Sentenza n. 241 del 2016

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SENTENZA N. 241

ANNO 2016

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-           Paolo                          GROSSI                                Presidente

-           Alessandro                 CRISCUOLO                          Giudice

-           Giorgio                       LATTANZI                                   ”

-           Aldo                           CAROSI                                        ”

-           Marta                          CARTABIA                                  ”

-           Mario Rosario             MORELLI                                     ”

-           Giancarlo                    CORAGGIO                                 ”

-           Giuliano                      AMATO                                        ”

-           Silvana                        SCIARRA                                     ”

-           Daria                           de PRETIS                                     ”

-           Nicolò                         ZANON                                         ”

-           Franco                        MODUGNO                                  ”

-           Augusto Antonio       BARBERA                                    ”

-           Giulio                         PROSPERETTI                             ”

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 72, comma 2, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2001)», e dell’art. 19 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 6 agosto 2008, n. 133 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), promosso dalla Corte dei conti - sez. giurisdizionale per la Regione Marche, nel procedimento vertente tra P.R. e l’Istituto nazionale per la previdenza sociale (INPS), con ordinanza del 17 marzo 2015, iscritta al n. 147 del registro ordinanze 2015 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 33, prima serie speciale, dell’anno 2015.

Visto l’atto di costituzione dell’Inps nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 4 ottobre 2016 il Giudice relatore Silvana Sciarra;

udito l’avvocato Filippo Mangiapane per l’Inps e l’avvocato dello Stato Giammario Rocchitta per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 17 marzo 2015, iscritta al n. 147 del registro ordinanze 2015, la Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Marche, giudice unico delle pensioni, ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 72, comma 2, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2001)» e dell’art. 19 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 6 agosto 2008, n. 133.

1.1.– Il giudice rimettente espone di dover decidere il ricorso presentato il 30 settembre 2014 da R.P., generale dell’arma dei carabinieri, cessato dal servizio il 9 agosto 2000, con trentasette anni di anzianità contributiva, beneficiario di una pensione privilegiata ordinaria, in ragione di un’infermità dovuta a causa di servizio.

Il ricorrente nel giudizio principale ha impugnato la nota provvedimento n. 121294/FF del 26 maggio 2014, con cui l’Istituto nazionale per la previdenza sociale (INPS), direzione provinciale di Ancona Pensioni dipendenti PP.AA., ha accertato un indebito di Euro 199.000,76, in relazione al periodo dal 1° gennaio 2001 al 30 giugno 2014, e ha disposto la restituzione di tale somma nel termine di trenta giorni dal ricevimento della nota, applicando, dal luglio 2014, la ritenuta cautelativa di Euro 375,26 (pari a un quinto della pensione) e provvedendo a una riduzione della pensione erogata mediante una ritenuta continuativa mensile di Euro 1.315,48, «per prestazione opera retribuita».

L’accertamento dell’indebito trae origine dalla sentenza n. 700 del 24 ottobre 2013, pronunciata dalla terza sezione d’appello della Corte dei conti e oramai definitiva, che ha ritenuto applicabile la disciplina di cumulabilità parziale tra la pensione privilegiata ordinaria e i redditi da lavoro autonomo, percepiti dal ricorrente nell’esercizio della professione forense, a partire dal 27 novembre 2000.

Il ricorrente sostiene che il giudicato riguardi l’arco temporale dal 1° luglio 2004 al 30 novembre 2004, più circoscritto rispetto al periodo considerato dall’ente previdenziale nella richiesta di restituzione, estesa a tutti gli importi percepiti dal 1° gennaio 2001 al 30 giugno 2014.

In caso di quiescenza volontaria dopo trentasette anni di servizio, il ricorrente avrebbe comunque potuto conseguire la pensione di anzianità, con il connesso beneficio del cumulo integrale tra pensione e redditi professionali.

A dire del ricorrente, a favore di tale cumulo integrale deporrebbe anche la previsione dell’art. 19 del d.l. n. 112 del 2008, che, per le pensioni di anzianità liquidate con sistema di calcolo retributivo, ha abrogato il divieto di cumulo con i redditi da lavoro.

Tale disposizione si applicherebbe anche alla pensione privilegiata, in quanto commisurata al trattamento ordinario aumentato di un decimo e provvista, pertanto, di natura “retributiva”.

Il ricorrente rileva che l’ente previdenziale non ha formulato alcuna richiesta di restituzione per il periodo dal 9 agosto 2000 al 1° luglio 2004 e dal 30 novembre 2004 all’11 settembre 2014. Per tali periodi sarebbe già decorsa la prescrizione quinquennale e, pertanto, non potrebbe essere avanzata alcuna richiesta di restituzione.

L’INPS ha contestato le argomentazioni del ricorrente, chiedendo, in primo luogo, di dichiarare l’incompetenza del giudice adìto.

Trattandosi di giudizio di ottemperanza, con richiesta di chiarimenti su alcuni punti della decisione, la questione sarebbe devoluta alla cognizione della Corte dei conti centrale, in forza dell’art. 10, commi 2 e 3, della legge 21 luglio 2000, n. 205 (Disposizioni in materia di giustizia amministrativa).

Nel merito, le doglianze del ricorrente sarebbero prive di pregio.

L’abolizione dei limiti al cumulo tra pensioni e redditi non si applicherebbe, difatti, alla pensione privilegiata corrisposta al ricorrente, regolata dall’art. 59, comma 14, della legge 27 dicembre 1997, n. 449 (Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica), così come modificato dall’art. 72 della legge n. 388 del 2000.

1.2.– In punto di fatto, il giudice rimettente evidenzia che il ricorrente gode di un trattamento ordinario privilegiato di quinta categoria di tabella A, sino al 9 agosto 2004, e, per il periodo successivo, di un trattamento privilegiato di quarta categoria.

Tale trattamento risulta liquidato con il sistema retributivo misto sulla base di trentasette anni di servizio, in ossequio alle prescrizioni dell’art. 67, comma 4, del d.P.R. n. 1092 del 1973.

Tale disposizione prevede la liquidazione della pensione privilegiata nella misura della pensione normale, «aumentata di un decimo», quando sia raggiunta l’anzianità di quindici anni, associata a dodici anni di servizio effettivo.

Il ricorrente, al momento della cessazione dal servizio per infermità, aveva peraltro già maturato i requisiti per accedere al trattamento di anzianità.

Il giudice rimettente, con sentenza non definitiva n. 38 del 19 febbraio 2015, ha disatteso le eccezioni pregiudiziali formulate dall’INPS e ha riconosciuto la legittimità della richiesta di restituzione proposta dall’istituto, con riguardo ai seguenti periodi: dal 9 agosto 2000 al 30 giugno 2004, in applicazione dell’art. 59, comma 14, della legge n. 449 del 1997 e dell’art. 72, comma 2, della legge n. 388 del 2000; dal 1° luglio 2004 al 30 novembre 2004, in applicazione dei princìpi enunciati dalla sentenza del giudice contabile d’appello, recante il n. 700 per l’anno 2013; con riguardo al periodo dal 1° dicembre 2004 al 31 dicembre 2008, in base all’art. 72, comma 2, della legge n. 388 del 2000.

Per il periodo successivo, dal 1° gennaio 2009 al 30 giugno 2014, il giudice rimettente reputa rilevante la questione di legittimità costituzionale dell’art. 72, comma 2, della legge n. 388 del 2000, che stabilisce la cumulabilità della pensione privilegiata con i redditi di lavoro autonomo nella misura del 70 per cento, e dell’art. 19 del d.l. n. 112 del 2008, che, a decorrere dal 1° gennaio 2009, soltanto per le pensioni dirette di anzianità a carico dell’assicurazione generale obbligatoria e delle forme sostitutive ed esclusive della stessa ha sancito l’integrale cumulabilità con i redditi da lavoro autonomo e dipendente.

Di tale regime più liberale non potrebbe dunque giovarsi la pensione privilegiata ordinaria, corrisposta al ricorrente.

1.3.– In punto di non manifesta infondatezza, il giudice a quo muove dal presupposto che la pensione privilegiata sia riconducibile, in virtù di una consolidata giurisprudenza contabile, ai trattamenti di invalidità di cui all’art. 77, comma 2, della legge n. 388 del 2000, sottratti alla soppressione dei limiti di cumulo, disposta per le pensioni di anzianità dall’art. 19, comma 1, del d.l. n. 112 del 2008.

Il giudice rimettente censura, in riferimento all’art. 3 Cost., il trattamento deteriore riservato al pensionato, che fruisca del trattamento privilegiato ordinario e sia assoggettato a un regime di cumulo più restrittivo, rispetto al pensionato che, con i medesimi requisiti di anzianità, goda di una pensione di anzianità e possa cumulare integralmente pensione e redditi da lavoro autonomo.

La disparità di trattamento sarebbe lesiva del principio di eguaglianza, in quanto non terrebbe conto della comune natura di retribuzione differita, che caratterizza la pensione privilegiata ordinaria e la pensione di anzianità.

La disparità di trattamento, inoltre, si paleserebbe irragionevole, in quanto l’esclusione, a danno dei titolari di pensione privilegiata ordinaria, del beneficio del cumulo integrale con i redditi di lavoro autonomo pregiudicherebbe i cittadini che hanno adempiuto al dovere prescritto dall’art. 4, secondo comma, Cost. e che, a causa del servizio svolto, hanno subìto una menomazione dell’integrità personale.

2.– Nel giudizio si è costituito l’INPS, con memoria dell’8 settembre 2015, e ha chiesto di dichiarare l’inammissibilità o l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale.

Nel ricostruire il complesso contenzioso l’INPS specifica di avere impugnato in via incidentale la sentenza parziale pronunciata dal giudice rimettente e pone l’accento sugli effetti preclusivi che il giudicato della sentenza n. 700 del 2013 produrrebbe anche per il periodo successivo al 2004, ben oltre la data del 31 dicembre 2008, individuata come discrimine temporale dal giudice contabile, sulla scorta dell’entrata in vigore di una nuova disciplina del cumulo tra pensioni e redditi da lavoro.

In particolare, il regime di cumulo, applicabile al ricorrente, sarebbe stato accertato in forza di una sentenza definitiva e, dinanzi al giudice rimettente, si discuterebbe soltanto dell’indebito che scaturisce dall’applicazione di tale regime.

Tali rilievi determinerebbero l’inammissibilità della questione di costituzionalità per difetto di rilevanza.

Il difetto di rilevanza della questione si apprezzerebbe anche da un diverso punto di vista.

Sarebbero ancora controverse tra le parti alcune questioni preliminari, riguardanti la sopravvenuta carenza d’interesse del ricorrente, alla luce della revoca della trattenuta cautelativa sul quinto della pensione, e l’incompetenza del giudice rimettente, che dovrebbe declinare la propria competenza a favore della Corte dei conti centrale, competente in tema di esecuzione di una sentenza passata in giudicato.

Il giudice rimettente sarebbe, peraltro, privo di giurisdizione, in quanto, della questione dell’indebito, già si occuperebbe il giudice ordinario, in sede di opposizione contro il decreto ingiuntivo richiesto e ottenuto dall’istituto previdenziale.

L’accoglimento del gravame, proposto dall’INPS contro la sentenza non definitiva che ha deciso tali questioni, priverebbe di ogni effetto un’eventuale dichiarazione di incostituzionalità.

La questione, inoltre, si presenterebbe «priva di incidentalità», in quanto perseguirebbe l’unico obiettivo di estendere il regime più favorevole di cumulo anche alle pensioni privilegiate ordinarie, senza produrre alcuna incidenza concreta sul provvedimento di recupero dell’indebito previdenziale, sottoposto al vaglio del giudice rimettente.

La questione sarebbe inammissibile, anche per l’incerta o inesatta individuazione delle norme impugnate.

A tale riguardo, l’INPS puntualizza che, nella prospettiva del giudice rimettente, il contrasto con i precetti costituzionali non risiede nelle norme singolarmente considerate, che provvedono ad ampliare i diritti soggettivi degli interessati, ma nella loro vicendevole connessione e nel rapporto con le previsioni dell’art. 67, comma 4, del d.P.R. n. 1092 del 1973 e dell’art. 59, comma 14, della legge n. 449 del 1997.

Il pregiudizio arrecato al ricorrente non discenderebbe, pertanto, dalle norme impugnate, che non menzionano la pensione privilegiata.

La questione sarebbe inammissibile anche sotto un ulteriore profilo.

Il giudice rimettente avrebbe omesso di sperimentare un’interpretazione conforme al dettato costituzionale e, pur dando atto di un orientamento che nega la natura risarcitoria della pensione privilegiata, non avrebbe approfondito le ragioni che precludono un’interpretazione rispettosa dei princìpi di eguaglianza e ragionevolezza.

Quanto all’equiparazione della pensione privilegiata alla pensione d’invalidità, non trarrebbe origine dal censurato art. 72, comma 2, della legge n. 388 del 2000, ma dalla complessa normativa succedutasi nel tempo.

La questione sarebbe comunque infondata.

Il divieto del cumulo integrale tra pensione privilegiata ordinaria e redditi da lavoro autonomo sarebbe il frutto di una scelta discrezionale del legislatore, conforme al canone di ragionevolezza e memore della specificità della pensione privilegiata, beneficio che, dal 1° dicembre 2012, è stato riservato ai soli militari e al solo personale operante nel comparto sicurezza (art. 6 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, recante «Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici», convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214).

Tale specificità varrebbe a dar conto della disciplina differenziata, che il legislatore ha scelto di apprestare per il cumulo con i redditi da lavoro.

Il riconoscimento della pensione privilegiata, difatti, non si presenterebbe come «un beneficio connesso esclusivamente allo status del dipendente militare del tutto svincolato dal presupposto della capacità di servizio», ma si prefiggerebbe di integrare i redditi dell’interessato, «compromessi in ragione della cessata o diminuita capacità lavorativa conseguente alla malattia o all’infortunio».

La ratio del trattamento di favore attribuito dalla legge spiegherebbe anche il peculiare regime di cumulabilità solo parziale tra pensioni privilegiate e redditi da lavoro.

Pertanto, la rimozione del divieto di cumulo tra redditi da lavoro e pensioni di anzianità non renderebbe costituzionalmente doverosa la rimozione del divieto di cumulo anche per le pensioni privilegiate.

3.– Nel giudizio, con memoria dell’8 settembre 2015, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto di rigettare, in quanto infondata, la questione di legittimità costituzionale sollevata del giudice contabile.

Dopo avere ripercorso il contenzioso insorto tra l’INPS e il ricorrente nel giudizio principale e l’evoluzione della disciplina del cumulo tra pensione privilegiata e reddito da lavoro autonomo, la difesa dello Stato ha evidenziato che il tratto distintivo comune alle pensioni privilegiate e alle pensioni d’invalidità è la natura previdenziale, che vale a collocarle, insieme alle pensioni di vecchiaia, sotto l’egida dell’art. 38, secondo comma, Cost.

La pensione di anzianità, evocata dal giudice rimettente come termine di paragone, esulerebbe dall’àmbito di applicazione di tale precetto costituzionale.

La pensione di anzianità, invero, prescinderebbe dal compimento dell’età, avrebbe come esclusivo presupposto lo svolgimento per un tempo predeterminato di un’attività che costituisce l’adempimento del dovere di concorrere al progresso materiale o spirituale della società (art. 4 Cost.).

Non sarebbe irragionevole, pertanto, la scelta di escludere la trasformazione della pensione privilegiata in pensione d’anzianità: l’ordinamento, in virtù della comune natura previdenziale, consentirebbe soltanto la trasformazione d’ufficio della pensione privilegiata in pensione di vecchiaia, quando siano soddisfatti determinati requisiti di assicurazione e contribuzione.

Sarebbe irragionevole consentire all’interessato di godere sia dei benefici della pensione privilegiata, consistenti negli aumenti economici, sia dei benefici connessi alla pensione di anzianità, con particolare riguardo alla facoltà di cumulare la pensione con i redditi da lavoro.

Considerato in diritto

1.– La Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Marche, giudice unico per le pensioni, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 72, comma 2, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2001)» e dell’art. 19 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 6 agosto 2008, n. 133.

1.1.– Il giudice rimettente censura, per violazione dell’art. 3 Cost., il regime delineato dalle disposizioni citate, che accordano il beneficio del cumulo integrale della pensione con il reddito da lavoro autonomo soltanto a chi percepisca una pensione diretta di anzianità (art. 19 del d.l. n. 112 del 2008) e assoggettano il titolare di una pensione privilegiata ordinaria diretta al meno favorevole regime di cumulo, limitato dall’art. 72, comma 2, della legge n. 388 del 2000 alla misura del 70 per cento.

Il giudice rimettente assume che tale regime sia foriero di un’arbitraria disparità di trattamento e sia pregiudizievole per il titolare di una pensione privilegiata ordinaria, che vanti i medesimi requisiti di anzianità di un pensionato che percepisca la pensione di anzianità.

Se il titolare di una pensione privilegiata ordinaria soggiace a una più restrittiva disciplina di cumulo tra pensione e reddito derivante da lavoro autonomo, il titolare di una pensione di anzianità, pur vantando i medesimi requisiti di anzianità del titolare della pensione privilegiata, può giovarsi del più favorevole regime del cumulo integrale.

Tale disparità di trattamento sarebbe lesiva dell’art. 3 Cost., anche sotto il profilo del contrasto con il canone di ragionevolezza, poiché pregiudicherebbe proprio «i cittadini che non solo hanno adempiuto al dovere ex articolo 4, comma 2, Cost. – identicamente ai titolari di pensione d’anzianità […] – ma che proprio a causa del servizio svolto, in favore dello Stato, hanno subìto una menomazione dell’integrità personale».

1.2.– La difesa dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) ha eccepito l’inammissibilità della questione per difetto di rilevanza. Molteplici eccezioni preliminari (il vincolo del giudicato, la carenza di interesse, l’incompetenza e la carenza di giurisdizione del giudice adìto) si rivelerebbero dirimenti e impedirebbero di applicare la disciplina censurata.

La questione sarebbe inammissibile anche in virtù dell’erronea identificazione della normativa applicabile e dell’omessa esplorazione di un’interpretazione adeguatrice.

Nel merito, la questione sarebbe infondata, per l’eterogeneità dei termini posti a raffronto.

La pensione privilegiata, anche per le peculiarità che la contraddistinguono, non potrebbe essere comparata alla pensione di anzianità, con riguardo alla regolamentazione del cumulo con i redditi derivanti da lavoro.

1.3– La difesa del Presidente del Consiglio dei ministri enuncia analoghi rilievi nel senso dell’infondatezza della questione proposta.

2.– Alla soluzione del dubbio di costituzionalità conviene premettere la ricognizione dei tratti salienti della disciplina del cumulo tra pensione e redditi da lavoro.

Con l’art. 19 del d.l. n. 112 del 2008, a decorrere dal 1° gennaio 2009, il legislatore ha rimosso ogni limite al cumulo tra le pensioni dirette di anzianità a carico dell’assicurazione generale obbligatoria e delle forme sostitutive ed esclusive della medesima e i redditi da lavoro autonomo e dipendente.

Le innovazioni apportate nel 2008 lasciano inalterato, per le pensioni privilegiate ordinarie, il regime delineato dall’art. 72, comma 2, della legge n. 388 del 2000. Per le pensioni d’invalidità, eccedenti l’ammontare del trattamento minimo del Fondo pensioni lavoratori dipendenti, è consentito il cumulo con i redditi da lavoro autonomo soltanto nella misura del 70 per cento.

Tale limitazione è destinata ad operare anche per le pensioni privilegiate ordinarie, assimilate ai trattamenti d’invalidità in ragione del comune presupposto della menomazione dell’integrità fisica (Corte dei Conti, sezione giurisdizionale per il Veneto, sentenza 10 giugno 2013, n. 184, Corte dei conti, sezione giurisdizionale per l’Emilia Romagna, sentenza 15 giugno 2012, n. 143, Corte dei conti, sezione giurisdizionale per il Veneto, sentenza 15 giugno 2010, n. 424, con orientamento condiviso anche in sede amministrativa, come emerge dalla nota operativa dell’INPDAP del 28 novembre 2008, n. 45).

L’assimilazione traspare anche dall’art. 6 della legge 12 giugno 1984, n. 222 (Revisione della disciplina della invalidità pensionabile), che racchiude i princìpi per la revisione della disciplina delle invalidità pensionabili e regola in un medesimo contesto «assegno privilegiato di invalidità, pensione privilegiata di inabilità od ai superstiti, per cause di servizio».

3.– Inquadrata in tali coordinate, la questione di legittimità costituzionale si sottrae alle eccezioni di inammissibilità, svolte dalla difesa dell’INPS.

3.1.– L’eccezione di erronea individuazione della norma applicabile, da esaminare in via prioritaria, deve essere disattesa.

La fattispecie controversa riguarda un’ipotesi di cumulo tra pensione privilegiata ordinaria e reddito da lavoro autonomo e, pertanto, le censure si indirizzano correttamente contro l’art. 72, comma 2, della legge n. 388 del 2000, che assoggetta le pensioni privilegiate ordinarie, in quanto equiparate ai trattamenti d’invalidità, a un regime più rigoroso di cumulo con i redditi da lavoro autonomo.

L’art. 19 del d.l. n. 118 del 2008, che tratteggia una disciplina del cumulo integrale tra pensioni di anzianità e redditi da lavoro, viene in rilievo come tertium comparationis.

3.2.– Le considerazioni svolte implicano l’infondatezza dell’ulteriore eccezione di inammissibilità, che fa leva sull’omessa sperimentazione di una interpretazione adeguatrice.

L’inequivocabile tenore letterale della norma, chiamata a disciplinare il cumulo della pensione privilegiata con i redditi da lavoro autonomo, preclude una diversa interpretazione, atta a salvaguardare la compatibilità con i precetti costituzionali richiamati dal giudice rimettente.

Sulla praticabilità di tale diversa interpretazione, la stessa difesa dell’INPS non offre ragguagli di sorta.

3.3.–. La questione non può dirsi irrilevante, sul mero presupposto che siano ancora sub iudice alcuni profili pregiudiziali (carenza d’interesse del ricorrente, difetto di giurisdizione e di competenza del giudice adìto, vincolo del giudicato), potenzialmente preclusivi dell’esame del merito e decisi dal giudice rimettente con sentenza non definitiva, impugnata da entrambe le parti del giudizio principale.

Il giudice a quo, con motivazione non implausibile, ha ritenuto di avere cognizione sulla domanda di annullamento proposta dal ricorrente, riconoscendone la legittimazione e l’interesse a impugnare, dinanzi al giudice contabile, un atto lesivo dei diritti previdenziali.

Il giudice contabile, difatti, è deputato a decidere sui «ricorsi pensionistici civili, militari e di guerra», come oggi conferma anche il nuovo assetto della giustizia contabile definito dall’art. 151 del decreto legislativo 26 agosto 2016, n. 174 (Codice di giustizia contabile, adottato ai sensi dell’articolo 20 della legge 7 agosto 2015, n. 124). 

Non sussiste, dunque, alcun palese difetto di giurisdizione, idoneo a riverberarsi, in radice, sulla rilevanza della questione di costituzionalità.

Non è decisivo in senso contrario il fatto che, delle pretese restitutorie dell’INPS, si discuta anche nel giudizio di opposizione, promosso dal ricorrente contro il decreto ingiuntivo emesso a favore dell’istituto.

Tale contemporanea pendenza di giudizi non priva il giudice contabile della cognizione, che gli è istituzionalmente riservata, sul rapporto previdenziale che intercorre tra le parti.

Quanto alla competenza della Corte dei conti marchigiana, negata dalla difesa dell’INPS, non può ritenersi implausibile la valutazione del giudice rimettente, che ha escluso di poter configurare il giudizio principale come un giudizio di mera esecuzione di una decisione già passata in giudicato, giudizio demandato alla Corte dei conti centrale (art. 10 della legge 21 luglio 2000, n. 205, recante «Disposizioni in materia di giustizia amministrativa»).

Si tratta di un profilo indissolubilmente connesso con quello dell’efficacia preclusiva del giudicato, che la difesa dell’INPS ha posto in risalto, rilevando che la fondatezza della pretesa restitutoria è consacrata da una statuizione oramai intangibile.

Tale definitività renderebbe irrilevante la questione di costituzionalità delle norme censurate, che il giudice rimettente, vincolato dal giudicato, non sarebbe più chiamato ad applicare.

L’eccezione non coglie nel segno.

Il giudice a quo, nel passare in rassegna gli antecedenti della vertenza, afferma che il ricorrente nel giudizio principale ha impugnato la nota dell’INPDAP del 17 ottobre 2004, che ha accertato un indebito, per il periodo dal 1° luglio 2004 al 30 novembre 2004, ritenendo applicabili i limiti di cumulabilità parziale tra pensione e reddito da lavoro autonomo, allora fissati nella misura del 50 per cento nella vigenza dell’art. 59, comma 14, della legge 27 dicembre 1997, n. 449 (Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica).

La Corte dei conti, con sentenza n. 700 del 24 ottobre 2013, assistita dell’autorità del giudicato, ha accertato la correttezza dell’operato dell’ente previdenziale e ha disatteso gli argomenti del ricorrente, che propugnava l’applicazione di un regime di cumulo integrale.

L’INPS, succeduto nel frattempo all’INPDAP, dopo aver ottenuto tale accertamento favorevole, ha emesso una nuova nota, il 26 maggio 2014, richiedendo al ricorrente il recupero delle somme indebitamente corrisposte dal 1° gennaio 2001 al 30 giugno 2014.

Quest’ultima nota è stata impugnata nel giudizio, che ha dato origine all’odierna questione di legittimità costituzionale.

Il giudice rimettente ha indicato che l’accertamento definitivo, invocato dall’INPS, riguarda un periodo più circoscritto (1° luglio-30 novembre 2004) rispetto a quello, invero più ampio, esaminato nel nuovo giudizio (1° gennaio 2001-30 giugno 2014).

Secondo il giudice rimettente, su tale giudizio incide la normativa sopravvenuta del d.l. n. 112 del 2008, idonea a rappresentare un apprezzabile elemento di discontinuità.

A prescindere dalla fondatezza di tali rilievi, che non compete a questa Corte scrutinare, anche alla luce della problematica incidenza del giudicato sui rapporti di durata, si deve osservare che il giudice rimettente ha enucleato alcuni elementi, come la diversità dei periodi considerati nei due giudizi e le sopravvenienze normative posteriori al giudicato, in astratto suscettibili di escludere l’efficacia vincolante del precedente accertamento irrevocabile.

Pertanto, anche con riguardo al vincolo del giudicato, questa Corte non può sostituire la propria valutazione di rilevanza a quella già formulata dal giudice a quo, sorretta da argomenti non arbitrari e cristallizzata in una sentenza non definitiva.

4.– La questione non è fondata.

5.– La disciplina, sottoposta al vaglio di costituzionalità, si inscrive in un contesto normativo quanto mai mutevole, che ha registrato l’avvicendarsi di interventi di segno diverso, ora in chiave limitativa del cumulo tra pensioni e redditi da lavoro, ora nella direzione di un progressivo superamento dei limiti originariamente imposti.

Nel cimentarsi con le disparate discipline succedutesi nel tempo, questa Corte ha affermato a più riprese che la sussistenza di un’altra fonte di reddito può giustificare una diminuzione del trattamento pensionistico (sentenza n. 197 del 2010), in quanto «la funzione previdenziale della pensione non si esplica, o almeno viene notevolmente ridotta, quando il lavoratore si trovi ancora in godimento di un trattamento di attività» (sentenza n. 275 del 1976).

Il pensionato che continua a lavorare «pone in essere una condotta che, da un lato, può avere rilievo ai fini di una riliquidazione della pensione, dall’altro consente al legislatore di tener conto del conseguente guadagno e della diminuzione del suo stato di bisogno» (sentenza n. 30 del 1976).

Tali restrizioni, che non si pongono di per sé in contrasto con la tutela che la Carta fondamentale accorda al diritto al lavoro (sentenze n. 416 del 1999 e n. 155 del 1969), prestano il fianco a censure d’incostituzionalità quando implichino una sostanziale decurtazione del complessivo trattamento pensionistico, senza stabilire il limite minimo dell’emolumento dell’attività esplicata, oltre il quale la decurtazione diviene operante (sentenze n. 232 del 1992, n. 204 del 1992 e n. 566 del 1989).

La regolamentazione del cumulo tra pensioni e redditi da lavoro interferisce con molteplici valori di rango costituzionale, come il diritto al lavoro (art. 4 Cost.), il diritto a una prestazione previdenziale proporzionata all’effettivo stato di bisogno (art. 38, secondo comma, Cost.), la solidarietà tra le diverse generazioni che interagiscono nel mercato del lavoro (art. 2 Cost.), in una prospettiva volta a garantirne un equo ed effettivo accesso alle opportunità di occupazione che si presentano.

Spetta alla discrezionalità del legislatore bilanciare i diversi valori coinvolti, in un contesto di molteplici variabili di politica sociale ed economica, e modulare la concreta disciplina del cumulo, in armonia con i princìpi di eguaglianza e di ragionevolezza.

6.– Da tali princìpi il legislatore, nel caso di specie, non si è discostato.

Le censure del giudice rimettente si appuntano contro il difforme trattamento riservato ai titolari di pensione privilegiata ordinaria rispetto ai titolari di pensione di anzianità, con riguardo al cumulo tra pensione e reddito da lavoro.

Le censure investono, in particolare, l’equiparazione tra pensione privilegiata ordinaria e trattamenti d’invalidità (punto 3. dell’ordinanza di rimessione), che preclude l’integrale cumulabilità tra pensione e redditi da lavoro, oggi sancita per le pensioni di anzianità.

6.1.– Le censure, in tutti i profili in cui si articolano, non sono fondate.

Esse muovono da una premessa – omogeneità tra pensione privilegiata ordinaria e pensione di anzianità – che non trova alcun riscontro nel dato normativo e nella elaborazione della giurisprudenza costituzionale.

La pensione di anzianità si atteggia come «un beneficio concesso al lavoratore» (sentenza n. 155 del 1969), che prescinde dal raggiungimento dell’età pensionabile e postula il «mero avvenuto svolgimento dell’attività stessa per un tempo predeterminato» (sentenza n. 416 del 1999). La pensione privilegiata ordinaria è ancorata a eventi dannosi (ferite, lesioni o infermità), provocati da una causa di servizio, e consegue alla cessazione del rapporto di impiego per inabilità permanente al servizio.

L’art. 67, quarto comma, del decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1092 (Approvazione del testo unico delle norme sul trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato) prevede che, quando sia raggiunto il requisito di quindici anni di servizio utile, accompagnati a dodici di servizio effettivo, la pensione privilegiata ordinaria sia liquidata nella misura prevista per la pensione normale, accresciuta di un correttivo economico, determinato nella misura di un decimo.

La natura di “retribuzione differita”, che accomuna pensioni privilegiate ordinarie e pensioni di anzianità, non rende costituzionalmente obbligata una equiparazione di tali trattamenti agli effetti della disciplina del cumulo, né rileva la considerazione dell’eventuale coincidenza dei requisiti di anzianità, elemento sprovvisto di valenza significativa nell’àmbito di una regolamentazione incentrata sulle peculiarità delle singole prestazioni previdenziali.

Invero, l’auspicata parificazione tra pensione privilegiata ordinaria e pensione di anzianità, agli effetti dell’applicazione di un cumulo integrale, non può derivare dalla circostanza, del tutto accidentale, che il titolare di pensione privilegiata ordinaria abbia tutti i requisiti per accedere anche alla pensione di anzianità.

Quando il dipendente abbia raggiunto l’anzianità di servizio minima per il riconoscimento della pensione e subisca per fatti di servizio una menomazione dell’integrità personale, ha diritto alla sola pensione privilegiata, che assorbe e integra l’importo dell’altro trattamento di quiescenza (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 27 gennaio 1993, n. 987), sostituendo o eventualmente anticipando quest’ultimo trattamento (Corte dei conti, sezioni riunite, sentenza 17 giugno 2005, n. 2).

In virtù di tali caratteristiche, viene meno l’obbligo dello Stato di farsi carico della costituzione di una posizione assicurativa presso l’INPS, nei termini disciplinati dall’art. 124 del d.P.R. n. 1092 del 1973, che subordina la medesima costituzione all’assenza del diritto a pensione per mancanza della necessaria anzianità di servizio.

Tali particolarità impediscono di accostare in chiave comparativa le pensioni privilegiate ordinarie e le pensioni di anzianità, sulla scorta del mero requisito dell’identica anzianità del lavoratore. 

6.2.– Il legislatore ha prefigurato un regime di particolare favore per le pensioni privilegiate, ricondotte da questa Corte alla categoria dei “trattamenti speciali di quiescenza” (sentenza n. 428 del 1993), rimarcando la peculiarità dei trattamenti privilegiati rispetto alle pensioni di anzianità. Tanto basta per escludere il raffronto tra le due prestazioni, nella prospettiva della disciplina del cumulo tra pensioni e redditi da lavoro.

La ragionevolezza del punto di equilibrio, individuato dal legislatore, è avvalorata da molteplici elementi.

La scelta del legislatore è di apprestare, per pensioni privilegiate ordinarie e trattamenti di invalidità, una disciplina omogenea in termini di cumulo con i redditi da lavoro.

L’uniformità della disciplina, definita incongrua dal giudice rimettente, è invece in consonanza con il comune presupposto delle due prestazioni, consistente nella lesione dell’integrità fisica, e rispecchia la ratio della pensione privilegiata, che si configura come “una sorta di riparazione”, conseguente al danno alla persona riportato per infermità contratte in relazione al servizio prestato (sentenza n. 43 del 2015).

Questo regime si fonda sul presupposto che lo svolgimento di un’attività produttiva di reddito denota una diminuzione dello stato di bisogno, tutelato dall’art. 38, secondo comma, Cost. (sentenza n. 30 del 1976).

Con particolare riguardo alla pensione privilegiata ordinaria, i benefici riconosciuti dal legislatore, anche in termini di incremento della pensione corrisposta, valgono a compensare la riduzione della capacità di produrre reddito, derivante dall’infermità contratta a causa di servizio, e hanno il loro contrappeso nelle limitazioni al cumulo tra pensioni e redditi da lavoro.

Peraltro, la libertà di cumulo si attesta sul 70 per cento, misura che non rappresenta un intralcio sproporzionato al diritto di svolgere un lavoro dopo la pensione.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 72, comma 2, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2001) e dell’art. 19 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 6 agosto 2008, n. 133, sollevata dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Marche, giudice unico delle pensioni, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 ottobre 2016.

F.to:

Paolo GROSSI, Presidente

Silvana SCIARRA, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria l'11 novembre 2016.