Sentenza n. 257 del 2017

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SENTENZA N. 257

ANNO 2017

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-           Paolo                          GROSSI                                Presidente

-           Giorgio                       LATTANZI                             Giudice

-           Aldo                           CAROSI                                        "

-           Marta                          CARTABIA                                  "

-           Mario Rosario             MORELLI                                     "

-           Giancarlo                    CORAGGIO                                 "

-           Giuliano                      AMATO                                        "

-           Silvana                        SCIARRA                                     "

-           Nicolò                         ZANON                                         "

-           Augusto Antonio       BARBERA                                    "

-           Giulio                         PROSPERETTI                             "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 3, lettera a), del decreto-legge 15 novembre 1993, n. 453 (Disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti), convertito, con modificazioni, dalla legge 14 gennaio 1994, n. 19, promossi dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Puglia, con due ordinanze del 28 luglio 2016, iscritte ai numeri 257 e 258 del registro ordinanze 2016 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 52, prima serie speciale, dell’anno 2016.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 25 ottobre 2017 il Giudice relatore Aldo Carosi.

Ritenuto in fatto

1.– Con due ordinanze di analogo contenuto, depositate entrambe in data 28 luglio 2016, la sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la Regione Puglia, in composizione monocratica, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 3, lettera a), del decreto-legge 15 novembre 1993, n. 453 (Disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti), convertito, con modificazioni, nella legge 14 gennaio 1994, n. 19, per violazione degli artt. 3, primo comma, e 25, primo comma, della Costituzione.

Espone il rimettente che, con decreti emessi in data 7 aprile 2016, il Presidente della sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la Regione Puglia, su ricorso del Procuratore regionale, ha autorizzato con propri decreti il sequestro conservativo ante causam sui beni di presunti responsabili per danni cagionati all’erario, designando in entrambi i procedimenti il medesimo rimettente quale giudice per la successiva fase del giudizio di «conferma, modifica o revoca» ai sensi dell’art. 5 del d.l. n. 453 del 1993.

All’esito di detta udienza il predetto giudice designato solleva la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 3, lettera a), del d.l. n. 453 del 1993, nella parte in cui non prevede che la designazione del giudice sia effettuata sulla base di criteri oggettivi e predeterminati, per violazione degli artt. 3, primo comma, e 25, primo comma, Cost.

2.– Espone il giudice a quo che la questione di legittimità costituzionale si presenta rilevante nei giudizi a quibus in quanto, essendo stata effettuata la designazione dal Presidente della sezione giurisdizionale, con decreto emesso in data 7 aprile 2016, sulla base di una valutazione assolutamente discrezionale, qualora fosse dichiarata l’incostituzionalità della norma denunciata verrebbe meno la regolare costituzione del rimettente; inoltre, evidenzia che l’interpretazione adeguatrice indicata dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 272 del 1998, sarebbe smentita dal “diritto vivente”, ossia da una immutata prassi che avrebbe perseverato nelle assegnazioni discrezionali.

2.1.– In punto di non manifesta infondatezza, il giudice a quo prospetta le questioni come ipotesi di illegittimità costituzionale sopravvenuta.

2.1.1.– Quanto alla violazione dell’art. 25, primo comma, Cost., il rimettente rammenta che, con ordinanza emessa in data 5 luglio 1996, era stata sollevata, sempre dal medesimo giudice, analoga questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 3, lettera a), del d.l. n. 453 del 1993, «sia pure limitatamente alla violazione dell’art. 25, primo comma, Cost.». La Corte costituzionale, con sentenza n. 272 del 1998, riteneva infondata la questione «nei sensi di cui in motivazione», osservando che esiste, in linea generale, inconciliabilità fra precostituzione del giudice e discrezionalità in ordine alla sua concreta designazione e che, pertanto, il potere discrezionale dei capi degli uffici nell’assegnazione degli affari deve essere rivolto unicamente al soddisfacimento di obiettive ed imprescindibili esigenze di servizio, allo scopo di rendere possibile il funzionamento dell’ufficio e di agevolarne l’efficienza, restando esclusa qualsiasi diversa finalità. La Corte, nel motivare il rigetto, affermava che la risposta ai dubbi prospettati dal remittente non passava per la via della declaratoria di incostituzionalità, ma andava ricercata sul piano della organizzazione giudiziaria, nel senso che i poteri organizzativi dei dirigenti degli uffici giudiziari si esercitassero non in modo discrezionale, ma sulla base di criteri oggettivi e predeterminati e senza necessità di una specifica previsione legislativa, né tanto meno di un intervento additivo della Corte costituzionale, purché le modalità adottate «siano tali da garantire, comunque, la verifica ex post della loro osservanza».

Secondo il giudice a quo si dovrebbe supporre che la Corte, avendo richiamato a termine di paragone la prassi del Consiglio superiore della magistratura (CSM) nel settore degli affari civili, intendesse riferirsi al potere di autoregolamentazione interno del Consiglio di presidenza della Corte dei conti. Sennonché, si prosegue, nei venti anni trascorsi dalla ordinanza emessa in data 5 luglio 1996, il Consiglio di presidenza della Corte dei conti non avrebbe deliberato in materia, a differenza di quanto ha fatto il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa (CPGA), in applicazione dell’art. 13, comma 1, numeri 5), 6) e 6-bis), della legge 27 aprile 1982, n. 186 (Ordinamento della giurisdizione amministrativa e del personale di segreteria ed ausiliario del Consiglio di Stato e dei tribunali amministrativi regionali), nel testo novellato dall’art. 19 della legge 21 luglio 2000, n. 205 (Disposizioni in materia di giustizia amministrativa), laddove è stato affidato al CPGA il compito di stabilire i criteri di massima per la ripartizione degli affari consultivi e dei ricorsi, rispettivamente, tra le sezioni consultive e quelle giurisdizionali del Consiglio di Stato e i criteri di massima per la ripartizione dei ricorsi nelle sezioni di cui i tribunali amministrativi regionali si compongono; ed altresì di quanto avvenuto per la giustizia tributaria, laddove egualmente l’art. 24, comma 1, lettere f) e g), del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 545 (Ordinamento degli organi speciali di giurisdizione tributaria ed organizzazione degli uffici di collaborazione in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413) ha assegnato al Consiglio di presidenza della giustizia tributaria (CPGT) il compito di dettare i criteri di massima per la formazione delle sezioni e dei collegi giudicanti e per la ripartizione dei ricorsi nell’ambito delle commissioni tributarie divise in sezioni. Inoltre, l’art. 6 del d.lgs. n. 545 del 1992 prescrive che il presidente di ciascuna commissione tributaria, all’inizio di ogni anno, stabilisca con proprio decreto la composizione delle sezioni in base ai criteri fissati dal CPGT per assicurare l’avvicendamento dei componenti tra le stesse.

Rammenta, infine, quanto disposto dalla raccomandazione (recte: dall’allegato alla raccomandazione) CM/Rec. (2010)12 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, adottata il 17 novembre 2010, al punto 24, secondo il quale «la distribuzione degli affari all’interno di un tribunale deve seguire criteri oggettivi predeterminati, al fine di garantire il diritto a un giudice indipendente e imparziale. [...]».

Sebbene dunque, prosegue il giudice rimettente, il quadro normativo preso in considerazione nell’ordinanza di rimessione del 1996, con esclusivo riferimento al CSM, si sia arricchito in epoca successiva, nondimeno, il Consiglio di presidenza della Corte dei conti, in assenza di specifiche disposizioni normative sul punto, non avrebbe mai provveduto alla fissazione di criteri di massima cui i presidenti delle sezioni giurisdizionali debbano attenersi nella assegnazione degli affari ai giudici appartenenti all’ufficio, così come non avrebbe mai predisposto un sistema di verifica ex post della osservanza di detti criteri che, nella prassi degli uffici giudiziari della Corte dei conti, secondo il rimettente, non sarebbero neppure stabiliti in via preventiva dai dirigenti degli stessi, i quali avrebbero sempre provveduto ad assegnare le cause ai singoli giudici in via del tutto discrezionale.

In definitiva, secondo il giudice a quo, l’invito rivolto alla Corte dei conti – e, in particolare, al suo Consiglio di presidenza – sarebbe rimasto inascoltato. La mancata attuazione, in tal guisa, del principio del giudice naturale precostituito per legge dell’ordinamento processuale contabile determinerebbe, pertanto, un’ipotesi di illegittimità costituzionale sopravvenuta della norma di cui all’art. 5, comma 3, lettera a), d.l. n. 453 del 1993, in considerazione degli intervenuti mutamenti sia normativi che fattuali.

2.1.2.– Quanto alla violazione dell’art. 3 Cost., sostiene il rimettente che la norma impugnata sarebbe inoltre divenuta incostituzionale in seguito all’entrata in vigore dell’art. 42 della legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile). Tale disposizione, infatti, nel modificare l’art. 5 della legge n. 205 del 2000, ha aggiunto il comma 1-bis, che, con riferimento ai giudizi pensionistici innanzi alla Corte dei conti, dispone che «[…] i presidenti delle sezioni giurisdizionali procedono, al momento della ricezione del ricorso e secondo criteri predeterminati, alla sua assegnazione ad uno dei giudici unici delle pensioni in servizio presso la sezione».

Secondo il giudice a quo l’art. 42 della legge n. 69 del 2009 sarebbe sopraggiunto a modificare la cosiddetta «situazione normativa» operando una divaricazione, difficilmente giustificabile sul piano della coerenza e della razionalità legislativa, tra giudizi di responsabilità, siano essi di merito – per la cui assegnazione ai singoli magistrati l’art. 17, comma 2, del regio decreto 13 agosto 1933, n. 1038 (Approvazione del regolamento di procedura per i giudizi innanzi alla Corte dei conti), «stabilisce laconicamente che “il presidente del collegio (...) con separato provvedimento nomina il relatore” – ovvero, come nel caso di specie, cautelari, da un lato, e giudizi pensionistici, dall’altro».

L’art. 5, comma 1-bis, della legge n. 205 del 2000 costituirebbe, pertanto, un idoneo tertium comparationis per affermare la violazione dell’art. 3, primo comma, Cost., in quanto l’introduzione del precetto normativo sulla assegnazione delle cause pensionistiche secondo criteri predeterminati comporterebbe una disciplina dei giudizi cautelari, in materia di responsabilità amministrativa, irragionevolmente diversa da quella dei giudizi pensionistici.

3.– Ha svolto atto di intervento, in entrambi i giudizi, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, deducendo l’inammissibilità o comunque l’infondatezza delle questioni sollevate.

Secondo l’interveniente, la questione posta dalle due ordinanze di rimessione sarebbe innanzi tutto inammissibile per difetto di rilevanza. Espone al riguardo che il giudice rimettente si sarebbe limitato ad affermare che la rilevanza delle questioni nei giudizi a quibus comporterebbe un vizio di costituzione del giudice, senza considerare tuttavia che sarebbe pacifico nella giurisprudenza, sia del giudice contabile quanto di quello ordinario, che gli eventuali vizi dei provvedimenti dei dirigenti degli uffici di assegnazione delle singole cause ai singoli giudici non determinerebbero né un difetto di competenza (che non attiene alla persona fisica del magistrato), né un vizio di costituzione del giudice (che causerebbe diversamente, ex art. 158 del codice di procedura civile, la nullità radicale della decisione).

In tal senso richiama la sentenza della Corte dei conti, sezione seconda d’appello, 6 ottobre 2008, n. 315, la quale avrebbe affermato che «la declaratoria di nullità di una sentenza per un’eventuale violazione dell’art. 25, comma 1, della Costituzione ricorre solo quando una previa verifica, fatta in stretta relazione alle peculiari connotazioni di ogni singola vicenda processuale, accerti che con la costituzione del giudice senza l’adozione di criteri oggettivi e predeterminati o in violazione degli stessi, si sia deliberatamente voluto istituire un giudice ad hoc, come tale privo della necessaria imparzialità».

Alla luce di quanto esposto, il Presidente del Consiglio dei ministri eccepisce la mancanza – o, in subordine, la mancata dimostrazione – della rilevanza della questione di legittimità costituzionale sollevata ai fini della decisione del giudice a quo.

Nel merito la difesa erariale ritiene che la questione sia comunque manifestamente infondata.

Al riguardo osserva che il giudice rimettente torna a sottoporre alla Corte la medesima questione di legittimità costituzionale che è stata già dichiarata infondata con sentenza n. 272 del 1998, suggerendo però una lettura errata di tale decisione, laddove pretende di desumere da essa un obbligo del Consiglio di presidenza della Corte dei conti di fissare dei “criteri oggettivi e predeterminati”. Al contrario, si prosegue, la sentenza n. 272 del 1998 farebbe testuale riferimento alla modalità di esercizio del potere discrezionale – che non verrebbe smentito – dei capi degli uffici, affermando che i medesimi debbano operare sulla base di criteri da loro stessi preventivamente determinati.

Secondo il Presidente del Consiglio di ministri, il quadro così configurato non comporterebbe in ogni caso, come sarebbe stato evidenziato dalla citata sentenza n. 272 del 1998, alcuna necessità di un intervento del legislatore o della Corte, sicché si dovrebbe ritenere che l’eventuale scostamento nei singoli casi dei comportamenti dei Presidenti di sezione dalle indicazioni della Corte potrebbe rilevare solamente su un piano del tutto diverso da quello della supposta illegittimità costituzionale della vigente normativa primaria.

In sostanza, si prosegue, il giudice rimettente finirebbe inammissibilmente per chiedere, più che un sindacato della Corte sulla legislazione vigente, un giudizio sul concreto comportamento di un Presidente di sezione giurisdizionale che avrebbe illegittimamente disatteso (senza che ne sia data dimostrazione) le indicazioni impartite dalla più volte citata sentenza n. 272 del 1998.

Con riferimento alla violazione dell’art. 3 Cost. osserva la difesa erariale che poiché dalla sentenza n. 272 del 1998 si desumerebbe un dovere – non del legislatore, bensì dei capi degli uffici – di predeterminazione dei criteri per l’assegnazione degli affari ai singoli magistrati e di attenersi ad essi, la questione di costituzionalità sarebbe ugualmente mal posta, per i motivi in precedenza illustrati, quale che sia la norma costituzionale invocata a parametro di valutazione.

Nel merito, il Governo eccepisce che il tertium comparationis prescelto dal rimettente non sarebbe omogeneo al caso di specie, trattandosi in quella fattispecie di giudizi di merito a cognizione piena, mentre nel caso oggetto dei giudizi a quibus si tratta di giudizi cautelari, inevitabilmente soggetti a forme più rapide, sommarie.

Infine, il Presidente del Consiglio dei ministri rimette alla valutazione della Corte l’eventuale restituzione degli atti al giudice rimettente in relazione allo ius superveniens costituito dal decreto legislativo 26 agosto 2016, n. 174 (Codice di giustizia contabile, adottato ai sensi dell'articolo 20 della legge 7 agosto 2015, n. 124), entrato in vigore successivamente al deposito delle ordinanze di rimessione.

Considerato in diritto

1.– La sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la Regione Puglia, in composizione monocratica, con due ordinanze di analogo contenuto, solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 3, lettera a), del decreto-legge 15 novembre 1993, n. 453 (Disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti), convertito, con modificazioni, dalla legge 14 gennaio 1994, n. 19, nella parte in cui non prevede che la designazione del giudice sia effettuata sulla base di criteri oggettivi e predeterminati, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 25, primo comma, della Costituzione.

1.1.– Espone il giudice a quo che il Presidente della sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la Regione Puglia, su ricorso del Procuratore regionale, ha autorizzato con propri decreti il sequestro conservativo ante causam sui beni di presunti responsabili per danni cagionati all’Erario, designando in entrambi i procedimenti il medesimo rimettente quale giudice per la successiva fase del giudizio di «conferma, modifica o revoca» del sequestro, ai sensi dell’art. 5 del d.l. n. 453 del 1993.

Secondo il giudice a quo le questioni sarebbero rilevanti nei giudizi a quibus in quanto la designazione da parte del Presidente della sezione sarebbe avvenuta in entrambi i casi sulla base di una valutazione assolutamente discrezionale sicché, qualora fosse dichiarata l’incostituzionalità della norma denunciata, verrebbe meno la regolare costituzione del giudice; evidenzia inoltre che l’interpretazione adeguatrice indicata da questa Corte nella sentenza n. 272 del 1998 sarebbe smentita dal “diritto vivente”, ossia da un’immutata prassi che ha perseverato nell’interpretazione difforme, che consente l’assegnazione discrezionale.

1.2.– In punto di non manifesta infondatezza, il giudice a quo prospetta entrambe le questioni come ipotesi di illegittimità sopravvenuta.

1.2.1.– Quanto alla violazione dell’art. 25, primo comma, Cost., il giudice a quo rammenta che questa Corte, con la sentenza n. 272 del 1998, ha già ritenuto infondata analoga questione di legittimità costituzionale rivolta contro la medesima norma, affermando che la risposta ai dubbi prospettati dal rimettente non passava né per la via della declaratoria di incostituzionalità – dovendo ricercarsi sul piano dell’organizzazione giudiziaria, nel senso che i poteri organizzativi dei dirigenti degli uffici giudiziari fossero esercitati non in modo discrezionale, ma sulla base di criteri oggettivi e predeterminati e senza necessità di una specifica previsione legislativa – né, tanto meno, attraverso un intervento additivo di questa Corte, purché le modalità adottate fossero «tali da garantire, comunque, la verifica ex post della loro osservanza».

Sennonché – prosegue il rimettente – nei venti anni che separano dalla ordinanza emessa in data 5 luglio 1996, il Consiglio di presidenza della Corte dei conti non avrebbe deliberato in materia, a differenza di quanto disposto rispettivamente dal Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa – in applicazione dell’art. 13, comma 1, numeri 5), 6) e 6-bis), della legge 27 aprile 1982, n. 186 (Ordinamento della giurisdizione amministrativa e del personale di segreteria ed ausiliario del Consiglio di Stato e dei tribunali amministrativi regionali), novellato dall’art. 19 della legge 21 luglio 2000, n. 205 (Disposizioni in materia di giustizia amministrativa) – e il Consiglio di presidenza della giustizia tributaria (a mente degli artt. 6 e 24, comma 1, lettere f e g, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 545, recante «Ordinamento degli organi speciali di giurisdizione tributaria ed organizzazione degli uffici di collaborazione in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413»).

Sebbene, dunque, il quadro normativo preso in considerazione nell’ordinanza di rimessione del 1996, con esclusivo riferimento al Consiglio superiore della magistratura (CSM), si sia arricchito in epoca successiva, nondimeno il rimettente sostiene che il Consiglio di presidenza della Corte dei conti, in assenza di specifiche disposizioni normative sul punto, non avrebbe proceduto, nemmeno dopo la sollecitazione contenuta nella sentenza n. 272 del 1998, alla fissazione dei criteri di massima cui i Presidenti delle sezioni giurisdizionali devono attenersi nella determinazione della composizione degli organi giudicanti, così come non avrebbe mai predisposto un sistema di verifica ex post dell’osservanza dei criteri di assegnazione delle cause ai giudici contabili; criteri che, nella prassi degli uffici giudiziari della Corte dei conti, secondo il giudice a quo, non sarebbero neppure stabiliti in via preventiva dai dirigenti degli stessi, i quali provvederebbero all’assegnazione delle cause ai singoli giudici nell’esercizio di un potere assolutamente discrezionale.

Pertanto, secondo il rimettente, la mancata attuazione in tal guisa del principio del giudice naturale precostituito per legge nell’ordinamento processuale contabile determinerebbe un’ipotesi di illegittimità costituzionale sopravvenuta della norma di cui all’art. 5, comma 3, lettera a), del d.l. n. 453 del 1993, in considerazione degli intervenuti mutamenti sia normativi che “fattuali”.

1.2.2.– Quanto alla violazione dell’art. 3, primo comma, Cost., il giudice a quo sostiene che la norma impugnata sarebbe divenuta incostituzionale in seguito alla novella recata dall’art. 42 della legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile). Detta norma, nel modificare l’art. 5 della legge n. 205 del 2000, ha aggiunto il comma 1-bis, che, con riferimento ai giudizi pensionistici innanzi alla Corte dei conti, dispone che «[…] i presidenti delle sezioni giurisdizionali procedono, al momento della ricezione del ricorso e secondo criteri predeterminati, alla sua assegnazione ad uno dei giudici unici delle pensioni in servizio presso la sezione».

Secondo il giudice a quo, tale novella avrebbe modificato la cosiddetta «situazione normativa», operando una divaricazione, difficilmente giustificabile sul piano della coerenza e della razionalità legislativa, tra i giudizi di responsabilità da un lato – siano essi di merito, per la cui assegnazione ai singoli magistrati l’art. 17, comma 2, del regio decreto 13 agosto 1933, n. 1038 (Approvazione del regolamento di procedura per i giudizi innanzi alla Corte dei conti), stabilisce laconicamente che «[i]l presidente del collegio [...] con separato provvedimento nomina il relatore», ovvero, come nel caso di specie, cautelari – e i giudizi pensionistici dall’altro. L’art. 5, comma 1-bis, della legge n. 205 del 2000 costituirebbe pertanto un idoneo tertium comparationis per affermare la violazione dell’art. 3, primo comma, Cost., in quanto l’introduzione del precetto normativo sull’assegnazione delle cause pensionistiche secondo criteri predeterminati comporterebbe una disciplina dei giudizi cautelari in materia di responsabilità amministrativa irragionevolmente diversa da quella dei giudizi pensionistici.

2.– Le due ordinanze sollevano questioni di identico contenuto, che possono quindi essere riunite in un unico giudizio per essere decise congiuntamente.

3.– Si deve premettere che sia la disposizione impugnata che quella indicata come tertium comparationis sono state abrogate a far data dal 7 ottobre 2016 per effetto dell’entrata in vigore del decreto legislativo 26 agosto 2016, n. 174 (Codice di giustizia contabile, adottato ai sensi dell’articolo 20 della legge 7 agosto 2015, n. 124).

Nondimeno, tale abrogazione non ha effetti sul presente giudizio di costituzionalità, in quanto, in ragione del principio tempus regit actum, il giudice rimettente è tenuto a effettuare la valutazione del decreto presidenziale alla luce della disciplina processuale vigente al momento della sua emanazione.

4.– Le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 3, lettera a), del d.l. n. 453 del 1993, sollevate in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 25, primo comma, Cost., sono inammissibili, poiché il giudice rimettente è incorso in errore nell’individuazione della disposizione oggetto dell’impugnativa.

4.1.– Al riguardo, occorre premettere che il principio del giudice naturale precostituito per legge enunciato nell’art. 25, primo comma, Cost. – anche quando si postuli un rapporto tra giudice e causa e, quindi, si affronti il tema della discrezionalità spettante ai capi degli uffici per la ripartizione degli affari – impone di considerare i rimedi che, sul piano ordinamentale, possono essere apprestati al fine di dare concretezza ed effettività al richiamato principio, senza alterare la continuità e la tempestività della funzione giurisdizionale.

In tale prospettiva, questa Corte ha affermato il principio della previa predisposizione da parte degli organi di autogoverno delle magistrature di criteri obiettivi per l’assegnazione degli affari e per l’esplicitazione dei poteri organizzativi dei capi degli uffici giudiziari.

Esiste peraltro un distinto profilo critico che riguarda l’applicazione concreta dei criteri da parte dei dirigenti di detti uffici.

Alla duplicità di tali profili corrisponde anche una diversità dei rimedi per i soggetti pregiudicati da un uso distorto o deviante dei criteri di assegnazione, siano essi le parti del processo o gli stessi magistrati destinatari dei provvedimenti assunti dai rispettivi organi di autogoverno.

Al primo profilo pertiene la verifica degli strumenti di tutela che i vari ordinamenti processuali accordano nei confronti di tali violazioni nell’ambito del giudizio, al secondo invece il sindacato sull’esercizio, ad opera degli organi di autogoverno delle varie magistrature, del potere-dovere di predisporre adeguati criteri obiettivi e predeterminati, con possibilità di impulso da parte dei soggetti che se ne ritengano lesi.

Occorre in proposito ricordare il costante orientamento di questa Corte, secondo cui «l’eventuale pregiudizio immediato e diretto arrecato alle posizioni giuridiche soggettive non può che determinare [… la facoltà] di ricorrere agli ordinari strumenti di tutela giurisdizionale previsti dall’ordinamento in base alle fondamentali garanzie costituzionali previste dagli artt. 24 e 113 Cost., espressamente qualificate da questa Corte come principi supremi dell’ordinamento (ex plurimis, sentenze n. 26 del 1999, punto 3.1. del Considerato in diritto; nonché n. 526 del 2000; n. 266 del 2009; n. 10 del 1993; n. 232 del 1989; n. 18 del 1982; n. 98 del 1965)» (sentenza n. 39 del 2014).

Ne discende che – senza che ciò interferisca minimamente con il principio del giudice naturale precostituito – nei confronti di modalità di assegnazione dei giudizi lesive della sfera soggettiva dell’assegnatario non può essere esclusa la garanzia della tutela dinnanzi al giudice assicurata dal fondamentale principio degli artt. 24 e 113 Cost. (in questo senso, sentenza n. 470 del 1997).

4.2.– Tanto premesso, si deve evidenziare che, in punto di rilevanza, il giudice a quo si limita ad affermare che l’accoglimento delle questioni comporterebbe un vizio di costituzione del giudice, ma non motiva adeguatamente tale assunto, né indica le disposizioni di rito ad esso pertinenti.

Esse, per quanto concerne il giudizio di specie, vanno individuate nell’art. 26 del r.d. n. 1038 del 1933, laddove, fino all’abrogazione intervenuta con il d.lgs. n. 174 del 2016, stabiliva che «nei procedimenti contenziosi di competenza della corte dei conti si osservano le norme e i termini della procedura civile in quanto siano applicabili e non siano modificati dalle disposizioni del presente regolamento» e, quindi, nell’art. 158 del codice di procedura civile.

Questa Corte, respingendo la questione di legittimità costituzionale dell’art. 33, comma 1, del codice di procedura penale, pur avendo precisato che i «criteri di assegnazione degli affari nell’ambito di tali organi esulano dalla nozione generale della loro capacità» e che nel «disegno normativo, è dunque evidente la differenza tra le condizioni di capacità del giudice ed i criteri di assegnazione degli affari», ha conclusivamente affermato che tutto questo però «[…] non significa che la violazione dei criteri di assegnazione degli affari sia priva di rilievo e che non vi siano, o che non debbano essere prefigurati, appropriati rimedi dei quali le parti possano avvalersi» (sentenza n. 419 del 1998).

La giurisprudenza di legittimità, sia civile (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione lavoro, 25 gennaio 2017, n. 1912; Corte di cassazione, terza sezione, 3 ottobre 2016, n. 19660; Corte di cassazione, sesta sezione, 14 gennaio 2013, n. 727; Corte di cassazione, seconda sezione, 14 dicembre 2007, n. 26327; Corte di cassazione, terza sezione, 18 gennaio 2000, n. 489) che penale (Corte di cassazione, quarta sezione, sentenza 12 maggio 2017, n. 35585; Corte di cassazione, sesta sezione, sentenza 12 marzo 2015, n. 13833; Corte di cassazione, sezione feriale, sentenza 1° agosto 2013, n. 35729; Corte di cassazione, sesta sezione, sentenza 15 novembre 2012, n. 46244; Corte di cassazione, sesta sezione, sentenza 4 maggio 2006, n. 33519), ritiene, con orientamento consolidato, che le decisioni assunte in contrasto con le disposizioni di assegnazione delle cause all’interno dell’ufficio non integrano un vizio di costituzione del giudice, ma comportano una violazione di carattere interno che, in difetto di un’espressa sanzione di nullità, non incide sulla validità degli atti né è causa di nullità del giudizio o della sentenza.

Conforme risulta l’orientamento del giudice contabile (Corte dei conti, seconda sezione d’appello, 6 ottobre 2008, n. 315).

Dalle esposte argomentazioni deriva che il rimettente, potendo rilevare (d’ufficio) un vizio di costituzione del giudice solo in relazione all’art. 158 cod. proc. civ. – norma, come si è detto, applicabile al rito contabile nei giudizi a quibus in ragione del rinvio dinamico a suo tempo previsto dall’art. 26 del r.d. n. 1038 del 1933 – avrebbe dovuto sollevare la questione di legittimità costituzionale nei confronti del predetto combinato disposto normativo, al fine di consentire a questa Corte di valutare se le predette disposizioni – tanto più alla luce della consolidata interpretazione datane dalla giurisprudenza (anche contabile) – laddove affermano invece l’irrilevanza processuale dei casi di assegnazione delle cause all’interno di uno stesso ufficio, in violazione (o in difetto) di criteri generali e predeterminati, soddisfino o meno quell’esigenza di prefigurare appropriati rimedi dei quali le parti e il magistrato designato possano avvalersi con riguardo al principio di precostituzione del giudice e, in particolare, a quelli di imparzialità e di indipendenza (interna) del giudice.

4.3.– Quanto alla tematica dei criteri obiettivi e predeterminati da parte degli organi di autogoverno per l’assegnazione degli affari e per l’esplicitazione dei poteri organizzativi dei capi degli uffici giudiziari (sentenza n. 272 del 1998), si deve rammentare che per la giurisdizione ordinaria la relativa disciplina prevede «[…] l’applicazione del c.d. sistema delle tabelle e, più recentemente, a seguito di specifica disposizione legislativa, l’indicazione da parte del consiglio superiore della magistratura, in via generale, dei criteri obiettivi sia per l’assegnazione degli affari penali (art. 7-ter della legge sull’ordinamento giudiziario aggiunto dall’art. 4 del d.P.R. n. 449 del 1988), sia per l’applicazione dei magistrati (art. 1 della legge 16 ottobre 1991, n. 321 di modifica dell’art. 110 della medesima legge sull’ordinamento giudiziario)» (sentenza n. 272 del 1998); parimenti è avvenuto anche per la giustizia amministrativa e per la giustizia tributaria, con le disposizioni recate rispettivamente dall’art. 13, comma 1, numeri 5), 6) e 6-bis), della legge n. 186 del 1982 e dagli artt. 6 e 24, comma 1, lettere f) e g), del d.lgs. n. 545 del 1992.

Con specifico riferimento al Consiglio di presidenza della Corte dei conti, organo di autogoverno della magistratura contabile istituito dall’art. 10 della legge 13 aprile 1988, n. 117 (Risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati), questa Corte, con la sentenza n. 272 del 1998, ha sostenuto che il soddisfacimento delle predette esigenze di tutela di indipendenza e imparzialità non comportasse di per sé l’illegittimità costituzionale dell’art. 5, comma 3, lettera a), del d.l. n. 453 del 1993, ma ben potesse avvenire attraverso l’esplicitazione dei criteri per l’assegnazione degli affari da parte dell’organo di autogoverno della magistratura contabile, con modalità analoghe a quelle della giurisdizione ordinaria, non potendovi essere alcun dubbio «sull’importanza delle garanzie dell’indipendenza e terzietà della funzione anche per la magistratura della Corte dei conti, alla stregua della previsione dell’art. 108 della Costituzione, tant’è che per essa risulta istituito (art. 10 della legge 13 aprile 1988, n. 117) un Consiglio di Presidenza al quale sono affidate le deliberazioni sulle assunzioni, assegnazioni di sedi e di funzioni, trasferimenti e promozioni e su ogni altro provvedimento riguardante lo stato giuridico dei magistrati» e che tanto potesse «[…] aver luogo proprio nell’ambito di detti poteri discrezionali, quale manifestazione ed esercizio dei medesimi, senza necessità né di una specifica previsione legislativa né, tantomeno, di un intervento additivo di questa Corte» (sentenza n. 272 del 1998).

Occorre tuttavia evidenziare che la situazione considerata da questa Corte in occasione della predetta decisione è significativamente mutata a seguito dell’entrata in vigore della legge 4 marzo 2009, n. 15 (Delega al Governo finalizzata all’ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e alla efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni nonché disposizioni integrative delle funzioni attribuite al Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro e alla Corte dei conti).

Infatti, per effetto dell’art. 11, comma 7, della legge n. 15 del 2009, gran parte delle competenze prima riconosciute all’organo di autogoverno della magistratura contabile sono state trasferite a un organo monocratico, il Presidente della Corte dei conti, qualificato «organo di governo dell’istituto», e tale disposizione, al successivo comma 8, oltre ad aver definito il Consiglio di presidenza della Corte dei conti non più organo di autogoverno bensì «organo di amministrazione del personale di magistratura», afferma che lo stesso «esercita le funzioni ad esso espressamente attribuite da norme di legge», mentre, parallelamente, il comma 7 del medesimo articolo prevede che il Presidente della Corte dei conti «esercita ogni altra funzione non espressamente attribuita da norme di legge ad altri organi collegiali o monocratici della Corte».

Ebbene, si deve considerare che l’art. 10 della legge n. 117 del 1988, nell’istituire l’organo di autogoverno della magistratura contabile e nel disciplinarne le competenze, all’ultimo comma rinviava solo parzialmente alle attribuzioni del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, stabilendo che «[f]ino all’entrata in vigore della legge di riforma della Corte dei conti si applicano in quanto compatibili le norme di cui agli articoli 7, primo, quarto, quinto e settimo comma, 8, 9, quarto e quinto comma, 10, 11, 12, 13, primo comma, numeri 1), 2), 3), e secondo comma, numeri 1), 2), 3), 4), 8), 9), della legge 27 aprile 1982, n. 186».

In tale richiamo manca proprio il riferimento ai numeri 5 e 6 dell’art. 13, primo comma, che prevedono che il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa stabilisca i criteri di massima per la ripartizione degli affari consultivi e dei ricorsi.

Può quindi fondatamente revocarsi in dubbio che, per effetto del nuovo assetto recato dalla legge n. 15 del 2009 e della riduttiva delimitazione delle funzioni a quelle sole espressamente previste dalla legge, il Consiglio di presidenza della Corte dei conti disponga attualmente – come avviene invece per gli organi di autogoverno delle altre magistrature – del potere di dettare i criteri di massima per la ripartizione degli affari e la composizione dei collegi.

L’eventuale vulnus alle predette garanzie assicurate dall’art. 25, primo comma, Cost., nella prospettiva “sopravvenuta” evidenziata dallo stesso giudice a quo, andrebbe semmai rinvenuto nel combinato disposto dell’art. 10 della legge n. 117 del 1988 e dell’art. 11 della legge n. 15 del 2009, e non nella disposizione censurata dal rimettente.

5.– Dalle espresse considerazioni consegue l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale sollevate con le ordinanze in epigrafe.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 3, lettera a), del decreto-legge 15 novembre 1993, n. 453 (Disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti), convertito, con modificazioni, dalla legge 14 gennaio 1994, n. 19, sollevate, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 25, primo comma, della Costituzione, dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Puglia, con le ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 ottobre 2017.

F.to:

Paolo GROSSI, Presidente

Aldo CAROSI, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 6 dicembre 2017.