Sentenza n. 193 del 2014

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SENTENZA N. 193

ANNO 2014

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-           Sabino                        CASSESE                              Presidente

-           Giuseppe                    TESAURO                            Giudice

-           Paolo Maria                NAPOLITANO                             ”

-           Giuseppe                    FRIGO                                           ”

-           Alessandro                 CRISCUOLO                                ”

-           Paolo                          GROSSI                                        ”

-           Aldo                           CAROSI                                        ”

-           Marta                          CARTABIA                                  ”

-           Sergio                         MATTARELLA                            ”

-           Mario Rosario             MORELLI                                     ”

-           Giancarlo                    CORAGGIO                                 ”

-           Giuliano                      AMATO                                        ”

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 17 del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 13 settembre 1946, n. 233 (Ricostituzione degli Ordini delle professioni sanitarie e per la disciplina dell’esercizio delle professioni stesse), promosso dalla Corte di cassazione nel procedimento vertente tra l’Ordine dei farmacisti della Provincia di Foggia e D’Addetta Carlo Ignazio ed altri, con ordinanza del 3 settembre 2013 iscritta al n. 248 del registro ordinanze 2013 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 47, prima serie speciale, dell’anno 2013.

Visto l’atto di costituzione di D’Addetta Carlo Ignazio;

udito nell’udienza pubblica del 20 maggio 2014 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro;

udito l’avvocato Marco Paoletti per D’Addetta Carlo Ignazio.

Ritenuto in fatto

1.– La Corte di cassazione, con ordinanza del 3 settembre 2013, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 24 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 17 (recte: art. 17, primo e secondo comma, lettera c) del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 13 settembre 1946, n. 233 (Ricostituzione degli Ordini delle professioni sanitarie e per la disciplina dell’esercizio delle professioni stesse), nella parte in cui non prevede che la Commissione centrale per gli esercenti le professioni sanitarie (di seguito: Commissione centrale), nell’esame degli affari concernenti la professione dei farmacisti, sia composta da un numero di membri effettivi e supplenti che, nel caso di annullamento con rinvio da parte della Corte di cassazione di una decisione resa dalla stessa, permetta di celebrare l’eventuale giudizio di rinvio davanti ad un collegio del quale non facciano parte i componenti che hanno concorso a pronunciare la decisione cassata.

2.– L’ordinanza di rimessione premette che la Commissione centrale, con decisione del 28 marzo 2008, ha rigettato l’impugnazione proposta da un farmacista avverso il provvedimento con il quale gli era stata inflitta la sanzione della censura, per violazione dell’obbligo di osservanza dell’orario di chiusura della farmacia.

La Corte di cassazione, con ordinanza del 27 maggio 2010, n. 12947, in accoglimento del ricorso proposto dall’incolpato, ha cassato detta decisione, disponendo il rinvio «alla Commissione centrale per gli esercenti le professioni sanitarie in diversa composizione». Quest’ultima, con decisione dell’11 luglio 2011, n. 16, dopo avere premesso che, in forza della disciplina che ne regola la composizione, «non era possibile procedere alla composizione dell’organo giudicante in modo diverso da quello che aveva emesso la pronuncia cassata e che per evitare una stasi processuale era necessario procedere comunque a nuova decisione», ha accolto il ricorso.

Avverso detta decisione ha proposto ricorso l’Ordine dei farmacisti della Provincia di Foggia, formulando tre motivi di censura, con il primo dei quali ha dedotto, tra l’altro, che «la Commissione centrale avrebbe dovuto investire» la Corte di cassazione della questione della «impossibilità di procedere al nuovo giudizio in una composizione integralmente diversa».

2.1.– Il giudice a quo premette che l’art. 2, comma 4, della legge 4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro), aveva previsto il riordino della Commissione centrale e, tuttavia, in virtù dell’art. 15, commi 3-bis e 3-ter, del decreto-legge 13 settembre 2012, n. 158 (Disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela della salute), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 8 novembre 2012, n. 189, la stessa continua ad operare sulla base della norma censurata. La disciplina stabilita dalla norma censurata comporta che la Commissione centrale, quando è chiamata a decidere i procedimenti disciplinari nei confronti dei farmacisti in sede di rinvio disposto dalla Corte di cassazione, non può essere composta da membri diversi da quelli che hanno pronunciato la decisione cassata.

Il citato art. 17 dispone, infatti, che la Commissione centrale è composta da tre membri di diritto e, nei procedimenti concernenti i farmacisti, anche da un ispettore generale per il servizio farmaceutico e da otto farmacisti, di cui cinque effettivi e tre supplenti, prevedendo (al comma settimo) che «Per la validità di ogni seduta occorre la presenza di non meno di cinque membri della Commissione, compreso il presidente; almeno tre dei membri devono appartenere alla stessa categoria alla quale appartiene il sanitario di cui è in esame la pratica», nonché (al comma ottavo) che «In caso di impedimento o di incompatibilità dei membri effettivi, rappresentanti le categorie sanitarie, intervengono alle sedute i membri supplenti della stessa categoria». La Commissione centrale decide, quindi, detti procedimenti disciplinari con nove componenti: i tre componenti di diritto, di cui al citato art. 17, comma primo, nonché l’ispettore generale per il servizio farmaceutico e cinque farmacisti, quali componenti effettivi.

2.2.– Questa disciplina, secondo la Corte di cassazione, non permette che in sede di giudizio di rinvio, dell’organo giudicante facciano parte membri diversi da quelli che hanno adottato la decisione cassata, con conseguente violazione degli artt. 3, 24 e 111 Cost. A suo avviso, nella specie, sarebbe applicabile il principio enunciato da questa Corte con la sentenza n. 262 del 2003, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 4 della legge 24 marzo 1958, n. 195 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio superiore della Magistratura), nel testo modificato dall’art. 2 della legge 28 marzo 2002, n. 44, nella parte in cui non prevedeva l’elezione da parte del Consiglio superiore della magistratura di un numero di membri supplenti della Sezione disciplinare, tale da garantire che lo stesso collegio giudicante non si pronunciasse due volte sulla medesima res iudicanda.

La Commissione centrale, secondo il giudice a quo, esercita, infatti, «funzioni di tipo giurisdizionale speciale» (come espressamente previsto dall’art. 15, comma 3-bis, del d.l. n. 158 del 2012) e tanto sarebbe sufficiente a far ritenere che l’impossibilità di garantirne la diversa composizione nel giudizio di rinvio connota la norma censurata degli stessi vizi riscontrati in relazione all’art. 4 della legge n. 195 del 1958. Inoltre, nella specie, la Commissione centrale, nel pronunciare la decisione impugnata, ha privilegiato l’interesse alla necessaria definizione del procedimento disciplinare, rispetto a quello di garantire la diversa composizione dell’organo giudicante, con considerazione di pregnante importanza a conforto delle proposte censure. Questa Corte, con la sentenza n. 262 del 2003 ha, infatti, affermato che, nel bilanciamento dei beni costituzionali in gioco, non può essere attribuita prevalenza all’interesse alla necessaria definizione del procedimento disciplinare.

L’ordinanza di rimessione approfondisce, poi, gli argomenti in base ai quali la mancata proposizione di istanza di ricusazione nel giudizio di rinvio non esclude la rilevanza della sollevata questione, osservando che viene in discussione «non già la possibilità che, per effetto della mancata attivazione dell’istituto della ricusazione, la Commissione centrale, pur se in composizione identica a quella nella quale era stata adottata la decisione poi cassata con rinvio, si pronunci nuovamente nei confronti del medesimo professionista e sul medesimo addebito disciplinare, quanto la previsione di meccanismi normativi che, a prescindere dalla applicabilità degli istituti della ricusazione e della astensione, consentano lo svolgimento del giudizio di rinvio in condizioni tali da assicurare la posizione di terzietà-imparzialità del giudice disciplinare». Peraltro, secondo il giudice a quo, la previsione di un numero di componenti supplenti inferiore a quello dei membri effettivi, non consentirebbe, qualora fossero attivati gli istituti della ricusazione e dell’astensione, di formare un collegio giudicante senza la partecipazione di quelli che hanno partecipato alla adozione della decisione cassata e, inoltre, «per i componenti di diritto di cui al primo comma dell’art. 17 nessuna sostituzione sarebbe ipotizzabile».

3.– Nel giudizio davanti a questa Corte si è costituito Carlo Ignazio D’Addetta, parte nel processo principale, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile e, comunque, infondata.

A suo avviso, la circostanza che alcuni dei membri della Commissione centrale che ha deciso il giudizio di rinvio non hanno concorso a rendere la decisione cassata sarebbe sufficiente a far ritenere rispettata la regola della diversità della composizione dell’organo giudicante.

Nella giurisprudenza di legittimità sarebbe, inoltre, controversa la possibilità di ritenere invalida la sentenza pronunciata in violazione dell’obbligo di astensione, in difetto della proposizione di istanza di ricusazione, come appunto accaduto nella specie. Il giudice a quo avrebbe, quindi, dovuto rimettere alle Sezioni unite civili della Corte di cassazione la composizione di tale contrasto e, in mancanza, la sollevata questione non sarebbe rilevante.

La regola della diversità del giudice di rinvio stabilita dall’art. 383 del codice di procedura civile, secondo la parte privata, sarebbe strumentale alla tutela dell’interesse del cittadino ad essere giudicato da un giudice terzo ed imparziale, immune da un «pregiudizio». Nel processo principale, la Commissione centrale, all’esito del giudizio di rinvio, si è adeguata al principio di diritto enunciato dalla Corte di cassazione ed ha accolto il ricorso che essa aveva proposto. Dovrebbe, quindi, ritenersi dimostrata «l’inesistenza di “convinzioni precostituite” da parte dell’organo giudicante e tanto renderebbe «superfluo uno scrutinio di costituzionalità del quale solo la parte soccombente in primo grado avrebbe potuto avvalersi, se fosse rimasta soccombente anche in sede di rinvio».

Infine, gli artt. 61 e 64 del decreto del Presidente della Repubblica 5 aprile 1950, n. 221 (Approvazione del regolamento per la esecuzione del decreto legislativo 13 settembre 1946, n. 233, sulla ricostituzione degli Ordini delle professioni sanitarie e per la disciplina dell’esercizio delle professioni stesse) disciplinano i casi dell’assenza o impedimento del presidente della Commissione centrale e di ricusazione di detti componenti ed il citato art. 17, settimo comma, stabilisce che per la validità di ogni seduta occorre la presenza di non meno di cinque membri. Tenuto conto di detti elementi, secondo la parte privata, il giudizio di rinvio potrebbe essere svolto davanti ad un collegio composto da membri che non avevano partecipato alla precedente decisione, con conseguente infondatezza della sollevata questione di legittimità costituzionale.

Considerato in diritto

1.– La Corte di cassazione, con ordinanza del 3 settembre 2013, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 24 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 17 (recte: art. 17, primo e secondo comma, lettera c), del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 13 settembre 1946, n. 233 (Ricostituzione degli Ordini delle professioni sanitarie e per la disciplina dell’esercizio delle professioni stesse). A suo avviso, questa norma violerebbe i suindicati parametri costituzionali, nella parte in cui non prevede che la Commissione centrale per gli esercenti le professioni sanitarie (di seguito: Commissione centrale), nell’esame degli affari concernenti la professione dei farmacisti, sia composta da un numero di membri effettivi e supplenti che, nel caso di annullamento con rinvio da parte della Corte di cassazione di una decisione resa dalla stessa, permetta di celebrare l’eventuale giudizio di rinvio davanti ad un collegio del quale non facciano parte i componenti che hanno concorso a pronunciare la decisione cassata.

2.– In linea preliminare, va osservato che la parte privata ha eccepito l’inammissibilità della questione, perché il citato art. 17 stabilisce, al settimo comma, che, «Per la validità di ogni seduta occorre la presenza di non meno di cinque membri della Commissione, compreso il presidente» ed «almeno tre dei membri devono appartenere alla stessa categoria alla quale appartiene il sanitario di cui è in esame la pratica»; al secondo comma, prevede, inoltre, la nomina di tre membri supplenti per la categoria dei farmacisti, mentre l’art. 61 del decreto del Presidente della Repubblica 5 aprile 1950, n. 221 (Approvazione del regolamento per la esecuzione del decreto legislativo 13 settembre 1946, n. 233, sulla ricostituzione degli Ordini delle professioni sanitarie e per la disciplina dell’esercizio delle professioni stesse) dispone che «In caso di assenza o di impedimento il presidente è sostituito dal funzionario più elevato in grado». Sarebbe, quindi, possibile, a suo avviso, garantire che, nel giudizio di rinvio, non facciano parte della Commissione centrale i componenti che hanno concorso a pronunciare la decisione cassata.

L’eccezione non è fondata.

Allo scopo di accertare se risulti rispettato il principio di alterità del giudice di rinvio, occorre avere riguardo alla possibilità di costituire la Commissione centrale nella sua composizione ordinaria che, come esattamente precisato dal giudice a quo, è di nove componenti (e cioè i tre componenti di cui al citato art. 17, primo comma, oltre, in virtù del secondo comma, lettera c, «un ispettore generale per il servizio farmaceutico e otto farmacisti, di cui cinque effettivi e tre supplenti»). L’eccezionale previsione della validità delle sedute nelle quali siano presenti non meno di cinque membri (art. 17, settimo comma) non può, infatti, consentire (ancora meno imporre) il funzionamento della Commissione centrale, nel solo giudizio di rinvio, in una composizione dimidiata, con esito di per sé solo lesivo della regola generale di formazione del collegio giudicante. E ciò, indipendentemente dalla pur pregnante considerazione del difetto di previsione di un meccanismo di sostituzione del componente designato dall’amministrazione centrale.

2.1.– La parte privata ha, altresì, eccepito l’inammissibilità, per irrilevanza, della sollevata questione in quanto, secondo un orientamento della giurisprudenza di legittimità, la mancata proposizione nel giudizio di rinvio di tempestiva istanza di ricusazione dei membri del collegio giudicante (nella specie, appunto non avanzata), impedirebbe di denunciare l’irregolare composizione del collegio giudicante nel successivo giudizio di cassazione.

Anche questa eccezione non è fondata.

Al riguardo, va infatti osservato, anzitutto, che il giudice a quo ha non implausibilmente motivato in ordine alla rilevanza della questione di legittimità costituzionale, sollevata proprio in considerazione della mancata «previsione di meccanismi normativi che, a prescindere dalla applicabilità degli istituti della ricusazione e della astensione, consentano lo svolgimento del giudizio di rinvio in condizioni tali da assicurare la posizione di terzietà-imparzialità del giudice disciplinare» e tanto, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte è sufficiente a renderla ammissibile (tra le molte, sentenza n. 1 del 2014). Inoltre, le Sezioni unite civili della Corte di cassazione, nel comporre il contrasto di giurisprudenza emerso nella giurisprudenza di legittimità in ordine agli effetti della partecipazione al giudizio di rinvio del giudice persona fisica che ha concorso a pronunciare la decisione cassata, hanno affermato che «la sentenza che dispone il rinvio, a norma dell’art. 383, comma 1, (c.d. rinvio proprio o prosecutorio) contiene (…) una statuizione sull’alterità del giudice rispetto ai magistrati persone fisiche che pronunziarono la sentenza cassata». Conseguentemente, hanno ritenuto violata la relativa statuizione, qualora il giudizio rescissorio sia svolto «davanti a collegio, in cui almeno uno dei componenti aveva partecipato alla pronunzia della sentenza cassata» ed hanno affermato che in tal caso «sussiste la nullità attinente alla costituzione del giudice ex art. 158 c.p.c., non essendo necessario che la parte faccia valere tale incompatibilità ex art. 52 c.p.c., in quanto sul punto dell’alterità (e quindi dell’incompatibilità) si è già pronunziata la sentenza cassatoria» (Corte di cassazione, sezioni unite civili, 27 febbraio 2008, n. 5087).

2.2.– La sollevata questione, ad avviso della parte privata, sarebbe, infine, inammissibile, sotto un primo profilo, perché solo alcuni dei membri della Commissione centrale che ha definito il giudizio di rinvio hanno concorso a pronunciare la decisione cassata. Sotto un secondo profilo, in quanto l’accoglimento da parte del giudice del rinvio dell’impugnazione che egli aveva proposto dimostrerebbe che il predetto era privo di «convinzioni precostituite», dato che la prima pronuncia era stata cassata a seguito di suo ricorso.

L’eccezione, sotto entrambi i profili, non è fondata.

Relativamente al primo, è sufficiente osservare che, come affermato dalle Sezioni unite civili della Corte di cassazione, il principio dell’alterità del giudice è leso quando anche uno solo dei componenti dell’organo che ha pronunciato la decisione cassata partecipi a quella resa all’esito del giudizio di rinvio (Corte di cassazione, Sezioni unite civili, 27 febbraio 2008, n. 5087).

Quanto, invece, al secondo profilo dell’eccezione, risulta palese che la violazione della regola dell’alterità del giudice del rinvio è di per sé lesiva del principio di imparzialità-terzietà della giurisdizione, essendo irrilevante che la decisione sia stata favorevole alla parte privata. Peraltro, l’esigenza di evitare la cosiddetta forza della prevenzione e di assicurare che il giudice non subisca condizionamenti psicologici influenti sulla serenità di giudizio deve, ovviamente, essere garantita in riferimento a tutte le parti del processo.

3.– Nel merito, la questione – da ritenersi rilevante esclusivamente in relazione alla disciplina relativa al funzionamento della Commissione centrale per l’esame degli affari concernenti la professione dei farmacisti – è fondata.

4.– Preliminarmente, occorre precisare che il giudice a quo ha correttamente affermato la perdurante vigenza della norma censurata, in ordine alla disciplina concernente la composizione della Commissione centrale. L’art. 15, comma 3-bis, del decreto-legge 13 settembre 2012, n. 158 (Disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela della salute), aggiunto dalla legge di conversione 8 novembre 2012, n. 189, ha, infatti, stabilito: «In considerazione delle funzioni di giurisdizione speciale esercitate, la Commissione centrale per gli esercenti le professioni sanitarie, di cui all’articolo 17 del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 13 settembre 1946, n. 233, e successive modificazioni, è esclusa dal riordino di cui all’articolo 2, comma 4, della legge 4 novembre 2010, n. 183, e continua ad operare, sulla base della normativa di riferimento, oltre il termine di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto-legge 28 giugno 2012, n. 89, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 132, come modificato dal comma 3-ter del presente articolo. All’allegato 1 annesso al citato decreto-legge n. 89 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 132 del 2012, il numero 29 è abrogato». Questa disposizione rende, quindi, palese che detto organo centrale, come espressamente affermato dalla rimettente Corte di cassazione, continua ad operare in base alla censurata disciplina.

La Commissione centrale esercita «funzioni di giurisdizione speciale» (art. 15, comma 3-bis, del d.l. n. 158 del 2012), in virtù di una qualificazione pacifica nella giurisprudenza di legittimità (Corte di cassazione, Sezioni unite civili, 7 agosto 1998, n. 7753) e, svolgendo un’attività di natura giurisdizionale, avverso le decisioni pronunciate dalla stessa è ammesso ricorso per cassazione, ex art. 111, settimo comma, Cost.

Il procedimento disciplinare nei confronti degli esercenti le professioni sanitarie si articola, quindi, in una prima fase, svolta davanti all’ordine professionale locale, che ha natura amministrativa; nel caso di impugnazione dell’atto che la definisce, alla stessa segue un’ulteriore fase che è svolta, invece, davanti ad un “giudice” ed ha natura giurisdizionale.

I caratteri giurisdizionali del procedimento non escludono, peraltro, che lo stesso possa essere caratterizzato da profili strutturali e funzionali peculiari, in coerenza con la specificità delle funzioni esercitate ed alla luce degli interessi allo stesso sottesi, tra questi anche quello di garantire l’indefettibilità e continuità dell’attività svolta dalla Commissione centrale. Nondimeno, come ha affermato questa Corte, tali interessi vanno sempre subordinati al «principio di imparzialità-terzietà della giurisdizione, che ha pieno valore costituzionale ai sensi degli artt. 24 e 111 della Costituzione, con riferimento a qualunque tipo di processo, “pur nella diversità delle rispettive discipline connessa alle peculiarità proprie di ciascun tipo di procedimento”» (sentenza n. 262 del 2003). Le soluzioni legislative per realizzare questo principio non debbono prefigurare moduli necessariamente identici per tutti i tipi di processo, ma deve essere, comunque, osservata la regola che il giudice rimanga sempre super partes ed estraneo rispetto agli interessi oggetto del processo e sia «assicurato quel “minimo” di garanzie ragionevolmente idonee allo scopo (sentenza n. 78 del 2002)». In tutti i tipi di processo, quindi anche in quello in esame, devono essere previste regole in grado di proteggere in ogni caso il valore fondamentale dell’imparzialità del giudice, impedendo, in particolare, che quest’ultimo possa pronunciarsi due volte sulla medesima res iudicanda (sentenza n. 335 del 2002), specie nel caso di rinvio proprio o prosecutorio (sentenza n. 341 del 1998), qual è quello in esame. La diversità del giudice-persona fisica salvaguarda la stessa effettività del sistema delle impugnazioni, poiché queste «rinvengono, in linea generale, la loro ratio di garanzia nell’alterità tra il giudice che ha emesso la decisione impugnata e quello chiamato a riesaminarla» ed opera anche in senso “discendente”, con riguardo, cioè, al giudizio di rinvio dopo l’annullamento (sentenza n. 183 del 2013) tutte le volte in cui sia stata effettuata una valutazione definitiva sulla stessa res iudicanda.

Questa Corte ha, quindi, dichiarato costituzionalmente illegittima la norma che, non prevedendo la nomina di ulteriori membri supplenti della Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, non impediva, in caso di annullamento con rinvio di una decisione dalla stessa pronunciata, che lo stesso collegio giudicante si pronunciasse due volte sulla medesima res iudicanda (sentenza n. 262 del 2003; analogamente, con riguardo alla mancata previsione della nomina di supplenti in grado di assicurare meccanismi di sostituzione del componente astenuto, ricusato o legittimamente impedito del Tribunale superiore delle acque pubbliche, in relazione proprio ad un giudizio di rinvio, sentenza n. 305 del 2002).

5.– Alla stregua di detti principi, poiché ha rilevanza dirimente ai fini della loro applicabilità la natura giurisdizionale dell’attività svolta dalla Commissione centrale e la stessa natura di tale organo e sono, invece, ininfluenti le peculiarità procedimentali della prima e strutturali del secondo, la norma censurata viola gli invocati parametri degli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione sotto il profilo dell’imparzialità della giurisdizione. Pertanto, essa deve essere dichiarata costituzionalmente illegittima, nella parte in cui non prevede la nomina di membri supplenti della stessa che consentano la costituzione, per numero e categoria, di un collegio giudicante diversamente composto rispetto a quello che abbia pronunciato una decisione annullata con rinvio dalla Corte di cassazione.

6.– Ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), e quindi in via consequenziale alla decisione adottata, deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale del censurato art. 17, primo e secondo comma, lettere a), b), d) ed e), del d.lgs. C.p.S. n. 233 del 1946, nelle parti in cui disciplinano la composizione della Commissione centrale per l’esame degli affari concernenti le professioni dei medici chirurghi, dei veterinari, delle ostetriche e degli odontoiatri, poiché contengono norme identiche a quelle dichiarate in contrasto con la Costituzione dalla presente sentenza.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 17, primo e secondo comma, lettera c), del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 13 settembre 1946, n. 233 (Ricostituzione degli Ordini delle professioni sanitarie e per la disciplina dell’esercizio delle professioni stesse), nella parte in cui non prevede la nomina di membri supplenti della Commissione centrale per l’esame degli affari concernenti la professione dei farmacisti, che consentano la costituzione, per numero e categoria, di un collegio giudicante diversamente composto rispetto a quello che abbia pronunciato una decisione annullata con rinvio dalla Corte di cassazione;

2) dichiara, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale dell’art. 17, primo e secondo comma, lettere a), b), d) ed e), del d.lgs. C.p.S. n. 233 del 1946, nella parte in cui non prevede la nomina di membri supplenti della Commissione centrale per l’esame degli affari concernenti le professioni dei medici chirurghi, dei veterinari, delle ostetriche e degli odontoiatri, che consentano la costituzione, per numero e categoria, di un collegio giudicante diversamente composto rispetto a quello che abbia pronunciato una decisione annullata con rinvio dalla Corte di cassazione.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 luglio 2014.

F.to:

Sabino CASSESE, Presidente

Giuseppe TESAURO, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 9 luglio 2014.