle camere di commercio. Può dunque accadere che le norme aventi ad oggetto la disciplina dei compiti assegnati alle stesse riguardino materie riconducibili alle competenze esclusive dello Stato, ovvero anche competenze regionali, secondo quanto sopra precisato.

La complessità del sistema impone, quindi, di affermare che la legittimazione delle Regioni ad impugnare norme concernenti la disciplina delle camere di commercio non può essere affermata o negata in linea generale, poiché è condizionata all’accertamento che le stesse incidono su competenze regionali costituzionalmente garantite e non riguardano (come anche può accadere) profili riconducibili soltanto a competenze esclusive dello Stato.

4.– È alla luce di tale premessa che vanno scrutinate le questioni sollevate dalle ricorrenti.

5.– Per ragioni di pregiudizialità logico-giuridica devono essere esaminate anzitutto le censure aventi ad oggetto l’intero testo del d.lgs. n. 219 del 2016.

5.1.– La Regione Puglia ha impugnato il d.lgs. n. 219 del 2016, nella sua interezza, per violazione dell’art. 76 Cost., in relazione all’art. 10, comma 1, della legge n. 124 del 2015, deducendo che non sarebbe stato rispettato il termine di dodici mesi per l’esercizio della delega (scaduto il 28 agosto 2016). A suo avviso, non sussistevano infatti i presupposti della proroga di detto termine, prevista dal citato art. 10, comma 2, in virtù del quale sarebbe stato necessario che il termine per la formulazione dei prescritti pareri cadesse «nei trenta giorni che precedono la scadenza "ordinaria” della delega».

Non rileverebbe l’approvazione dello schema di decreto delegato da parte del Consiglio dei ministri il 25 agosto 2016 e neanche che la nota con cui è stato richiesto il parere del Consiglio di Stato è del 26 agosto 2016 (circostanza, a suo avviso, comunque irrilevante, poiché la richiesta è pervenuta allo stesso il successivo 29 agosto). Il citato art. 10, comma 2, nella parte in cui stabilisce che la proroga poteva operare «non solo se il termine per il parere cade nei 30 giorni precedenti la scadenza del termine ordinario di delega, ma anche se cade successivamente», andrebbe interpretato, a suo avviso, «nel senso che il dies a quo da cui contare la scadenza deve rientrare nel termine di delega ordinario», pena la sostanziale elusione del termine finale.

Secondo la Regione Toscana, il d.lgs. n. 219 del 2016 violerebbe gli artt. 76 e 77, primo comma, Cost., in quanto il Governo avrebbe dovuto richiedere prima i pareri del Consiglio di Stato e della Conferenza unificata (da rendere nel termine di quarantacinque giorni) e soltanto dopo quello delle Commissioni parlamentari. I pareri sono stati invece richiesti contestualmente e l’inosservanza dell’iter di consecutività stabilito dalla norma di delega avrebbe comportato il mancato rispetto del termine di esercizio della delega.

5.2.– Le questioni, da esaminare congiuntamente, perché svolgono argomentazioni in parte coincidenti, sono non fondate.

5.2.1.– Preliminarmente, va dichiarata inammissibile la censura proposta dalla Regione Toscana nella memoria depositata in prossimità dell’udienza pubblica, diretta a denunciare una violazione del termine di esercizio della delega conseguente alla data di richiesta dei pareri.

Indipendentemente dalla circostanza che tale censura sostanzialmente coincide con quella ritualmente proposta dalla Regione Puglia (perciò scrutinata, di seguito, nel merito, ma con riguardo alla questione sollevata da quest’ultima ricorrente), la stessa introduce infatti un profilo nuovo rispetto a quello svolto nel ricorso. Per costante giurisprudenza costituzionale, con tale atto è tuttavia possibile soltanto prospettare argomenti a sostegno delle questioni così come sollevate nel ricorso, non anche svolgere deduzioni dirette, come nella specie, ad ampliare il thema decidendum fissato con tale ultimo atto (per tutte, sentenza n. 154 del 2017).

5.2.2.– Ancora in linea preliminare, va osservato che il decreto legislativo in esame ha ad oggetto una disciplina omogenea, concernendo molteplici profili della struttura delle camere di commercio e delle attività da queste svolte, ciò che rende ammissibile l’impugnazione dell’intero testo di tale atto normativo (tra le più recenti e per tutte, sentenza n. 14 del 2017). Secondo questa Corte, le Regioni possono, inoltre, impugnare norme di decreti delegati anche per violazione degli artt. 76 e 77, primo comma, Cost., sempre che la stessa ridondi sulle attribuzioni regionali (ex plurimis, sentenze n. 219 del 2013, n. 80 del 2012, n. 33 del 2011).

Nondimeno, tenuto conto delle considerazioni dianzi svolte, la legittimazione all’impugnazione e la valutazione della ridondanza, quando il decreto delegato incida su molteplici competenze attribuite sia allo Stato sia alle Regioni e nel caso in cui il vizio denunciato risulti sussistente, vanno poi verificate con riguardo alle singole norme dello stesso, allo scopo di stabilire se e quali di queste ledano attribuzioni regionali. A tale accertamento non occorre evidentemente procedere se sia esclusa l’esistenza del vizio, circostanza ricorrente nel caso in esame, per quanto di seguito precisato.

5.2.3.– Posta tale premessa, va osservato che l’art. 10, comma 1, della legge n. 124 del 2015 stabiliva: «Il Governo è delegato ad adottare, entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge […]» (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 13 agosto 2015, n. 187); il termine di esercizio della delega scadeva dunque il 28 agosto 2016.

Il citato art. 10, al comma 2, disponeva inoltre che il decreto legislativo avrebbe dovuto essere adottato «su proposta del Ministro dello sviluppo economico, di concerto con il Ministro delegato per la semplificazione e la pubblica amministrazione e con il Ministro dell’economia e delle finanze, previa acquisizione del parere della Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e del parere del Consiglio di Stato, che sono resi nel termine di quarantacinque giorni dalla data di trasmissione dello schema di decreto legislativo, decorso il quale il Governo può comunque procedere. Lo schema di decreto legislativo è successivamente trasmesso alle Camere per l’espressione dei pareri delle Commissioni parlamentari competenti per materia e per i profili finanziari, che si pronunciano nel termine di sessanta giorni dalla data di trasmissione, decorso il quale il decreto legislativo può essere comunque adottato. Se il termine previsto per il parere cade nei trenta giorni che precedono la scadenza del termine previsto al comma 1 o successivamente, la scadenza medesima è prorogata di novanta giorni. Il Governo, qualora non intenda conformarsi ai pareri parlamentari, trasmette nuovamente il testo alle Camere con le sue osservazioni e con eventuali modificazioni, corredate dei necessari elementi integrativi di informazione e motivazione. Le Commissioni competenti per materia possono esprimersi sulle osservazioni del Governo entro il termine di dieci giorni dalla data della nuova trasmissione. Decorso tale termine, il decreto può comunque essere adottato».

La norma, nonostante una formulazione ed una struttura lessicale oggettivamente complessa, è comunque chiara nello stabilire che: il termine di esercizio della delega scadeva il 28 agosto 2016; tale termine era tuttavia prorogato di novanta giorni, nel caso in cui quello entro il quale avrebbero dovuto essere resi i prescritti pareri fosse scaduto nei trenta giorni precedenti o successivi al 28 agosto 2016.

La sola precisa ed espressa condizione affinché potesse operare la proroga era, dunque, che la richiesta dei pareri pervenisse alle Commissioni parlamentari anteriormente alla scadenza del termine di esercizio della delega, poiché ciò era sufficiente a comportare la scadenza di quello fissato per la formulazione dei pareri in data successiva al termine finale e, quindi, a rendere operativa la proroga.

Tanto risulta accaduto. Lo schema di decreto delegato è stato infatti approvato dal Consiglio dei ministri il 25 agosto 2016 ed è stato trasmesso alla Presidenza del Senato ed alla Presidenza della Camera il 26 agosto 2016, come in tal senso attestato dagli atti parlamentari (aventi valore fidefaciente) e, in particolare, precisamente indicato nei frontespizi degli atti del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati, relativi appunto all’«Atto del Governo sottoposto a parere parlamentare» n. 327 (nei quali è espressamente dato atto dell’avvenuta trasmissione dello stesso alle Presidenze delle due Camere «il 26 agosto 2016»).

Relativamente all’ordine nella formulazione della richiesta dei pareri, è corretta la considerazione svolta dall’Avvocatura generale, secondo cui l’avverbio «successivamente», contenuto nel citato art. 10, comma 2, scandiva un ordine procedimentale, in virtù del quale non occorreva richiedere prima i pareri della Conferenza unificata e del Consiglio di Stato e soltanto all’esito della formulazione dei medesimi richiedere quelli delle Commissioni parlamentari.

L’adempimento procedurale imprescindibile era infatti che queste ultime rendessero parere dopo avere avuto contezza di quelli espressi dagli altri due organi dianzi indicati. Condizioni perché potesse operare la proroga erano soltanto quelle costituite: dall’inoltro della richiesta di parere alle Commissioni parlamentari; dalla circostanza che, in considerazione della data della stessa, il termine del parere sarebbe scaduto entro quello indicato dalla norma di delega; dall’essere stato avviato il procedimento anche in relazione a Conferenza unificata e Consiglio di Stato, in modo da permettere a questi ultimi di rendere il parere e di garantirne l’acquisizione da parte delle Commissioni parlamentari entro un tempo in grado di assicurare l’esaurimento del procedimento.

Tanto è appunto accaduto, dato che: il 29 settembre 2016 la Conferenza unificata ha espresso parere favorevole (condizionato all’accoglimento di tre proposte di emendamento); il 20 ottobre 2016 il Consiglio di Stato, Sezione consultiva per gli atti normativi, ha espresso il proprio parere favorevole (con osservazioni); il 3 novembre 2016 le Commissioni 10ª del Senato della Repubblica e X della Camera dei deputati hanno espresso, entrambe, pareri favorevoli (con condizioni ed osservazioni).

Peraltro, va osservato che da tali due ultimi pareri (pure recanti rilievi ed osservazioni) non emergono dubbi in ordine all’operatività della proroga, questione della quale neppure vi è traccia nei pareri della Conferenza unificata e del Consiglio di Stato, Sezione consultiva per gli atti normativi, benché questi ultimi due organi abbiano ricevuto la richiesta di parere in data successiva al 28 agosto 2016. Non rileva, infatti, la puntualizzazione contenuta nella premessa del parere reso dalla Conferenza unificata sulla «urgenza a provvedere manifestata dal Governo (considerato che formalmente la delega è scaduta)». La stessa è infatti riferibile, all’evidenza, all’esigenza di celerità conseguente al fatto che il parere avrebbe dovuto essere reso nella fase di proroga del termine, senza che risulti poi posta in discussione l’esattezza del convincimento in ordine all’operatività di quest’ultima.

Nei richiamati pareri in data 3 novembre 2016 delle Commissioni 10ª del Senato della Repubblica e X della Camera dei deputati è, inoltre, dato atto che gli stessi sono stati formulati avendo avuto contezza dei pareri degli altri due organi dianzi indicati, a conferma dell’osservanza dell’iter stabilito dalla norma di delega e della circostanza che è stata garantita l’interlocuzione di tutti gli organi, nell’osservanza delle precedenze stabilite dalla stessa, assicurando alle Commissioni parlamentari la conoscenza dei pareri preliminari rispetto a quello che esse dovevano formulare.

Il procedimento di adozione del decreto delegato è poi ulteriormente proseguito, nell’osservanza dell’art. 10 della legge n. 124 del 2015, con la sottoposizione alle Commissioni 10ª del Senato e X della Camera del testo dello schema modificato dal Governo e da questi trasmesso (in data 11 novembre 2016 alla Presidenza del Senato ed alla Presidenza della Camera giusta l’attestazione recata dagli atti parlamentari) e con la formulazione di parere da parte di dette Commissioni nelle date, rispettivamente, del 22 e del 17 novembre 2016.

Il procedimento si è dunque svolto garantendo appieno l’interlocuzione sullo schema di decreto delegato degli organi chiamati a rendere il parere, con modalità che hanno consentito alle Commissioni parlamentari di avere conoscenza di quelli formulati dalla Conferenza unificata e dal Consiglio di Stato, costituendo questa la condizione ineludibile della legittimità dello stesso.

L’interpretazione in tal senso accolta neanche poteva comportare, come sostenuto dalla Regione Puglia, che «la delega non avrebbe [avuto] scadenza». Se condizione della proroga era che la richiesta di parere doveva pervenire alle Camere prima del 28 agosto 2016 (come appunto avvenuto), una volta che ciò fosse accaduto, era agevole computare ed identificare il termine finale, perentorio ed improrogabile, senza che fosse ipotizzabile una sorta di anomala ed impropria sanatoria.

6.– La Regione Toscana ha altresì impugnato l’intero testo del d.lgs. n. 219 del 2016, in riferimento agli artt. 76 e 77, primo comma, Cost. ed al principio di leale collaborazione. A suo avviso, l’attività delle camere di commercio incide su materie attribuite alla competenza regionale e, quindi, anche in virtù del principio enunciato dalla sentenza n. 251 del 2016, il decreto delegato avrebbe dovuto «essere approvato previa intesa con la Conferenza Stato-Regioni» e non, come accaduto, previo parere della Conferenza unificata.

Censura sostanzialmente identica è stata proposta dalla Regione Liguria, che tuttavia, con argomentazioni sostanzialmente omologhe a quelle svolte dalla Regione Toscana (sopra riportate) e trascrivendo ampi brani della sentenza n. 251 del 2016, ha denunciato soltanto la violazione del principio di leale collaborazione.

6.1.– La Regione Lombardia ha promosso questione di legittimità costituzionale in larga misura omologa, laddove ha dedotto (nella parte iniziale del punto I.1. del ricorso) che il d.lgs. n. 219 del 2016 violerebbe gli artt. 117, terzo e quarto comma, Cost., nonché il principio di leale collaborazione di cui agli artt. 5 e 120 Cost., poiché «è stato adottato all’esito di un procedimento nel quale l’interlocuzione fra Stato e Regioni […] si è realizzata nella forma (inadeguata) del mero parere e non già attraverso l’intesa».

Inoltre, a suo avviso (secondo quanto sostenuto nel punto II del ricorso), il d.lgs. n. 219 del 2016 violerebbe l’art. 10, comma 2, della legge n. 124 del 2015, nella parte in cui detta norma stabilisce che il decreto delegato doveva essere emanato previo parere, anziché previa intesa, in virtù del testo così risultante dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale di quest’ultima norma, per violazione dell’art. 76 Cost., in combinato disposto con gli artt. 5, 117, commi terzo e quarto, e 120 Cost., che questa Corte dovrebbe pronunciare a seguito dell’autorimessione dinanzi a sé di detta questione, che la ricorrente ha sollecitato.

6.2.– Le questioni, scrutinabili congiuntamente nella parte in cui denunciano la violazione del principio di leale collaborazione, perché sollevate in base a ragioni ed in relazione a profili sostanzialmente coincidenti, sono non fondate.

6.2.1.– In linea preliminare, la censura con cui la Regione Toscana, nella memoria illustrativa, sostiene che il principio di leale collaborazione sarebbe stato leso anche perché «il Governo ha ignorato le tre proposte di emendamento che le Regioni avevano posto come condizionanti il parere favorevole sul testo del decreto legislativo» deve essere dichiarata inammissibile. Con tale prospettazione la ricorrente, in contrasto con il principio sopra richiamato nel precedente punto 5.2.1., ha infatti introdotto un profilo nuovo ed ulteriore rispetto a quello svolto nel ricorso e, appunto per questo, inammissibile.

6.2.2.– Ancora in linea preliminare, devono essere dichiarate inammissibili le censure sollevate dalla Regione Lombardia in riferimento all’art. 117, terzo e quarto comma, Cost., in quanto tale parametro costituzionale non risulta indicato nella delibera autorizzativa alla proposizione del ricorso. Nei giudizi di legittimità costituzionale in via principale deve infatti sussistere, a pena d’inammissibilità, una piena e necessaria corrispondenza tra la deliberazione con cui l’organo legittimato si determina all’impugnazione ed il contenuto del ricorso, quanto ad oggetto, profili e parametri (tra le molte, sentenze n. 170 e 154 del 2017), attesa la natura politica dell’atto di impugnazione (tra le tante, sentenza n. 154 del 2017).

6.2.3.– La questione sollevata dalla Regione Toscana, in riferimento agli artt. 76 e 77, primo comma, Cost., non è fondata, tenuto conto che l’art. 10, comma 2, della legge n. 124 del 2015 stabiliva che il Governo avrebbe dovuto emanare il decreto delegato «previa acquisizione del parere della Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281», come appunto è accaduto.

Tale norma è stata dunque osservata, con conseguente inesistenza dell’ipotizzata violazione della legge delega. L’univoca formulazione di detta disposizione rende inoltre impossibile un’interpretazione diversa da quella resa chiara dalla lettera della stessa, che imponeva appunto l’acquisizione del parere della Conferenza unificata e non dell’intesa della Conferenza Stato-Regioni.

6.2.4.– Le questioni, nella parte in cui prospettano una violazione del principio di leale collaborazione, in quanto il d.lgs. n. 219 del 2016 è stato adottato, nell’osservanza della norma di delega, previo parere della Conferenza unificata anziché previa intesa in Conferenza Stato-Regioni, necessaria ad avviso dalle ricorrenti, è connotata, in parte, da profili di novità.

Deve essere anzitutto escluso che costituiscano precedenti congruenti rispetto ad essa le pronunce con cui la giurisprudenza costituzionale ha ritenuto ammissibile l’impugnazione di norme del decreto delegato, in riferimento all’art. 76 Cost., qualora la violazione dei principi e criteri direttivi determini una compressione delle competenze regionali (tra le altre, sentenze n. 219 del 2013, n. 178 del 2012, n. 33 del 2011). Nel caso in esame non è stata, infatti, denunciata una tale violazione, perché questa, al contrario, è stata ravvisata dalle ricorrenti proprio nell’osservanza di detti principi e criteri direttivi, quali fissati dall’art. 10 della legge n. 124 del 2015.

I principi che consentono di dare corretta soluzione alla questione sono desumibili della sentenza n. 251 del 2016, che tuttavia non conducono all’esito sostenuto dalle ricorrenti.

Questa sentenza ha, infatti, affermato che, qualora il legislatore delegante conferisca al Governo il compito di emanare disposizioni che incidano su ambiti caratterizzati da uno stretto intreccio di materie e competenze statali e regionali, tale da fare ravvisare nell’intesa la soluzione che meglio incarna la collaborazione, l’intesa «si impone […] quale cardine della leale collaborazione anche quando l’attuazione delle disposizioni dettate dal legislatore statale è rimessa a decreti legislativi delegati, adottati dal Governo sulla base dell’art. 76 Cost. Tali decreti, sottoposti a limiti temporali e qualitativi, condizionati quanto alla validità a tutte le indicazioni contenute non solo nella Costituzione, ma anche, per volontà di quest’ultima, nella legge di delegazione, finiscono, infatti, con l’essere attratti nelle procedure di leale collaborazione, in vista del pieno rispetto del riparto costituzionale delle competenze» (sentenza n. 251 del 2016).

Questa Corte ha dunque ritenuto ammissibile l’impugnazione della norma di delega, allo scopo di censurare le modalità di attuazione della leale collaborazione dalla stessa prevista ed al fine di ottenere che il decreto delegato sia emanato previa intesa anziché previo parere in sede di Conferenza.

La affermata immediata impugnabilità della norma di delega, per violazione del principio di leale collaborazione, rende palese, da un canto, che la lesione costituisce effetto diretto ed immediato di un vizio della stessa, non del decreto delegato che ad essa dovrà prestare (ovvero che ha prestato) la dovuta osservanza; proprio per questo la norma di delega, in parte qua, è stata ritenuta impugnabile prima ancora dell’adozione del decreto delegato. Dall’altro, dimostra che l’eventuale vizio del decreto delegato è meramente riflesso e, quindi, la censura di violazione del principio di leale collaborazione, conseguente all’osservanza della norma di delega, denuncia in realtà un vizio che concerne direttamente ed immediatamente la norma di delega.

Pertanto, sulla scorta dei principi enunciati nella sentenza n. 251 del 2016, va affermato che, quando la legge delega è connotata da un tasso di specificità e concretezza tale da comportare una lesione dell’interesse della Regione, poiché essa ha ad oggetto la futura regolamentazione (con il decreto delegato) di ambiti complessi e caratterizzati da un intreccio di competenze statali e regionali (come nel caso in esame, per quanto sopra precisato), la Regione può e deve farlo valere mediante l’impugnazione della norma di delega, ritenuta appunto ammissibile da detta pronuncia.

Una diversa soluzione condurrebbe ad una palese, inammissibile, elusione del termine perentorio di sessanta giorni stabilito dall’art. 127, secondo comma, Cost. (nel testo sostituito dall’art. 8 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, recante «Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione»).

In contrario, non giova richiamare, come opinano le ricorrenti, il pure pacifico principio secondo cui è inapplicabile l’istituto dell’acquiescenza nel giudizio di legittimità costituzionale in via principale (tra le altre, sentenze n. 182 e n. 169 del 2017). Nel caso in esame non si è, infatti, al cospetto di una reiterazione del contenuto di una precedente disposizione, ovvero della novazione di una fonte precedente, bensì della mera applicazione di una norma vigente che il legislatore delegato, come è necessario, si è limitato ad osservare e che neppure avrebbe potuto disattendere, a meno di incorrere proprio per questo in un vizio denunciabile ex art. 76 Cost.

Precisi argomenti a conforto della conclusione qui affermata sono, infine, desumibili dalla giurisprudenza costituzionale, secondo la quale, quando il vizio della norma del decreto delegato deriva dall’osservanza della norma di delega, resta esclusa la censurabilità della stessa e neanche «può accogliersi la richiesta subordinata della ricorrente, di sollevare questione di legittimità costituzionale […] della legge di delega, per violazione degli indicati […] parametri costituzionali, poiché si farebbe luogo in tal modo ad una inammissibile elusione del termine assegnato alle regioni dall’art. 2 della legge costituzionale n. 1 del 1948 per la impugnazione delle leggi statali» (sentenza n. 206 del 2001; in senso sostanzialmente analogo è la sentenza n. 46 del 2013 che parimenti ha affermato che la Corte non era «tenuta ad esaminare» una richiesta di autorimessione della questione di legittimità costituzionale di una norma diversa da quella impugnata e per un vizio che, in tesi, poteva rilevare nello scrutinio della diversa norma, che avrebbe dovuto essere tempestivamente impugnata).

6.2.4.1.– Per tali ultime argomentazioni questa Corte ritiene di non dovere prendere in considerazione l’istanza di autorimessione proposta dalla Regione Lombardia, sopra sintetizzata.

7.– La Regione Lombardia ha altresì impugnato l’intero testo del d.lgs. n. 219 del 2016, per violazione del «principio di leale collaborazione, in combinato disposto con gli artt. 117», commi terzo e quarto, Cost (così nella parte conclusiva del punto I.1. del ricorso, nonché in quella centrale dello stesso), in quanto il Governo non avrebbe recepito le proposte di modifica formulate ai numeri 4, 12 e 15 del parere reso il 29 settembre 2016 dalla Conferenza unificata.

In ogni caso, a suo avviso, detto vizio, conseguente appunto al mancato recepimento di dette proposte, inficerebbe almeno gli artt. 1, comma 1, lettera b), numero 2, punto g), e lettera r), numero 1), punto i), e 3, comma 10, del d.lgs. n. 219 del 2016 (così nella parte conclusiva del punto I.1. del ricorso).

7.1.– Le questioni sono inammissibili.

Le questioni, nei suindicati termini e con riguardo alla ragione del denunciato vizio, consistente nel mancato recepimento delle proposte di modifica numeri 4, 12 e 15 formulate nel parere reso dalla Conferenza unificata, non risultano infatti prospettate ed identificate nella delibera della Giunta regionale di autorizzazione alla proposizione del ricorso e, in virtù del principio sopra richiamato in ordine alla necessaria corrispondenza tra la delibera ed il contenuto del ricorso, sono quindi inammissibili.

8.– La Regione Lombardia ha impugnato gli artt. 1, 2, 3 e 4 del d.lgs. n. 219 del 2016, per violazione degli artt. 76, 117, terzo e quarto comma, Cost., nonché del principio di leale collaborazione di cui agli artt. 5 e 120 Cost.

8.1.– La questione è inammissibile.

Preliminarmente è necessario osservare che la questione, in detti precisi termini, è stata proposta nelle conclusioni del ricorso (al punto i, sub b) e non coincide appieno con quella promossa nel corso dello stesso (nella parte iniziale del punto I.1., sopra sintetizzata nel paragrafo 6.1), quanto alle norme impugnate (nel punto delle conclusioni qui in esame indicate nei soli artt. 1, 2, 3 e 4 del d.lgs. n. 219 del 2016) ed ai parametri costituzionali (soltanto nelle conclusioni al punto i, sub b, è infatti indicato l’art. 76 Cost.), benchè risulti altrimenti sostanzialmente coincidente con quella dianzi scrutinata (sintetizzata nel paragrafo 6.1.), quanto alla denunciata violazione del principio di leale collaborazione.

Precisato dunque che la questione sollevata è differente ed ulteriore rispetto a quella sintetizzata nel paragrafo 6.1., la stessa è inammissibile per due concorrenti ragioni.

In primo luogo, perché della stessa, in detti precisi termini e con specifico riguardo agli artt. 1, 2, 3 e 4 del d.lgs. n. 219 del 2016, non vi è traccia nella delibera di autorizzazione alla proposizione del ricorso, in violazione del richiamato principio della corrispondenza tra tali atti.

In secondo luogo, perché la stessa, in quanto sollevata soltanto nelle conclusioni del ricorso, è evidentemente carente del supporto argomentativo minimo che deve connotare il ricorso in via principale (per tutte, sentenza n. 197 del 2017).

9.– Procedendo ulteriormente nello scrutinio delle questioni aventi ad oggetto singole norme del d.lgs. n. 219 del 2016, va osservato che la Regione Puglia ha impugnato l’art. 1, comma 1, lettera a), numero 1, e l’art. 3 (recte, art. 3, comma 1, primo periodo) del d.lgs. n. 219 del 2016, nella parte in cui gli stessi «prevedono la riduzione del numero delle Camere di commercio da 105 a non più di 60». A suo avviso, le camere di commercio sarebbero riconducibili alle cosiddette autonomie funzionali, garantite dall’art. 5 Cost., e costituirebbero espressione del libero associazionismo imprenditoriale, tutelato dall’art. 18 Cost. Tali parametri sarebbero lesi dalla non ragionevole (in violazione dell’art. 3 Cost.) riduzione del numero delle camere di commercio, disposta «per conseguire un presunto risparmio di spesa» rispetto ad un sistema virtuoso, tenuto peraltro conto che le stesse neppure gravano sul bilancio dello Stato.

9.1.– La questione è inammissibile.

Il censurato art. 1, comma 1, lettera a), numero 1, ha sostituito il comma 3 dell’art. 1 della legge n. 580 del 1993, con il seguente: «3. Le Camere di commercio operano nelle circoscrizioni territoriali esistenti, come ridefinite in attuazione dell’articolo 10, comma 1, lettera b), della legge n. 124 del 2015 ed ai sensi del comma 5 del presente articolo, con la presenza di almeno una camera di commercio in ciascuna regione. Ai fini dell’individuazione della soglia delle 75.000 imprese e unità locali è considerato il relativo numero risultante dall’ultima pubblicazione effettuata dal Ministero dello sviluppo economico ai sensi dell’articolo 3 del decreto del Ministro dello sviluppo economico 4 agosto 2011, n. 155».

La norma reca criteri di ridefinizione delle circoscrizioni territoriali delle camere di commercio, non concerne il numero complessivo delle stesse e, dunque, in nessun punto ha costituito oggetto di specifica considerazione e critica, con conseguente inammissibilità della questione avente ad oggetto la stessa.

La censura si appunta esclusivamente sull’art. 3 del d.lgs. n. 219 del 2016, che si compone di undici commi, i quali disciplinano molteplici profili del procedimento di riduzione del numero delle camere di commercio e, in dettaglio, stabiliscono: i criteri da osservare nell’accorpamento delle stesse (comma 1, lettere da a ad f); il procedimento di rideterminazione delle circoscrizioni territoriali e di accorpamento (commi 2-4); la destinazione del personale in soprannumero (commi 5-11).

La questione ha quindi ad oggetto esclusivamente il primo periodo del comma 1 del citato art. 3, nella parte in cui stabilisce l’obiettivo di «ricondurre il numero complessivo delle camere di commercio entro il limite di 60».

Delimitata in detti termini la questione, va ribadito il principio, costantemente affermato da questa Corte, secondo cui non basta che il ricorso in via principale identifichi esattamente la questione nei suoi termini normativi, indicando le norme costituzionali e ordinarie, la definizione del cui rapporto di compatibilità o incompatibilità costituisce l’oggetto della questione di costituzionalità. Occorre infatti che esso sviluppi un’argomentazione a sostegno dell’impugnazione, necessaria in termini ancora più stringenti che nei giudizi incidentali (tra le molte, sentenze n. 197, n. 192, n. 170, n. 169 e n. 81 del 2017).

Secondo la giurisprudenza costituzionale, le Regioni possono, inoltre, impugnare le disposizioni di una legge statale facendo valere esclusivamente i profili attinenti al riparto delle competenze. Esse possono denunciare la violazione di parametri diversi da quelli che sovrintendono a detto riparto soltanto qualora la stessa sia potenzialmente idonea a determinare una lesione delle attribuzioni costituzionali delle Regioni, sempre che motivino sufficientemente in ordine ai profili di possibile ridondanza della violazione sul riparto di competenze ed indichino la specifica competenza regionale che si assume lesa (tra le più recenti, sentenza n. 169 del 2017).

Dando applicazione e continuità a detti principi, la questione è inammissibile, in quanto consiste e si risolve nella prospettazione dell’incongruità della riduzione del numero delle camere di commercio, formulata in modo sostanzialmente assertivo. Tale conclusione ancora più si impone, in quanto neppure è approfondito e considerato il dettagliato procedimento stabilito proprio a salvaguardia delle specificità geo-economiche dei territori. Inoltre, è stata denunciata la violazione di parametri costituzionali che non sovrintendono al riparto delle attribuzioni tra Stato e Regioni, senza adeguatamente argomentare in ordine alla ridondanza della violazione sulle competenze regionali, con specifico riferimento alla norma in esame.

10.– L’art. 1, comma 1, lettera a), numero 3, del d.lgs. n. 219 del 2016, ha sostituito il comma 5 dell’art. 1 della legge n. 580 del 1993 con il seguente: «5. I consigli di due o più camere di commercio possono proporre, con delibera adottata a maggioranza dei due terzi dei componenti, l’accorpamento delle rispettive circoscrizioni territoriali o le modifiche delle circoscrizioni stesse. Con decreto del Ministro dello sviluppo economico, previa intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, è istituita la camera di commercio derivante dall’accorpamento delle circoscrizioni territoriali. Con la medesima procedura sono approvate le eventuali modifiche delle circoscrizioni territoriali delle camere di commercio esistenti fermo restando il numero massimo di 60 e la necessità di mantenere l’equilibrio economico finanziario per ciascuna delle camere interessate».

Secondo la Regione Liguria, detta norma violerebbe gli artt. 76 e 77, comma primo, Cost., in quanto l’art. 10 (recte, art. 10, comma 1, lettera b) della legge n. 124 del 2015 prevederebbe tra i principi e criteri direttivi per la ridefinizione delle circoscrizioni territoriali delle camere di commercio solo "l’accorpamento” di due o più camere di commercio esistenti. La norma impugnata, aggiungendo «a tale modalità di ridefinizione anche la "modifica” delle circoscrizioni territoriali», lascerebbe «aperta la possibilità di determinare ‘innovativamente’ i nuovi confini degli enti, ossia consentendo di prescindere in modo anche significativo dagli esistenti perimetri amministrativi».

10.1.– La questione è inammissibile.

La censura, risolvendosi nella deduzione dianzi trascritta, è all’evidenza generica e non corredata da specifiche argomentazioni. L’imprescindibilità di un’adeguata motivazione della censura si imponeva ancora più, tenuto conto del criterio direttivo contenuto nell’art. 10, comma 1, lettera b), della legge n. 124 del 2015, suscettibile di essere interpretato, secondo gli ordinari criteri ermeneutici, nel senso fatto proprio dal legislatore delegato, nonché della previsione, nella norma in esame, di un procedimento di modifica delle circoscrizioni territoriali che si conclude con un decreto del Ministro dello sviluppo economico, da emanare «previa intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano», che garantisce l’attivo coinvolgimento delle Regioni.

11.– Per ragioni d’ordine logico, è opportuno esaminare la questione avente ad oggetto l’art. 3, comma 4, del d.lgs. n. 219 del 2016, in quanto anche detta disposizione concerne la disciplina delle circoscrizioni territoriali delle camere di commercio.

Tale norma stabilisce: «Il Ministro dello sviluppo economico, entro i sessanta giorni successivi al termine di cui al comma 1, con proprio decreto, sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, provvede, tenendo conto della proposta di cui al comma 1, alla rideterminazione delle circoscrizioni territoriali, all’istituzione delle nuove camere di commercio, alla soppressione delle camere interessate dal processo di accorpamento e razionalizzazione ed alle altre determinazioni conseguenti ai piani di cui ai commi 2 e 3. Il provvedimento di cui al presente comma è adottato anche in assenza della proposta di cui al comma 1, ove sia trascorso inutilmente il termine ivi previsto, applicando a tal fine i medesimi criteri previsti nei commi 1, 2, 3».

11.1.– Tale disposizione è stata impugnata dalla Regione Puglia, per violazione dell’art. 76 Cost., in relazione all’art. 10, comma 1, lettera a) (recte, art. 10, comma 1, lettera b), della legge n. 124 del 2015. A suo avviso, quest’ultima norma disponeva che la «ridefinizione delle circoscrizioni territoriali» avrebbe dovuto essere realizzata dal decreto legislativo e non avrebbe autorizzato il Governo a stabilire «criteri di ridefinizione», rinviando ad un successivo atto governativo l’attuazione della stessa. A suo avviso, detto rinvio realizzerebbe una violazione del termine di esercizio della delega e dimostrerebbe che il Governo non è stato in grado di osservarlo, sottraendo altresì tale profilo (di pregnante interesse per le Regioni) al sindacato di questa Corte.

11.1.1.– La questione non è fondata.

Preliminarmente, è opportuno osservare che detta censura non è assorbita dalla declaratoria di illegittimità costituzionale del censurato art. 3, comma 4, di seguito pronunciata (nel paragrafo 12.1.1.). Con la stessa la Regione Puglia mira infatti ad ottenere la caducazione della norma in toto, per una ragione preliminare, che in tesi potrebbe assorbire l’ulteriore questione avente ad oggetto la norma in esame.

La censura è, altresì, ammissibile poiché la ricorrente ha prospettato la lesione di competenze ad essa spettanti, argomentando sufficientemente anche in ordine alla ridondanza dell’asserito vizio.

L’obiettivo assegnato al legislatore delegato, di procedere alla «ridefinizione» delle circoscrizioni territoriali, tenuto conto del significato del sostantivo e della finalità posta dalla norma di delega – che rendeva ineludibile una ricognizione ed un’istruttoria non compatibile, di regola, con tempi e modi di un atto normativo (sia pure consistente in un decreto delegato) – consente, infatti, di interpretare quest’ultima, ritenendo che con essa il Governo sia stato autorizzato anche a disciplinare un apposito procedimento, volto alla rideterminazione delle circoscrizioni territoriali delle camere di commercio.

D’altronde, la legge delega, in parte qua, non vietava affatto al legislatore delegato di devolvere a fonti secondarie lo sviluppo delle norme primarie ivi contenute, secondo una modalità in passato già prevista e giudicata ammissibile da questa Corte (sentenza n. 33 del 2011).

12.– L’art. 3, comma 4, del d.lgs. n. 219 del 2016 è stato, inoltre, impugnato – in riferimento al principio di leale collaborazione dalle Regioni Puglia, Toscana, Liguria e Lombardia, nonché, da queste ultime tre ricorrenti, anche in relazione all’art. 117, commi terzo e quarto, Cost. – nella parte in cui stabilisce che il decreto del Ministro dello sviluppo economico previsto da detta norma deve essere emanato «sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano».

Le ricorrenti, con argomentazioni in larga misura coincidenti, sostengono che la norma inciderebbe su un ambito materiale in cui si intrecciano competenze legislative statali e regionali. La previsione dell’adozione del richiamato decreto previo parere della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, anziché previa intesa, si porrebbe in contrasto con i principi enunciati nella sentenza n. 251 del 2016 e violerebbe il principio di leale collaborazione.

12.1.– Le censure sono anzitutto ammissibili, poiché sufficientemente motivate e, quanto al ricorso della Regione Lombardia, lo sono limitatamente alla denunciata violazione del principio di leale collaborazione. Nella delibera di autorizzazione alla proposizione del ricorso non c’è infatti traccia del riferimento all’art. 117, commi terzo e quarto, Cost. e sono, quindi, inammissibili le censure riferite a detto parametro, siccome proposte in violazione del più volte richiamato principio di corrispondenza tra il contenuto di tali atti.

12.1.1.– La questione, nei termini e nei limiti di seguito precisati, è fondata.

L’intervento del legislatore statale sul profilo in esame non è di per sé illegittimo, essendo giustificato dalla finalità di realizzare una razionalizzazione della dimensione territoriale delle camere di commercio e di perseguire una maggiore efficienza dell’attività da esse svolta, conseguibile soltanto sulla scorta di un disegno unitario, elaborato a livello nazionale. Tale ragione giustificatrice dell’intervento del legislatore statale non esclude tuttavia che, incidendo l’attività delle camere di commercio su molteplici competenze, alcune anche regionali, detto obiettivo debba essere conseguito nel rispetto del principio di leale collaborazione, indispensabile in questo caso a guidare i rapporti tra lo Stato e il sistema delle autonomie (ex plurimis, sentenza n. 251 del 2016).

Il luogo idoneo di espressione della leale collaborazione è stato correttamente individuato dalla norma nella Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano. Il modulo della stessa, tenuto conto delle competenze coinvolte, non può invece essere costituito dal parere, come stabilito dalla norma, ma va identificato nell’intesa, contraddistinta da una procedura che consenta lo svolgimento di genuine trattative e garantisca un reale coinvolgimento. Della necessità dell’intesa lo stesso legislatore statale si è, peraltro, dimostrato consapevole allorché, con l’art. 1, comma 1, lettera a), numero 3, del d.lgs. n. 219 del 2016, ha sostituito l’art. 1, comma 5, della legge n. 580 del 1993, ed ha avuto cura di prevedere appunto l’intesa per l’istituzione delle camere di commercio risultanti da accorpamento di quelle preesistenti e per le modifiche delle circoscrizioni territoriali.

Va, pertanto, dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 3, comma 4, del d.lgs. n. 219 del 2016, nella parte in cui stabilisce che il decreto del Ministro dello sviluppo economico dallo stesso previsto deve essere adottato «sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano», anziché previa intesa in detta Conferenza;

13.– La Regione Lombardia ha impugnato gli artt. 3, comma 1, lettera f), e 4 del d.lgs. n. 219 del 2016, per violazione dell’art. 76 Cost., in relazione all’art. 10, comma 1, lettera g), della legge n. 124 del 2015.

La prima delle disposizioni impugnate stabilisce tra i criteri da osservare nella rideterminazione delle circoscrizioni territoriali delle camere di commercio, per ricondurre il numero complessivo delle camere di commercio entro il limite di sessanta 60, quello costituito dalla «necessità di tener conto degli accorpamenti deliberati alla data di entrata in vigore della legge 7 agosto 2015, n. 124, nonché di quelli approvati con i decreti di cui all’articolo 1, comma 5, della legge 29 dicembre 1993, n. 580, e successive modificazioni; questi ultimi possono essere assoggettati ad ulteriori o diversi accorpamenti solo ai fini del rispetto del limite di 60 camere di commercio».

La seconda reca invece le «disposizioni finali e transitorie» del d.lgs. n. 219 del 2016 ed è composta da sei commi, che recano prescrizioni aventi ad oggetto molteplici e diversificati profili della disciplina del riordino delle funzioni delle camere di commercio (concernenti la variazione del diritto annuale camerale, il divieto di assunzione di nuovo personale, la disciplina degli organi, degli atti di dismissione e razionalizzazione delle partecipazioni societarie, le modalità di trasmissione alle camere di commercio dei provvedimenti conclusivi di procedimenti amministrativi concernenti attività d’impresa).

Il richiamato art. 10, comma 1, lettera g), stabilisce tra i principi e criteri direttivi che il legislatore delegato, nell’adottare il decreto legislativo, avrebbe dovuto osservare quello della «introduzione di una disciplina transitoria che tenga conto degli accorpamenti già deliberati alla data di entrata in vigore della presente legge».

Secondo la ricorrente, «dal raffronto delle previsioni» […] dell’impugnato art. 3, comma 1, lettera f), e della norma di delega, risulterebbe che il legislatore delegato sarebbe stato vincolato a «prevedere una disciplina transitoria per tutti e soli gli accorpamenti già deliberati alla data di entrata in vigore della legge n. 124 del 2015». A suo avviso, «di tale disciplina transitoria, però, non vi è traccia nel decreto», con conseguente illegittimità costituzionale delle norme impugnate.

13.1.– La questione è inammissibile.

L’inammissibilità della questione avente ad oggetto l’art. 4 del d.lgs. n. 219 del 2016 consegue alla considerazione che detta disposizione non è indicata nella delibera autorizzativa del ricorso tra quelle oggetto d’impugnazione (tale atto menziona soltanto il citato art. 3, comma 1, lettera f) ed è dunque imposta dal dianzi richiamato principio di necessaria corrispondenza del contenuto di tali atti.

La questione concernente l’art. 3, comma 1, lettera f), del d.lgs. n. 219 del 2016, siccome l’argomentazione svolta a conforto della medesima consiste e si risolve nella deduzione dianzi trascritta, è, all’evidenza, priva del supporto illustrativo minimo a sostegno dell’impugnazione che, come sopra precisato, deve connotare il ricorso in via principale, nonché dell’esplicitazione delle ragioni dell’eventuale ridondanza della violazione del parametro evocato (estraneo a quelli previsti nella Parte II del Titolo V della Costituzione) sulle attribuzioni regionali.

14.– Le Regioni Puglia e Toscana hanno impugnato l’art. 1, comma 1, lettera r), numero 1, punto i), del d.lgs. n. 219 del 2016, il quale ha sostituito il comma 10 dell’art. 18 della legge n. 580 del 1993 con il seguente: «10. Per il finanziamento di programmi e progetti presentati dalle camere di commercio, condivisi con le Regioni ed aventi per scopo la promozione dello sviluppo economico e l’organizzazione di servizi alle imprese, il Ministro dello sviluppo economico, su richiesta di Unioncamere, valutata la rilevanza dell’interesse del programma o del progetto nel quadro delle politiche strategiche nazionali, può autorizzare l’aumento, per gli esercizi di riferimento, della misura del diritto annuale fino ad un massimo del venti per cento. Il rapporto sui risultati dei progetti è inviato al Comitato di cui all’articolo 4-bis».

Secondo la Regione Puglia, detta norma violerebbe l’art. 117, commi terzo e quarto, Cost. ed il principio di leale collaborazione, nonché l’art. 3 Cost. ed il principio di ragionevolezza, in quanto prevederebbe un controllo disarmonico rispetto all’attuale concezione costituzionale dell’autonomia. La norma, a suo avviso, non sarebbe, inoltre, coordinata con il novellato testo dell’art. 2, comma 2, lettera g), della legge n. 580 del 1993, che prevede lo svolgimento da parte delle camere di commercio di attività oggetto di convenzione con le Regioni ed altri enti pubblici, le quali possono essere finanziate solo mediante il diritto annuale. Sarebbe dunque «paradossale che si possa provvedere in merito senza l’aumento della loro unica fonte di finanziamento, né appare proporzionato che la meritevolezza del progetto (che giustificherebbe l’aumento del diritto annuale) sia previamente vagliata da un organo governativo».

Ad avviso della Regione Toscana, la norma si porrebbe in contrasto con l’art. 117, commi terzo e quarto, Cost., con il principio di leale collaborazione e con l’art. 118 Cost., poiché inciderebbe su ambiti di competenza regionale costituzionalmente garantiti, lesi dal controllo ministeriale. L’esigenza di contenere i costi a carico delle imprese avrebbe dovuto essere conseguita mediante il coinvolgimento delle Regioni. L’art. 118 Cost. sarebbe infine violato, dal momento che la Regione, in mancanza di risorse finanziarie sufficienti, sarà costretta a non affidare alla camera di commercio le attività oggetto del «programma/progetto» per la promozione dello sviluppo economico e per l’organizzazione di servizi alle imprese.

14.1.– La questione non è fondata.

Preliminarmente va dichiarata inammissibile la censura con cui la Regione Toscana ha eccepito l’illegittimità costituzionale della norma in esame anche perché non sarebbe stata accolta la richiesta di modifica avanzata dalla Conferenza unificata nella proposta numero 12 del parere reso sullo schema di decreto delegato. Tale censura è stata infatti proposta per la prima volta nella memoria illustrativa e, quindi, in virtù del principio richiamato nel punto 5.2.1., è inammissibile.

Nel merito, va ribadito il principio di recente enunciato da questa Corte, richiamato dall’Avvocatura generale, secondo cui la disciplina dell’importo del diritto annuale camerale non concerne il funzionamento delle camere di commercio, bensì la «misura del diritto camerale»; quindi, è ascrivibile alla materia del «sistema tributario» (art. 117, secondo comma, lettera e, Cost.), spettante alla competenza esclusiva dello Stato (sentenza n. 29 del 2016). È stato infatti sottolineato che il diritto camerale in questione ha natura di tributo, istituito e regolato per legge dello Stato, «rispetto al quale la determinazione dell’aggiornamento, della riscossione e della ripartizione della misura è affidata (ai sensi dell’art. 18, commi 4 e seguenti, della legge n. 580 del 1993) al Ministro dello sviluppo economico, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, sentite l’Unioncamere e le organizzazioni di categoria maggiormente rappresentative a livello nazionale». La richiamata sentenza ha, inoltre, precisato che, poiché «il diritto di cui trattasi non è riconducibile all’autonomia impositiva delle Camere di commercio, dal momento che a tali enti (estranei alla categoria degli enti locali) è attribuita soltanto la riscossione della prestazione patrimoniale, va, altresì, escluso che esso possa essere considerato "tributo locale”».

La norma di delega (art. 10, comma 1, lettera a, della legge n. 124 del 2015) stabiliva, inoltre, quale principio e criterio direttivo quello secondo cui nella determinazione del diritto annuale a carico delle imprese occorreva tenere conto delle disposizioni di cui all’art. 28 del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90 (Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari). Tale norma, che è quella scrutinata dalla richiamata sentenza n. 29 del 2016, stabilendo la progressiva riduzione del diritto annuale, autorizzava il legislatore delegato ad una scelta coerente con l’obiettivo di formalizzare un quadro sufficientemente certo relativo alla misura dello stesso, confortando ulteriormente, anche per quanto precisato nella suindicata pronuncia, la sua natura di tributo.

Tale configurazione rende dunque palese che la determinazione della misura del "diritto annuale camerale” spetta alla competenza esclusiva dello Stato e ciò conduce ad escludere la violazione denunciata dalle ricorrenti. L’intervento ministeriale incide infatti soltanto indirettamente sui programmi e progetti delle camere di commercio, poiché ha quale oggetto la determinazione della misura di detto diritto, avente la natura dianzi indicata. Peraltro, la Regione Puglia, nella memoria illustrativa, sostanzialmente dà atto della correttezza dell’eccezione sollevata dall’Avvocatura generale, ma eccepisce l’illegittimità della norma, in quanto realizzerebbe un significativo depauperamento dell’autonomia funzionale delle camere di commercio. Tale censura è però inammissibile, perché sollevata per la prima volta in detta memoria, a prescindere dalla incidenza su tale rilievo della perdurante ammissibilità del finanziamento dei progetti in convenzione (per quanto di seguito osservato nello scrutinio della questione avente ad oggetto l’art. 1, comma 1, lettera r, numero 1, punto a, del d.lgs. n. 219 del 2016).

15.– La Regione Puglia ha impugnato l’art. 1, comma 1, lettera r) (recte, art. 1, comma 1, lettera r, numero 1, punto a, del d.lgs. n. 219 del 2016). Detta norma ha abrogato la lettera c) del comma 1 dell’art. 18 della legge n. 580 del 1993, in virtù della quale al finanziamento delle camere di commercio si provvedeva, tra l’altro, mediante «c) le entrate e i contributi derivanti da leggi statali, da leggi regionali, da convenzioni o previsti in relazione alle attribuzioni delle camere di commercio».

Secondo la ricorrente, la norma violerebbe gli artt. 3, 117, commi terzo e quarto, Cost. ed il principio di ragionevolezza, poiché, escludendo che le camere di commercio possano fruire di finanziamenti regionali (o erogati da altri enti), in virtù di convenzioni, comprimerebbe irragionevolmente sia l’autonomia regionale (a causa dell’impossibilità di incentivare le attività produttive, pregiudicando l’esercizio delle competenze di cui all’art. 117, commi terzo e quarto, Cost.), sia l’autonomia delle camere di commercio (le quali, da un canto non possono fare ricorso al finanziamento mediante aumento del contributo annuale in difetto di autorizzazione ministeriale, dall’altro non possono fruire di finanziamenti regionali).

Ad avviso della ricorrente, l’abrogazione sarebbe inoltre irragionevole «rispetto alla disposizione su richiamata» (non indicata, ma da identificare nell’art. 2, comma 2, lettera g, della legge n. 580 del 1993, nel testo sostituito dall’art. 1, comma 1, lettera b), numero 2, del d.lgs. n. 219 del 2016), «secondo cui le attività oggetto di convenzione con le regioni [...] possono essere finanziate [...] esclusivamente in cofinanziamento con oneri a carico delle controparti non inferiori al 50 per cento», facendo in tal modo presumere «l’ammissibilità di questa fonte di finanziamento».

15.1.– La questione non è fondata, nei termini di seguito precisati.

La norma in esame era contenuta, con formulazione identica, nello schema di decreto delegato approvato dal Governo il 25 agosto 2016 (anche se nell’art. 1, comma 1, lettera r, numero 1, punto 1.1). La Conferenza unificata, nel parere reso il 29 settembre 2016, con la proposta numero 9, aveva chiesto (senza peraltro condizionare il parere all’accoglimento della stessa) che fosse sostituita con la seguente: «c) le entrate derivanti da convenzioni con soggetti pubblici e privati», prospettando l’esigenza di «mantenere tra le fonti di finanziamento le entrate derivanti da convenzioni con i soggetti pubblici e privati», evidentemente preoccupata per la realizzabilità di determinati progetti.

Preoccupazione sostanzialmente analoga era stata espressa dalle imprese che, pur dando atto della perdurante possibilità di attività svolte in convenzioni e cofinanziate (in virtù dell’art. 2, comma 2, lettera g, della legge n. 580 del 1993 nel testo novellato dal d.lgs. n. 219 del 2016), adombravano la prefigurazione di compiti esulanti «dalla logica stretta del cofinanziamento», che avrebbero potuto rendere difficoltosi i rapporti di collaborazione anche con le regioni (in tal senso è il documento recante le "Osservazioni e Proposte” formulate da R.E TE. Imprese Italia, depositato il 5 ottobre 2016, in occasione dell’audizione dinanzi alla Commissione 10° del Senato della Repubblica).

Tali preoccupazioni, in buona sostanza, sono state fatte proprie dalla ricorrente, desumendo dalle stesse il paventato vulnus di competenze regionali che, tuttavia, alla luce delle considerazioni di seguito svolte non sussiste.

L’art. 18, comma 1, lettera c), della legge n. 580 del 1993, nel testo anteriore alla censurata abrogazione, prevedeva una facoltà di finanziamento delle camere di commercio da parte dello Stato e delle Regioni generica ed indeterminata, siccome svincolata dalla strumentalità e correlazione della medesima con specifiche attività svolte dalle stesse.

L’abrogazione di tale previsione normativa è coerente con una riforma che, tenuto conto dell’articolazione delle funzioni delle camere di commercio in tre differenti tipologie (quelle finanziabili al 100 per cento con il diritto annuale e le altre risorse delle camere; quelle che possono essere oggetto di convenzione, in regime di cofinanziamento; le attività di mercato), della dianzi richiamata configurazione di tali enti, della molteplicità dei compiti svolti dalle medesime (non tutti riferibili a competenze regionali, alcuni svolti in attività di mercato) e della finalità di razionalizzazione, efficacia ed efficienza dell’attività dalle stesse svolte, non irragionevolmente ha ritenuto necessario eliminarla.

Nondimeno, detta abrogazione va considerata alla luce del novellato art. 2, comma 2, della legge n. 580 del 1993 che, nel fissare le funzioni svolte dalle camere di commercio, alla lettera g), dispone: «ferme restando quelle già in corso o da completare, attività oggetto di convenzione con le regioni ed altri soggetti pubblici e privati stipulate compatibilmente con la normativa europea. Dette attività riguardano, tra l’altro, gli ambiti della digitalizzazione, della qualificazione aziendale e dei prodotti, del supporto al placement e all’orientamento, della risoluzione alternativa delle controversie. Le stesse possono essere finanziate con le risorse di cui all’articolo 18, comma 1, lettera a), esclusivamente in cofinanziamento con oneri a carico delle controparti non inferiori al 50 per cento».

La ricorrente correttamente sostiene che da quest’ultima disposizione è possibile «dedurre l’ammissibilità» della fonte di finanziamento. La norma, benché caratterizzata da una formulazione lessicale non limpida, bene può essere interpretata, in applicazione degli ordinari criteri ermeneutici, ritenendo, in primo luogo, che il novero delle attività oggetto della stessa è ampio e non limitato a quelle sole espressamente previste (come è reso chiaro dalla locuzione «tra l’altro» utilizzata per identificarle). In secondo luogo, la stessa permette di affermare che il finanziamento di tali attività è possibile mediante il cosiddetto diritto annuale, ma anche mediante le risorse eventualmente derivanti dal cofinanziamento, che, secondo la norma, deve gravare sulle controparti in misura non inferiore al 50 per cento.

Tale ultima previsione non esclude la possibilità che il finanziamento dell’attività oggetto della convenzione gravi in toto sulla controparte (per quanto qui rileva sulla Regione) e consente di realizzarla senza intaccare le risorse provenienti dal diritto annuale e senza limitare la facoltà delle Regioni di finanziare determinati progetti, beninteso se siano riconducibili a competenze alle stesse costituzionalmente attribuite.

Pertanto, ciò vuole dire che la censurata abrogazione ha eliminato la previsione dei finanziamenti generici ed indeterminati da parte della Regione; tuttavia, dalla complessiva disciplina (in particolare, dalla disposizione dianzi indicata) è desumibile che alla Regione non è impedito di stipulare convenzioni e concordare progetti inerenti al conseguimento di obiettivi riconducibili alle proprie attribuzioni costituzionalmente garantite, facendosi carico del finanziamento degli stessi.

Interpretate in tal modo le norme in esame, resta escluso che la censurata abrogazione abbia determinato il vulnus paventato dalla Regione Puglia.

16.– Le Regioni Puglia e Toscana hanno, infine, impugnato, in riferimento all’art. 117, comma quarto, Cost. (entrambe) ed agli artt. 3 e 97 Cost. ed ai principi di ragionevolezza e leale collaborazione (la Regione Puglia), l’art. 4, comma 6, del d.lgs. n. 219 del 2016, il quale stabilisce: «6. Una copia dei provvedimenti conclusivi di procedimenti amministrativi concernenti attività d’impresa adottati successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto è inviata, con modalità informatica ovvero telematicamente, a cura dei responsabili di tali procedimenti, alla camera di commercio nella cui circoscrizione l’impresa ha sede per il loro inserimento nel fascicolo informatico d’impresa di cui all’articolo 2, comma 1, lettera b). Con decreto del Ministro dello sviluppo economico emanato, ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, e successive modificazioni, entro centottanta giorni dalla data entrata in vigore del presente decreto, sentite le amministrazioni interessate, sono individuati, secondo principi di gradualità e sostenibilità, i termini e le modalità operative di attuazione della disposizione di cui al primo periodo, nonché le modalità ed i limiti con cui le relative informazioni sono rese disponibili per i soggetti pubblici e privati interessati».

Secondo la Regione Puglia, il suindicato obbligo di comunicazione comporterebbe uno sproporzionato ed irragionevole aggravio amministrativo, lesivo dei principi di ragionevolezza (art. 3 Cost.) e di buon andamento dell’azione amministrativa (art. 97 Cost.), nonché dell’autonomia organizzativa regionale (art. 117, comma quarto, Cost.). La fissazione delle modalità operative della disposizione ad opera di un decreto ministeriale, in difetto della previsione della previa intesa con la Conferenza Stato-Regioni, aggraverebbe la lesione dell’autonomia organizzativa regionale e del principio di leale collaborazione.

La censura della Regione Toscana consiste e si esaurisce nell’affermazione che «le Regioni hanno propri sistemi informativi per cui è necessario che il decreto del Ministro dello sviluppo economico, che determina i termini e le modalità operative di applicazione di tale obbligo, sia emanato previa intesa con le Regioni e non già solo sentite le medesime, come invece prevede la norma», con conseguente violazione dell’art. 117, quarto comma, Cost., «per interferenza con l’autonomia organizzativa regionale».

16.1.– Le questioni sono inammissibili.

Le censure di entrambe le ricorrenti sono formulate in contrasto con i requisiti, sopra richiamati, che devono connotare l’impugnazione proposta in via principale. La trascrizione della censura della Regione Toscana è sufficiente infatti a dimostrare che la stessa consiste in un generico richiamo della norma impugnata e nell’assertiva deduzione della violazione del parametro costituzionale evocato, mancando dunque del contenuto argomentativo minimo perché possa essere scrutinata nel merito. L’ulteriore censura con cui detta ricorrente denuncia l’illegittimità della norma per mancato recepimento della proposta di modifica formulata dalla Conferenza unificata, è invece inammissibile, in quanto sollevata per la prima volta nella memoria illustrativa.

Per dette ragioni è, altresì, inammissibile la questione sollevata dalla Regione Puglia che, quanto alla denunciata violazione degli artt. 3 e 97 Cost., difetta di un adeguato supporto argomentativo in ordine alla ridondanza di detta violazione sulle attribuzioni regionali.

L’esigenza di una adeguata (mancata) argomentazione delle censure ancora più si imponeva, in quanto la norma in esame prevede la trasmissione dei provvedimenti concernenti l’attività d’impresa, affinché siano inseriti nel fascicolo informatico d’impresa (previsto dall’art. 2, comma 1, lettera b, della legge n. 580 del 1993), «in cui sono raccolti dati relativi alla costituzione, all’avvio ed all’esercizio delle attività dell’impresa, nonché funzioni di punto unico di accesso telematico in relazione alle vicende amministrative riguardanti l’attività d’impresa, ove a ciò delegate su base legale o convenzionale».

La disposizione costituisce dunque, in via prevalente, espressione della competenza statale nella materia del «coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale» (art. 117, secondo comma, lettera r, Cost.). Finalità della stessa è, infatti, di assicurare la conoscenza delle notizie dell’attività di impresa, che esige procedure e termini omogenei, in modo da garantirne completezza e tempestività, rispondendo all’esigenza primaria di offrire ai cittadini garanzie uniformi e certe in ordine all’accesso ai dati delle imprese. Peraltro, la norma, prevedendo che il Ministro per lo sviluppo economico, nello stabilire, con decreto, i termini e le modalità operative di attuazione della disposizione, deve provvedere, sentite le amministrazioni interessate, garantire un’interlocuzione strumentale alla ponderazione delle specifiche esigenze organizzative di queste ultime.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 4, del decreto legislativo 25 novembre 2016, n. 219 (Attuazione della delega di cui all’articolo 10 della legge 7 agosto 2015, n. 124, per il riordino delle funzioni e del finanziamento delle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura), nella parte in cui stabilisce che il decreto del Ministro dello sviluppo economico dallo stesso previsto deve essere adottato «sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano», anziché previa intesa con detta Conferenza;

2) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’intero testo del d.lgs. n. 219 del 2016, promossa, in riferimento all’art. 117, terzo e quarto comma, della Costituzione, dalla Regione Lombardia, con il ricorso indicato in epigrafe;

3) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’intero testo del d.lgs. n. 219 del 2016 e promosse, in riferimento agli artt. 117, terzo e quarto comma, Cost., nonché al principio di leale collaborazione, per mancato recepimento delle proposte formulate nel parere reso dalla Conferenza unificata, dalla Regione Lombardia, con il ricorso indicato in epigrafe;

4) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, 2, 3 e 4 del d.lgs. n. 219 del 2016, promossa, in riferimento agli artt. 76, 117, terzo e quarto comma, Cost., nonché al principio di leale collaborazione di cui agli artt. 5 e 120 Cost., dalla Regione Lombardia, con il ricorso indicato in epigrafe;

5) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 1, lettera b), numero 2, punto g), 1, comma 1, lettera r), punto i), e 3, comma 10, del d.lgs. n. 219 del 2016, promossa, in riferimento agli artt. 117, terzo e quarto comma, Cost., nonché al principio di leale collaborazione, per mancato recepimento delle proposte formulate nel parere reso dalla Conferenza unificata, dalla Regione Lombardia, con il ricorso indicato in epigrafe;

6) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera a), numero 1, e dell’art. 3, comma 1, primo periodo, del d.lgs. n. 219 del 2016, promossa, in riferimento agli artt. 3, 5 e 18 Cost., nonchè al principio di ragionevolezza, dalla Regione Puglia, con il ricorso indicato in epigrafe;

7) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera a), numero 3, del d.lgs. n. 219 del 2016, promossa, in riferimento agli artt. 76 e 77, primo comma, Cost., dalla Regione Liguria, con il ricorso indicato in epigrafe;

8) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 4, del d.lgs. n. 219 del 2016, promossa, in riferimento all’art. 117, terzo e quarto comma, Cost., dalla Regione Lombardia, con il ricorso indicato in epigrafe;

9) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 1, lettera f), e 4 del d.lgs. n. 219 del 2016, promossa, in riferimento all’art. 76 Cost., in relazione all’art. 10, comma 1, lettera g), della legge 7 agosto 2015, n. 124 (Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche), dalla Regione Lombardia, con il ricorso indicato in epigrafe;

10) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 6, del d.lgs. n. 219 del 2016, promossa, in riferimento agli artt. 3, 97 e 117, comma quarto, Cost., nonché ai principi di ragionevolezza e leale collaborazione, dalla Regione Puglia, con il ricorso indicato in epigrafe;

11) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 6, del d.lgs. n. 219 del 2016, promossa, in riferimento all’art. 117, comma quarto, Cost., dalla Regione Toscana, con il ricorso indicato in epigrafe;

12) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’intero testo del d.lgs. n. 219 del 2016, promossa, in riferimento all’art. 76 Cost., in relazione all’art. 10, comma 1, della legge n. 124 del 2015, dalla Regione Puglia, con il ricorso indicato in epigrafe;

13) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’intero testo del d.lgs. n. 219 del 2016, promossa, in riferimento agli art. 76 e 77, primo comma, Cost., dalla Regione Toscana, con il ricorso indicato in epigrafe;

14) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’intero testo del d.lgs. n. 219 del 2016, promossa, in riferimento agli art. 76 e 77, primo comma, Cost., nonché al principio di leale collaborazione, dalla Regione Toscana, con il ricorso indicato in epigrafe;

15) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’intero testo del d.lgs. n. 219 del 2016, promossa, in riferimento al principio di leale collaborazione, dalla Regione Liguria, con il ricorso indicato in epigrafe;

16) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’intero testo del d.lgs. n. 219 del 2016, promossa, in riferimento al principio di leale collaborazione di cui agli artt. 5 e 120 Cost., dalla Regione Lombardia, con il ricorso indicato in epigrafe;

17) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 4, del d.lgs. n. 219 del 2016, promossa, in riferimento all’art. 76, Cost., in relazione all’art. 10, comma 1, lettera b), della legge n. 124 del 2015, dalla Regione Puglia, con il ricorso indicato in epigrafe;

18) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera r), numero 1, punto i), del d.lgs. n. 219 del 2016, promossa, in riferimento agli artt. 3 e 117, terzo e quarto comma, Cost. nonché ai principi di ragionevolezza e di leale collaborazione, dalla Regione Puglia, con il ricorso indicato in epigrafe;

19) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera r), numero 1, punto i), del d.lgs. n. 219 del 2016, promossa, in riferimento agli artt. 117, terzo e quarto comma, e 118 Cost., nonché al principio di leale collaborazione, dalla Regione Toscana, con il ricorso indicato in epigrafe;

20) dichiara non fondata, nei termini di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera r), numero 1, punto a), del d.lgs. n. 219 del 2016, promossa, in riferimento agli artt. 3 e 117, terzo e quarto comma, Cost., nonché al principio di ragionevolezza, dalla Regione Puglia, con il ricorso indicato in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l’8 novembre 2017.

F.to:

Paolo GROSSI, Presidente

Augusto Antonio BARBERA, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 13 dicembre 2017.