Sentenza n. 120 del 2017

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SENTENZA N. 120

ANNO 2017

 

Commento alla decisione di

 

Silvia Bernardi

La Corte costituzionale sull’obbligo del giudice di valutare la diminuzione della colpevolezza del reo dovuta a vizio parziale di mente ai fini dell’applicazione della recidiva

 

per g.c. di Diritto Penale Contemporaneo

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-           Paolo                           GROSSI                                           Presidente

-           Giorgio                        LATTANZI                                        Giudice

-           Aldo                            CAROSI                                                   ”

-           Marta                           CARTABIA                                             ”

-           Mario Rosario              MORELLI                                                ”

-           Giancarlo                     CORAGGIO                                            ”

-           Giuliano                       AMATO                                                   ”

-           Silvana                         SCIARRA                                                ”

-           Daria                            de PRETIS                                               ”

-           Nicolò                          ZANON                                                   ”

-           Franco                         MODUGNO                                            ”

-           Augusto Antonio       BARBERA                                              ”

-           Giulio                          PROSPERETTI                                        ”

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), promosso dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Cagliari, nel procedimento penale a carico di A. F., con ordinanza del 30 giugno 2016, iscritta al n. 193 del registro ordinanze 2016 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 41, prima serie speciale, dell’anno 2016.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 12 aprile 2017 il Giudice relatore Giorgio Lattanzi.

Ritenuto in fatto

1.– Il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Cagliari, con ordinanza del 30 giugno 2016 (r.o. n. 193 del 2016), ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 27, terzo comma, e 32 della Costituzione, una questione di legittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), «nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della diminuente della seminfermità di mente prevista dall’art. 89 codice penale sulla recidiva di cui all’art. 99, quarto comma codice penale».

Il giudice rimettente premette di essere investito, in sede di giudizio abbreviato, del procedimento penale nei confronti di una persona imputata del reato di cui agli artt. 110 e 628, primo comma, cod. pen., per essersi impossessata, insieme con un’altra persona non identificata, della somma di 50 euro mediante una minaccia consistita nell’afferrare la persona offesa per il giubbotto e nell’avvicinarle il pugno chiuso.

All’imputato era stata contestata la recidiva reiterata specifica infraquinquennale, avendo commesso «decine di reati di furti e rapine […] con modalità simili a quella per la quale si procede».

Ad avviso del giudice a quo la contestata recidiva manifesterebbe «una relazione qualificata tra i precedenti ed il nuovo illecito commesso, significativo di una maggiore pericolosità sociale». I reati commessi dall’imputato, infatti, sono «della stessa indole per la concreta omogeneità delle condotte criminose espressive di una personalità delinquenziale profondamente caratterizzata dal [d]isturbo di [p]ersonalità».

Dalla documentazione prodotta dalla difesa e dalla perizia psichiatrica disposta dal giudice emergerebbe un’infermità mentale tale da scemare grandemente le capacità di intendere e di volere dell’imputato: egli sarebbe «polarizzato su una visione egocentrica del mondo a discapito della reciprocità e questo gli [impedirebbe] di conoscere il valore e i diritti degli altri».

Questa «visione egoica ed egocentrica» limiterebbe fortemente la capacità dell’imputato di riflettere sul significato delle sue azioni e gli farebbe ripetere «la condotta illecita un numero infinito di volte senza percepirne neanche il disvalore perché concentrato esclusivamente sul soddisfacimento del suo bisogno».

Ad avviso del giudice a quo il disturbo da cui è affetto l’imputato sarebbe «di tale intensità da assumere rilievo causale determinante nella commissione degli illeciti»: l’imputato infatti delinquerebbe «non perché agisce liberamente in risposta ad impulsi criminali che potrebbe dominare ma perché “malato”».

Nonostante ciò, in forza della norma censurata, l’attenuante della seminfermità mentale potrebbe al più essere considerata equivalente alla recidiva reiterata, con la conseguenza che l’imputato dovrebbe essere punito con una pena di tre anni di reclusione che, in considerazione della lieve entità del fatto («strattonamento del giubbotto di un giovane studente universitario e sottrazione della somma di 50,00 euro»), dell’immediata ammissione di responsabilità, dell’efficacia causale rispetto alla specifica condotta criminosa del suo vizio di mente, appare sproporzionata e contrastante con la finalità rieducativa della pena.

Ritenuta perciò la rilevanza della questione e facendo riferimento alle sentenze della Corte costituzionale che hanno già dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, cod. pen. (n. 106 e n. 105 del 2014, n. 251 del 2012), il giudice rimettente ha rilevato che il giudizio di bilanciamento tra circostanze eterogenee consente di «valutare il fatto in tutta la sua ampiezza circostanziale, sia eliminando dagli effetti sanzionatori tutte le circostanze (equivalenza), sia tenendo conto di quelle che aggravano la quantitas delicti, oppure soltanto di quelle che la diminuiscono (sentenza n. 38 del 1985)».

Le deroghe al bilanciamento, pur essendo consentite e pur rientrando nell’ambito delle scelte rimesse al legislatore, non potrebbero «giungere a determinare un’alterazione degli equilibri costituzionalmente imposti nella strutturazione della responsabilità penale».

Ciò posto, la norma censurata sarebbe in contrasto con il principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 Cost., perché condurrebbe «ad applicare pene identiche a condotte di rilievo sostanziale enormemente diverso».

Nel caso di recidivo reiterato seminfermo che commetta una rapina pluriaggravata, infatti, si dovrebbe infliggere, per effetto del divieto di prevalenza dell’attenuante di cui all’art. 89 cod. pen. sulla recidiva, «una pena di tre anni di reclusione a fronte di un fatto ben più grave per le sue articolazioni concrete».

La questione sarebbe non manifestamente infondata anche con riferimento alla finalità rieducativa della pena prevista dall’art. 27, terzo comma, Cost., che implica «un costante “principio di proporzione” tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e offesa, dall’altra (sentenza n. 313 del 1990)».

Il seminfermo di mente, ancorché recidivo reiterato, dovrebbe essere sottoposto a un trattamento sanzionatorio adeguato alla sua infermità, trattamento che potrebbe essere assicurato esclusivamente dalla prevalenza dell’attenuante prevista dall’art. 89 cod. pen. sulla recidiva reiterata. Solo così nel caso di specie sarebbe possibile «irrogare una pena adeguata alla concreta gravità del fatto (modestissima entità del danno patrimoniale e morale anche in termini di conseguenze per la vittima), alla personalità e colpevolezza dell’autore».

Il giudice rimettente inoltre ha ricordato che il legislatore ha riservato un trattamento particolare all’imputato minorenne, prevedendo per l’attenuante dell’art. 98 cod. pen. una deroga al divieto di equivalenza o prevalenza delle attenuanti rispetto all’aggravante della finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico, introdotta dall’art. 1 del decreto-legge 15 dicembre 1979, n. 625 (Misure urgenti per la tutela dell’ordine democratico e della sicurezza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 6 febbraio 1980, n. 15, e rispetto all’aggravante, in tema di mafia, introdotta dall’art. 7 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa), convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203.

Secondo il giudice a quo, poiché il minore di età e il seminfermo di mente sono equiparabili sotto il profilo dell’immaturità intellettiva, affettiva e volitiva, anche per il seminfermo di mente la deroga all’ordinaria disciplina del bilanciamento sarebbe irragionevole.

L’assimilazione del seminfermo di mente al minore troverebbe una conferma nelle sentenze n. 253 del 2003 e n. 367 del 2004, secondo le quali le esigenze di tutela della collettività non possono prevalere su quelle di tutela della salute.

In conclusione la previsione della semplice equivalenza dell’attenuante del vizio parziale di mente con la recidiva reiterata costituirebbe un automatismo in contrasto con esigenze essenziali di uguaglianza (art. 3 Cost.), con la finalità rieducativa della pena (art. 27, terzo comma, Cost.) e con il diritto alla salute (art. 32 Cost.).

2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile o comunque non fondata.

Ad avviso della difesa dello Stato il giudice rimettente non avrebbe sollevato la questione in maniera adeguata, in quanto «[l]a valutazione effettuata […] in ordine all’applicazione della recidiva non appare condivisibile, alla luce anche dei principi elaborati dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità in materia».

Una corretta applicazione di questi principi, tenuto conto delle caratteristiche della personalità dell’imputato poste in evidenza dal giudice rimettente, avrebbe consentito «di superare ogni dubbio di legittimità della norma censurata».

L’Avvocatura generale dello Stato aggiunge che, comunque, la questione non è fondata. La norma censurata tenderebbe ad attuare «una forma di prevenzione generale della recidiva reiterata, inasprendone il regime sanzionatorio».

Essa, inoltre, non comporterebbe un’applicazione sproporzionata della pena, perché sanziona coloro che hanno commesso un altro reato essendo già recidivi, dimostrando così un alto e persistente grado di antisocialità.

Peraltro la stessa Corte costituzionale avrebbe chiarito che gli effetti della sentenza n. 251 del 2012 (che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza dell’attenuante dell’art. 73, comma 5, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, recante «Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza», sulla recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen.) devono essere circoscritti alla sola circostanza considerata, senza carattere di generalità.

Nel caso in esame, il divieto sarebbe giustificato in quanto «colpisce un’attenuante inerente la persona del colpevole ma lo “scalino” edittale determinato dal divieto di prevalenza non è manifestamente sproporzionato, valutando i dati soggettivi, connessi alla colpevolezza e alla pericolosità dell’agente, rispetto alla seminfermità mentale».

La deroga al giudizio di bilanciamento rientrerebbe nell’ambito della discrezionalità legislativa e, quindi, non sarebbe sindacabile da parte di questa Corte.

Sarebbe pertanto superato qualsiasi dubbio sulla legittimità costituzionale della norma censurata, con riferimento all’art. 3 Cost.

La norma in questione inoltre non contrasterebbe con l’art. 27, terzo comma, Cost.: la scelta legislativa di sanzionare la recidiva in modo più rigoroso, indipendentemente dalla «gravità dei fatti commessi, dai loro tempi e modi e dalle sanzioni irrogate», rientra nella discrezionalità del legislatore ed è immune dalle censure formulate dal rimettente in quanto «il fatto stesso della persistenza nelle condotte antisociali, quali che esse siano, dimostra che la funzione rieducativa non ha potuto efficacemente esplicarsi».

Infine non sarebbe violato neppure l’art. 32 Cost., perchè il divieto di prevalenza dell’attenuante della seminfermità di mente sulla recidiva reiterata «non incide sul diritto alla salute dell’imputato che può ben essere tutelato mediante la sottoposizione alla misura di sicurezza del ricovero nella casa di cura o di custodia».

Considerato in diritto

1.– Il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Cagliari, con ordinanza del 30 giugno 2016, dubita, in riferimento agli artt. 3, 27, terzo comma, e 32 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), «nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della diminuente della seminfermità di mente prevista dall’art. 89 codice penale sulla recidiva di cui all’art. 99, quarto comma codice penale».

Ad avviso del rimettente la norma censurata viola il principio di uguaglianza, perché «conduce ad applicare pene identiche a condotte di rilievo sostanziale enormemente diverso», ed è in contrasto anche con l’art. 27, terzo comma, Cost., perché la finalità rieducativa della pena implica «un costante “principio di proporzione” tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e offesa, dall’altra (sentenza n. 313 del 1990)».

Il seminfermo di mente, ancorché recidivo reiterato, dovrebbe essere sottoposto a un trattamento sanzionatorio adeguato alla sua infermità, che può essere assicurato solamente dalla prevalenza della diminuente prevista dall’art. 89 cod. pen. sulla recidiva reiterata.

Solo in tal modo, nel caso di specie, sarebbe possibile «irrogare una pena adeguata alla concreta gravità del fatto (modestissima entità del danno patrimoniale e morale anche in termini di conseguenze per la vittima), alla personalità e colpevolezza dell’autore».

Infine il divieto di prevalenza dell’attenuante dell’art. 89 cod. pen. sulla recidiva reiterata violerebbe anche il diritto alla salute, garantito dall’art. 32 Cost.

2.– L’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l’inammissibilità della questione e nel merito ne ha sostenuto l’infondatezza.

La questione sarebbe inammissibile perché, «[i]n punto di rilevanza», sarebbe stata sollevata «in maniera non adeguata», in quanto «[l]a valutazione effettuata dal giudice a quo in ordine all’applicazione della recidiva non [sarebbe] condivisibile, alla luce anche dei principi elaborati dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità in materia».

Secondo la difesa dello Stato una corretta applicazione di questi principi, tenuto conto delle caratteristiche della personalità dell’imputato poste in evidenza dal giudice rimettente, avrebbe consentito «di superare ogni dubbio di legittimità della norma censurata».

L’eccezione di inammissibilità è fondata.

Successivamente all’entrata in vigore della legge n. 251 del 2005, questa Corte, posta di fronte a numerose questioni di legittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., sollevate nel presupposto che la recidiva prevista dall’art. 99, quarto comma, cod. pen. fosse obbligatoria, ne ha dichiarato, con la sentenza n. 192 del 2007, l’inammissibilità considerando che esistevano invece solidi argomenti per ritenere tale recidiva facoltativa. Secondo la Corte, una volta caduto tale presupposto, il giudice sarebbe tenuto ad applicare «l’aumento di pena previsto per la recidiva reiterata solo qualora ritenga il nuovo episodio delittuoso concretamente significativo – in rapporto alla natura ed al tempo di commissione dei precedenti, ed avuto riguardo ai parametri indicati dall’art. 133 cod. pen. – sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo». Ciò posto, ha aggiunto la Corte, «allorché la recidiva reiterata concorra con una o più attenuanti, è possibile sostenere che il giudice debba procedere al giudizio di bilanciamento – soggetto al regime limitativo di cui all’art. 69, quarto comma, cod. pen. – unicamente quando, sulla base dei criteri dianzi ricordati, ritenga la recidiva reiterata effettivamente idonea ad influire, di per sé, sul trattamento sanzionatorio del fatto per cui si procede; mentre, in caso contrario, non vi sarà luogo ad alcun giudizio di comparazione: rimanendo con ciò esclusa la censurata elisione automatica delle circostanze attenuanti» (sentenza n. 192 del 2007; successivamente, ordinanze n. 171 del 2009, n. 257, n. 193, n. 90 e n. 33 del 2008, n. 409 del 2007).

L’indicazione è stata accolta dalla giurisprudenza di legittimità con l’affermazione che è comunque «compito del giudice, quando la contestazione concerna una delle ipotesi contemplate dai primi quattro commi dell’art. 99 c.p. e quindi anche nei casi di recidiva reiterata (rimane esclusa […] l’ipotesi “obbligatoria” del quinto comma), quello di verificare in concreto se la reiterazione dell’illecito sia effettivo sintomo di riprovevolezza e pericolosità, tenendo conto, secondo quanto precisato dalla indicata giurisprudenza costituzionale e di legittimità, della natura dei reati, del tipo di devianza di cui sono il segno, della qualità dei comportamenti, del margine di offensività delle condotte, della distanza temporale e del livello di omogeneità esistente fra loro, dell’eventuale occasionalità della ricaduta e di ogni altro possibile parametro individualizzante significativo della personalità del reo e del grado di colpevolezza, al di là del mero ed indifferenziato riscontro formale dell’esistenza di precedenti penali» (Corte di cassazione, sezioni unite, 27 maggio 2010, n. 35738).

Anche successivamente le Sezioni unite, chiamate a pronunciarsi su profili diversi della disciplina della recidiva, hanno ribadito l’indirizzo secondo cui la recidiva è «produttiva di effetti unicamente se il giudice ne accerti i requisiti costitutivi e la dichiari, verificando non solo l’esistenza del presupposto formale rappresentato dalla previa condanna (presupposto che, nel caso di recidiva obbligatoria, è necessario e sufficiente), ma anche, nel caso di recidiva facoltativa, del presupposto sostanziale, costituito dalla maggiore colpevolezza e dalla più elevata capacità a delinquere del reo, da accertarsi discrezionalmente» (Corte di cassazione, sezioni unite, 24 febbraio 2011, n. 20798).

Tenuto conto dei precedenti penali, due sono le caratteristiche personali che il giudice deve valutare per decidere sulla recidiva: la pericolosità e la colpevolezza, intesa questa come rimproverabilità soggettiva per l’atteggiamento antidoveroso della volontà.

È questo atteggiamento che nel caso di recidiva potrebbe essere particolarmente censurabile, e giustificare così l’aggravante; infatti se ne potrebbe dedurre l’insensibilità dell’imputato nei confronti di precedenti condanne e dell’implicito monito a non violare più la legge, in esse contenuto. Insomma, come hanno precisato questa Corte e le Sezioni unite della Corte di cassazione, è la “maggiore colpevolezza” dell’imputato che, unitamente alla sua pericolosità, dà fondamento alla recidiva. 

Nel caso di specie il giudice rimettente, dopo aver ricordato i numerosi precedenti penali dell’imputato, ha ritenuto di dover riconoscere la recidiva per l’esistenza di «una relazione qualificata tra i precedenti ed il nuovo illecito commesso, significativo di una maggiore pericolosità sociale». Nulla invece ha detto sulla colpevolezza, che ai fini della recidiva è l’altro elemento da considerare.

Nell’ordinanza di rimessione la colpevolezza viene presa in esame solo in rapporto alle condizioni mentali dell’imputato e all’attenuante dell’art. 89 cod. pen., da bilanciare con la recidiva, e se ne sottolinea l’attenuazione rilevando che l’imputato «delinque non perché agisce liberamente in risposta ad impulsi criminali che potrebbe dominare ma perché “malato”». Egli, si aggiunge, è «affetto da un gravissimo [d]isturbo di [p]ersonalità che incide sulla possibilità di orientare le scelte e le azioni secondo le regole», e «ripete la condotta illecita un numero infinito di volte senza percepirne neanche il disvalore».

Insomma il giudice rimettente fonda il riconoscimento della recidiva esclusivamente sulla maggiore pericolosità dell’imputato, desunta dai precedenti reati commessi dallo stesso, senza valutare a tali fini il disturbo della personalità, pur avendolo ritenuto di intensità tale da assumere «rilievo causale determinante nella commissione degli illeciti».

 Per contro però il giudice valorizza il disturbo riconoscendolo all’origine di una ridotta colpevolezza che dovrebbe fondare la conclusione di illegittimità costituzionale della norma censurata, nella parte in cui esclude la prevalenza del vizio parziale di mente sulla recidiva reiterata. Risulterebbe a tal punto «rilevante l’efficacia causale del vizio di mente sulla recidiva» da non fare apparire «possibile che il giudice sia vincolato al semplice bilanciamento mediante l’equivalenza perché il risultato [sarebbe] una pena illegale».

Solo che, così argomentando, il giudice rimettente non ha considerato che la diminuita colpevolezza dell’imputato avrebbe dovuto innanzi tutto essere valutata ai fini della recidiva, per stabilire se questa dovesse essere ritenuta esistente oppure no, perché solo dopo aver fatto ciò, una volta riconosciuta la recidiva, sarebbe stata rilevante, e si sarebbe potuta sollevare, la questione sui limiti imposti dalla norma censurata al bilanciamento dell’attenuante del vizio parziale di mente con la recidiva reiterata.

Perciò la mancata considerazione della colpevolezza, ai fini della valutazione relativa alla recidiva, si traduce in un difetto di motivazione sulla rilevanza della questione, che di conseguenza risulta inammissibile.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 27, terzo comma, e 32 della Costituzione, dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Cagliari, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 aprile 2017.

F.to:

Paolo GROSSI, Presidente

Giorgio LATTANZI, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 22 maggio 2017.