SENTENZA N. 229
ANNO 2017
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO
ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Paolo GROSSI Presidente
- Giorgio LATTANZI Giudice
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Mario
Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Augusto
Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale
dell’art. 19 della legge
della Regione siciliana 29 settembre 2016, n. 20 (Disposizioni per favorire
l’economia. Disposizioni varie), promosso dal Presidente del Consiglio dei
ministri con ricorso
notificato il 6-14 dicembre 2016, depositato in cancelleria il 14 dicembre 2016
ed iscritto al n. 78 del registro ricorsi 2016.
Udito nella udienza pubblica del 10 ottobre
2017 il Giudice relatore Daria de Pretis;
udito l’avvocato dello
Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.‒ Con ricorso notificato il 6-14 dicembre 2016,
depositato il 14 dicembre 2016 ed iscritto al n. 78 del registro ricorsi 2016,
il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, ha impugnato l’art. 19 della legge della
Regione siciliana 29 settembre 2016, n. 20 (Disposizioni per favorire
l’economia. Disposizioni varie).
La
disposizione ‒ rubricata «Disposizioni in materia di denuncia dei pozzi» ‒
stabilisce che «[i]l termine finale previsto dalle disposizioni di cui al primo
periodo dell’articolo 10 del decreto legislativo 12 luglio 1993, n. 275
recepito con modifiche dalla legge regionale 15 marzo 1994, n. 5 è differito al
31 dicembre 2017».
L’art. 10,
comma 1, primo periodo, del decreto legislativo 12 luglio 1993, n. 275
(Riordino in materia di concessione di acque pubbliche), richiamato dalla norma
impugnata, dispone che «tutti i pozzi esistenti, a qualunque uso adibiti,
ancorché non utilizzati, sono denunciati dai proprietari, possessori o
utilizzatori alla regione o provincia autonoma nonché alla provincia competente
per territorio, entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore del presente
decreto legislativo».
Questo
termine per la denuncia dei pozzi è stato successivamente differito più volte
dal legislatore statale, e segnatamente ad opera dapprima dell’art. 14 del
decreto-legge 8 agosto 1994, n. 507 (Misure urgenti in materia di dighe),
convertito, con modificazioni, dalla legge 21 ottobre 1994, n. 584, poi
dell’art. 28 della legge 30 aprile 1999, n. 136 (Norme per il sostegno ed il
rilancio dell’edilizia residenziale pubblica e per interventi in materia di
opere a carattere ambientale), e quindi dell’art. 2 della legge 17 agosto 1999,
n. 290 (Proroga di termini nel settore agricolo). Da ultimo, l’art. 96, comma
7, del decreto-legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale),
ha stabilito che: «[i] termini […] per la presentazione delle denunce dei pozzi
a norma dell’articolo 10 del decreto legislativo 12 luglio 1993, n. 275, sono
prorogati al 31 dicembre 2007».
Secondo il
Governo, la Regione siciliana, introducendo una disciplina difforme da quella
nazionale che prevede quale termine ultimo per la denuncia dei pozzi il 31
dicembre 2007, avrebbe ecceduto i limiti della propria competenza statutaria.
L’art. 14,
lettera i), del regio decreto
legislativo 15 maggio 1946, n. 455 (Approvazione dello statuto della Regione
siciliana), convertito in legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 2, riconosce alla Regione siciliana potestà legislativa
esclusiva in materia di «acque pubbliche, in quanto non siano oggetto di opere
pubbliche di interesse nazionale». Questa attribuzione normativa, tuttavia, non
potrebbe essere esercitata in violazione delle «norme fondamentali delle
riforme economico-sociali della Repubblica», tra le quali andrebbe ricompreso
lo stesso art. 10 del d.lgs. n. 275 del 1993. Quest’ultima disposizione
costituirebbe infatti espressione di uno standard di tutela ambientale da
applicare in modo uniforme su tutto il territorio nazionale ai sensi dell’art. 117, secondo
comma, lettera s), della Costituzione. Del resto, in applicazione
dei principi generali in tema di gerarchia delle fonti, non sarebbe consentito
al legislatore regionale di prorogare un termine prescritto in un decreto
legislativo.
Sotto altro
profilo – prosegue il ricorrente – la norma regionale impugnata si porrebbe in
contrasto anche con la direttiva
23 ottobre 2000, n. 2000/60/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del
Consiglio che istituisce un quadro per l’azione comunitaria in materia di
acque), e in particolare con gli obiettivi
ambientali ivi enunciati nei «considerando» numeri 1, 11, 25, 53, e nell’art.
1, paragrafo 1, lettera b), con conseguente violazione degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.
Da ultimo, il
Governo sostiene che la proroga regionale censurata, palesando un ritardo di
moltissimi anni nell’applicazione della normativa nazionale citata, si
configurerebbe come una sorta di “condono” generalizzato sulle attività di
estrazione dell’acqua, che, nel frattempo, sarebbero state effettuate in
maniera incontrollata, con potenziali danni al buon regime delle acque.
Inoltre, dall’applicazione della previsione impugnata deriverebbero anche
pregiudizi per la finanza pubblica, tenuto conto che l’art. 10 del d.lgs. n.
275 del 1993 collega all’omessa denuncia «la sanzione amministrativa del
pagamento di una somma da lire duecentomila a lire unmilioneduecentomila»,
prevedendo altresì che «il pozzo può essere sottoposto a sequestro ed è
comunque soggetto a chiusura a spese del trasgressore allorché divenga
definitivo il provvedimento che applica la sanzione».
2.‒ La Regione siciliana non si è costituita in
giudizio.
Considerato in diritto
1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha
promosso questione di legittimità costituzionale dell’art. 19 della legge della
Regione siciliana 29 settembre 2016, n. 20 (Disposizioni per favorire
l’economia. Disposizioni varie), per violazione dell’art. 14, lettera i),
del regio
decreto legislativo 15 maggio 1946, n. 455
(Approvazione dello statuto della Regione siciliana), convertito in legge
costituzionale 26 febbraio 1948, n. 2, e degli artt. 11, 117, primo e secondo
comma, lettera s), della Costituzione.
2.‒ Con il primo motivo di ricorso, il Governo
sostiene che la Regione siciliana, avendo differito ‒ dal 31 dicembre
2007 al 31 dicembre 2017 ‒ il termine per la denuncia dei pozzi previsto
dall’art. 10, comma 1, primo periodo, del decreto legislativo 12 luglio 1993,
n. 275 (Riordino in materia di concessione di acque pubbliche), avrebbe
ecceduto i limiti della propria competenza statutaria. Infatti, la pure
riconosciuta competenza esclusiva regionale in materia di «acque pubbliche»
sarebbe stata esercitata in contrasto con una delle «norme fondamentali delle
riforme economico-sociali della Repubblica», quale sarebbe la citata
disposizione legislativa statale.
2.1.‒ Va premesso
che l’art. 144 del decreto
legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale) ‒ come
già l’art. 1 della legge 5 gennaio 1994, n. 36 (Disposizioni in materia di
risorse idriche) ‒ dispone
che «tutte le
acque superficiali e sotterranee, ancorché non estratte dal sottosuolo,
appartengono al demanio dello Stato». L’assegnazione a terzi e la selezione degli impieghi ai
quali destinare le singole acque è disposta mediante concessione (cosiddetta «di derivazione»).
Poiché la diversione delle acque dal loro corso naturale, ai fini produttivi, irrigui,
industriali e civili, ne
modifica i caratteri fondamentali, il rilascio della concessione è
subordinato all’accertamento che la derivazione non pregiudichi il
raggiungimento degli obiettivi di qualità e che venga comunque garantito «l’equilibrio del bilancio idrico», secondo quanto previsto dall’art.
12-bis del regio decreto 11 dicembre
1933, n. 1775 (Testo unico delle disposizioni di legge sulle acque e impianti
elettrici), come sostituito dall’art. 96 del d.lgs. n. 152 del 2006. I volumi
di acqua concessi devono altresì essere «commisurati alle possibilità di risparmio, riutilizzo o
riciclo delle risorse».
L’autorità concedente deve inoltre tenere conto della pianificazione dello
sfruttamento della risorsa idrica, imperniato sui piani di tutela delle acque
(art. 121 del d.lgs. n. 152 del 2006), di bacino distrettuale (art. 65 del
d.lgs. n. 152 del 2006) e di gestione (art. 117 del d.lgs. n. 152 del 2016).
L’art. 10 del d.lgs. n. 275 del 1993 ‒
evocato dal Governo quale norma interposta ‒ è stato introdotto
nell’ambito di un generale intervento di riordino delle concessioni di acque
pubbliche, avente la finalità di riconsiderare complessivamente gli equilibri
tra gli usi dell’acqua, tenuto conto della moltiplicazione delle estrazioni,
anche abusive.
In particolare, l’obbligo di denuncia
dei pozzi rientra tra le misure poste a salvaguardia e difesa della “quantità”
delle acque esistenti in ciascun distretto idrografico, in modo da assicurare
l’equilibrio fra la disponibilità delle risorse idriche reperibili e i
fabbisogni per gli usi diversificati della risorsa stessa. Infatti, per
predisporre adeguatamente il piano di tutela e assicurare l’equilibrio del
bilancio idrico, le autorità concedenti devono poter procedere al censimento di
tutte le utilizzazioni in atto nel medesimo corpo idrico.
2.2.– Secondo la giurisprudenza costituzionale,
le disposizioni in materia di tutela delle acque ‒ contenute
principalmente nella parte III del d.lgs. n. 152 del 2006, intitolata «Norme in
materia di difesa del suolo e lotta alla desertificazione, di tutela delle
acque dall’inquinamento e di gestione delle risorse idriche» e, in particolare,
nella sua sezione II intitolata «Tutela delle acque dall’inquinamento» ‒ sono riconducibili alla materia della «tutela
dell’ambiente», attribuita alla competenza legislativa esclusiva dello Stato ai
sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera s),
Cost. Si tratta, infatti, «di disposizioni aventi finalità di prevenzione e
riduzione dell’inquinamento, risanamento dei corpi idrici inquinati,
miglioramento dello stato delle acque, perseguimento di usi sostenibili e
durevoli delle risorse idriche, mantenimento della capacità naturale di
autodepurazione dei corpi idrici e della capacità di sostenere comunità animali
e vegetali ampie e diversificate, mitigazione degli effetti delle inondazioni e
della siccità, protezione e miglioramento dello stato degli ecosistemi
acquatici, degli ecosistemi terrestri e delle zone umide direttamente
dipendenti dagli ecosistemi acquatici sotto il profilo del fabbisogno idrico.
Sono scopi che attengono direttamente alla tutela delle condizioni intrinseche
dei corpi idrici e che mirano a garantire determinati livelli qualitativi e
quantitativi delle acque» (sentenza n. 254 del
2009; in senso analogo, sentenza n. 246 del
2009).
Con riguardo al riparto delle
attribuzioni tra lo Stato e le regioni e le province autonome in materia
ambientale, va ricordato che la normativa statale riconducibile alla materia
trasversale di cui all’art. 117, comma 2, lettera s), Cost. è applicabile alle
regioni speciali e alle province autonome «solo laddove non entrino in gioco le
competenze riconosciute dalla normativa statutaria agli enti ad autonomia
differenziata: in tal caso, lo scrutinio di legittimità costituzionale deve
confrontarsi con il complessivo assetto normativo delineato dagli statuti di
autonomia (sentenze
n 98 del 2017, n. 210 del 2014,
n. 151 del 2011
e n. 378 del
2007)» (sentenza
n. 212 del 2017). Solamente in quanto la materia «tutela dell’ambiente» non
sia contemplata negli statuti di autonomia, dunque, gli oggetti che non
rientrano nelle specifiche e delimitate attribuzioni delle regioni ad autonomia
speciale e province autonome «rifluiscono nella competenza generale dello Stato
nella suddetta materia, la quale implica in primo luogo la conservazione
uniforme dell’ambiente naturale, mediante precise disposizioni di salvaguardia
non derogabili in alcuna parte del territorio nazionale» (sentenza n. 387 del
2008, nonché, analogamente, sentenze n. 288 del
2012 e n.
151 del 2011).
Anche nell’odierno giudizio di
legittimità costituzionale vengono in evidenza le competenze spettanti
statutariamente a una regione ad autonomia speciale.
Nell’enumerare le materie sulle quali
la Regione siciliana ha potestà legislativa esclusiva l’art. 14 dello statuto
speciale menziona esplicitamente le «acque pubbliche, in quanto non siano
oggetto di opere pubbliche di interesse nazionale» (lettera i). Questa Corte ha precisato che la
previsione è da riferire alla sola disciplina demaniale del bene idrico e
marittimo, «come si desume sia dal dato letterale, che significativamente
considera l’acqua in quanto oggetto di opera pubblica, sia dal dato di contesto
del collegamento con la norma statutaria, che dispone l’appartenenza delle
acque pubbliche al demanio regionale, con l’eccezione delle acque che
interessano la difesa e i servizi di carattere nazionale (art. 32)» e sulla
base di queste considerazioni è stata ricondotta alla competenza legislativa
residuale, e non primaria, della Regione siciliana la disciplina del servizio
idrico integrato (sentenza
n. 93 del 2017). Su queste stesse basi, deve invece ricondursi alla
competenza legislativa primaria di cui alla lettera i) dell’art. 14 dello statuto, la regolazione degli usi sostenibili
e durevoli delle risorse idriche da parte dei soggetti interessati, in quanto
disciplina demaniale dell’acqua, considerata qui come vero e proprio “bene” (da
tutelare) anziché in funzione del “servizio” da assicurare tramite essa alla
collettività.
Queste conclusioni non comportano
tuttavia che la menzionata competenza primaria possa esplicarsi senza alcun
limite. Lo stesso art. 14 dello statuto precisa che l’Assemblea siciliana deve
esercitare la potestà legislativa esclusiva «nei limiti delle leggi
costituzionali dello Stato, senza pregiudizio delle riforme agrarie e
industriali deliberate dalla Costituente del popolo italiano» e la formula è
stata costantemente intesa da questa Corte come richiamo al rispetto dei
«limiti derivanti dalle norme di rango costituzionale, dai principi generali
dell’ordinamento giuridico statale, dalle norme fondamentali delle riforme
economico-sociali della Repubblica nonché dagli obblighi internazionali» (sentenza 265 del
2013; nello stesso senso anche le sentenze n. 263 del
2016, n. 11
del 2012, n.
189 del 2007, n.
314 del 2003, n.
4 del 2000, n.
153 del 1995).
È noto che, proprio
in applicazione del limite delle «norme fondamentali delle grandi riforme
economico-sociali», questa Corte ha più volte preteso dalle regioni speciali (e
dalle due province autonome) il rispetto di prescrizioni legislative statali di
carattere generale incidenti su materie assoggettate dagli statuti al regime
della competenza legislativa piena o primaria. In particolare, è stato
affermato che il legislatore statale conserva «il potere di vincolare la
potestà legislativa primaria della regione speciale attraverso l’emanazione di
leggi qualificabili come “riforme economico-sociali”: e ciò anche sulla base
[…] del titolo di competenza legislativa nella materia “tutela dell’ambiente,
dell’ecosistema e dei beni culturali”, di cui all’art. 117, secondo comma,
lettera s), della Costituzione,
comprensiva tanto della tutela del paesaggio quanto della tutela dei beni
ambientali o culturali; con la conseguenza che le norme fondamentali contenute
negli atti legislativi statali emanati in tale materia potranno continuare ad
imporsi al necessario rispetto» degli enti ad autonomia differenziata
nell’esercizio delle proprie competenze (sentenza n. 51 del
2006; nello stesso senso, sentenze n. 212 del
2017, n. 233
del 2010, n.
164 del 2009, n.
536 del 2002).
2.3.– La disciplina statale in materia di tutela delle
acque deve
essere ascritta all’area delle
riforme economico-sociali, sia
per il suo «contenuto riformatore», sia per la sua «attinenza a settori o beni della vita
economico-sociale di rilevante importanza»
(sentenza
n. 323 del 1998).
In un primo senso, infatti, si deve osservare che a partire dalla legge n. 36 del 1994 sino al d.lgs.
n. 152 del 2006, il legislatore statale ha seguito un approccio innovativo e globale alla
regolazione della materia, orientato non solo alla diretta salvaguardia
dell’acqua in quanto tale, ma al governo della risorsa idrica con l’obiettivo di assicurarne un uso
sostenibile, equilibrato, equo ed integrato, ai fini della più generale tutela
dell’ambiente e degli ecosistemi ad essa correlati.
Sotto il secondo aspetto, rileva l’importanza vitale della risorsa
idrica, essenziale sia per il consumo umano che per la funzione di ausilio alla
vita di tutte le specie animali e vegetali.
L’indicazione dei criteri generali per
un corretto e razionale uso dell’acqua risponde dunque a un interesse unitario
che esige un’attuazione uniforme su tutto il territorio nazionale e non tollera
discipline differenziate nelle sue diverse parti. Le istanze oggetto di
dialettica e di bilanciamento nelle scelte ad essa relative – fabbisogno idrico, tutela dei corpi
idrici e degli ecosistemi, biodiversità, necessità produttive dell’economia “idrodipendente” – non possono infatti che essere ponderate unitariamente con
un’operazione che solo il legislatore statale può compiere.
In questo contesto devono essere
qualificate come «norme fondamentali delle riforme economico-sociali» non solo
le disposizioni statali direttamente espressive del descritto modello regolatorio in tema di tutela delle acque, ma anche le
previsioni, solo apparentemente di dettaglio, che siano collegate alle prime da
un rapporto di coessenzialità o di necessaria
integrazione. Ed è proprio ciò che accade nel caso in esame, in cui la norma
statale che impone la denuncia dei pozzi in uso riveste importanza decisiva per
la tutela quantitativa della risorsa idrica e per la pianificazione della sua
utilizzazione.
Si deve quindi concludere che il
legislatore statale, adottando l’art. 10 del d.lgs. n. 275 del
2.4.– Si può aggiungere che, in concreto, la
proroga disposta con la norma di legge regionale impugnata, consentendo la prosecuzione
di prelievi incontrollati della risorsa idrica per un ulteriore lungo periodo
di tempo, interferisce con il corretto funzionamento degli strumenti
pianificatori, autorizzatori, sanzionatori, di
vigilanza e controllo, e compromette le azioni volte al risanamento dei corpi
idrici. Come osservato dalla difesa del
ricorrente, inoltre, il differimento del termine equivale all’introduzione di una surrettizia e
generalizzata forma di condono delle estrazioni abusive perpetrate ‒ in
elusione finanche dei dispositivi di misurazione delle portate delle acque
emunte previsti all’art. 95 del d.lgs. n. 152 del 2006 ‒ sul territorio
siciliano nel corso di un intero decennio, vanificando l’azione di controllo e
di repressione delle autorità preposte, con il rischio di alimentare
ulteriormente il fenomeno dell’abusivismo.
3.– Alla luce delle considerazioni svolte,
l’impugnato art. 19 della legge regionale siciliana n. 20 del 2016 deve essere
dichiarato illegittimo in quanto incompatibile con una norma fondamentale di
riforma economico-sociale dello Stato.
Le residue doglianze formulate dal
ricorrente restano assorbite.
per
questi motivi
LA CORTE
COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 19 della
legge della Regione siciliana 29 settembre 2016, n. 20 (Disposizioni per
favorire l’economia. Disposizioni varie).
Così deciso
in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10
ottobre 2017.
F.to:
Paolo GROSSI, Presidente
Daria de PRETIS, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 25 ottobre
2017.