Ordinanza n. 247 del 2014

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ORDINANZA N. 247

ANNO 2014

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-           Paolo Maria                 NAPOLITANO                               Presidente

-           Giuseppe                     FRIGO                                               Giudice

-           Alessandro                  CRISCUOLO                                          ”

-           Paolo                           GROSSI                                                   ”

-           Giorgio                        LATTANZI                                              ”

-           Aldo                            CAROSI                                                   ”

-           Marta                           CARTABIA                                             ”

-           Sergio                          MATTARELLA                                                  ”

-           Mario Rosario              MORELLI                                                ”

-           Giancarlo                     CORAGGIO                                            ”

-           Giuliano                       AMATO                                                   ”

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), promosso dal Tribunale di Cremona nel procedimento vertente tra la Latteria Soresina Società Cooperativa Agricola ed altro e il Ministero del lavoro e delle politiche sociali - Direzione territoriale del lavoro di Cremona con ordinanza dell’11 settembre 2013, iscritta al n. 282 del registro ordinanze 2013 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 3, prima serie speciale, dell’anno 2014.

Visto l’atto di costituzione della Latteria Soresina Società Cooperativa Agricola ed altro, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 7 ottobre 2014 il Giudice relatore Giuseppe Frigo;

uditi l’avvocato Francesco Antonio Romito per la Latteria Soresina Società Cooperativa Agricola ed altro e l’avvocato dello Stato Marina Russo per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto che, con ordinanza dell’11 settembre 2013, il Tribunale ordinario di Cremona ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), nella parte in cui non prevede l’applicazione all’autore dell’illecito amministrativo della legge posteriore più favorevole, deducendo la violazione degli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (d’ora in avanti: «CEDU»), all’art. 15 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, adottato a New York il 16 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881, ed all’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo;

che, secondo il giudice rimettente, la mancata previsione del principio dell’applicazione retroattiva della lex mitior in materia di sanzioni amministrative – per le quali il censurato art. 1 si limita a stabilire che nessuno può essere assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una legge entrata in vigore prima della commissione della violazione – lederebbe l’art. 3 Cost., sotto il profilo della ragionevolezza e della parità di trattamento;

che, al riguardo, il giudice a quo si dichiara consapevole del fatto che analoghe questioni sono state ritenute in precedenza infondate da questa Corte, ma assume che tale orientamento debba essere rivisto alla luce della successiva evoluzione della giurisprudenza costituzionale;

che, difatti, la Corte ha recentemente chiarito che la regola della retroattività della legge penale più favorevole, pur non essendo espressamente stabilita nella Costituzione (a differenza del principio di irretroattività della legge penale sfavorevole), deve considerarsi comunque espressiva di un principio generale dell’ordinamento, derogabile soltanto per gravi motivi di interesse generale (sono citate, in particolare, le sentenze n. 236 del 2011 e n. 393 del 2006);

che, sebbene riferite alla materia penalistica, le ricordate affermazioni dovrebbero ritenersi valevoli anche in rapporto agli illeciti amministrativi, essendo ormai convinzione diffusa che non vi sia una «differenza ontologica» tra questi ultimi e gli illeciti penali;

che, in particolare, i «tradizionali corollari» dei principi di legalità e di riserva di legge, riferiti in passato alla sola materia penale, tendono oggi ad essere considerati espressione di limiti generali al potere punitivo dello Stato, e ciò anche con riferimento all’applicazione retroattiva della lex mitior, in quanto «l’essenza afflittiva» della potestà sanzionatoria – anche amministrativa – dovrebbe essere «rapportata alla valutazione che storicamente l’ordinamento operi della condotta che intende reprimere»;

che, nella materia in esame, non si ravviserebbero, d’altra parte, interessi superiori, di rango almeno pariordinato al principio in discussione, tali da giustificarne il sacrificio;

che sarebbe significativa, al riguardo, la circostanza che, in particolari settori, il legislatore abbia recentemente introdotto, anche con riguardo agli illeciti amministrativi, norme di tenore analogo all’art. 2, secondo [e quarto] comma, del codice penale, quali, ad esempio l’art. 23-bis del d.P.R. 31 marzo 1988, n. 148 (Approvazione del Testo unico delle norme di legge in materia valutaria), aggiunto dall’art. 1, comma 2, della legge 7 novembre 2000, n. 326 (Modifiche al testo unico approvato con D.P.R. 31 marzo 1988, n. 148, in materia di sanzioni per le violazioni valutarie); l’art. 3 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472 (Disposizioni generali in materia di sanzioni amministrative per le violazioni di norme tributarie, a norma dell’articolo 3, comma 133, della legge 23 dicembre 1996, n. 662); l’art. 46 del decreto legislativo 13 aprile 1999, n. 112 (Riordino del servizio nazionale della riscossione, in attuazione della delega prevista dalla legge 28 settembre 1998, n. 337); l’art. 3 del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231 (Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma dell’articolo 11 della legge 29 settembre 2000, n. 300);

che, malgrado si tratti di settori speciali, non sussisterebbe una diversità strutturale tra gli illeciti amministrativi oggetto delle norme citate e quelli soggetti alla disciplina della legge n. 689 del 1981, né si rinverrebbero motivi di interesse generale tali da giustificare il diverso trattamento: ne conseguirebbe la violazione dell’art. 3 Cost. anche in relazione al principio di uguaglianza, assunte le norme citate come tertia comparationis;

che le esposte conclusioni troverebbero conferma anche sul piano sovranazionale, nell’ambito del quale assumerebbe particolare rilievo l’evoluzione della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’Uomo (d’ora in avanti «Corte EDU») sull’art. 7 della CEDU;

che, da un lato, infatti, la Corte EDU, con la sentenza 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia, mutando il proprio precedente orientamento, ha ritenuto che il principio dell’applicazione retroattiva della legge più favorevole al reo, pur in difetto di espressa menzione, deve considerarsi insito nelle previsioni del citato art. 7: e ciò anche alla luce della rilevanza acquisita da detto principio nel panorama internazionale, come conseguenza del suo riconoscimento in altre Carte dei diritti, quali il Patto internazionale sui diritti civili e politici (art. 15) e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (art. 49);

che, d’altra parte, la giurisprudenza della Corte EDU è da tempo orientata nel senso che l’applicazione delle garanzie previste dall’art. 7 della CEDU non dipende dalla qualificazione formale attribuita all’illecito e alle sue conseguenze sanzionatorie da ciascun ordinamento, la quale rappresenta solo il punto di partenza per valutare la concreta operatività di dette garanzie;

che, in questa prospettiva, la Corte EDU ha elaborato una nozione autonoma di materia penale, legata a parametri sostanziali (cosiddetti «criteri Engel»), quali la natura del precetto violato – che deve essere diretto alla generalità dei consociati ed avere una finalità preventiva e punitiva – e la gravità della sanzione cui l’autore dell’illecito si trova esposto: sanzione che non deve necessariamente consistere nella privazione della libertà personale, potendo assumere anche carattere meramente economico;

che, alla luce di tali criteri, non vi sarebbe alcuna difficoltà a ritenere che anche gli illeciti amministrativi rientrino nel campo applicativo del principio di retroattività della lex mitior, implicitamente sancito dall’art. 7 della CEDU: profilo per il quale la norma censurata verrebbe a porsi, quindi, in contrasto anche con l’art. 117, primo comma, Cost.;

che la questione sarebbe, altresì, rilevante nel giudizio a quo, il quale ha ad oggetto l’opposizione, proposta ai sensi dell’art. 22 della legge n. 689 del 1981 da un’impresa casearia, avverso l’ordinanza ingiunzione del Ministero del lavoro – Direzione territoriale del lavoro di Cremona che aveva contestato all’opponente plurime violazioni della normativa in tema di riposo giornaliero e riposo settimanale dei lavoratori (artt. 7 e 9 del decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66, recante «Attuazione delle direttive 93/104/CE e 2000/34/CE concernenti taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro»), in assunto commesse negli anni dal 2004 al 2007;

che nel provvedimento impugnato si è fatta applicazione dell’art. 18-bis, comma 4, del d.lgs. n. 66 del 2003, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera f), del decreto legislativo 19 luglio 2004, n. 213 (Modifiche ed integrazioni al decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66, in materia di apparato sanzionatorio dell’orario di lavoro) – testo vigente all’epoca in cui le violazioni sarebbero state realizzate – il quale prevedeva, per ogni violazione, una sanzione amministrativa pecuniaria da euro 105 ad euro 630;

che, in base a tale disposizione, è stata quindi applicata una sanzione di euro 129.150, per 709 violazioni dell’art. 7 del d.lgs. n. 66 del 2003, e di euro 172.410, per 821 violazioni dell’art. 9 del menzionato decreto;

che, peraltro, l’art. 7 della legge 4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro), modificando il citato art. 18-bis, ha previsto per le predette violazioni, ove riguardanti più di dieci lavoratori, come nel caso in esame, una sanzione unitaria da euro 900 ad euro 1.500, quanto alle violazioni dell’art. 7 del d.lgs. n. 66 del 2003, e da euro 1.000 ad euro 5.000, quanto alle violazioni dell’art. 9;

che, di conseguenza, ove si applicasse la normativa posteriore più favorevole, attualmente in vigore, la sanzione irrogabile nel caso di specie risulterebbe pari, al massimo, rispettivamente a 1.500 e a 5.000 euro: dunque, incomparabilmente più lieve di quella inflitta con l’ordinanza impugnata;

che si sono costituiti la Società cooperativa agricola Latteria Soresina e Tiziano Fusar Poli, opponenti nel giudizio a quo, i quali hanno interamente condiviso ed ulteriormente illustrato le argomentazioni dell’ordinanza di rimessione, chiedendo l’accoglimento della questione;

che è intervenuto, altresì, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata.

Considerato che il Tribunale ordinario di Cremona dubita, in riferimento agli artt. 3 e 117, primo comma, della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), nella parte in cui non prevede l’applicazione all’autore dell’illecito amministrativo della legge posteriore più favorevole;

che, secondo quanto dedotto nell’ordinanza di rimessione, il Tribunale rimettente è investito dell’opposizione all’ordinanza ingiunzione che ha contestato ad un’impresa un elevato numero di violazioni in materia di riposo giornaliero e settimanale dei lavoratori, applicando per esse le sanzioni previste dall’art. 18-bis, comma 4, del decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66 (Attuazione delle direttive 93/104/CE e 2000/34/CE concernenti taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro), nel testo introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera f), del decreto legislativo 19 luglio 2004, n. 213 (Modifiche ed integrazioni al decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66, in materia di apparato sanzionatorio dell’orario di lavoro), vigente all’epoca delle violazioni contestate;

che la rilevanza della questione deriverebbe dal fatto che una norma posteriore, modificativa del citato art. 18-bis (ossia l’art. 7 della legge 4 novembre 2010, n. 183, recante «Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro»), ha previsto che le medesime violazioni, ove attinenti – come nel caso di specie – a più di dieci lavoratori, restino soggette ad una sanzione amministrativa unitaria, il cui ammontare massimo è di gran lunga inferiore all’importo delle sanzioni inflitte con il provvedimento impugnato sulla base del cumulo materiale delle sanzioni relative alle singole violazioni;

che, successivamente all’ordinanza di rimessione, è peraltro intervenuta la sentenza n. 153 del 2014 di questa Corte, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del predetto art. 18-bis, commi 3 e 4, del d.lgs. n. 66 del 2003, nell’originaria formulazione – vale a dire, nel testo del quale l’ordinanza ingiunzione impugnata ha fatto applicazione, in relazione al tempo di commissione degli illeciti – per violazione del criterio direttivo enunciato dall’art. 2, comma 1, lettera c), della legge di delegazione 1° marzo 2002, n. 39 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee. Legge comunitaria 2001) e, dunque, per eccesso di delega (art. 76 Cost.);

che va disposta, pertanto, la restituzione degli atti al Tribunale rimettente affinché valuti la perdurante rilevanza della questione alla luce dell’indicato mutamento del quadro normativo.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

ordina la restituzione degli atti al Tribunale ordinario di Cremona.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 ottobre 2014.

F.to:

Paolo Maria NAPOLITANO, Presidente

Giuseppe FRIGO, Redattore

Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 28 ottobre 2014.