Ordinanza n. 280 del 2014

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ORDINANZA N. 280

ANNO 2014

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-           Paolo Maria                NAPOLITANO                     Presidente

-           Giuseppe                    FRIGO                                     Giudice

-           Alessandro                 CRISCUOLO                                ”

-           Paolo                          GROSSI                                        ”

-           Giorgio                       LATTANZI                                   ”

-           Aldo                           CAROSI                                        ”

-           Marta                          CARTABIA                                  ”

-           Sergio                         MATTARELLA                            ”

-           Mario Rosario             MORELLI                                     ”

-           Giancarlo                    CORAGGIO                                 ”

-           Giuliano                      AMATO                                        ”

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 2-bis, comma 3, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), promossi dalla Corte d’appello di Reggio Calabria con ordinanze del 23 e del 20 gennaio 2014, iscritte ai nn. 77 e 108 del registro ordinanze 2014 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 22 e 28, prima serie speciale, dell’anno 2014.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 5 novembre 2014 il Giudice relatore Sergio Mattarella.

Considerato che, con ordinanza del 23 gennaio 2014 (r.o. n. 77 del 2014), la Corte d’appello di Reggio Calabria, sezione civile, nella persona del giudice designato al fine di provvedere sulla domanda di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo, nel corso di un procedimento avente ad oggetto una domanda di equa riparazione proposta nei confronti del Ministero della giustizia dalla parte risultata soccombente nel processo presupposto, ha sollevato, in riferimento all’art. 117 della Costituzione, in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848 (d’ora in avanti: «CEDU» o «Convenzione»), questione di legittimità del comma 3 dell’art. 2-bis della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), articolo aggiunto dall’art. 55, comma 1, lettera b), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 134;

che ad avviso del giudice a quo tale impugnata disposizione – secondo cui: «La misura dell’indennizzo, anche in deroga al comma 1 [che prevede, a sua volta, che: «Il giudice liquida a titolo di equa riparazione una somma di denaro, non inferiore a 500 euro e non superiore a 1.500 euro, per ciascun anno, o frazione di anno superiore a sei mesi, che eccede il termine ragionevole di durata del processo»], non può in ogni caso essere superiore al valore della causa o, se inferiore, a quello del diritto accertato dal giudice» − víola il parametro invocato «nella parte in cui limita la misura dell’indennizzo (liquidabile in favore della parte che abbia subito un danno per la durata irragionevole del processo presupposto) al “valore del diritto accertato” senza alcuna ulteriore specificazione o limite, comportando in tal modo l’impossibilità di liquidare in alcuna misura un’equa riparazione in favore della parte che, nel processo presupposto, sia risultata interamente soccombente»;

che il giudice rimettente riferisce, in punto di fatto: a) di essere investito del ricorso, presentato il 13 gennaio 2014, con il quale A.M.C. aveva chiesto l’indennizzo del danno subíto per effetto dell’irragionevole durata di un processo civile promosso da D.M.G. con atto di opposizione a decreto ingiuntivo; b) che detto processo era stato definito con la sentenza della Corte suprema di cassazione n. 13190 del 2013 con la quale era stato dichiarato inammissibile il ricorso proposto da A.M.C. avverso la sentenza d’appello che aveva dichiarato inammissibile il gravame della stessa A.M.C. avverso la sentenza di primo grado che aveva accolto l’opposizione al decreto ingiuntivo fatta da D.M.G., revocando lo stesso decreto;

che  il medesimo giudice rimettente sviluppa poi alcune considerazioni in punto di diritto;

che, prima di prendere in esame la disposizione censurata, egli evidenzia la portata innovativa, rispetto alla normativa anteriore al d.l. n. 83 del 2012, dell’alinea e della lettera a) del comma 2 dell’art. 2-bis della legge n. 89 del 2001, secondo cui «L’indennizzo è determinato a norma dell’articolo 2056 del codice civile, tenendo conto: a) dell’esito del processo nel quale si è verificata la violazione di cui al comma 1 dell’articolo 2»;

che, a tale proposito, il giudice a quo osserva che, nel vigore di detta previgente normativa, la Corte di cassazione aveva affermato la spettanza del diritto all’equa riparazione a tutte le parti del processo «indipendentemente dal fatto che esse siano risultate vittoriose o soccombenti e dalla consistenza economica ed importanza del giudizio», nonché l’irrilevanza, al medesimo fine, della «asserita consapevolezza da parte dell’istante della scarsa probabilità di successo dell’iniziativa giudiziaria» (sono citate, in tale senso, le sentenze n. 8632 e n. 8541 del 2010), ammettendo che si potesse tenere conto dell’esito del processo presupposto solo qualora esso «abbia un indiretto riflesso sull’identificazione, o sulla misura, del pregiudizio morale sofferto dalla parte in conseguenza dell’eccesiva durata della causa», come si verifica «quando il soccombente abbia promosso una lite temeraria, o abbia artatamente resistito in giudizio al solo fine di perseguire proprio il perfezionamento della fattispecie di cui al richiamato art. 2», con la precisazione, peraltro, che di tali circostanze «costituenti abuso del processo», anche ai fini della commisurazione dell’indennizzo, «deve dare prova puntuale l’Amministrazione», non essendo «sufficiente, a tal fine, la deduzione che la domanda della parte sia stata dichiarata manifestamente infondata» (è citata, nel senso indicato, la sentenza n. 35 del 2012);

che, a fronte di tale indirizzo della giurisprudenza di legittimità, formatosi anteriormente all’entrata in vigore del d.l. n. 83 del 2012, la citata lettera a) del comma 2 dell’art. 2-bis avrebbe innovato sotto il duplice profilo che, in virtù della stessa, l’esito del giudizio presupposto: a) assumerebbe, ancorché al solo fine della quantificazione dell’indennizzo, «un ruolo non più eccezionale ma normale, fisiologico e soprattutto sganciato dalla condizione che esso si accompagni anche alla consapevolezza della parte e, correlativamente, ad un uso strumentale del processo»; b) non dovrebbe più, per comportare una riduzione dell’indennizzo, essere, insieme con «l’abuso del processo alla base di esso richiesto», allegato e provato dall’amministrazione resistente, «potendo e dovendo il giudice ex se […] sindacare e ponderare l’esito del giudizio quale risultante dagli atti prodotti»;

che, passando all’esame dell’impugnato comma 3 dell’art. 2-bis, il rimettente afferma che lo stesso stabilisce che la misura dell’indennizzo, anche in deroga agli importi indicati dal comma 1 dello stesso art. 2-bis, non può superare non solo il valore della controversia − ciò che, secondo lo stesso giudice a quo, «dà espressione ad una convinzione di comune buon senso particolarmente avvertita per le cause bagatellari» −, ma neppure il valore del diritto accertato dal giudice, quando questo sia inferiore al valore della causa;

che, ad avviso del rimettente, tale ultima disposizione comporterebbe che la domanda di equa riparazione per l’irragionevole durata del processo potrebbe essere accolta solo nel caso in cui chi la propone sia risultato, almeno in parte, vittorioso nel giudizio presupposto, mentre nessun indennizzo potrebbe essere riconosciuto a chi, nello stesso giudizio, fosse risultato interamente soccombente;

che infatti, in tale ultimo caso, l’accertamento negativo della sussistenza del diritto fatto valere in giudizio equivarrebbe all’accertamento che tale diritto, in quanto inesistente, «per così dire, “vale zero”»; 

che il rimettente conclude, sul punto, affermando che: «Non può sfuggire pertanto il paradosso (ed anche la violazione del fondamentale parametro di cui all’art. 3 Cost.) cui si incorrerebbe a ritenere che, posto il valore della causa uguale a 100: a) in caso di diritto accertato uguale a 10, sia liquidabile un indennizzo non maggiore di 10; b) in caso di radicale rigetto della domanda, sia invece liquidabile un indennizzo maggiore fino al limite di 100. Occorrerebbe presumere, cioè, ma non si vede con quale plausibilità logica, che la durata irragionevole del processo sia fonte per la parte di sofferenza morale maggiore in caso di totale rigetto della sua domanda e minore in caso di parziale accoglimento»;  

che, sempre ad avviso del rimettente, sarebbe «tutt’altro che certo […] che una tale interpretazione della norma, fondata sulla sua insuperabile formulazione letterale, vada oltre l’intenzione del legislatore, potendosi rinvenire da altre parti della novella indici alquanto significativi nella medesima direzione»;

che tali sarebbero, anzitutto, le disposizioni delle lettere b) e c) del comma 2-quinquies dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001 − comma aggiunto dall’art. 55, comma 1, lettera a), numero 2), del d.l. n. 83 del 2012 − le quali escludono qualunque indennizzo in favore, rispettivamente, della parte che abbia visto accogliere la propria domanda in misura non superiore a una proposta conciliativa che abbia rifiutato senza giustificato motivo (art. 91, primo comma, secondo periodo, cod. proc. civ.), e della parte vincitrice che abbia rifiutato la proposta di mediazione quando il provvedimento che definisce il giudizio corrisponde interamente al contenuto della stessa (art. 13, primo comma, primo periodo, del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28, recante «Attuazione dell’articolo 60 della legge 18 giugno 2009, n. 69, in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali»), trattandosi di «ipotesi […] rispetto alle quali l’avere agito infondatamente in giudizio costituisce sicuramente un minus (dal punto di vista del riconoscimento che nel giudizio presupposto hanno ricevuto le ragioni fatte valere dalla parte)»;

che «rilievo convergente» dovrebbe essere attribuito, sempre secondo il giudice a quo, anche alle seguenti disposizioni della legge n. 89 del 2001 (anch’esse aggiunte o sostituite dall’art. 55 del d.l. n. 83 del 2012): a) la già menzionata lettera a) del comma 2 dell’art. 2-bis, che indica l’«esito del processo» tra i parametri di cui è necessario tenere conto ai fini della determinazione dell’indennizzo; b) l’art. 4, che ha escluso che la domanda di riparazione possa essere proposta prima della conclusione del procedimento con provvedimento definitivo; c) la lettera c) del comma 3 dell’art. 3, che impone al ricorrente di depositare, unitamente al ricorso, copia autentica della sentenza o dell’ordinanza irrevocabili che abbiano definito il giudizio;

che tali disposizioni evidenzierebbero, secondo il rimettente, l’importanza attribuita dal legislatore della novella al fatto che il giudice investito della domanda di equa riparazione conosca l’esito definitivo del giudizio, il che «non altrimenti può spiegarsi se non con il preponderante rilievo attribuito dal legislatore […] a tale aspetto della vicenda, quale parametro determinativo della liquidazione dell’indennizzo»;

che una «indiretta conferma della ragionevolezza» dell’indicata interpretazione della disposizione censurata si trarrebbe, infine, dall’affermazione, contenuta nella relazione illustrativa al disegno di legge di conversione del d.l. n. 83 del 2012, secondo cui tra le finalità delle modificazioni della legge n. 89 del 2001 vi era anche quella di «non allargare le maglie di un bacino di domanda di giustizia suscettibile di distorsioni che sono già presenti nell’attuale sistema (in cui accade che una causa venga instaurata, al di là della fondatezza della pretesa, in funzione del conseguimento del successivo indennizzo spettante per la violazione del temine di durata ragionevole del processo, dal momento che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha più volte affermato che l’indennizzo in parola spetta anche alla parte rimasta soccombente nel processo “presupposto”»;

che, ad avviso del giudice rimettente, il passaggio citato tradirebbe la consapevolezza del legislatore che il principio della spettanza dell’equa riparazione anche alla parte interamente soccombente «è causa di distorsioni nel funzionamento e nell’impostazione teorica stessa dei fondamenti e della natura del diritto all’equa riparazione»;

che, sempre secondo il rimettente, ancorché l’indicata relazione illustrativa indichi come obiettivo della novella quello di «non allargare le maglie» della detta distorsione, le disposizioni effettivamente introdotte e appena indicate «prescindendo del tutto, nell’attribuire il visto rilievo all’esito del giudizio, dall’accertamento dell’esistenza di un atteggiamento negligente, strumentale o abusivo a fondamento della domanda rigettata o della resistenza a quella interamente accolta − appaiono oggettivamente [idonee] anche a contestare in radice il principio suddetto» della spettanza dell’equa riparazione anche alla parte interamente soccombente;

che il giudice rimettente afferma di non ignorare l’esistenza dell’«indice di segno contrario» costituito dalla disposizione della lettera a) del comma 2-quinquies dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001 − secondo cui non è riconosciuto alcun indennizzo «in favore della parte soccombente condannata a norma dell’articolo 96 del codice di procedura civile [cioè per responsabilità processuale aggravata]» − la quale, in base all’argomento a contrario, dovrebbe essere interpretata nel senso della spettanza dell’indennizzo in favore della parte soccombente che non abbia subito la citata condanna, con la conseguenza che la mera soccombenza non sarebbe, di per sé sola, ragione di esclusione dal diritto all’equa riparazione;

che a tale conclusione si opporrebbe, tuttavia, sempre secondo l’opinione del rimettente, l’«indice normativo» costituito dall’impugnato comma 3 dell’art. 2-bis, il quale, pur non riguardando i presupposti in astratto della spettanza del diritto all’indennizzo ma la commisurazione di quest’ultimo (a priori, perciò, non escluso), finisce − rivelandosi così «più potente rispetto ai limitati obiettivi per i quali era stato probabilmente pensato» − con l’annullarlo completamente in tutti i casi di soccombenza;

che alla stregua di ciò, secondo il rimettente, «A tutto voler concedere non può non registrarsi un insanabile contrasto, quanto meno agli effetti pratici, tra le due norme, il che però, lungi dal poter autorizzare […] a una mera disapplicazione della seconda nella parte in cui risulti in contrasto con la prima, ne rafforza piuttosto il sospetto di incostituzionalità»;

che il giudice a quo afferma infine di non conoscere pronunce giurisprudenziali che, in base alla disciplina dell’equa riparazione per la violazione del termine ragionevole del processo risultante dalle modificazioni recate dall’art. 55 del d.l. n. 83 del 2012, abbiano riconosciuto il diritto all’indennizzo alla parte soccombente nel processo presupposto, ma solo pronunce di rigetto dei ricorsi presentati da tale parte (sono citati, in proposito, i decreti della Corte d’appello di Bari 25 settembre 2012 reso nel procedimento n. 547/12 V.G., 6 novembre 2012 reso nel procedimento n. 610/12 V.G., 6 novembre 2012 reso nel procedimento n. 613/12, 15 gennaio 2013 reso nel procedimento n. 641/12 V.G., nonché il decreto della Corte d’appello di Caltanissetta del 7 febbraio 2013);

che, sulla base di tali premesse, il giudice a quo, dopo avere compiuto un’ampia rassegna dei princípi che, in base alla giurisprudenza della Corte costituzionale, della Corte di cassazione e della Corte di giustizia, governano i rapporti tra la legislazione interna e la CEDU (sono citate, in particolare, le sentenze della Corte costituzionale n. 303, n. 236, n. 196, n. 175, n. 113, n. 80 e n. 1 del 2011, n. 187, n. 138 e n. 93 del 2010, n. 311 del 2009, n. 349 e n. 348 del 2007, nonché le ordinanze n. 180 e n. 138 del 2011 e n. 150 del 2002; le sentenze della Corte di cassazione n. 5894 del 2009, n. 1341, n. 1340, n. 1339 e n. 1338 del 2004 e la sentenza della Corte di giustizia 24 aprile 2012, in causa C-571/10, Kamberaj), afferma, in punto di non manifesta infondatezza, che l’impugnato comma 3 dell’art. 2-bis della legge n. 89 del 2001 si pone in contrasto con l’art. 6, paragrafo 1, della CEDU, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo;

che, a proposito di tale parametro interposto, il rimettente sottolinea come detta Corte abbia sempre ritenuto «l’irrilevanza della soccombenza del ricorrente, in sé e per sé considerata» ai fini della spettanza dell’equa soddisfazione prevista dall’art. 41 della CEDU, in base al rilevo che la parte, indipendentemente dall’esito della causa, «ha comunque subito  una diminuzione della qualità della vita in conseguenza dei patemi d’animo sopportati durante il lungo arco temporale che ha preceduto la definitiva decisione della sua posizione processuale» (è citata, in proposito, la sentenza 19 febbraio 1992 [recte: 1998], Paulsen-Medalen e Svensson contro Svezia);

che tale principio, prosegue il rimettente, è sempre stato affermato anche dalla Corte di cassazione nel vigore della disciplina dettata dalla legge n. 89 del 2001 anteriormente alle modificazioni ad essa apportate dal d.l. n. 83 del 2012, avendo la giurisprudenza di legittimità  costantemente affermato, come già visto, che il danno non patrimoniale non è escluso dall’esito negativo del processo o dall’elevata possibilità del rigetto della domanda e che, per ritenere infondata la domanda di indennizzo, è necessario che la parte soccombente si sia resa responsabile di lite temeraria o, comunque, di un abuso del processo (sono citate le sentenze n. 8632 e n. 8541 del 2010), del quale deve fornire la prova la parte che lo eccepisce (è citata la sentenza n. 819 del 2010);

che la stessa Corte di cassazione aveva ancora affermato che, al fine di negare la sussistenza del danno, può sì assumere rilievo la «chiara, originaria e perdurante certezza sulla inconsistenza» del diritto fatto valere in giudizio, con la precisazione, tuttavia, che «non equivale a siffatta certezza originaria la mera consapevolezza della scarsa probabilità di successo dell’azione» (sentenze n. 8165 del 2010 e n. 24269 del 2008);

che il giudice a quo  precisa infine che il quadro normativo e giurisprudenziale descritto non può ritenersi «rilevantemente mutato» a séguito dell’entrata in vigore del nuovo testo dell’art. 35, comma 3, lettera b), della CEDU, come modificato dal Protocollo n. 14 alla Convenzione, firmato a Strasburgo il 13 maggio 2004, ratificato e reso esecutivo con la legge 15 dicembre 2005, n. 280 (Ratifica ed esecuzione del Protocollo n. 14 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali emendante il sistema di controllo della Convenzione, fatto a Strasburgo il 13 maggio 2004), secondo cui «La Corte dichiara irricevibile ogni ricorso individuale presentato ai sensi dell’articolo 34 se ritiene che: […] (b) il ricorrente non ha subito alcun pregiudizio importante, salvo che il rispetto dei diritti dell’uomo garantiti dalla Convenzione e dai suoi protocolli esiga un esame del ricorso nel merito e a condizione di non rigettare per questo motivo alcun caso che non sia stato debitamente esaminato da un tribunale interno»;

che secondo il rimettente  − il quale, a proposito del significato attribuito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo al menzionato art. 35, comma 3, lettera b), della CEDU, cita le sentenze 6 marzo 2012, Gagliano contro Italia, 19 ottobre 2010, Rinck contro Francia e 18 ottobre 2010, Giusti contro Italia − infatti, «nulla autorizza a ritenere che una tale clausola, essendo rapportata a parametri ulteriori e diversi dal mero esito della causa e legati piuttosto alla considerazione delle variabili circostanze del caso concreto, possa di per sé comportare una revisione dei descritti parametri talmente radicale da potersi prevedere che, in forza della stessa, possa escludersi tout court, sempre e in ogni caso, la riconoscibilità dell’equo indennizzo alla parte soccombente»;

che, quanto alla rilevanza, la rimettente Corte d’appello afferma anzitutto che un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata, tale da renderla compatibile con l’invocato parametro interposto dell’art. 6, paragrafo 1, della CEDU, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, è resa impossibile dal suo tenere letterale, il quale impedisce di liquidare l’indennizzo in misura superiore «al valore […] del diritto accertato dal giudice»;

che, in particolare, non sarebbe praticabile l’interpretazione «restrittiva e correttiva» dell’impugnato comma 3 nel senso di ritenere, come sostenuto in uno dei primi commenti alla novella di cui all’art. 55 del d.l. n. 83 del 2012, che «il riferimento al diritto accertato dal giudice costituisca un limite nella determinazione del valore della causa così come avviene per individuare lo scaglione di valore della causa ai fini della liquidazione delle spese legali»;

che a tale interpretazione si opporrebbero, infatti, l’analisi logica della disposizione censurata e l’uso della locuzione disgiuntiva «o», rafforzata dall’inciso «se inferiore», elementi che evidenzierebbero che il valore del diritto accertato dal giudice è indicato dalla norma censurata, in alternativa al valore della causa, come limite alla misura dell’indennizzo e non come criterio di determinazione del valore della causa;

che da ciò conseguirebbe, conclusivamente, che una lettura della disposizione censurata diversa da quella accolta si tradurrebbe in un’interpretazione contra legem, non consentita neppure al fine di rendere detta disposizione conforme alla CEDU;

che, sempre in punto di rilevanza, il giudice a quo sottolinea come la norma impugnata abbia una «diretta incidenza» sulla decisione in ordine alla domanda di equa riparazione proposta;

che infatti, «se ne fosse […] confermata la legittimità costituzionale in applicazione della stessa la domanda […] andrebbe rigettata; in caso contrario essa andrebbe accolta, salvo solo una commisurazione tendenzialmente al minimo dell’indennizzo spettante, all’interno del range fissato dal primo comma dell’art. 2-bis e salvo sempre il limite rappresentato dal valore della causa»;

che il rimettente precisa infine che, ancorché la fattispecie al suo esame riguardi un’ipotesi di rigetto integrale della domanda, con soccombenza della ricorrente nel processo presupposto, il dubbio di costituzionalità prospettato «è destinato a porsi, nei medesimi termini, anche nell’ipotesi inversa di soccombenza della parte resistente (o convenuta) nel processo presupposto, ovviamente ove sia questa a proporre la domanda per equa riparazione»;

che ad avviso del giudice a quo, infatti, «sembra evidente che il riferimento al valore del diritto va rapportato alla posizione che nel processo presupposto assumeva la parte che avanzi richiesta di indennizzo ai sensi della legge n. 89/2001»;

che pertanto, nel caso di soccombenza del convenuto, «non deve fuorviare la considerazione che […] il giudizio presupposto si sia concluso ovviamente con l’accoglimento della domanda avanzata dall’attore e quindi con il positivo accertamento del diritto da quest’ultimo fatto valere, posto che, ai fini qui in considerazione, rileva piuttosto l’altra faccia di quella statuizione che, per il convenuto, equivale al rigetto delle sue tesi difensive»;

che, per converso, anche nel caso di soccombenza dell’attore (come è avvenuto nel giudizio a quo), ove a richiedere l’indennizzo fosse però non lo stesso attore ma la parte convenuta, vittoriosa nel giudizio, «nei confronti della stessa non varrebbe ovviamente il limite qui censurato, posto che, in rapporto alla sua posizione, il rigetto della domanda attrice equivale al pieno riconoscimento della fondatezza del suo diritto a contrastare la pretesa avversaria»;

che il rimettente precisa ancora che «La norma censurata evoca […], a ben vedere, il valore dell’accertamento contenuto nella sentenza; e un contenuto di accertamento è sempre presente in qualsiasi sentenza: di rigetto, di condanna, costitutiva o di mero accertamento (positivo o negativo) che sia. Un tale contenuto poi è sempre ambivalente rispetto alle posizioni delle parti in lite (per definizione, ovviamente, contrapposte). L’attore dunque che agisce in giudizio per ottenere l’accertamento di un suo diritto, chiede per l’appunto un accertamento positivo di tale situazione giuridica; nella stessa causa ovviamente si contrappone la posizione del convenuto che, resistendo alla domanda, per ciò stesso implicitamente invoca un accertamento negativo di tale situazione, non rilevando, ai nostri fini, se ne faccia a sua volta oggetto di domanda riconvenzionale o semplicemente di mera difesa»;

che è intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata manifestamente infondata;

che la difesa statale evidenzia al riguardo che una questione di legittimità costituzionale del comma 3 dell’art. 2-bis della legge n. 89 del 2001 identica a quella sollevata dal rimettente è stata dichiarata manifestamente infondata dalla Corte costituzionale con l’ordinanza n. 124 del 2014;

che con ordinanza del 20 gennaio 2014 (r.o. n. 108 del 2014), la Corte d’appello di Reggio Calabria, sezione civile, nella persona del giudice designato al fine di provvedere sulla domanda di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo, nel corso di un procedimento avente ad oggetto una domanda di equa riparazione proposta nei confronti del Ministero della giustizia dalla parte risultata soccombente nel processo presupposto, ha sollevato, in riferimento all’art. 117 Cost., in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della CEDU, questione di legittimità del comma 3 dell’art. 2-bis della legge n. 89 del 2001, «nella parte in cui limita la misura dell’indennizzo (liquidabile in favore della parte che abbia subito un danno per la durata irragionevole del processo presupposto) al “valore del diritto accertato” senza alcuna ulteriore specificazione o limite, comportando in tal modo l’impossibilità di liquidare in alcuna misura un’equa riparazione in favore della parte che, nel processo presupposto, sia risultata interamente soccombente»;

che il giudice rimettente riferisce, in punto di fatto: a) di essere investito del ricorso, presentato il 6 dicembre 2013, con il quale C.G. aveva chiesto l’indennizzo del danno subíto per effetto dell’irragionevole durata di un processo civile da lei promosso, con atto di citazione notificato il 26 novembre, il 29 novembre ed il 9 dicembre 1996, davanti al Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto, nei confronti dei propri fratelli germani C.O., C.F. e C.S., per l’accertamento della lesione della propria quota di legittima, l’accertamento della consistenza patrimoniale immobiliare del de cuius, con l’inclusione di tutti gli immobili compresi nell’impugnato testamento e determinazione ed assegnazione della quota a lei spettante, l’accertamento della consistenza dei beni mobili del de cuius ed il riconoscimento dell’obbligo di rendiconto a carico dei convenuti; b) che detto processo era stato definito, in primo grado, con la sentenza 7/21 luglio 2005 con la quale il Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto aveva rigettato le domande dell’attrice ed accolto le domande riconvenzionali dei convenuti, ad eccezione di quella inerente al rimborso pro quota delle spese funerarie e successorie e, in appello, con la sentenza 3/10 gennaio 2013, passata in giudicato, con la quale la Corte d’appello di Messina aveva rigettato l’appello principale di C.G. ed accolto l’appello incidentale degli appellati, con conseguente condanna di C.G. al pagamento, in favore dei medesimi, di un quarto delle spese funerarie, di successione e notarili, oltre agli interessi legali dal 16 ottobre 1997 al pagamento;

che in punto di rilevanza e di non manifesta infondatezza della questione, la Corte d’appello rimettente svolge considerazioni identiche a quelle esposte nell’ordinanza della stessa Corte del 23 gennaio 2014 iscritta al n. 77 del registro ordinanze 2014;

che è intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata manifestamente infondata;

che la difesa dello Stato prospetta deduzioni di contenuto identico a quelle di cui all’atto di intervento nel giudizio iscritto al n. 77 del registro ordinanze 2014.

Considerato che la Corte d’appello di Reggio Calabria, sezione civile, nelle persone dei giudici designati al fine di provvedere su domande di equa riparazione per violazione del termine ragionevole del processo proposte da soggetti che erano risultati soccombenti nei rispettivi processi presupposti, con due ordinanze di contenuto sostanzialmente analogo, dubita, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, della legittimità dell’art. 2-bis, comma 3, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile) – a norma del quale: «La misura dell’indennizzo, anche in deroga al comma 1 [che, a sua volta, stabilisce che «Il giudice liquida a titolo di equa riparazione una somma di denaro, non inferiore a 500 euro e non superiore a 1.500 euro, per ciascun anno, o frazione di anno superiore a sei mesi, che eccede il termine ragionevole di durata del processo»], non può in ogni caso essere superiore al valore della causa o, se inferiore, a quello del diritto accertato dal giudice» − nella parte in cui, col disporre che la misura dell’indennizzo liquidabile a titolo di equa riparazione «non può in ogni caso essere superiore […] al valore del diritto accertato dal giudice» (se inferiore al valore della causa), comporterebbe «l’impossibilità di liquidare in alcuna misura un’equa riparazione in favore della parte che, nel processo presupposto, sia risultata interamente soccombente»;

che, secondo i rimettenti, la disposizione denunciata, così intesa, víola l’art. 117, primo comma, Cost., perché si pone in contrasto, in particolare, con l’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (di séguito, «CEDU» o «Convenzione»), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, il quale, nell’interpretazione che ne ha dato la Corte europea dei diritti dell’uomo, prevede che l’equa soddisfazione (art. 41 CEDU) per la lesione del diritto − da esso garantito − alla durata ragionevole del processo spetta a tutte le parti di questo, indipendentemente dal suo esito, e, in specie, anche alla parte che sia risultata soccombente;

che, in considerazione dell’identità della questione proposta con le due ordinanze di rimessione, i giudizi di legittimità costituzionale possono essere riuniti e decisi con un’unica pronuncia;

 che la questione sollevata deve essere dichiarata manifestamente infondata;

che, infatti, questa Corte, con le ordinanze n. 240, n. 204 e n. 124 del 2014, ha già dichiarato la manifesta infondatezza di un’identica questione di legittimità costituzionale − sollevata, con ulteriori ordinanze, dalla medesima Corte d’appello di Reggio Calabria − sul rilievo dell’erroneità del presupposto interpretativo assunto a fondamento della stessa, atteso che il comma 3 dell’art. 2-bis della legge n. 89 del 2001, nella parte in cui prevede che la misura dell’indennizzo liquidabile a titolo di equa riparazione «non può in ogni caso essere superiore […] al valore del diritto accertato dal giudice», deve essere inteso nel senso che si riferisce ai soli casi in cui questi accerti l’esistenza del diritto fatto valere in giudizio dall’attore, il cui valore accertato «costituisce un dato oggettivo, che non muta in ragione della posizione che la parte che chiede l’indennizzo aveva nel processo presupposto», con la conseguenza che detta censurata disposizione, contrariamente a quanto ritenuto dai rimettenti, non comporta l’impossibilità di liquidare un indennizzo a titolo di equa riparazione della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, in favore di chi, attore o convenuto, sia risultato, nello stesso, soccombente;

che, al riguardo, i rimettenti non hanno prospettato, nel merito, profili o argomentazioni diversi rispetto a quelli già esaminati da questa Corte con le citate ordinanze o comunque idonei ad indurre ad una differente pronuncia sulla sollevata questione di legittimità costituzionale.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, commi 1 e 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 2-bis, comma 3, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), sollevata, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, dalla Corte d’appello di Reggio Calabria, sezione civile, con le ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'1 dicembre 2014.

F.to:

Paolo Maria NAPOLITANO, Presidente

Sergio MATTARELLA, Redattore

Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 12 dicembre 2014.