ORDINANZA N. 117
ANNO 2017
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Paolo GROSSI Presidente
- Giorgio LATTANZI Giudice
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Franco MODUGNO
”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt.
657, comma 4, e 671 del codice
di procedura penale e dell’art. 81, secondo comma, del codice penale,
promosso dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Lecce, nel procedimento penale a
carico di A. M., con ordinanza
del 22 giugno 2015, iscritta al n. 322 del registro ordinanze 2015 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 52, prima serie speciale,
dell’anno 2015.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito nella camera di consiglio del 12 aprile 2017 il Giudice
relatore Franco Modugno.
Ritenuto che, con ordinanza depositata il 22 giugno 2015,
il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Lecce ha
sollevato, in riferimento agli artt. 3, 13, primo comma, 24, quarto comma, e 27, terzo comma, della
Costituzione, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 657,
comma 4, e 671 del codice di procedura penale e dell’art. 81, secondo comma,
del codice penale, «nella parte in cui non consentono al Giudice
dell’Esecuzione, una volta ritenuta la continuazione tra reati per i quali la
pena è espiata e reati per i quali è in corso di espiazione, di verificare la
data di commissione del reato per cui è in corso l’esecuzione e, ove differente
ed antecedente a quella di accertamento, nelle ipotesi di continuazione tra
reato associativo e reati-fine, [di] tenere conto, ai fini della fungibilità
della custodia espiata sine titulo, [di] quella di commissione»;
che il giudice a quo premette di
essere investito, quale giudice dell’esecuzione, dell’incidente promosso dal
difensore di un detenuto, volto ad ottenere che dalla pena in corso di
espiazione sia detratto – in applicazione dell’istituto della fungibilità della
pena, regolato dall’art. 657 cod. proc. pen. – il periodo di pena
detentiva sofferto senza titolo per altri reati;
che nei confronti dell’interessato erano state pronunciate, il 17 settembre
1997 e il 27 gennaio 2000, due sentenze di condanna divenute irrevocabili: la
prima alla pena di un anno e otto mesi di reclusione (oltre la multa) per i
reati di detenzione e porto illegali di armi; la seconda alla pena di un anno,
un mese e dieci giorni di reclusione (oltre la multa) per il delitto di tentata
estorsione;
che dette pene detentive erano state intieramente
espiate, in parte in carcere e in parte in regime di detenzione domiciliare;
che successivamente l’interessato aveva riportato tre ulteriori condanne,
anch’esse irrevocabili: il 18 settembre 2008 alla pena di diciotto anni e
quattro mesi di reclusione per associazione di tipo mafioso, tentato omicidio,
associazione finalizzata al traffico di stupefacenti e altri reati; il 4
novembre 2009 a dodici anni di reclusione per reati non specificati
nell’ordinanza di rimessione; il 26 gennaio 2012 a due mesi di reclusione per
violazione della legge sugli stupefacenti;
che, con provvedimenti del 6 novembre 2012 e del 28 gennaio 2014, il Giudice
per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Lecce aveva applicato in
sede esecutiva, ai sensi dell’art. 671 cod. proc. pen., la
disciplina della continuazione ai reati oggetto di tutte le sentenze dianzi
elencate;
che, in applicazione dell’art. 81, secondo comma, cod. pen.,
le pene inflitte con le prime due sentenze – già espiate – erano state, quindi,
ridotte rispettivamente a otto mesi e a quattro mesi di reclusione: con la
conseguenza che, in relazione ai reati cui tali sentenze si riferivano,
l’interessato risultava aver scontato un periodo di detenzione in eccesso;
che, nel determinare la pena da eseguire, il Procuratore della Repubblica
presso il Tribunale ordinario di Lecce aveva, peraltro, escluso che il predetto
periodo di detenzione potesse essere detratto dalla pena inflitta con le
sentenze del 2008 e del 2009 (quella inflitta con la sentenza del 2012 era
stata condonata), ostandovi il disposto dell’art. 657, comma 4, cod. proc. pen., in forza del quale la carcerazione sine titulo, per poter essere scomputata,
deve seguire, e non già precedere, il reato per il quale è intervenuta la
condanna da espiare;
che, ad avviso del rimettente, la tesi del pubblico ministero apparirebbe
corretta;
che il capo di imputazione relativo ai reati di associazione mafiosa e di
associazione finalizzata al narcotraffico reca, infatti, l’indicazione della
data del loro accertamento («dal marzo 2004 al gennaio 2005»), la quale risulta
successiva al periodo di detenzione in eccesso sofferto per i reati oggetto
delle prime due sentenze di condanna, commessi, rispettivamente, nel 1997 e nel
2000;
che, secondo il giudice a quo,
tuttavia, il reato di associazione mafiosa – a prescindere dalla data del suo
accertamento – dovrebbe ritenersi commesso prima della carcerazione sine titulo;
che dalla
sentenza di condanna e dai provvedimenti di applicazione della continuazione in executivis
– anch’essi non più contestabili, perché coperti dal giudicato – emergerebbe,
infatti, che tutti i reati ascritti al condannato si connettono ad un medesimo
ed iniziale disegno criminoso, rappresentato dall’adesione ad un sodalizio di
stampo mafioso e al suo programma, comprensivo di azioni violente anche con uso
delle armi: adesione che andrebbe fatta risalire agli anni ’90 dello scorso
secolo;
che, di conseguenza, la partecipazione associativa risulterebbe certamente
anteriore alla commissione dei reati-fine, in relazione ai quali è divenuta sine titulo
parte della detenzione patita;
che il rimettente è consapevole del fatto che, secondo un «noto indirizzo
giurisprudenziale», l’istituto della fungibilità della pena non è applicabile
ai reati permanenti – quale l’associazione per delinquere – allorché la
permanenza sia cessata dopo l’espiazione della pena senza titolo, non potendosi
scomporre la fattispecie criminosa, integrata da una condotta antigiuridica
unitaria che si protrae nel tempo;
che nel caso di specie, tuttavia, sarebbero configurabili plurime condotte
riconducibili alla previsione punitiva dell’art. 416-bis cod. pen.: l’arresto e la successiva
espiazione della pena per i reati-fine avrebbero, infatti, interrotto la
permanenza del reato associativo iniziato negli anni ’90 e poi accertato solo
nel marzo 2004, di modo che, almeno con riguardo al segmento più remoto di tale
reato, la permanenza sarebbe cessata prima della detenzione sine titulo;
che, a fronte
di ciò, occorrerebbe sottoporre alla Corte costituzionale la questione relativa
«alla necessità di far riferimento, ai fini della fungibilità, qualora vi sia
divergenza, alla data di commissione e non di accertamento del fatto per cui si
è riportata la pena da cui scomputare quella sine titulo», nonché la questione
inerente alla spettanza al giudice dell’esecuzione del compito di effettuare la
relativa verifica: questioni che – in ragione della «diversità della situazione
di fatto» che le origina – differirebbero da quelle già decise dalla Corte con
la sentenza n.
198 del 2014;
che, quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente assume che l’art.
3 Cost. risulterebbe
violato, sotto il profilo della irragionevole disparità di trattamento fra casi
analoghi, qualora il riconoscimento della fungibilità dovesse rimanere
collegato al momento in cui il pubblico ministero ha esercitato l’azione penale
– e, dunque, a un fattore casuale – anziché al momento in cui il reato è stato
commesso;
che, nella specie, se il detenuto istante avesse beneficiato, al pari di
altri, per la coincidenza tra le date di commissione e di accertamento dei
reati, del simultaneo processo per i fatti associativi e per i reati-fine
(relativamente ai quali ha poi ottenuto, in sede esecutiva, la riduzione di
pena per la ritenuta continuazione) non si troverebbe ad aver scontato una pena
in eccesso, non recuperabile tramite l’istituto della fungibilità;
che l’irragionevolezza, in parte qua,
dell’art. 657, comma 4, cod. proc. pen. – nei casi in cui il
carattere indebito della detenzione derivi dall’applicazione in sede esecutiva
della disciplina del reato continuato – si coglierebbe anche nel rapporto con
la previsione dell’art. 81, secondo comma, cod. pen.;
che la presunzione assoluta di pericolosità, costituente la ratio ispiratrice del limite temporale
previsto dall’art. 657, comma 4, cod. proc. pen. – legata all’esigenza di
evitare che l’istituto della fungibilità si risolva in un incentivo a
delinquere, trasformando il pregresso periodo di carcerazione ingiusta in una “riserva
di impunità” per futuri reati – si porrebbe, infatti, in conflitto con la
presunzione di ridotta pericolosità sottesa all’istituto della continuazione:
il legislatore non potrebbe riconoscere, cioè, da un lato, una riduzione di
pena in quanto l’autore si è dimostrato meno pericoloso, avendo ideato
contemporaneamente tutti i reati commessi, e impedire, pur tuttavia, all’agente
di usufruire effettivamente di detta riduzione in base alla presunzione
assoluta di pericolosità che radica la previsione limitativa in questione;
che la preclusione denunciata violerebbe, altresì, l’art. 13, primo comma, Cost.;
che, nell’ipotesi in cui la data di commissione del reato associativo
differisca da quella dell’accertamento e preceda la carcerazione sine titulo per
i reati-fine, la scelta legislativa di non privilegiare il favor libertatis non potrebbe essere, infatti,
giustificata con il timore che l’interessato sia indotto a commettere reati
dalla possibilità di sottrarsi alle relative conseguenze sanzionatorie, opponendo
in compensazione un “credito di pena” precedentemente maturato;
che risulterebbe violato, ancora, l’art. 27, terzo comma, Cost., in quanto la pena patita ingiustamente sarebbe
inidonea a realizzare una funzione rieducativa;
che le norme censurate si porrebbero, da ultimo, in contrasto anche con
l’art. 24, quarto comma, Cost., che impone al
legislatore di determinare «le condizioni e i modi per la riparazione degli
errori giudiziari»: il divieto da esse stabilito renderebbe, infatti, «vane […]
tali procedure riparatorie e lo stesso esercizio del diritto di difesa, di per
sé ancora più incomprimibile se volto a tutelare la libertà della persona»;
che le questioni sarebbero altresì rilevanti, giacché solo una declaratoria
di illegittimità costituzionale nei sensi auspicati permetterebbe di accogliere
la richiesta di detrazione della pena presentata dall’istante;
che è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano
dichiarate manifestamente inammissibili o, in subordine, infondate;
che, ad avviso della difesa dell’interveniente, il rimettente non avrebbe
specificato, anzitutto, quali atti avrebbero determinato l’asserita
interruzione dell’«affectio»
dell’interessato al sodalizio di stampo mafioso, il cui momento genetico viene
retrodatato agli anni ’90: ciò tenuto conto del fatto che la permanenza del
vincolo mafioso anche in costanza di detenzione inframuraria costituirebbe «ius receptum»;
che, in questo modo, il giudice a quo non
avrebbe consentito alla Corte costituzionale di verificare l’effettiva
rilevanza delle questioni;
che, contrariamente a quanto sostenuto dal rimettente, d’altro canto, le
questioni sarebbero già state affrontate e risolte dalla Corte, nel senso della
non fondatezza, con la sentenza n. 198 del
2014, nella quale si è concluso che la disciplina della fungibilità della
detenzione ingiustamente sofferta «non contiene, in alcun modo, regole
irragionevolmente discriminatorie»;
che, in ogni
caso, le questioni apparirebbero infondate per non avere il rimettente
verificato la praticabilità di una soluzione interpretativa diversa da quella
posta a base dei dubbi di costituzionalità prospettati e tale da consentirne il
superamento: in particolare, il giudice a
quo – disponendo dei necessari elementi di fatto – avrebbe potuto, anziché
«scorporare l’unitaria permanenza», ritenere diversi i fatti associativi
commessi prima e dopo i reati-fine che hanno determinato il “credito detentivo”
ed operare la compensazione richiesta dalla difesa solo sul segmento
precedente.
Considerato che il Giudice per le indagini preliminari del
Tribunale ordinario di Lecce dubita, in riferimento agli artt. 3, 13, primo
comma, 24, quarto comma, e 27, terzo comma, della Costituzione, della
legittimità costituzionale degli artt. 657, comma 4, e 671 del codice di
procedura penale e dell’art. 81, secondo comma, del codice penale, nella parte
in cui – a suo avviso – non consentirebbero «al Giudice dell’Esecuzione, una
volta ritenuta la continuazione tra reati per i quali la pena è espiata e reati
per i quali è in corso di espiazione, di verificare la data di commissione del
reato per cui è in corso l’esecuzione e, ove differente ed antecedente a quella
di accertamento, nelle ipotesi di continuazione tra reato associativo e
reati-fine, [di] tenere conto, ai fini della fungibilità della custodia espiata
sine titulo,
[di] quella di commissione»;
che l’eccezione di inammissibilità delle questioni per difetto di
motivazione sulla rilevanza formulata dall’Avvocatura generale dello Stato non
è fondata;
che il rimettente basa, in effetti, la valutazione di rilevanza delle
questioni sull’assunto che, nel caso di specie, la detenzione patita
dall’interessato per i reati-fine avrebbe interrotto la permanenza del reato di
partecipazione ad associazione di stampo mafioso a lui ascritto;
che è ben vero
che – come ricorda la difesa dell’interveniente Presidente del Consiglio dei
ministri – la giurisprudenza di legittimità ha affermato, in più occasioni, che
la permanenza del reato di associazione per delinquere (e di associazione di
tipo mafioso, in particolare) è perfettamente compatibile con l’inattività
degli associati nella perpetrazione dei reati-fine connessa al loro stato
detentivo, venendo meno solo nel caso di scioglimento della consorteria
criminale, ovvero nelle ipotesi, positivamente accertate, di recesso o
esclusione del singolo associato, che implicano la cessazione dell’affectio societatis scelerum;
che il panorama giurisprudenziale in materia non è, tuttavia, completamente
uniforme;
che a fianco,
infatti, di un orientamento di segno opposto a quello dianzi indicato – sia
pure più risalente – si registrano anche decisioni della Corte di cassazione
secondo le quali il principio di compatibilità della permanenza del reato
associativo con lo stato di detenzione dell’associato non può essere
trasformato, comunque sia, in una presunzione, in forza della quale chi è
inserito in un sodalizio criminoso continua a farvi parte anche se detenuto,
salva prova contraria: poiché la condotta di partecipazione ad una associazione
per delinquere non si esaurisce nella sola affectio societatis, occorrerebbe invece – specie
nel caso di stabile isolamento dal gruppo, conseguente a detenzione prolungata
– che sia provata la persistenza di un contributo apprezzabile dell’associato
alla vita e all’organizzazione del gruppo stesso, ancorché solo morale (tra le
altre, Corte di cassazione, sezione seconda, 31 gennaio-12 febbraio 2013, n.
6819; Corte di cassazione, sezione quarta, 7 dicembre 2005-25 gennaio 2006, n.
2893);
che, in questo
quadro, l’asserzione del giudice a quo
circa l’avvenuta interruzione della permanenza nel caso di specie per effetto
dello stato detentivo dell’interessato – ancorché non corroborata con
l’indicazione di ulteriori elementi rivelatori del venir meno dell’affectio societatis –
appare sufficiente a soddisfare l’onere di motivazione sulla rilevanza, non
potendo essere ritenuta, a prima vista, assolutamente priva di fondamento o del
tutto implausibile: su tale soglia arrestandosi la
verifica di questa Corte sulla valutazione di rilevanza della questione,
spettante al giudice rimettente (ex plurimis, sentenze n. 228 del
2016 e n. 71
del 2015);
che, nel merito, tuttavia, le questioni si basano su un presupposto
interpretativo palesemente inesatto;
che il censurato art. 657, comma 4, cod. proc. pen. stabilisce,
infatti, che l’istituto della fungibilità della pena – in forza del quale è
possibile, tra l’altro, detrarre dalla pena da espiare la carcerazione
ingiustamente sofferta per un diverso reato – operi solo quando la carcerazione
sine titulo
intervenga «dopo la commissione del reato per il quale deve essere determinata la
pena da eseguire»;
che il dato rilevante, a tali fini, è
dunque – alla luce dell’univoco testo della disposizione – proprio e soltanto
la data di commissione del reato con pena da espiare, e non quella del suo
accertamento: ciò in pieno accordo con la ratio
del limite temporale in questione, legata, per un verso, all’esigenza di
evitare che il pregresso periodo di carcerazione ingiusta si traduca in una
“riserva di impunità” per futuri reati, e dunque in un stimolo a delinquere;
per altro verso, alla considerazione che una pena anticipata rispetto al reato
è inidonea ad assolvere funzioni di prevenzione speciale e di rieducazione (sentenze n. 198 del
2014 e n.
442 del 1988);
che, in quest’ottica, la Corte di
cassazione ha sottolineato in più occasioni come, nell’applicare la norma
censurata, il giudice debba accertare rigorosamente e rendere esplicito con
adeguata motivazione il momento di commissione del reato per il quale è stato
emesso ordine di esecuzione, e non la data del suo accertamento (Corte di cassazione,
sezione quarta, 19 ottobre 2001-7 maggio 2002, n. 16637; Corte di cassazione,
sezione quinta, 19 aprile 1998-18 maggio 1999, n. 1739), con la precisazione
che, ove il tempus commissi delicti non risulti esplicitamente indicato nel capo di
imputazione, il giudice deve trarre i necessari riferimenti cronologici dalla
motivazione della sentenza di condanna e, se occorre, anche dagli atti del
procedimento con essa definito (Corte di cassazione, sezione prima, 16
febbraio-14 marzo 1990, n. 367);
che tale indagine non può che spettare al giudice
dell’esecuzione, funzionalmente competente in materia, con l’ovvio vincolo del
rispetto delle valutazioni e degli accertamenti già operati dal giudice della
cognizione, ormai coperti dal giudicato;
che, in assenza di qualsiasi indicazione
normativa contraria, l’esposta conclusione non soffre eccezioni neppure nelle
ipotesi alle quali è specificamente riferito il petitum del rimettente: ossia né nel caso in cui il “credito di pena”
utilizzabile in compensazione derivi – come generalmente si ammette (Corte di
cassazione, sezione prima, 11 febbraio-1° marzo 2010, n. 8109; Corte di
cassazione, sezione prima, 17 febbraio-17 giugno 2009, n. 25186) –
dall’applicazione in sede esecutiva della continuazione tra più reati oggetto
di separate condanne; né nel caso in cui il reato al quale si riferisce la pena
da eseguire sia un reato associativo: fermo restando che – secondo un
consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimità – nei reati
permanenti (quali appunto quelli associativi) l’anteriorità del reato alla
carcerazione ingiustamente sofferta deve essere verificata avendo riguardo al
momento di cessazione della permanenza, e non a quello del suo inizio;
che a prescindere, pertanto, dalla
correttezza in fatto e in diritto della ricostruzione operata dal giudice a quo con riguardo al caso di specie –
che non spetta a questa Corte scrutinare funditus – ove il giudice
dell’esecuzione verifichi (nel rispetto degli accertamenti già svolti in sede
cognitiva) che il reato associativo, con pena da espiare, è stato commesso –
nei sensi dianzi precisati – in epoca anteriore alla carcerazione sine titulo patita
per i reati-fine dell’associazione, egli deve scomputare senz’altro
quest’ultima dalla pena relativa al primo reato, quale che sia la data del suo
accertamento: detto altrimenti, quello che il rimettente chiede alla Corte è
già consentito, e anzi imposto, dalla normativa in vigore;
che le questioni vanno dichiarate, pertanto,
manifestamente infondate.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo
1953, n. 87, e 9, comma 1, delle norme integrative per i giudizi davanti alla
Corte costituzionale.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale
degli artt. 657, comma 4, e 671 del
codice di procedura penale e dell’art. 81, secondo comma, del codice penale,
sollevate, in riferimento agli artt. 3, 13, primo comma, 24, quarto comma, e
27, terzo comma, della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari
del Tribunale ordinario di Lecce con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in
Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12
aprile 2017.
F.to:
Paolo
GROSSI, Presidente
Franco
MODUGNO, Redattore
Roberto
MILANA, Cancelliere
Depositata
in Cancelleria il 19 maggio 2017.