Sentenza n. 237 del 2015

 CONSULTA ONLINE 

 

SENTENZA N. 237

ANNO 2015

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

- Alessandro                  CRISCUOLO                                  Presidente

- Giuseppe                     FRIGO                                               Giudice

- Paolo                           GROSSI                                                   ”

- Giorgio                        LATTANZI                                              ”

- Aldo                            CAROSI                                                   ”

- Marta                           CARTABIA                                             ”

- Mario Rosario              MORELLI                                                ”

- Giancarlo                     CORAGGIO                                            ”

- Giuliano                       AMATO                                                   ”

- Silvana                         SCIARRA                                                ”

- Daria                            de PRETIS                                               ”

- Nicolò                          ZANON                                                   ”

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 76, comma 2, e 92 del decreto legislativo 30 maggio 2002, n. 113 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di spese di giustizia – Testo B), come riprodotti nel decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia – Testo A), promosso dal Tribunale regionale di giustizia amministrativa di Trento nel procedimento vertente tra H.B. e la Comunità della Vallagarina con ordinanza del 6 novembre 2014, iscritta al n. 257 del registro ordinanze 2014 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 4, prima serie speciale, dell’anno 2015.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 21 ottobre 2015 il Giudice relatore Paolo Grossi.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 6 novembre 2014, il Tribunale regionale di giustizia amministrativa di Trento solleva, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 24, primo e terzo comma, e 113, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 76, comma 2, e 92 del decreto legislativo 30 maggio 2002, n. 113 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di spese di giustizia – Testo B), «riprodotti» nel d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia – Testo A).

Premette il giudice rimettente di essere stato investito del ricorso proposto da un cittadino straniero avverso la determinazione con la quale l’ente territorialmente competente in materia di edilizia abitativa aveva disposto l’esclusione del medesimo dalla graduatoria per l’assegnazione di alloggio pubblico, avendo l’interessato rinunciato alla locazione dell’appartamento offertogli in assegnazione, per ritenerne disagevole l’ubicazione.

All’atto della proposizione del ricorso, il ricorrente aveva anche presentato richiesta di ammissione al patrocinio a spese dello Stato a norma del predetto d.P.R. n. 115 del 2002, ma la Commissione istituita ai sensi dell’art. 14 dell’Allegato 2 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo) «per deliberare in via provvisoria ed anticipata su tali richieste» aveva respinto l’istanza per mancanza del requisito del reddito. La domanda veniva, dunque, riproposta al Tribunale amministrativo rimettente, il quale, dopo ampia disamina del requisito della non manifesta infondatezza della richiesta di annullamento posta a base del ricorso, pur dichiarandosi «consapevole che l’interpretazione proposta dal ricorrente è d’incerta sostenibilità», reputava che le censure proposte non fossero manifestamente infondate, e cioè non fossero «inconciliabili, già ad un primo sommario esame, con fondamentali principi dell’ordinamento giuridico, regole esegetiche e di esperienza comunemente acquisite, o con la documentazione depositata in giudizio».

Quanto, invece, al richiesto requisito reddituale, il relativo presupposto difetterebbe nel caso di specie. Stabilisce, infatti, l’art. 76, comma 2, del d.P.R. n. 115 del 2002 che, salvo quanto previsto dall’art. 92, ove l’istante conviva con il coniuge o con altri familiari, il reddito degli stessi si cumula con quello del richiedente; a sua volta, però, il richiamato art. 92 – il quale trova collocazione nel titolo relativo alle disposizioni del patrocinio a spese dello Stato nel processo penale – stabilisce che, ove l’interessato conviva con il coniuge o con altri familiari, il limite di reddito per essere ammessi al beneficio viene elevato di euro 1.032,91 per ognuno dei familiari conviventi.

Alla stregua di tali disposizioni, la domanda del ricorrente, tenuto conto della sua situazione familiare, andrebbe, dunque, respinta, dal momento che il reddito del richiedente supera la soglia prevista dal comma 1 dell’art. 76 e non può essere elevata per i familiari conviventi, secondo quanto previsto per il solo processo penale; nell’ipotesi invece dell’indicata maggiorazione anche fuori dal processo penale, la domanda andrebbe accolta.

Osserva il Tribunale rimettente che l’art. 74 del citato d.P.R. differenzia il processo penale dagli altri tipi di giudizio ma solo ai fini, per questi ultimi, della delibazione della non manifesta infondatezza della domanda, mantenendo equivalente la condizione di “non abbiente” per tutti i tipi di procedimento. Il combinato disposto degli artt. 76 e 92 romperebbe, invece, l’equilibrio tra i diversi processi, giacché soltanto per il processo penale il numero dei familiari conviventi concorre ad elevare la soglia del reddito ai fini della ammissibilità del beneficio.

L’introduzione di soglie reddituali differenziate a seconda del tipo di processo sarebbe, quindi, priva di ragionevole giustificazione, in quanto «la condizione di non abbienza è un dato economico oggettivo, che è stato stabilito in via generale dal legislatore, nella sua discrezionalità, e viene poi adeguato “in relazione alla variazione, accertata dall’ISTAT, dell’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati, verificatasi nel biennio precedente” (art. 77 d.lgs. 115/02)».

In tal modo, la disciplina censurata si porrebbe in contrasto con l’art. 24, terzo comma, Cost., il quale fa riferimento ad una generica condizione di non abbienza senza distinzione tra i tipi di giudizio, e con l’art. 3 Cost., in quanto il rito processuale diverso non giustifica un diverso trattamento, essendo unica la finalità di tutela giudiziale sancita dall’art. 24, primo comma, Cost., che in tal modo verrebbe ad essere frustrata.

La disciplina contestata risulterebbe anche irragionevole, in quanto non assegnerebbe rilevanza ai conviventi privi di reddito per i processi diversi da quello penale, determinando un’ulteriore incongruenza – peraltro non rilevante nel giudizio a quo – rappresentata dal diverso regime stabilito per la stessa situazione risarcitoria, a seconda che venga fatta valere mediante costituzione di parte civile nel processo penale ovvero in separato giudizio civile o amministrativo.

2.– Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, la quale ha chiesto una pronuncia di manifesta inammissibilità e comunque di infondatezza.

La questione sarebbe inammissibile per carenza di motivazione sulla rilevanza, mentre nel merito essa sarebbe infondata, dal momento che il processo penale coinvolge il bene prezioso della libertà personale.

Trattandosi, poi, di provvidenze che incidono sulla finanza pubblica, la relativa misura sarebbe riservata alle scelte del legislatore, le quali, nella specie, risulterebbero rispettose del canone della ragionevolezza.

In prossimità dell’udienza, l’Avvocatura generale ha depositato una memoria per insistere nelle richieste formulate.

Si è, in particolare, osservato come le norme denunciate trovino un precedente negli artt. 3, comma 2, e 15-ter della legge 30 luglio 1990, n. 217 (Istituzione del patrocinio a spese dello Stato per i non abbienti) e rientrino nella piena discrezionalità del legislatore, non apparendo né irragionevoli né lesive del principio di parità di trattamento.

Considerato in diritto

1.– Nel corso di un procedimento promosso da un cittadino straniero avverso la determinazione con la quale l’ente territoriale competente in materia di edilizia abitativa agevolata aveva disposto l’esclusione del medesimo dall’apposita graduatoria per l’assegnazione di alloggio pubblico, avendo l’interessato rinunciato alla locazione dell’appartamento offertogli in assegnazione, il Tribunale regionale di giustizia amministrativa di Trento ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 24, primo e terzo comma, e 113, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 76, comma 2, e 92 del decreto legislativo 30 maggio 2002, n. 113 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di spese di giustizia – Testo B), «riprodotti» nel d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia – Testo A), nella parte in cui viene stabilita, soltanto per il processo penale, la regola in forza della quale, ove l’interessato conviva con il coniuge o con altri familiari, i limiti di reddito annui per l’ammissione al beneficio sono aumentati di euro 1.032,91.

Rileva in proposito il giudice a quo che lo stesso interessato aveva presentato richiesta di ammissione al patrocinio a spese dello Stato all’apposita Commissione, di cui all’art. 14 dell’Allegato 2 al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo), la quale richiesta era stata respinta per mancanza del requisito reddituale: sicché, il ricorrente aveva provveduto a riproporla davanti allo stesso Tribunale, «sollevando anche espliciti dubbi sulla costituzionalità della disciplina».

Nel delibare, pertanto, la legittimità costituzionale di tale disciplina, il Tribunale rileva come il legislatore abbia stabilito che, agli effetti dell’ammissione al beneficio e per tutti i tipi di procedimento, concorrono alla determinazione del reddito “limite”, insieme a quello dell’interessato, anche i redditi conseguiti nel medesimo periodo da ogni componente della famiglia; e che, tuttavia, per il solo processo penale, i limiti di reddito «sono elevati di euro 1.032,91 per ognuno dei familiari conviventi».

L’avere il legislatore previsto, quindi, limiti di reddito computati secondo meccanismi diversi a seconda del tipo di processo costituirebbe una scelta priva di ragionevole giustificazione, in quanto lo status di non abbienza si fonderebbe su una situazione di ordine economico e di natura oggettiva, stabilita in via generale dallo stesso legislatore e adeguato in relazione alle variazioni dei prezzi.

Da ciò scaturirebbe, ad un tempo, la violazione degli artt. 24, terzo comma, e 3 Cost., in quanto, essendo la condizione di non abbienza comune a tutti i processi ed essendo unica l’esigenza di assicurare il diritto di difesa, la diversità del rito processuale non giustificherebbe il diverso regime che scaturisce dalle disposizioni oggetto di censura.

2.– La questione non è fondata.

2.1.– La disciplina del patrocinio a spese dello Stato per i non abbienti risulta assoggettata, sin dal suo esordio, ad un regime differenziato a seconda del tipo di controversie cui il beneficio sia applicabile, con una sorta di summa divisio tra processo penale e altri tipi di giudizio.

La legge 30 luglio 1990, n. 217 (Istituzione del patrocinio a spese dello Stato per i non abbienti), istitutiva, per l’appunto, del patrocinio a spese dello Stato per i non abbienti, venne emanata, come è noto, a ridosso dell’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale e fu motivata, essenzialmente, dall’intento di soddisfare le esigenze che da esso scaturivano, in considerazione del nuovo e tendenzialmente accresciuto impegno difensivo che un modello di processo di tipo accusatorio naturalmente presupponeva.

La relativa disciplina prevedeva, infatti, il patrocinio a spese dello Stato solo in riferimento al processo penale (con l’esclusione, peraltro, dei procedimenti concernenti le contravvenzioni, oltre che quelli relativi a reati fiscali: art. 1, commi 8 e 9). Nei procedimenti civili, il beneficio era, invece, previsto solo per il risarcimento dei danni e le restituzioni derivanti da reato, «sempreché le ragioni del non abbiente risultino non manifestamente infondate» (art. 1, comma 2). Lo stesso art. 1, comma 7, prevedeva, peraltro, l’applicazione transitoria della disciplina di cui alla legge medesima, «fino alla data di entrata in vigore della disciplina generale del patrocinio dei non abbienti avanti ad ogni giurisdizione», segnalando l’intendimento di riordinare l’intera materia e, in particolare, di rivedere la normativa sul gratuito patrocinio – di cui, specialmente, al regio decreto 30 dicembre 1923, n. 3282 (Approvazione del testo di legge sul gratuito patrocinio) –, che continuava in via transitoria ad essere applicata per i procedimenti diversi da quello penale.

Il patrocinio a spese dello Stato nei giudizi civili ed amministrativi fu, poi, introdotto con la legge 29 marzo 2001, n. 134 (Modifiche alla legge 30 luglio 1990, n. 217, recante istituzione del patrocinio a spese dello Stato per i non abbienti), con talune significative peculiarità, peraltro sostanzialmente persistenti sin dall’esordio della normativa di settore, introdotta dal r.d. 6 dicembre 1865, n. 2627 (col quale è regolato il gratuito patrocinio dei poveri), specie per ciò che attiene al “filtro” di ammissibilità del beneficio per le cause diverse da quelle penali. Con la richiamata legge n. 134 del 2001 venne dunque stabilito che, per i giudizi civili e amministrativi (l’espressa estensione anche ai processi contabile e tributario è dovuta al d.lgs. n. 113 del 2002, art. 2), le ragioni del non abbiente dovessero risultare “non manifestamente infondate” (art. 15-bis, comma 1, della l. n. 217 del 1990, introdotto dalla l. n. 134 del 2001): valutazione, questa, da svolgersi, in sede di ammissione anticipata, da parte del Consiglio dell’ordine degli avvocati (art. 15-decies e art. 15-quater, comma 3), fermo restando che, in caso di provvedimento reiettivo, l’istanza potesse essere riproposta – come avviene nel caso di specie – al giudice della causa (art. 15-undecies).

Quanto, poi, alle condizioni di reddito, si stabilì, per il patrocinio in sede civile ed amministrativa, che il limite di reddito fosse determinato, in caso di convivenza, dalla somma dei redditi conseguiti, nel medesimo periodo, da ogni componente del nucleo stabilmente convivente (art. 15-ter, comma 2: salvo che la causa abbia per oggetto diritti della personalità, ovvero quando gli interessi del richiedente siano in conflitto con quelli degli altri componenti il nucleo, evenienze per le quali si tiene conto solo del reddito dell’interessato); mentre, per il processo penale, che, in caso di conviventi (salva, anche qui, l’ipotesi del conflitto di interessi), il limite di reddito complessivo venisse aumentato di un certo ammontare per ognuno dei familiari conviventi (art. 3, conforme a quanto previsto dal testo originario della l. n. 217 del 1990).

Tale assetto è rimasto, nella sua articolazione, sostanzialmente immutato nello svolgersi delle successive vicende normative.

2.2.– Il legislatore ha, dunque, sin dall’inizio differenziato il trattamento del patrocinio dei non abbienti, mostrando di privilegiare le esigenze di tutela connesse all’esercizio della giurisdizione penale.

Il che, d’altra parte, è quanto questa stessa Corte ha avuto modo di sottolineare in numerose occasioni, ad esempio in relazione al diverso regime di liquidazione dei compensi agli avvocati, che, in materia civile, sono ridotti della metà.

A proposito della asserita disparità di trattamento esistente fra avvocati, si è, infatti, reiteratamente osservato che l’intrinseca diversità dei modelli del processo civile e di quello penale non consente significative comparazioni fra le discipline ad essi applicabili; e, d’altra parte, che la diversità di disciplina fra la liquidazione degli onorari e dei compensi nel processo civile e nel processo penale trova fondamento nella diversità delle relative situazioni.

Va da sé, peraltro, che questa diversità fra «gli interessi civili» e le «situazioni tutelate che sorgono per effetto dell’esercizio della azione penale» implica non già la determinazione di una improbabile gerarchia di valori fra gli uni e le altre, ma soltanto l’affermazione dell’indubbia loro distinzione, tale da escludere una valida comparabilità fra istituti che concernano ora gli uni ora le altre (in particolare, le ordinanze n. 270 del 2012; n. 201 del 2006 e n. 350 del 2005).

D’altra parte, è del tutto evidente che le peculiarità che caratterizzano il processo penale rispetto ai procedimenti civili o amministrativi – significative al punto da aver indotto il legislatore costituzionale a contrassegnare, nell’art. 111 Cost., in termini di marcata specificità le caratteristiche del “giusto processo penale” rispetto a quelle degli altri processi – non possono non corrispondere ai connotati che caratterizzano l’azione penale rispetto alle domande proposte davanti ai giudici dei diritti o degli interessi; sicché può ritenersi del tutto coerente che il legislatore, proprio in considerazione delle particolari esigenze di difesa di chi “subisce” l’azione penale, abbia reputato necessario approntare un sistema di garanzie che ne assicurasse al meglio la effettività, anche sotto il profilo dei limiti di reddito per poter fruire del patrocinio a spese dello Stato per i non abbienti.

Contrariamente, pertanto, a quanto fa mostra di ritenere il giudice a quo, la finalità di tutela giurisdizionale sancita dall’art. 24, primo comma, Cost., ma, soprattutto, la necessità di assicurare ai non abbienti i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione, prevista dal terzo comma dello stesso art. 24 Cost., non presuppongono affatto che «gli appositi istituti» siano modellati in termini sovrapponibili per tutti i tipi di azione e di giudizio: potendo, al contrario, apparire sostanzialmente incoerente un sistema che – a risorse economiche limitate – assegni lo stesso tipo di protezione, sul piano economico, all’imputato di un processo penale, che vede chiamato in causa il bene della libertà personale, rispetto alle parti di una controversia che coinvolga, o possa coinvolgere, beni o interessi di non equiparabile valore.

Quanto, infine, alla censura proposta in riferimento all’art. 113, primo comma, Cost., peraltro in assenza di qualsiasi autonoma motivazione, valgono i rilievi svolti in ordine ai richiamati parametri.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 76, comma 2, e 92 del decreto legislativo 30 maggio 2002, n. 113 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di spese di giustizia – Testo B), «riprodotti» nel d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia – Testo A), sollevata, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 24, primo e terzo comma, e 113, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale regionale di giustizia amministrativa di Trento con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 ottobre 2015.

F.to:

Alessandro CRISCUOLO, Presidente

Paolo GROSSI, Redattore

Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 19 novembre 2015.