Sentenza n. 241 del 2014

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SENTENZA N. 241

ANNO 2014

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-           Paolo Maria                 NAPOLITANO                               Presidente

-           Giuseppe                     FRIGO                                               Giudice

-           Alessandro                  CRISCUOLO                                          ”

-           Paolo                           GROSSI                                                   ”

-           Giorgio                        LATTANZI                                              ”

-           Aldo                            CAROSI                                                   ”

-           Marta                           CARTABIA                                             ”

-           Sergio                          MATTARELLA                                                  ”

-           Mario Rosario              MORELLI                                                ”

-           Giancarlo                     CORAGGIO                                            ”

-           Giuliano                       AMATO                                                   ”

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 271, comma 2, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), promosso dal Consiglio di Stato nel procedimento vertente tra la Lega Toscana delle autonomie locali ed altra e il Comune di Lastra a Signa, con ordinanza del 25 luglio 2012 iscritta al n. 18 del registro ordinanze 2013 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 7, prima serie speciale, dell’anno 2013.

Visti gli atti di costituzione della Lega Toscana delle autonomie locali, della Lega delle autonomie locali (Legautonomie), nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 7 ottobre 2014 il Giudice relatore Paolo Grossi;

uditi gli avvocati Giuseppe Morbidelli per la Lega Toscana delle autonomie locali, Fabio Elefante e Domenico Ielo per Lega delle autonomie locali (Legautonomie) e l’avvocato dello Stato Marina Russo per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. Nel corso di un giudizio d’appello della sentenza di rigetto di un ricorso proposto dalla Lega Toscana delle autonomie locali, associazione regionale di enti locali, aderente alla Lega delle autonomie locali (Legautonomie), avverso il provvedimento con il quale il Comune di Lastra a Signa ha respinto la richiesta finalizzata ad ottenere il distacco temporaneo di un dipendente comunale presso la sede dell’associazione, il Consiglio di Stato, sezione V, con ordinanza emessa il 25 luglio 2012, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 271, comma 2, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), «nella parte in cui esclude la possibilità per gli enti locali di distaccare il proprio personale anche presso associazioni diverse da quelle tassativamente indicate».

Il rimettente premette che l’elenco, contenuto nella norma censurata, delle associazioni in favore delle quali è consentito il distacco dei dipendenti comunali ha carattere tassativo, come evidenziato dal dato letterale della norma stessa (in mancanza di alcuna locuzione volta a chiarire la caratterizzazione esemplificativa dell’elencazione e la possibilità di estendere la sfera di operatività di tale normativa anche ad altre associazioni di enti locali, oltre agli «organismi nazionali e regionali dell’Anci, dell’Upi, dell’Aiccre, dell’Uncern, della Cispel e sue federazioni»), oltre che da quello sistematico (desumibile dal precedente art. 270, che – in tema di riscossione dei contributi associativi – ne estende la portata dispositiva anche alle altre associazioni di enti locali diverse da quelle enumerate).

Ritenuta la rilevanza della questione (giacché il diniego impugnato risulta basato proprio sulla affermata tassatività dell’elenco delle associazioni contemplate dalla norma), quanto alla non manifesta infondatezza il rimettente osserva che la previsione di un numerus clausus di associazioni potenzialmente beneficiarie dei distacchi in esame si pone innanzitutto in contrasto con l’art. 3 della Costituzione, venendo a consacrare una ingiustificata disparità di trattamento in danno delle associazioni diverse da quelle tipizzate e degli enti locali che aderiscano a tali associazioni, che non possono giovarsi del meccanismo normativamente enucleato. Inoltre, la previsione di un elenco rigido produce una irragionevole cristallizzazione delle associazioni beneficiarie che opera in modo avulso dalla verifica del dato, potenzialmente variabile, dell’effettiva assunzione di un altrettanto o più rilevante grado di rappresentatività e meritevolezza anche da parte di associazioni diverse.

Sulla base di tali considerazioni, il rimettente denuncia anche un vulnus al principio di libertà di associazione, tutelato dall’art. 18 Cost., in quanto l’irragionevole preclusione dell’operatività del beneficio in favore di altre associazioni produce un deterrente rispetto all’adesione dell’ente locale a tali associazioni (incidendo negativamente sul valore del pluralismo e sulla libertà di scegliere le associazioni a cui aderire), nonché «una discriminazione, non ancorata a concreti parametri giustificativi, delle associazioni costituite mediante l’estrinsecazione della libertà cristallizzata da detto precetto costituzionale».

Secondo il Collegio a quo, la differenziazione di regime giuridico tra le associazioni in esame non trova adeguato fondamento nell’esigenza di contenere la spesa pubblica, né nel più generale principio di buon andamento dell’azione amministrativa, visto che, in una prospettiva costituzionalmente orientata che armonizzi i valori in gioco, dette finalità vanno perseguite con la previsione di limiti al personale distaccabile e non con la limitazione irragionevole delle associazioni beneficiarie del distacco. Al contrario, l’esigenza di contenimento della spesa pubblica e di tutela dell’efficienza amministrativa non può essere fronteggiata con l’imposizione statale del novero delle associazioni presso cui gli enti locali possono distaccare il proprio personale ma deve transitare attraverso la valorizzazione della facoltà degli enti locali, espressione dell’autonomia organizzativa costituzionalmente protetta, di scegliere a quali organismi destinare il proprio personale. E, in ragione di ciò, il rimettente censura la norma statale anche per violazione degli artt. 114, 118 e 119 Cost., «nella misura in cui lede l’autonomia costituzionalmente garantita degli enti locali», e dell’art. 97 Cost. nella parte in cui la previsione dell’elencazione tassativa «discrimina i soggetti che entrano in contatto con gli enti locali».

2. Si sono costituite la Lega Toscana delle autonomie locali e la Lega delle autonomie locali (Legautonomie), entrambe parti del giudizio principale, in qualità rispettivamente di ricorrente ed interveniente ad adiuvandum, che hanno concluso per l’accoglimento della sollevata questione, concordando con le argomentazioni svolte dal rimettente, soprattutto con riferimento alla denunciata violazione degli artt. 3 e 18 Cost., in ragione del fatto che la Legautonomie ha sicuramente la stessa natura e gli stessi caratteri delle altre associazioni menzionate dalla norma censurata, in quanto associazione di categoria che tutela esclusivamente gli interessi degli enti locali, che per di più ha carattere nazionale articolato in strutture regionali.

In particolare, la Lega delle autonomie locali – analizzata la propria storia e l’attività espletata anche dalle articolazioni regionali, come organizzazione rappresentativa delle autonomie locali a servizio delle stesse – osserva che appare evidente, anche alla luce della giurisprudenza della Corte relativa alle associazioni sindacali (cui ritiene assimilabili le associazioni degli enti locali), il contrasto con il principio pluralistico partecipativo (fondante il nostro ordinamento costituzionale), che impone che a tutte le associazioni aventi le medesime finalità e rappresentative di una medesima categoria debba essere garantita la parità di trattamento (giacché una differenziazione tra associazioni aventi finalità omogenee è ammissibile solo ove abbia un fondamento ragionevole).

3. E’ intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocature generale dello Stato, concludendo per la non fondatezza della sollevata questione.

La difesa dello Stato osserva come l’istituto del distacco di pubblici dipendenti (in quanto comporta la sottrazione, in via eccezionale, di risorse umane normalmente in forza all’organico distaccante), conformemente al principio di buon andamento della pubblica amministrazione, non possa essere consentito indiscriminatamente verso qualunque associazione, ma solo se affettivamente corrisponda agli interessi istituzionali dell’ente. E rileva, dunque, che il legislatore ha operato un vaglio preventivo, esprimendo un giudizio positivo circa la possibilità di distacco presso quelle, tra le associazioni di enti locali esistenti, ritenute meritevoli (nell’esercizio della propria discrezionalità). Esclusa, infatti, la conferenza della richiamata giurisprudenza costituzionale in materia di rappresentatività delle associazioni sindacali, in quanto per le associazioni degli enti locali non esiste un analogo criterio selettivo generale ed obiettivo, la difesa dello Stato sottolinea che la norma censurata non riguarda il pluralismo o la libertà sindacale, bensì l’applicazione di un istituto che comunque rappresenta una eccezione rispetto alla regola dell’utilizzo diretto dei dipendenti da parte dell’ente locale di appartenenza. Utilizzo che quindi è consentito in un’ottica restrittiva, giustificata sotto il profilo della ragionevolezza dalla esigenza di buon andamento della pubblica amministrazione e della certezza dei casi in cui l’istituto derogatorio può operare; e la regolamentazione del quale, nella specie, non comporta la violazione di alcuno degli evocati parametri.

4. Nell’imminenza dell’udienza, la Lega Toscana delle autonomie locali e la Lega delle autonomie locali hanno depositato memorie, in cui ribadiscono le rassegnate conclusioni, richiamando ed approfondendo le ragioni svolte a sostegno delle stesse.

Considerato in diritto

1. Il Consiglio di Stato censura il comma 2 dell’art. 271 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), i cui primi due periodi prevedono che «Gli enti locali, le loro aziende e associazioni dei comuni possono disporre il distacco temporaneo, a tempo pieno o parziale, di propri dipendenti presso gli organismi nazionali e regionali dell’Anci, dell’Upi, dell’Aiccre, dell’Uncem, della Cispel e sue federazioni, ed autorizzarli a prestare la loro collaborazione in favore di tali associazioni. I dipendenti distaccati mantengono la posizione giuridica ed il corrispondente trattamento economico, a cui provvede l’ente di appartenenza.».

A giudizio del rimettente, tale norma – «nella parte in cui esclude la possibilità per gli enti locali di distaccare il proprio personale anche presso associazioni diverse da quelle tassativamente indicate» – si porrebbe in contrasto: a) con l’art. 3 della Costituzione, per ingiustificata disparità di trattamento in danno delle associazioni diverse da quelle tipizzate e degli enti locali che aderiscano a tali associazioni, che non possono giovarsi del meccanismo normativamente enucleato; e per la irragionevole cristallizzazione delle associazioni beneficiarie che opera in modo avulso dalla verifica del dato, potenzialmente variabile dell’effettiva assunzione di un altrettanto o più rilevante grado di rappresentatività e meritevolezza anche da parte di associazioni diverse; b) con l’art. 18 Cost., in quanto l’irragionevole preclusione dell’operatività del beneficio in favore di altre associazioni produce un deterrente rispetto all’adesione dell’ente locale a tali associazioni (incidendo negativamente sul valore del pluralismo e sulla libertà di scegliere le associazioni a cui aderire) ed «una discriminazione, non ancorata a concreti parametri giustificativi, delle associazioni costituite mediante l’estrinsecazione della libertà cristallizzata da detto precetto costituzionale»; c) con gli artt. 114, 118 e 119 Cost., «nella misura in cui lede l’autonomia costituzionalmente garantita degli enti locali»; d) con l’art. 97 Cost., nella parte in cui la previsione dell’elencazione tassativa «discrimina i soggetti che entrano in contatto con gli enti locali».

2. La questione è, sotto diversi profili, inammissibile.

3. Va, preliminarmente, rilevato che l’intero impianto motivazionale dell’ordinanza di rimessione – che muove dalla riaffermazione (non contestata) del carattere tassativo della norma censurata – risulta incentrato sulla lamentata lesione del principio di uguaglianza per ingiustificata disparità di trattamento a sfavore delle associazioni diverse da quelle tipizzate dalla norma medesima entro un numerus clausus di associazioni potenzialmente beneficiarie dei distacchi in esame. A giudizio del Collegio a quo, tale disparità (il cui potenziale lesivo viene posto a fondamento di tutte le censure riferite ai singoli parametri evocati) sarebbe altresì accentuata dalla «cristallizzazione delle associazioni beneficiarie che opera in modo avulso dalla verifica del dato, potenzialmente variabile, dell’effettiva assunzione di un altrettanto o più rilevante grado di rappresentatività e meritevolezza anche da parte di associazioni diverse».

3.1. Tale essendo la prospettazione, risulta innanzi tutto come la generale denuncia della lesione del principio di uguaglianza (rappresentata, come detto, quale vulnus che connota anche tutte le altre censure) sia svolta dal rimettente sulla base di un assunto, non altrimenti argomentato (e pertanto in sé apodittico), che prescinde dalla formulazione (e dalla soluzione) di quel giudizio di relazione tra la disciplina censurata e quella proposta quale modello di coerenza costituzionale, che dovrebbe costituire la premessa argomentativa necessaria per affrontare (e risolvere) il sotteso controllo di ragionevolezza della norma impugnata.

Questa Corte ha, infatti, affermato che «il parametro della eguaglianza non esprime la concettualizzazione di una categoria astratta, staticamente elaborata in funzione di un valore immanente dal quale l’ordinamento non può prescindere, ma definisce l’essenza di un giudizio di relazione che, come tale, assume un risalto necessariamente dinamico» (sentenza n. 89 del 1996). Pertanto, poiché «il principio di eguaglianza esprime un giudizio di relazione in virtù del quale a situazioni eguali deve corrispondere l’identica disciplina e, all’inverso, discipline differenziate andranno coniugate a situazioni differenti, ciò equivale a postulare che la disamina della conformità di una norma a quel principio deve svilupparsi secondo un modello dinamico, incentrandosi sul “perché” una determinata disciplina operi, all’interno del tessuto egualitario dell’ordinamento, quella specifica distinzione, e quindi trarne le debite conclusioni in punto di corretto uso del potere normativo».

3.2. A fronte di siffatta giurisprudenza – che muove dalla constatazione secondo la quale, «essendo qualsiasi disciplina destinata per sua stessa natura ad introdurre regole e, dunque, a operare distinzioni, qualunque normativa positiva finisce per risultare necessariamente destinata ad introdurre nel sistema fattori di differenziazione» –, il giudice a quo non ha specificamente argomentato (se non assertivamente affermandola) l’effettiva comparabilità di tali fattori.

L’ordinanza di rimessione risulta, infatti, carente di una adeguata motivazione, sia delle ragioni sottese alla formulazione della regola contenuta nella normativa oggetto di censura (di cui viene denunciato esclusivamente il carattere tassativo), sia dei motivi della ritenuta (ma, anch’essa, non altrimenti motivata) omogeneità (quanto a caratteri, struttura associativa, compiti e funzioni) delle associazioni ricorrenti rispetto a quelle contemplate dalla norma, omogeneità che determinerebbe la necessità di estendere ad esse la disciplina in esame. Una tale lacuna risulta ancor più evidente ove si ponga mente al fatto che il rimettente neppure considera (se non altro per contestarne le affermazioni) la decisione, pronunciata nel primo grado dello stesso giudizio a quo, che ha dichiarato manifestamente infondata analoga questione di legittimità costituzionale, per esclusione del dedotto carattere immotivato e discriminatorio della formulazione dell’elenco di cui alla norma impugnata (sull’assunto che esso «comprende tipologie precise di associazioni di Enti locali, individuandone una per ogni tipologia»: Tribunale amministrativo regionale per la Toscana, sezione seconda, 14 ottobre 2009, n. 1542).

3.3. Il Collegio si limita viceversa a richiamare, da un lato, quanto disposto dall’art. 270 dello stesso d.lgs. n. 267 del 2000 (che, nella particolare materia di riscossione dei contributi associativi, estende la favorevole portata dispositiva anche alle altre associazioni, diverse da quelle enumerate); e, dall’altro lato, la giurisprudenza di questa Corte, che (in tema di verifica della rappresentatività delle associazioni sindacali) ne sottolinea l’esigenza al fine di evitare una identificazione aprioristica delle stesse.

Nel contempo, tuttavia, esso non spende alcuna argomentazione in ordine alla configurabilità di quella eadem ratio della disciplina impugnata con quella degli evocati tertia comparationis (sentenza n. 142 del 2014; ordinanze n. 101 e n. 16 del 2014) che sola porterebbe a ritenere “irragionevole”, e per ciò stesso arbitraria, la scelta discrezionale del legislatore di differenziare il trattamento di situazioni di comprovata omogeneità. Né giustifica la auspicata estensione del criterio di “maggiore rappresentatività” (enucleato dalla giurisprudenza della Corte in rapporto alla specificità – di diretta matrice costituzionale – della regolamentazione delle organizzazioni sindacali: da ultimo sentenza n. 231 del 2013) per individuare le associazioni di enti locali destinatarie del beneficio in esame.

4. Altrettanto priva di sufficiente apporto argomentativo risulta la censura riferita alla violazione dell’art. 18 Cost., dedotta in quanto l’asserita irragionevole preclusione dell’operatività del beneficio in favore di altre associazioni produrrebbe un deterrente rispetto all’adesione dell’ente locale a tali associazioni ed «una discriminazione, non ancorata a concreti parametri giustificativi, delle associazioni costituite mediante l’estrinsecazione della libertà cristallizzata da detto precetto costituzionale».

Anche rispetto a tale vulnus, manca una qualche argomentazione circa le prospettate ragioni di incostituzionalità con riguardo alla concreta diretta incidenza della mancata fruizione del beneficio sulla libertà di associazione (e quindi sul ventaglio dei diritti a tale libertà correlati). Peraltro, il rimettente omette di argomentare in ordine alle conseguenze (in termini di configurabilità o meno della esistenza di situazioni giuridiche attive facenti capo alla associazione, che sarebbero compromesse dalla norma) del fatto che la possibilità del distacco temporaneo del personale degli enti pubblici presso gli organismi delle associazioni menzionate dalla norma censurata rappresenta una mera facoltà attribuita alla discrezionalità degli enti stessi e che quindi la possibilità di essere destinatarie del beneficio non può dar luogo a pretese da parte delle associazioni de quibus (neanche di quelle menzionate dalla norma).

5. Del tutto immotivate (poiché genericamente riferite agli evocati parametri, senz’altra argomentazione) si configurano anche le denunciate ulteriori violazioni che la norma arrecherebbe agli artt. 114, 118 e 119 Cost., «nella misura in cui lede l’autonomia costituzionalmente garantita degli enti locali»; ed all’art. 97 Cost. nella parte in cui la previsione dell’elencazione tassativa «discrimina i soggetti che entrano in contatto con gli enti locali».

6. A siffatti profili di inammissibilità della sollevata questione, per carenza di motivazione in ordine alla sua non manifesta infondatezza, si aggiunge infine quello derivante dalla specifica formulazione della richiesta di pronuncia di incostituzionalità della norma, censurata «nella parte in cui esclude la possibilità per gli enti locali di distaccare il proprio personale anche presso associazioni diverse da quelle tassativamente indicate» nella norma stessa. Tale petitum, per la ampiezza della sua portata additiva – in cui, tra l’altro, l’evocato princípio della maggiore rappresentatività neppure viene contemplato quale criterio per l’attribuzione del beneficio de quo –, non si configura come unica soluzione costituzionalmente obbligata (sentenze n. 81 e n. 30 del 2014), in quanto diretta ad una generale ed indiscriminata estensione dell’ámbito di applicabilità del beneficio medesimo a tutte le altre associazioni di enti locali.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 271, comma 2, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 18, 97, 114, 118 e 119 della Costituzione, dal Consiglio di Stato, sezione V, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 ottobre 2014.

F.to:

Paolo Maria NAPOLITANO, Presidente

Paolo GROSSI, Redattore

Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 24 ottobre 2014.