Ordinanza n. 99 del 2016

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ORDINANZA N. 99

ANNO 2016

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-           Paolo                           GROSSI                                       Presidente

-           Giuseppe                     FRIGO                                            Giudice

-           Alessandro                  CRISCUOLO                                       ”

-           Giorgio                        LATTANZI                                           ”

-           Aldo                            CAROSI                                                ”

-           Marta                           CARTABIA                                          ”

-           Mario Rosario              MORELLI                                             ”

-           Giancarlo                     CORAGGIO                                         ”

-           Giuliano                       AMATO                                                ”

-           Silvana                         SCIARRA                                             ”

-           Daria                            de PRETIS                                            ”

-           Nicolò                          ZANON                                                ”

-           Franco                         MODUGNO                                         ”

-           Augusto Antonio       BARBERA                                           ”

-           Giulio                          PROSPERETTI                                     ”

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 25, della legge 6 novembre 2012, n. 190 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione), e dell’art. 241, comma 1, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE), come sostituito dall’art. 1, comma 19, della legge n. 190 del 2012, promosso dal Collegio arbitrale di Palermo nel procedimento vertente tra Runfola Antonio e altri e l’Azienda ospedaliera di Rilievo Nazionale e Alta Specializzazione “Civico – Di Cristina – Benfratelli”, con ordinanza del 6 luglio 2015, iscritta al n. 238 del registro ordinanze 2015 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 46, prima serie speciale, dell’anno 2015.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 6 aprile 2016 il Giudice relatore Daria de Pretis.

Ritenuto che, con ordinanza del 6 luglio 2015, il Collegio arbitrale costituito in Palermo per la risoluzione della controversia insorta tra Antonio Runfola e altri e l’Azienda ospedaliera di Rilievo Nazionale e Alta Specializzazione “Civico – Di Cristina – Benfratelli” (ARNAS), ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 25, della legge 6 novembre 2012, n. 190 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione), in riferimento agli artt. 3, 24, 25, 41, 108 e 111 della Costituzione, nonché dell’art. 241, comma 1, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE), come sostituito dall’art. 1, comma 19, della legge n. 190 del 2012, in riferimento agli artt. 3, 24, 25, 41, 102 e 111 Cost.;

che la questione è sorta nel corso di un giudizio arbitrale relativo al pagamento dei compensi per l’attività di progettazione, direzione, misura e contabilità dei lavori di ristrutturazione del padiglione di chirurgia generale dell’ARNAS, oggetto del contratto (cosiddetto «disciplinare di incarico») stipulato il 13 giugno 2000;

che il giudizio è stato promosso da alcuni professionisti incaricati dell’opera, che si sono avvalsi della clausola compromissoria prevista dall’art. 17 del contratto, a tenore del quale «[t]utte le controversie che possano sorgere relativamente alla liquidazione dei compensi previsti dalla presente convenzione e non definite in via amministrativa saranno, nel termine di 30 giorni da quello in cui fu notificato il provvedimento amministrativo, deferite ad un collegio arbitrale costituito da tre membri, di cui uno scelto dall’Amministrazione tra gli Avvocati dello Stato o designato dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati con la qualifica di avvocato, uno dai professionisti ed il terzo da designarsi d’intesa tra le parti o, in mancanza, dal Presidente del Tribunale competente»;

che, dopo avere descritto nel dettaglio lo svolgimento del processo principale, il giudice a quo espone in via preliminare che l’arbitrato per il quale è causa è stato «conferito» dopo l’entrata in vigore della legge n. 190 del 2012 – sia pure sulla base di una clausola compromissoria pattuita anteriormente –, atteso che gli arbitri sono stati nominati nel 2013, e che non è intervenuta alcuna autorizzazione dell’ARNAS;

che il rimettente osserva che la parte pubblica ha adottato nel processo principale atti e comportamenti «concludenti», che manifesterebbero in modo univoco la sua volontà di deferire ad arbitri la controversia e di proseguire il giudizio arbitrale, quali la nomina dell’arbitro, la nomina del difensore, il conferimento della procura ad litem, la «condivisione» nell’individuazione del presidente del collegio arbitrale, la nomina del consulente tecnico di parte, l’autorizzazione alla testimonianza di un proprio tecnico;

che, a suo avviso, un’interpretazione delle disposizioni contenute nell’art. 1, commi 19 e 25, della legge n. 190 del 2012 che attribuisca carattere «tassativo» all’autorizzazione espressa degli arbitrati in materia di contratti pubblici e neghi rilievo giuridico a evidenti e univoche manifestazioni della volontà dell’amministrazione di conferire e di «coltivare» l’arbitrato, si esporrebbe ai dubbi di costituzionalità già scrutinati nella sentenza n. 108 del 2015, con la quale la Corte ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale delle stesse norme, sollevata da un altro collegio arbitrale in una fattispecie analoga;

che secondo il rimettente tale sentenza, emessa nelle more della decisione arbitrale, non sarebbe risolutiva dei dubbi ora sollevati, giacché non riguarderebbe il profilo della compatibilità dell’indicata interpretazione normativa con i medesimi parametri costituzionali invocati nel precedente giudizio;

che le norme denunciate determinerebbero retroattivamente l’inefficacia, in assenza di autorizzazione, delle clausole compromissorie pattuite prima dell’entrata in vigore della legge n. 190 del 2012, rimettendo così alla parte pubblica il potere di decidere sull’accesso alla giurisdizione arbitrale, «pur di fronte all’adozione di atti e comportamenti univoci nel senso di convenire [sic] in arbitri la controversia»;

che, inerendo la questione all’ammissibilità dell’arbitrato nella controversia principale, ne sarebbe certa la rilevanza rispetto alla definizione della lite, attesa la sua natura pregiudiziale;

che, nel merito, il rimettente dubita innanzitutto della legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 25, della legge n. 190 del 2012, per violazione degli artt. 3, 24, 25, 41, 108 e 111 Cost., in quanto la norma contrasterebbe con il principio di certezza e di stabilità dell’ordinamento giuridico, con la libertà di iniziativa economica, con l’autonomia negoziale e con la tutela che la Costituzione assicura all’istituto dell’arbitrato;

che la lesione sarebbe «peraltro rafforzata dalla circostanza secondo la quale, nel caso di specie, la novella del 2012 (…) imporrebbe di considerare irrilevanti atti e comportamenti processuali adottati dalla p.a. in spregio ai principi di proporzionalità e parità delle parti nel processo»;

che, inoltre, la norma distoglierebbe le parti dal giudice naturale contrattualmente individuato, con ulteriore violazione degli artt. 24, 25 e 111 Cost.;

che l’art. 241, comma 1, del d.lgs. n. 163 del 2006, come sostituito dall’art. 1, comma 19, della legge n. 190 del 2012 contrasterebbe a sua volta, in primo luogo, con gli artt. 3 e 111 Cost., perché attribuirebbe alla pubblica amministrazione il potere di autorizzare il ricorso all’arbitrato e ciò si risolverebbe in un vero e proprio privilegio processuale «vincolato a soli profili formali (l’ineludibilità dell’autorizzazione motivata)», tale da pregiudicare i principi di parità delle parti nel processo, di economicità dei mezzi processuali e di garanzia della tutela giurisdizionale;

che la norma violerebbe, inoltre, l’art. 3 Cost. per la disparità di trattamento normativo – che ne deriverebbe – degli arbitrati in materia di contratti pubblici rispetto a quelli disciplinati dal codice di rito civile;

che, con atto depositato nella cancelleria di questa Corte il 1° dicembre 2015, è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per l’infondatezza della questione;

che, a sostegno della sua richiesta, la difesa dello Stato richiama il precedente costituito dalla sentenza n. 108 del 2015, osservando che le statuizioni in essa contenute, con le quali è stata esclusa l’illegittimità delle medesime disposizioni, dovrebbero valere anche nel presente giudizio.

Considerato che il Collegio arbitrale di Palermo dubita della legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 25, della legge 6 novembre 2012, n. 190 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione), in riferimento agli artt. 3, 24, 25, 41, 108 e 111 della Costituzione, e dell’art. 241, comma 1, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE), come sostituito dall’art. 1, comma 19, della legge n. 190 del 2012, in riferimento agli artt. 3, 24, 25, 41, 102 e 111 Cost.;

che, con la sentenza n. 108 del 2015, questa Corte ha già positivamente scrutinato la legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 25, della legge n. 190 del 2012, in relazione ai medesimi parametri invocati da un altro collegio arbitrale in una fattispecie analoga e in base a censure sostanzialmente identiche;

che tali censure sono state disattese in quanto «[l]o ius superveniens consistente nel divieto di deferire le controversie ad arbitri senza una preventiva e motivata autorizzazione non ha l’effetto di rendere nulle in via retroattiva le clausole compromissorie originariamente inserite nei contratti, bensì quello di sancirne l’inefficacia per il futuro, in applicazione del principio, espresso dalla costante giurisprudenza di legittimità, secondo il quale la nullità di un contratto o di una sua singola clausola, prevista da una norma limitativa dell’autonomia contrattuale che sopravvenga nel corso di esecuzione di un rapporto, incide sul rapporto medesimo, non consentendo la produzione di ulteriori effetti, sicché il contratto o la sua singola clausola si devono ritenere non più operanti»;

che – prosegue la sentenza n. 108 del 2015 – «[n]on si pone conseguentemente alcun problema di retroattività della norma censurata o di ragionevolezza della supposta deroga all’art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale»;

 che questa Corte, pertanto, ha già ritenuto infondato il presupposto, «comune a tutte le censure, secondo il quale la norma attribuirebbe efficacia retroattiva al divieto di arbitrato senza preventiva autorizzazione»;

che il Collegio rimettente si sforza di declinare le censure in una prospettiva diversa e più limitata – secondo la quale la norma renderebbe inefficaci le preesistenti clausole compromissorie anche nel caso in cui l’amministrazione avesse tacitamente manifestato l’univoca volontà di ricorrere all’arbitrato, mediante comportamenti «concludenti» –, tentando di riproporre per la via di una particolare interpretazione della norma stessa la questione della sua costituzionalità, già sottoposta al vaglio di questa Corte;

che il tentativo appare vano, dal momento che le ragioni del lamentato contrasto con i parametri costituzionali indicati muovono dallo stesso presupposto, già disatteso, che il comma 25 faccia retroagire il divieto di arbitrato senza preventiva autorizzazione;

che, sotto questo determinante e assorbente profilo, il thema decidendum del giudizio costituzionale e i motivi di censura non sono sostanzialmente mutati rispetto al caso precedente, sicché non sono ravvisabili ragioni che inducano a una diversa decisione;

che, con la richiamata sentenza n. 108 del 2015, questa Corte ha già scrutinato la legittimità anche dell’art. 241, comma 1, con riferimento agli stessi parametri invocati dal Collegio rimettente e per analoghe violazioni, delle quali ha escluso l’esistenza;

che, dopo avere ricordato il proprio costante orientamento secondo il quale il legislatore sicuramente gode di discrezionalità nell’individuare le materie sottratte alla possibilità di compromesso, con il solo limite della manifesta irragionevolezza, questa Corte ha affermato che, «[a] maggior ragione, la scelta discrezionale del legislatore di subordinare a una preventiva e motivata autorizzazione amministrativa il deferimento ad arbitri delle controversie derivanti dall’esecuzione dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi, forniture, concorsi di progettazione e di idee, non è manifestamente irragionevole, configurandosi come un mero limite all’autonomia contrattuale, la cui garanzia costituzionale non è incompatibile con la prefissione di limiti a tutela di interessi generali (ordinanza n. 11 del 2003)»;

che nella stessa sentenza n. 108 del 2015 è stato precisato, altresì, che le medesime esigenze di contenimento dei costi delle controversie e di tutela degli interessi pubblici coinvolti, già considerate meritevoli di protezione in sede di scrutinio dei divieti normativi di ricorrere all’arbitrato, «valgono anche in questa materia, nella quale a tali esigenze si accompagna la generale finalità di prevenire l’illegalità della pubblica amministrazione», a cui «è dichiaratamente ispirata la censurata previsione della legge n. 190 del 2012, che non esprime un irragionevole sfavore per il ricorso all’arbitrato, come sostiene il rimettente, ma si limita a subordinare il deferimento delle controversie ad arbitri a una preventiva autorizzazione amministrativa che assicuri la ponderata valutazione degli interessi coinvolti e delle circostanze del caso concreto»;

che nemmeno la mancata equiparazione tra assenso tacito e autorizzazione espressa, di cui si duole specificamente il Collegio arbitrale a quo, incorre nel vizio di manifesta irragionevolezza, giacché solo la espressa preventiva autorizzazione motivata è in grado di assicurare – a differenza dell’assenso tacito – che la scelta dell’amministrazione di deferire ad arbitri le controversie relative ai contratti pubblici sia il risultato della «ponderata valutazione degli interessi coinvolti e delle circostanze del caso concreto», e la stessa prescritta motivazione dell’autorizzazione, diretta a garantire pubblicità e trasparenza alle ragioni della scelta dell’amministrazione di avvalersi dell’arbitrato, esclude che possa essere assegnato a un comportamento concludente valore equivalente all’autorizzazione espressa;

che, alla luce di queste considerazioni, il fatto che la norma denunciata richieda l’autorizzazione motivata e non conceda spazio a quella tacita non introduce alcuna novità rispetto ai motivi di censura, già disattesi dalla richiamata sentenza n. 108 del 2015, concernenti la lesione del principio di parità delle parti nel processo e la disparità di trattamento fra arbitrati in materia di contratti pubblici e arbitrati di diritto comune, sicché neppure sotto tale profilo sono ravvisabili ragioni per discostarsi dalla decisione precedentemente assunta;

che, pertanto, le questioni sollevate devono essere dichiarate manifestamente infondate.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 25, della legge 6 novembre 2012, n. 190 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione), in riferimento agli artt. 3, 24, 25, 41, 108 e 111 della Costituzione, e dell’art. 241, comma 1, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE), come sostituito dall’art. 1, comma 19, della legge n. 190 del 2012, in riferimento agli artt. 3, 24, 25, 41, 102 e 111 Cost., sollevate dal Collegio arbitrale di Palermo, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 aprile 2016.

F.to:

Paolo GROSSI, Presidente

Daria de PRETIS, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 6 maggio 2016.