Sentenza n. 155 del 2014

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SENTENZA N. 155

ANNO 2014

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-           Gaetano                       SILVESTRI                                     Presidente

-           Luigi                           MAZZELLA                                       Giudice

-           Sabino                         CASSESE                                                

-           Giuseppe                     TESAURO                                               

-           Paolo Maria                 NAPOLITANO                                        

-           Giuseppe                     FRIGO                                                     

-           Alessandro                  CRISCUOLO                                           

-           Paolo                           GROSSI                                                   

-           Giorgio                        LATTANZI                                              

-           Aldo                            CAROSI                                                   

-           Marta                           CARTABIA                                             

-           Sergio                          MATTARELLA                                       

-           Mario Rosario              MORELLI                                               

-           Giancarlo                     CORAGGIO                                            

-           Giuliano                       AMATO                                                   

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 32, comma 4, lettera b), della legge 4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro), promossi dal Tribunale ordinario di Roma con due ordinanze del 24 ottobre 2012, iscritte ai numeri 301 e 302 del registro ordinanze 2012 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 3, prima serie speciale, dell’anno 2013.

Visti gli atti di costituzione di C.G. e di Poste Italiane s.p.a., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 15 aprile 2014 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo;

uditi gli avvocati Sergio Galleano e Vincenzo de Michele per C.G., Giampiero Proia e Luigi Fiorillo per Poste Italiane s.p.a. e l’avvocato dello Stato Enrico De Giovanni per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.– Il Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro, con ordinanza del 24 ottobre 2012 (r.o. n. 301 del 2012) ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 32, comma 4, lettera b), della legge 4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro), nella parte in cui prevede l’applicazione del termine di decadenza di cui al riformato art. 6, primo comma, della legge 15 luglio 1966, n. 604 (Norme sui licenziamenti individuali) ai contratti di lavoro a tempo determinato già conclusi alla data di entrata in vigore della citata legge n. 183 del 2010 e con decorrenza dalla medesima data.

2.– Il rimettente, chiamato a pronunciare su una causa promossa da C.I. nei confronti di Poste Italiane spa, premette che, con ricorso depositato il 24 gennaio 2012, il ricorrente ha chiesto che fosse accertata la nullità del termine finale di durata apposto al contratto di lavoro stipulato con la detta società, ai sensi dell’art. 2, comma 1-bis, del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368 (Attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall’UNICE, dal CEEP e dal CES), come modificato dall’art. 1, comma 558, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2006), contratto avente durata dal 9 luglio 2008 al 31 ottobre 2008, con inquadramento al livello E, con mansioni di portalettere; la conversione del contratto in rapporto di lavoro a tempo indeterminato fin dalla data di stipulazione; la condanna della resistente alla riammissione in servizio del lavoratore e al pagamento, anche a titolo risarcitorio, delle retribuzioni a far data dalla scadenza del termine, oltre agli accessori di legge.

Il Tribunale, inoltre, riferisce che Poste Italiane s.p.a., costituitasi in giudizio con memoria del 28 maggio 2012, ha eccepito in via preliminare la decadenza dall’azione di nullità per mancata impugnazione del contratto nel termine previsto dall’art. 32 della legge n. 183 del 2010 e la risoluzione del contratto stesso per mutuo consenso; nel merito, la società ha contestato la fondatezza delle pretese azionate dal ricorrente, chiedendone il rigetto.

Il giudicante espone che, all’udienza del 12 giugno 2012, ritenuta la causa matura per la decisione, ha fissato l’udienza di discussione anche sui «dubbi in merito alla legittimità costituzionale della norma dell’art. 32, comma 4, lettera b), L. 183/2010 – nella parte in cui prevede l’applicazione del termine di decadenza di cui al riformato art. 6 della L. 604/1966 anche ai contratti a termine "già conclusi” alla data di entrata in vigore della medesima legge – in relazione al disposto dell’art. 3 della Costituzione».

Ciò premesso, il rimettente, dopo aver riportato l’art. 32, comma 4, della legge n. 183 del 2010, nonché il richiamo, in esso contenuto, all’art. 6 della legge n. 604 del 1966, rileva che, nel caso di specie, benché il contratto stipulato tra le parti fosse cessato in data 31 ottobre 2008, cioè ben prima dell’entrata in vigore della normativa ora citata (24 novembre 2010), il ricorrente aveva contestato per la prima volta la legittimità dell’apposizione del termine di durata con lettera spedita il 25 ottobre 2011, quindi ben oltre la scadenza del termine decadenziale introdotto dal menzionato art. 32.

Tuttavia, il rimettente dà atto che, ai sensi del comma 1-bis, di detta norma, introdotto dall’art. 1, comma 2, della legge 26 febbraio 2011, n. 10, intervenuta a convertire, con modificazioni, il decreto-legge 29 dicembre 2010, n. 225 (Proroga di termini previsti da disposizioni legislative e di interventi urgenti in materia tributaria e di sostegno alle imprese e alle famiglie), «In sede di prima applicazione, le disposizioni di cui all’articolo 6, primo comma, della legge 15 luglio 1966, n. 604, come modificato dal comma 1 del presente articolo, relative al termine di sessanta giorni per l’impugnazione del licenziamento, acquistano efficacia a decorrere dal 31 dicembre 2011».

Però il menzionato differimento del termine al 31 dicembre 2011 sarebbe stato previsto quando lo stesso, decorrente dal 24 novembre 2010 e della durata di sessanta giorni, era ormai irrimediabilmente scaduto, con conseguente intangibilità di ogni fattispecie decadenziale medio tempore verificatasi. A conforto di questa tesi sono richiamate alcune sentenze della Corte di cassazione e alcune fattispecie nelle quali il legislatore, pur introducendo disposizioni di sospensione o proroga di termini di prescrizione o di decadenza, lo avrebbe fatto prima della scadenza dei termini stessi e mai dopo.

Comunque – prosegue il rimettente – che si aderisca o meno all’opzione interpretativa in ordine alla applicabilità a tutte le ipotesi indicate nel citato art. 32 del differimento dell’efficacia del termine decadenziale di impugnazione introdotto dalla legge n. 10 del 2011, nonché in merito alla non applicabilità dello stesso a tutte le decadenze a tale data già maturate, non vi sarebbe ragione di dubitare che, nel caso di specie, essendo cessato il contratto a termine in data 31 ottobre 2008, ed avendo il ricorrente formalizzato la propria impugnazione con lettera del 25 ottobre 2011, quest’ultimo sia incorso nella decadenza contemplata dalla menzionata norma, come eccepito dalla parte convenuta.

In questo quadro, «la previsione dell’applicazione del citato termine decadenziale d’impugnazione ai soli contratti di lavoro a tempo determinato "già conclusi” (rectius: cessati o scaduti) alla data di entrata in vigore della L. 183/2010, e non anche a tutte le altre ipotesi previste dall’art. 32, commi 3 e 4, della medesima legge e già verificatesi a quella stessa data», sarebbe in contrasto con i principi di parità di trattamento e di ragionevolezza sanciti dall’art. 3 Cost.

Infatti, quanto al principio di ragionevolezza, non vi sarebbe dubbio che il legislatore possa, nell’esercizio della discrezionalità che gli è propria, disciplinare in maniera diversa fattispecie differenti, quali sarebbero certamente, ai fini che ne occupano, quelle: 1) relative alla scadenza del termine apposto al contratto di lavoro (citata per ben quattro volte nell’art. 32, nella formulazione precedente alle modifiche da ultimo introdotte dall’art. 1, comma 12, della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), applicabile ratione temporis al caso di specie e, in particolare, al comma 3, lettere a) e d), e al comma 4, lettere a) e b ); 2) concernenti il recesso del committente nei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, anche nella modalità a progetto (comma 3, lettera b); 3) relative al trasferimento del lavoratore, ai sensi dell’art. 2103 del codice civile (comma 3, lettera c); 4) attinenti alla cessione del contratto di lavoro, ai sensi dell’art. 2112 cod. civ. (comma 4, lettera c), nonché 5) aventi ad oggetto ogni altro caso in cui, compresa l’ipotesi prevista dall’art. 27 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 (Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro), si chieda la costituzione o l’accertamento di un rapporto di lavoro in capo ad un soggetto diverso dal titolare del contratto (comma 4, lettera. d). Tuttavia, sarebbe del pari indubbio che, qualora sia lo stesso legislatore a disciplinare in maniera identica fattispecie diverse in relazione ad un determinato aspetto (qual è quello del termine d’impugnazione che in questa sede interessa), debba farlo in maniera coerente e, per l’appunto, ragionevole ed uguale per tutte.

Nel caso in esame, per non incorrere nella violazione del principio di ragionevolezza, il legislatore avrebbe potuto prevedere o che per tutte le ipotesi previste dall’art. 32, commi 3 e 4, il termine di decadenza di 60 giorni si applicasse anche ai rapporti «già conclusi» (nel caso dei contratti a termine, di collaborazione, di somministrazione), o agli atti già compiuti (nel caso di trasferimento dei lavoratori e di cessione dei contratti di lavoro) alla data di entrata in vigore della legge, ovvero che, sempre per tutte le medesime ipotesi, il predetto termine si applicasse soltanto ai rapporti non ancora conclusi o agli atti non ancora compiuti a quella stessa data.

Prevedendo che soltanto per i contratti di lavoro a tempo determinato il termine di decadenza si applichi anche ai rapporti già conclusi alla data di entrata in vigore della legge, il legislatore avrebbe introdotto anche una evidente disparità di trattamento tra i lavoratori intenzionati a contestare in giudizio l’apposizione del termine a tali contratti (costretti ad impugnarli nel termine di 60 giorni a far data dal 24 novembre 2010), e quelli intenzionati a promuovere analoga iniziativa giudiziaria in relazione alle diverse ipotesi previste dallo stesso art. 32, commi 3 e 4, «già concluse» o comunque verificatesi alla medesima data (i quali potranno continuare ad agire in giudizio senza dover rispettare alcun termine di decadenza).

Tale disparità di trattamento, inoltre, sarebbe evidente anche dal punto di vista datoriale, non ravvisandosi ragione per tutelare in maniera differente, all’interno della medesima norma, l’interesse dei datori di lavoro, che abbiano stipulato contratti a tempo determinato, di conoscere, in tempi rapidi e certi, se e quanti dei propri ex dipendenti abbiano intenzione di contestarne in giudizio la legittimità, rispetto all’analogo interesse di quegli imprenditori che abbiano invece stipulato contratti di collaborazione coordinata e continuativa, di collaborazione a progetto o di somministrazione, ovvero che abbiano disposto il trasferimento di un lavoratore da una unità produttiva ad un’altra, ovvero ancora che abbiano ceduto un contratto di lavoro, di conoscere con altrettanta rapidità e certezza l’esistenza di analoghe intenzioni impugnatorie da parte dei propri ex collaboratori, dipendenti o ex dipendenti.

Non si potrebbe pervenire a conclusione diversa valorizzando la circostanza (peraltro meramente fattuale e non giuridica) che, ormai da anni, importanti realtà imprenditoriali italiane (e, in particolare, Poste Italiane spa) abbiano fatto ampio ricorso all’assunzione di lavoratori con contratti a tempo determinato, dando così vita ad un "fenomeno sociale” di portata tale da legittimare una sorta di intervento straordinario del legislatore, diretto a far emergere, una volta per tutte, il contenzioso latente relativo a tale tipologia contrattuale. Al riguardo, premesso che tutte le norme recanti limiti all’accesso del cittadino alla giustizia (qual è quella in esame, che non soltanto introduce un termine di decadenza dalla facoltà di agire in giudizio, ma ne prevede l’applicazione anche alle fattispecie già verificatesi al momento dell’entrata in vigore della legge) hanno natura eccezionale, sarebbe sufficiente porre in evidenza – sempre sotto il profilo della parità di trattamento – sia la dubbia legittimità di un intervento legislativo palesemente rivolto a favorire, in difetto di «motivi imperiosi di carattere generale», la posizione di uno dei due contraenti (nella specie, della parte datoriale), sia l’assoluta ingiustificabilità dello stesso, considerata la posizione di quei lavoratori che, assunti con contratti a tempo determinato da piccoli o medi imprenditori e non direttamente coinvolti nel citato "fenomeno sociale”, si sono visti applicare anche alle fattispecie già verificatesi (a differenza dei lavoratori assunti con le altre tipologie contrattuali o destinatari degli altri provvedimenti datoriali indicati nell’art. 32, commi 3 e 4), un termine decadenziale mai esistito prima.

Alla luce di tali rilievi, la norma censurata si porrebbe in contrasto con l’art. 3 Cost. e con i principi di ragionevolezza e di parità di trattamento in essa sanciti.

In questo quadro, ad avviso del Tribunale, la questione di legittimità costituzionale, così promossa, sarebbe non manifestamente infondata e rilevante ai fini della decisione, perché, qualora la norma in esame trovasse applicazione, nel caso di specie si dovrebbe dichiarare la decadenza del ricorrente dalla facoltà di agire in giudizio per ottenere l’accertamento della nullità del termine apposto al contratto di lavoro stipulato con la società convenuta.

3.– Con atto depositato il 4 febbraio 2013 si è costituita la società Poste Italiane spa., chiedendo che la questione di legittimità costituzionale sia dichiarata inammissibile o non fondata.

Quanto alla asserita irragionevolezza della norma censurata, la società osserva che il rimettente porrebbe sul medesimo piano fattispecie ed istituti del tutto diversi. In particolare, il giudice a quo non riconoscerebbe la specificità delle fattispecie di illegittima apposizione del termine al rapporto di impiego, che si differenzierebbe in modo netto rispetto alle altre ipotesi di patologia del negozio giuridico prese in considerazione dalla norma impugnata e che, ragionevolmente, giustificherebbe l’operatività del regime decadenziale.

Infatti, diversamente dagli altri istituti considerati dall’art. 32, commi 3 e 4, il giudizio in ordine alla legittima apposizione del termine al rapporto d’impiego si sostanzierebbe in un’azione di accertamento della nullità parziale di una clausola del contratto di lavoro, nella quale sarebbe disciplinato il relativo termine, mentre la detta azione sarebbe imprescrittibile. Pertanto, il legislatore del 2010, al fine di garantire il principio del legittimo affidamento, avrebbe introdotto, anche con riferimento al passato, un termine decadenziale che permettesse di portare a definizione certa tutto il possibile contenzioso in materia di contratti a tempo determinato, imponendo ai lavoratori, effettivamente interessati all’accertamento della illegittimità dei termini apposti ai rispettivi rapporti d’impiego, l’onere di procedere alla tempestiva impugnazione – prima stragiudiziale poi giudiziale – entro i termini indicati dalla norma impugnata. In tal modo, il legislatore avrebbe inteso ragionevolmente sanzionare con una preclusione decadenziale la relativa inerzia.

La difesa della società afferma che, ponendosi in un’ottica sistematica, la previsione in esame risponderebbe alle medesime finalità che hanno ispirato l’adozione del regime sanzionatorio oggetto dei commi 5, 6 e 7, del medesimo art. 32 della legge n. 183 del 2010, ritenute legittime da questa Corte con la sentenza n. 303 del 2011.

Ad avviso della resistente, la ricostruzione – secondo la giurisprudenza maggioritaria – dell’illegittima apposizione del termine al rapporto d’impiego, alla stregua di causa di nullità parziale del contratto di lavoro, avrebbe ingenerato una "discutibile” prassi giudiziaria, per cui un rilevante numero di lavoratori avrebbe proposto l’actio nullitatis a distanza di molti anni dal momento della contestazione della illegittimità del termine e dalla (normalmente coincidente) messa a disposizione del datore di lavoro delle proprie prestazioni; sicché in sede giudiziaria la domanda avrebbe assunto come petitum non tanto la conversione del contratto in rapporto a tempo indeterminato, quanto il pagamento di tutte le retribuzioni maturate dalla decorrenza della mora accipiendi dell’imprenditore convenuto in giudizio e connesse alla ricostituzione del rapporto d’impiego, realizzata posponendo ad libitum la data di presentazione del ricorso giudiziale.

In tal modo si sarebbe realizzato un effetto distorsivo della garanzia attribuita ai lavoratori interessati fino all’entrata in vigore della normativa ora al vaglio di questa Corte, in quanto gli stessi lavoratori avrebbero potuto contestare in via stragiudiziale la legittimità del termine in epoca immediatamente successiva alla cessazione degli effetti del contratto, per poi rivendicare in sede giudiziaria, dopo anni di intenzionale inerzia, non tanto e non solo la ricostituzione del rapporto, quanto il complesso di somme corrispondenti alle retribuzioni, agli interessi legali e alla rivalutazione monetaria, maturati a far data dalla messa a disposizione delle prestazioni al datore di lavoro. Tale sistema avrebbe consentito «palesi forme di abuso del diritto», caratterizzate da un illegittimo "sviamento” delle tutele apprestate dall’ordinamento, in quanto l’entità della indennità risarcitoria, costituente l’effetto indiretto della declaratoria di nullità del termine apposto al rapporto di lavoro, e, cioè, la liquidazione di una indennità pari al complesso delle retribuzioni e degli accessori di legge maturati dalla mora accipiendi alla data della riammissione in servizio, «diveniva una variabile arbitrariamente determinata dal lavoratore, che – fondandosi (indebitamente) sull’imprescrittibilità dell’actio nullitatis – poteva intenzionalmente posporre l’avvio dell’accertamento giurisdizionale in modo da incrementare le spettanze derivanti dall’eventuale condanna dell’imprenditore».

Proprio al fine di contemperare gli interessi dei lavoratori e quelli del datore di lavoro il legislatore avrebbe delineato, da un lato, ai commi 5, 6 e 7 dell’art. 32 della legge n. 183 del 2010, un regime che riconosce a favore del lavoratore – che abbia ottenuto il riconoscimento della illegittimità del termine apposto al proprio rapporto d’impiego – la declaratoria giudiziale di conversione a tempo indeterminato dello stesso contratto e la previsione di una indennità onnicomprensiva determinata, avuto riguardo ai criteri di cui all’art. 8 della legge n. 604 del 1966, entro un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto; per altro verso, con la disposizione oggetto di scrutinio, il legislatore avrebbe introdotto un termine di decadenza del tutto finalizzato a fornire certezza in ordine a tutte le fattispecie di contratti a tempo determinato conclusesi anche a distanza di lustri o decenni dall’entrata in vigore della norma scrutinata e che, in punto di diritto, stante il principio dell’imprescrittibilità dell’azione di nullità relativa alla clausola con la quale si è apposto il termine al rapporto d’impiego, sarebbero ancora ipoteticamente suscettibili di accertamento positivo in sede giudiziale, con evidente e irragionevole violazione dei principi di affidamento e di certezza delle situazioni giuridiche consolidate, che la disposizione impugnata sarebbe appunto finalizzata a preservare.

Alla luce di tali argomentazioni, sarebbe errato affermare che la detta disposizione troverebbe come tertia comparationis i rapporti ed atti cui fanno riferimento le altre norme di cui al comma 4 dell’art. 32 della legge n. 183 del 2010.

Infatti, si tratterebbe di fattispecie che, sotto il profilo patologico, non godrebbero del rimedio dell’azione di nullità dalla quale derivi una potenziale e perenne (e, nel caso in esame, irragionevole) incertezza in ordine alla contestazione della legittimità del rapporto, e che, sotto il profilo economico-sociale, non avrebbero "registrato”, prima dell’entrata in vigore della legge, un’estensione in termini di contenzioso con effetti "distorsivi” simili a quello che, invece, avrebbe motivato l’adozione del regime processuale e di tutela sostanziale oggetto, rispettivamente, del comma 4, lettera b) e dei commi 5, 6 e 7, dell’art. 32 della legge citata.

Pertanto, ad avviso della difesa della società, andrebbe affermata l’assoluta legittimità e ragionevolezza della norma censurata e, di converso, l’inammissibilità e l’infondatezza della questione oggetto del presente giudizio.

La questione sarebbe non fondata anche con riguardo alla asserita disparità di trattamento.

Infatti, come affermato dallo stesso rimettente, si tratterebbe di fattispecie diverse che il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, può disciplinare in modo diverso.

Né tale difformità delle fattispecie – già idonea a minare il fondamento stesso della prospettata questione di legittimità costituzionale sollevata in riferimento all’art. 3 Cost. – può essere superata dal rilievo che le stesse sarebbero sottoposte, in relazione ad un determinato aspetto, cioè al termine d’impugnazione, ad una disciplina identica, trattandosi di un profilo del tutto irrilevante per valutare l’eventuale violazione del principio di uguaglianza.

Ad avviso di Poste Italiane s.p.a., «l’istituto della decadenza, così come quello della prescrizione, attenendo ad un aspetto estraneo alla fattispecie giuridica sostanziale, essendo inerente al diritto di azione, non vale a far venire meno la differenziazione sostanziale e fattuale delle fattispecie alle quali detta decadenza è riferita».

Pertanto, la circostanza che il legislatore abbia previsto, ai fini dell’esercizio dell’azione, un medesimo termine di decadenza per tutte le fattispecie di cui all’art. 32, commi 3 e 4, della legge n. 183 del 2010, non potrebbe valere a rendere omogenee fattispecie che sono e restano sostanzialmente diverse.

Al riguardo, la società ricorda che – come statuito dalla giurisprudenza di questa Corte – il principio di uguaglianza sostanziale, di cui all’art. 3 Cost., comporta un generale divieto di discriminazione rinvenibile soltanto qualora si trattino in maniera diversa situazioni uguali sotto il profilo sostanziale, perché se situazioni uguali esigono uguale disciplina, situazioni sostanzialmente diverse possono richiedere discipline differenti.

Risulterebbe evidente, dunque, che nella specie la diversità delle situazioni, considerate dai commi 3 e 4 dell’art. 32 della legge n. 183 del 2010, escluderebbe la configurabilità della denunziata violazione del principio di uguaglianza, rientrando nell’alveo della insindacabile discrezionalità legislativa la scelta di differenziare anche il regime delle decadenze previsto dalla norma censurata. Ne conseguirebbe che la difformità delle dette situazioni e della relativa disciplina ben potrebbe giustificare, anche in relazione al regime della decadenza, l’adozione di scelte diversificate, adottate previa discrezionale valutazione delle peculiari esigenze protettive postulate da ciascuna fattispecie.

La società prosegue osservando che la posizione rivestita dai lavoratori, intenzionati a contestare in giudizio l’apposizione del termine al contratto, non sarebbe in alcun modo equiparabile e/o confrontabile con la posizione di coloro che si trovino nelle altre condizioni prese in considerazione dai commi 3 e 4 del citato art. 32 della legge n. 183 del 2010.

Infatti, i lavoratori a termine sarebbero destinatari di una complessa e articolata disciplina di dettaglio, dettata ad hoc dal legislatore, che li porrebbe, sotto il profilo della certezza dei rapporti giuridici, in una posizione peculiare e tale da giustificare per essi la necessità di prevedere l’onere d’impugnare, a pena di decadenza, il termine apposto anche ai contratti relativi ai rapporti già conclusi. Al riguardo, l’esponente ricorda che l’azione diretta a far accertare la nullità del termine apposto al contratto di lavoro è imprescrittibile. Rispetto a detta situazione, l’esigenza di certezza dei rapporti giuridici – perseguita dall’art. 32, commi 3 e 4, della citata legge n.183 del 2010 – giustificherebbe ed imporrebbe l’applicazione di un termine di decadenza anche in relazione ai rapporti già conclusi alla data di entrata in vigore della legge stessa. E ciò soprattutto qualora si consideri che quest’ultima, soltanto per l’ipotesi di illegittima apposizione del termine al contratto di lavoro, ha normativamente previsto anche per i rapporti già conclusi, la conversione ex lege del rapporto a termine in rapporto a tempo indeterminato, stabilendo una tutela risarcitoria predeterminata e disancorata dai criteri civilistici di commisurazione e prova del danno risarcibile. Detta disciplina renderebbe ancora più giustificata la previsione di un termine di decadenza anche per i rapporti già conclusi, essendo diretta ad evitare disparità di trattamento tra lavoratori assunti con contratto a termine, in tal caso posti in situazioni sostanzialmente uguali, ancorando la diversità di disciplina ad un dato meramente fattuale, costituito dalla circostanza che il rapporto fosse o meno concluso alla data di entrata in vigore della legge n. 183 del 2010.

Inoltre, la società pone in evidenza l’aspetto peculiare della disciplina propria del contratto di lavoro a tempo determinato, costituito dalla possibilità, prevista in modo espresso dalla legge, di prorogare e rinnovare le assunzioni a termine, pur nel limite massimo di 36 mesi. Rispetto a tale situazione, risulterebbe essenziale l’esigenza di assicurare, per tale fattispecie e non per le altre prese in esame dalla norma censurata, la certezza dei rapporti giuridici pregressi. Pertanto, la differenziazione del regime di decadenza tra la fattispecie del contratto a termine e esigenze proprie del rapporto di lavoro a tempo determinato.

Né potrebbe essere assunto come valido tertium comparationis il regime sanzionatorio previsto in caso di illegittima fornitura di lavoro temporaneo o di somministrazione irregolare, in quanto l’art. 27, comma 1, del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 (Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla legge 14 febbraio 2003, n. 30), nel prevedere la sola possibilità per il lavoratore di agire in giudizio al fine di ottenere la costituzione di un rapporto alle dipendenze dell’utilizzatore, escluderebbe che dalla irregolarità della somministrazione derivi una presunzione iuris et de iure, per cui in tale fattispecie debba essere comunque dichiarata la sussistenza di un rapporto di lavoro con l’utilizzatore.

Ad avviso della società, dunque, la conformità al principio di parità di trattamento della diversificazione della disciplina in esame sarebbe insita nella difformità delle fattispecie, peraltro riconosciuta dal rimettente, e nella insindacabile discrezionalità del legislatore che, nel momento in cui ha previsto la sanzione della conversione, ben poteva operare una peculiare e discrezionale valutazione circa l’opportunità di una disciplina diversificata della decadenza.

In tale contesto, ad avviso di Poste Italiane s.p.a., risulterebbe evidente come, a sostegno della illegittimità costituzionale della norma, non potrebbe utilmente essere invocata una disparità di trattamento «dal punto di vista datoriale».

La maggior tutela asseritamente riconosciuta al datore di lavoro, che abbia stipulato contratti a termine, rientrerebbe nella complessa disciplina di dettaglio dettata in materia di assunzioni a tempo indeterminato e sarebbe "compensata” dalla doppia sanzione (conversione più risarcimento comunque dovuto), normativamente prevista soltanto a carico di tali datori di lavoro.

Inoltre, la pretesa violazione del principio di uguaglianza non potrebbe nemmeno risiedere nel fatto che la norma avrebbe costretto i lavoratori a termine ad impugnare entro 60 giorni anche i contratti già conclusi, consentendo alle altre categorie di lavoratori «di continuare ad agire in giudizio senza dover rispettare alcun termine decadenziale».

Al riguardo Poste Italiane s.p.a. osserva come dalla normativa denunciata non derivi alcun vulnus per il diritto dei lavoratori a termine di agire in giudizio per ottenere la declaratoria di illegittimità del contratto, diritto comunque garantito venendo in rilievo non già l’an, bensì il quomodo dell’accesso alla tutela giurisdizionale (è richiamata la sentenza n. 500 del 1995).

Inoltre, l’adozione di mezzi differenziati d’impugnazione non potrebbe porsi come illegittima discriminazione, né impedirebbe la garanzia dell’azione in giudizio per ottenere protezione dei propri diritti e interessi, «la quale non richiede necessariamente l’uniformità degli strumenti a tal fine apprestati dal legislatore» (sono richiamate le sentenze n. 500 del 1995 e n. 238 del 1994).

4.– Con atto depositato il 5 febbraio 2013, è intervenuto nel presente giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o non fondata.

In punto di rilevanza, la difesa dello Stato evidenzia come parte della giurisprudenza e della dottrina ritenga che il comma 1-bis dell’art. 32 della legge n. 183 del 2010 (comma introdotto dall’art. 1, comma 1, della legge n. 10 del 2011, che ha convertito il d.l. n. 225 del 2010) abbia durata retroattiva. Ne conseguirebbe che il differimento al 31 dicembre 2011 del termine di 60 giorni per l’impugnazione del licenziamento, in detto comma 1-bis, varrebbe anche per tutte le fattispecie assoggettate ex novo all’onere di impugnazione di cui all’art. 32, per le quali alla data di entrata in vigore dello stesso comma 1-bis, ovvero al 26 febbraio 2011, il termine d’impugnazione introdotto dall’art. 32 era già spirato. Aderendo a tale opzione interpretativa del citato comma 1-bis, la questione risulterebbe irrilevante, in quanto alla fattispecie dedotta in giudizio l’onere d’impugnazione non si applicherebbe.

Nel merito, la questione sarebbe non fondata.

Al riguardo, la difesa statale rileva che il giudice rimettente avrebbe posto a confronto fattispecie diverse, sicché rientrerebbe nel legittimo esercizio della discrezionalità legislativa la scelta d’introdurre l’onere di impugnazione con effetti retroattivi soltanto per la cessazione del contratto a termine.

Tale scelta del legislatore, ad avviso della difesa dello Stato, sembrerebbe saldarsi con l’orientamento della giurisprudenza di merito, anteriore all’entrata in vigore dell’art. 32 della legge n. 183 del 2010, accolto anche da un orientamento minoritario della giurisprudenza di legittimità, secondo il quale la mancata contestazione della cessazione del rapporto a termine entro un tempo ragionevole si sarebbe dovuto intendere come volontà del lavoratore di non contestare la legittimità del termine finale apposto al contratto. Tale orientamento avrebbe suggerito, già prima dell’entrata in vigore del citato art. 32, di attivarsi tempestivamente al fine di contestare la legittimità del termine e avrebbe reso in qualche misura diverse, al cospetto dell’introduzione per legge dell’onere d’impugnazione, la posizione dei lavoratori a termine di fronte a quella di tutti gli altri.

Infine, la scelta del legislatore avrebbe risposto all’esigenza di omogeneizzare il trattamento dei lavoratori nel caso d’illegittima apposizione del termine: il nuovo trattamento, introdotto dall’art. 32 della legge n. 183 del 2010, si applicherebbe a tutti i contratti a termine, cioè sia a quelli alla data di entrata in vigore della legge, sia a quelli in corso di esecuzione, sia, infine, a quelli instaurati successivamente.

5.– Il Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro, con ordinanza depositata il 24 ottobre 2012 (r.o. n. 302 del 2012) ha sollevato, in riferimento all’art. 3 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 32, comma 4, lettera b), della legge n. 183 del 2010, nella parte in cui prevede l’applicazione del termine di decadenza, stabilito dal riformato art. 6, primo comma, della legge n. 604 del 1966, anche ai contratti di lavoro a tempo determinato già conclusi alla data di entrata in vigore della citata legge e con decorrenza dalla medesima data.

6.– Il rimettente, chiamato alla trattazione di una causa promossa da C.G. nei confronti di Poste Italiane s.p.a., premette che, con ricorso depositato il 29 febbraio 2012, il ricorrente ha chiesto che fosse accertata la nullità del termine finale di durata apposto al contratto di lavoro stipulato, ai sensi dell’art. 2, comma 1-bis, del decreto legislativo n. 368 del 2001, come modificato dall’art. 1, comma 558, della legge n. 266 del 2005, con Poste Italiane spa, con durata dal 1° aprile 2009 al 30 giugno 2009; la conversione del contratto in rapporto di lavoro a tempo indeterminato fin dalla data della stipulazione; la condanna della resistente alla riammissione in servizio del lavoratore ed al pagamento, anche a titolo risarcitorio, delle retribuzioni a far data dalla scadenza del termine, oltre agli accessori di legge.

Il giudice a quo riferisce, inoltre, che Poste Italiane spa, costituitasi in giudizio con memoria del 1° giugno 2012, ha eccepito in via preliminare la decadenza dall’azione di nullità per mancata impugnazione del contratto nel termine previsto dall’art. 32 della legge n. 183 del 2010 e la risoluzione del contratto per mutuo consenso; nel merito ha contestato la fondatezza delle pretese, chiedendone il rigetto.

Il Tribunale osserva che, in data 12 giugno 2012, ha fissato l’udienza di discussione, anche sui dubbi in merito alla legittimità costituzionale dell’art. 32, comma 4, lettera b), della legge n. 183 del 2010 – nella parte in cui prevede l’applicazione del termine di decadenza stabilito dal riformato art. 6 della legge n. 604 del 1966 anche ai contratti a termine già conclusi alla data di entrata in vigore della medesima legge – in relazione al disposto dell’art. 3 Cost.

Ciò premesso, il rimettente svolge le medesime argomentazioni formulate nell’ordinanza di rimessione n. 301 del 2012.

In particolare, con riferimento alla fattispecie oggetto del giudizio a quo, osserva che – a prescindere dall’adesione o meno all’opzione interpretativa circa l’applicabilità a tutte le ipotesi indicate nel citato art. 32 in ordine al differimento dell’efficacia del termine di decadenza al 31 dicembre 2011, e circa la non applicabilità dello stesso a tutte le decadenze a tale data già maturate – non vi sarebbe ragione di dubitare che, nel caso di specie, essendo il contratto a termine cessato il 30 giugno 2009, ed avendo il ricorrente formalizzato la propria impugnazione con lettera del 9 novembre 2011, esso sia incorso nella decadenza prevista dalla norma in esame, come eccepito dalla convenuta.

In questo quadro, la questione sarebbe rilevante ai fini della decisione, in quanto, qualora si applicasse la norma oggetto di scrutinio al caso di specie, non si potrebbe che dichiarare la decadenza del ricorrente dal diritto di agire in giudizio per ottenere l’accertamento della nullità del termine apposto al contratto di lavoro stipulato con la società resistente.

7.– Con atto depositato il 5 febbraio 2013 si è costituita nel presente giudizio Poste Italiane spa, chiedendo che la questione di legittimità costituzionale sia dichiarata inammissibile o non fondata, alla luce delle stesse argomentazioni svolte nella memoria di costituzione depositata nel giudizio originato dall’ordinanza di rimessione n. 301 del 2012.

8.– Con atto depositato il 5 febbraio 2013 è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o non fondata, sulla base delle medesime argomentazioni esposte nell’atto d’intervento nel giudizio di legittimità costituzionale originato dall’ordinanza di rimessione n. 301 del 2012.

9.– Con atto depositato nella stessa data si è costituito C.G., chiedendo alla Corte di dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 32, comma 4, lettera b), della legge n. 183 del 2010.

Dopo aver riferito sulle circostanze inerenti alla causa intrapresa con il ricorso depositato il 29 febbraio 2012 e sulle domande con esso proposte, la parte privata ricorrente dà atto della costituzione della convenuta società e, a sostegno delle ragioni dedotte a fondamento dell’ordinanza di rimessione, osserva quanto segue.

In primo luogo, pone in rilievo la palese discriminazione creata dalla disposizione in esame in relazione a situazioni tra loro identiche, trattate in modo uguale dallo stesso legislatore, il quale le avrebbe equiparate nel medesimo testo legislativo, per quel che concerne «la necessità dell’esternalizzazione dell’opposizione del lavoratore all’atto datoriale, giustificata dalla necessità della certezza dei rapporti nella realtà economica». Si tratterebbe, dunque, di una norma comportante indebite differenziazioni tra situazioni riconosciute come uguali, ovvero delle assimilazioni indebite di situazioni diverse.

La difesa della parte privata prosegue osservando che questa Corte avrebbe cercato di definire «i criteri in base ai quali operare il giudizio di eguaglianza delle leggi»: correttezza della classificazione effettuata dal legislatore in relazione ai soggetti considerati; previsione di un trattamento omogeneo, ragionevolmente commisurato alle caratteristiche essenziali della classe di persone cui quel trattamento è riferito; proporzionalità del trattamento giuridico previsto rispetto alla classificazione operata dal legislatore, tenendo conto del fine obiettivo insito nella disciplina normativa considerata e che va esaminata in relazione agli effetti pratici prodotti. Sulla scorta di tali generali principi sarebbe evidente l’indebita differenziazione operata dalla legge n. 183 del 2010, «laddove ritiene – ingiustificatamente – a fronte di situazioni ritenute nel medesimo provvedimento legislativo tra loro analoghe, al punto di applicare una disciplina identica, con riferimento alle decadenze disposte, di differenziare l’applicazione della decadenza stessa anche ai rapporti in corso per una sola di queste, senza che sia ravvisabile una seria ragione che giustifichi questa scelta legislativa, oggettivamente punitiva per i soggetti che hanno stipulato rapporti a termine».

Si tratterebbe, peraltro, di una valutazione non limitata alla mera analisi strutturale del disposto della norma dettata dall’art. 32 della legge n. 183 del 2010, ma estesa alla ratio del provvedimento legislativo.

Come già notato, esso avrebbe la finalità di far emergere in breve tempo i possibili contenziosi in materia di contratti di lavoro, «evitando che il tessuto dei rapporti socio-economici che si susseguono nel mondo del lavoro sia esposto all’incertezza delle azioni giudiziarie per un tempo indefinito, ritenuto incompatibile con il più rapido avvicendarsi delle modifiche nel mondo del lavoro che ha caratterizzato l’evoluzione socio economica degli ultimi decenni.

Tuttavia, tale finalità sussisterebbe per tutti i tipi di rapporti sui quali è intervenuto il citato art. 32, ovviamente disponendo che la nuova disciplina si applicasse ai rapporti che andavano a costituirsi successivamente all’entrata in vigore della legge. Soltanto per i contratti a termine – e senza giustificazione alcuna – il legislatore avrebbe disposto che la decadenza si applicasse anche ai rapporti in corso e, soprattutto, a quelli già conclusi, con l’effetto di penalizzare una specifica categoria, cioè i lavoratori assunti a termine.

Né potrebbe assumere rilievo, come bene ricorda il rimettente, la circostanza (peraltro, avente natura fattuale e non giuridica) relativa al massiccio contenzioso riguardante l’altra parte in causa, vale a dire Poste Italiane spa.

Questa Corte, nella sentenza n. 303 del 2011, avrebbe affermato che il legislatore, con la legge n. 183 del 2010, avrebbe operato sul piano generale e astratto delle fonti e che la "innovativa disciplina”, di cui si tratta, avente carattere generale, non favorirebbe «selettivamente lo Stato o altro ente pubblico», del resto neppur figuranti tra i destinatari delle disposizioni censurate.

Ne deriverebbe che la disciplina applicativa della decadenza ai rapporti a termine già conclusi, diversamente da tutte le altre fattispecie regolate temporalmente per il futuro quanto all’obbligo d’impugnazione, non avrebbe alcuna ragione specifica legata al particolare settore di cui si tratta, «con la inevitabile valutazione di contrarietà alla disciplina di cui all’art. 3 Cost., per violazione del principio di uguaglianza».

Il pregiudizio per la parte lavoratrice sarebbe ancora più grave, con maggiore disparità di trattamento, qualora si consideri che, sempre secondo questa Corte, la conversione del contratto di lavoro a termine in un contratto di lavoro a tempo indeterminato costituisce la protezione più intensa che possa essere riconosciuta ad un lavoratore precario.

Detta protezione ricorrerebbe anche nelle diverse fattispecie sulle quali interviene la norma in esame, accomunate dalla stessa disciplina, perché anche per gli interinali sarebbe prevista la possibilità di agire allo scopo di ottenere la costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con l’utilizzatore (ex art. 27, comma 1, della legge n. 276 del 2003), così come per i collaboratori coordinati e continuativi (i cosiddetti co.co.co.) la declaratoria di subordinazione del rapporto di lavoro in essere con il committente comporterebbe la costituzione del rapporto stesso, con ogni obbligo conseguente.

Analoghe considerazioni andrebbero svolte per le restanti ipotesi regolate dall’art. 32, perché anche alle altre fattispecie, accomunate alle decadenze stabilite dalla norma qui in esame, si applicherebbero i principi generali, sicché alla nullità del trasferimento ai sensi dell’art. 2103 cod. civ., o alla cessione del contratto ai sensi dell’art. 2112 cod. civ. seguirebbe la possibilità per il giudice del ripristino dello status quo ante.

Pertanto, la decisione del legislatore di applicare la decadenza, attraverso l’obbligo d’impugnazione, dei contratti già conclusi soltanto per i lavoratori impiegati con contratto a tempo indeterminato, a differenza delle altre fattispecie in cui la nuova disciplina decadenziale si applica solo per il futuro, renderebbe ancora più stridente la denunciata disparità di trattamento.

Senza contare il grave danno che ne deriverebbe per le parti lavoratrici, avuto riguardo al consistente numero di contratti a termine stipulati dalla parte datoriale in causa, che rischierebbero di essere resi inoppugnabili da parte di una vasta schiera di lavoratori precari, nella gran parte dei casi non in condizioni di accedere a corrette informazioni circa gli effetti della intervenuta decadenza; e, ancora, senza contare le situazioni di timore della perdita di future occasioni di lavoro, ancorché precario, che l’avvento della crisi economica ha spesso reso l’unica possibilità di accedere ad una fonte di guadagno.

Infine, la parte privata C.G. riporta quanto affermato da questa Corte nella sentenza n. 303 del 2011, in relazione al carattere eterogeneo delle situazioni giuridiche ivi considerate. Richiamata la ratio legis dell’art. 32, per quanto concerne l’introduzione, a carico del lavoratore, di un termine per l’impugnazione dell’atto datoriale lesivo, o per l’opposizione ad esso (necessità di certezza nei rapporti socio economici), C.G. ribadisce l’eguaglianza delle dette situazioni che, semmai, si differenzierebbero negli effetti dell’inadempimento, nel senso che, per le più gravi, rimarrebbe il precedente regime risarcitorio, nella sostanza integrale, del danno subito dal lavoratore, mentre per quella ritenuta più lieve il legislatore avrebbe optato per una tecnica risarcitoria di tipo forfetario ed onnicomprensivo, come esposto nella citata sentenza n. 303 del 2011.

La decisione di disciplinare e di imporre l’impugnazione entro il termine breve introdotto dalla legge, anche e per i soli rapporti a termine già conclusi, non potrebbe certo rinvenirsi nella ritenuta maggiore "tenuità” della fattispecie costituita dalla illegittima apposizione del termine, essendo anzi quest’ultima caratteristica un ulteriore elemento di stridente irrazionalità della norma.

10.– In prossimità dell’udienza di discussione Poste Italiane spa, C.G. ed il Presidente del Consiglio dei ministri hanno depositato memorie con le quali hanno ulteriormente argomentato a sostegno delle rispettive tesi.

Considerato in diritto

1.– Il Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro, con ordinanza del 24 ottobre 2012 (r.o. n. 301 del 2012) ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 32, comma 4, lettera b), della legge 4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro), nella parte in cui prevede l’applicazione del termine di decadenza di cui al riformato art. 6, primo comma, della legge 15 luglio 1966, n. 604 (Norme sui licenziamenti individuali) ai contratti di lavoro a tempo determinato già conclusi alla data di entrata in vigore della citata legge n. 183 del 2010 e con decorrenza dalla medesima data.

Il rimettente, chiamato a pronunciare su una causa promossa da C.I. nei confronti di Poste Italiane s.p.a., premette che, con ricorso depositato il 24 gennaio 2012, il ricorrente ha chiesto che fosse accertata la nullità del termine finale di durata apposto al contratto di lavoro stipulato con la detta società, ai sensi dell’art. 2, comma 1-bis, del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368 (Attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall’UNICE, dal CEEP e dal CES), come modificato dall’art. 1, comma 558, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2006), contratto avente durata dal 9 luglio 2008 al 31 ottobre 2008, con inquadramento al livello E, con mansioni di portalettere; la conversione del contratto in rapporto di lavoro a tempo indeterminato fin dalla data di stipulazione; la condanna della resistente alla riammissione in servizio del lavoratore e al pagamento, anche a titolo risarcitorio, delle retribuzioni a far data dalla scadenza del termine, oltre agli accessori di legge.

Il Tribunale, inoltre, riferisce che la società, costituitasi in giudizio, ha eccepito la decadenza del lavoratore dall’azione di nullità per mancata impugnazione del contratto nel termine previsto dall’art. 32 della legge n. 183 del 2010 e la risoluzione dello stesso per mutuo consenso; aggiunge che, nel merito, la detta società ha contestato la fondatezza delle pretese azionate dal ricorrente, chiedendone il rigetto.

Nel giudizio di legittimità costituzionale, con atto depositato il 5 febbraio 2013, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o non fondata.

Con atto depositato il 4 febbraio 2013 si è costituita Poste Italiane spa, rassegnando conclusioni analoghe a quelle assunte dall’interveniente.

2.– Il Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro, con ordinanza del pari depositata il 24 ottobre 2012 (r.o. n. 302 del 2012), ha sollevato, in riferimento all’art. 3 Cost., questione di legittimità costituzionale dello stesso art. 32, comma 4, lettera b), della legge n. 183 del 2010, formulando censure identiche a quelle contenute nella prima ordinanza.

Il giudice a quo, chiamato a pronunciare in una causa promossa da C.G. nei confronti di Poste Italiane spa, osserva che il detto C.G. ha agito in giudizio, con ricorso depositato il 29 febbraio 2012, chiedendo che si accertasse la nullità del termine finale di durata, apposto al contratto di lavoro stipulato con la menzionata società, ai sensi dell’art. 2, comma 1-bis, del d.lgs. n. 368 del 2001, come modificato dall’art. 1, comma 558, della legge n. 266 del 2005. (per il periodo 1º aprile 2009 – 30 giugno 2009). Il ricorrente ha chiesto anche la conversione del contratto in rapporto di lavoro a tempo indeterminato fin dalla data della stipula e la condanna della resistente a riammettere il lavoratore in servizio, nonché al pagamento, a titolo risarcitorio, delle retribuzioni a far data dalla scadenza del termine, oltre agli accessori di legge.

Il rimettente riferisce che, nel giudizio così instaurato, si è costituita Poste Italiane spa, eccependo, in via preliminare, la decadenza del lavoratore dall’azione di nullità per mancata impugnazione del contratto nel termine previsto dall’art. 32 della legge n. 183 del 2010 e la risoluzione dello stesso per mutuo consenso; nel merito, ha contestato la fondatezza delle pretese, chiedendone il rigetto.

Nel giudizio di legittimità costituzionale è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, con atto depositato il 5 febbraio 2013, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o non fondata.

Si è costituita, altresì, Poste Italiane spa, formulando analoghe conclusioni.

Infine, si è costituito il signor C.G., chiedendo che questa Corte dichiari l’illegittimità costituzionale della norma censurata.

2.1.– Il rimettente solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 32, comma 4, lettera b), della legge n. 183 del 2010, nella parte in cui prevede l’applicazione del termine di decadenza di 60 giorni, stabilito dal riformato art. 6, primo comma, della legge n. 604 del 1966, ai contratti di lavoro a tempo determinato già conclusi (recte: cessati o scaduti) alla data di entrata in vigore della legge ora menzionata, in riferimento all’art. 3 Cost.

In particolare, il parametro costituzionale sarebbe violato sotto il profilo del principio di ragionevolezza, in quanto, prevedendo soltanto per i contratti di lavoro a termine "già conclusi” alla data di entrata in vigore della legge n. 183 del 2010 il termine di decadenza di 60 giorni, e non anche per le altre ipotesi contemplate dall’art. 32, commi 3 e 4, della legge medesima, "già verificatesi” a tale data, il legislatore avrebbe disciplinato «in maniera identica fattispecie diverse in relazione ad un determinato aspetto (quale è quello, che in questa sede interessa, del termine di impugnazione)», il che dovrebbe esser fatto «in maniera intrinsecamente coerente e, per l’appunto, ragionevole ed uguale per tutte».

Lo stesso parametro sarebbe, altresì, violato in relazione al principio di uguaglianza, in quanto la norma censurata introdurrebbe una evidente disparità di trattamento: a) tra lavoratori intenzionati a contestare in giudizio l’apposizione del termine ai propri contratti – costretti ad impugnarli nel termine di 60 giorni a far data dal 24 novembre 2010 – e lavoratori intenzionati a promuovere un’analoga iniziativa giudiziaria in relazione alle diverse ipotesi contemplate dal citato art. 32, commi 3 e 4, già concluse o comunque verificatesi alla medesima data di entrata in vigore della legge, i quali potrebbero continuare ad agire in giudizio senza dover rispettare alcun termine di decadenza; b) tra datori di lavoro, perché tutelerebbe in modo differente l’interesse di tali soggetti, che abbiano stipulato contratti a tempo determinato, di conoscere in tempi rapidi e certi se e quanti dei propri ex dipendenti abbiano l’intenzione di contestarne in giudizio la legittimità e l’analogo interesse di quei datori che abbiano, invece, stipulato contratti di collaborazione coordinata e continuativa, di collaborazione a progetto o di somministrazione, ovvero che abbiano disposto il trasferimento di un lavoratore da una unità produttiva a un’altra, o che abbiano ceduto un contratto di lavoro, di conoscere con altrettante rapidità e certezza l’esistenza di analoghe intenzioni impugnatorie da parte dei propri ex collaboratori o ex dipendenti; c) tra datori di lavoro e lavoratori, in quanto favorirebbe, in assenza di «motivi imperiosi di carattere generale», la posizione di uno dei due contraenti, nella specie della parte datoriale.

3.– Le due ordinanze di rimessione censurano la stessa norma, in riferimento al medesimo parametro e con argomentazioni nella sostanza identiche. Pertanto, i due giudizi di legittimità costituzionale, con esse promossi, devono essere riuniti per essere decisi con unica sentenza.

4.– Va premesso che la legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita) ha apportato alcune modifiche all’art. 32 della legge n. 183 del 2010. In particolare, l’art. 1, comma 11, lettera a) della detta legge n. 92 del 2012 ha sostituito la lettera a) del comma 3 del citato art. 32 nei seguenti termini:

«a) ai licenziamenti che presuppongono la risoluzione di questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro ovvero alla nullità del termine apposto al contratto di lavoro, ai sensi degli articoli 1, 2 e 4 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, e successive modificazioni. Laddove si faccia questione della nullità del termine apposto al contratto, il termine di cui al primo comma del predetto art. 6, che decorre dalla cessazione del medesimo contratto, è fissato in centoventi giorni, mentre il termine di cui al primo periodo del secondo comma del medesimo articolo 6 è fissato in centottanta giorni;

b) La lettera d) è abrogata».

L’art. 1, comma 12, della legge n. 92 del 2012, poi, stabilisce che «Le disposizioni di cui al comma 3, lettera a), dell’articolo 32 della legge 4 novembre 2010, n. 183, come sostituito dal comma 11 del presente articolo, si applicano in relazione alle cessazioni di contratti a tempo determinato verificatesi a decorrere dal 1° gennaio 2013».

È agevole constatare che, la norma impugnata (art. 32, comma 4, lettera b della legge n. 183 del 2010) non è sostanzialmente incisa dalle menzionate modifiche normative, né queste assumono rilevanza rispetto al tenore delle censure formulate dal rimettente. Pertanto, la questione di legittimità costituzionale in esame può essere scrutinata in riferimento al comma 4, lettera b), del citato art. 32, nel testo modificato dalla legge n. 92 del 2012 (sentenze n. 219 del 2013, n. 193 e n. 30 del 2012).

5.– Sempre in premessa, si deve ricordare che, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), quest’ultima, «quando accoglie una istanza o un ricorso relativo a questione di legittimità costituzionale di una legge o di un atto avente forza di legge, dichiara, "nei limiti dell’impugnazione”, quali sono le disposizioni legislative illegittime». Il perimetro dello scrutinio di legittimità costituzionale, dunque, è definito per l’appunto da tali limiti, che si evidenziano sulla base dei parametri evocati dall’ordinanza di rimessione.

Nel caso di specie, il parametro costituzionale, in riferimento al quale la questione è stata promossa, è l’art. 3 Cost. Pertanto, l’indagine deve essere condotta con riguardo esclusivo a detta norma, che individua il thema decidendum, alla luce delle censure svolte nell’ordinanza di rimessione.

6.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto nei giudizi di legittimità costituzionale, ha eccepito l’inammissibilità della questione per difetto di rilevanza, osservando che «parte della giurisprudenza e della dottrina ritiene, diversamente da quanto opina il giudice a quo, che il comma 1-bis dell’articolo 32 (introdotto dall’articolo 1, comma 1, della legge 26 febbraio 2011, n. 10, di conversione del decreto legge 29 dicembre 2010 n. 225), che recita "1-bis. In sede di prima applicazione, le disposizioni di cui all’articolo 6, primo comma, della legge 15 luglio 1966, n. 604, come modificato dal comma 1 del presente articolo, relative al termine di sessanta giorni per l’impugnazione del licenziamento, acquistano efficacia a decorrere dal 31 dicembre 2011”, abbia portata retroattiva.

Con la conseguenza che il differimento varrebbe anche per tutte quelle fattispecie assoggettate ex novo all’onere di impugnazione dall’articolo 32 (licenziamenti, recessi, trasferimenti, ecc.), per le quali, alla data di entrata in vigore del comma 1-bis (26 febbraio 2011), il termine di impugnazione introdotto dall’art. 32 fosse già spirato».

La difesa dello Stato aggiunge che, aderendo a questa interpretazione del comma 1-bis, la questione di legittimità costituzionale in esame risulterebbe irrilevante, in quanto l’onere d’impugnazione non sarebbe applicabile alla fattispecie dedotta in giudizio.

6.1–- Anche la parte privata C.G. (ma sotto tutt’altra prospettiva), nella memoria depositata il 24 marzo 2014, ha eccepito, in via principale, l’inammissibilità della questione, in applicazione dello ius superveniens, costituito dalla sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, emessa il 12 dicembre 2013 nella causa C-361/12 (Carratù contro Poste Italiane spa) , concludendo, in via subordinata, per la fondatezza. Ad avviso della parte suddetta, la citata sentenza avrebbe risolto la questione sollevata dal Tribunale di Roma, rendendola per l’appunto inammissibile, «in quanto la equiparazione della tutela assicurata ai lavoratori a tempo determinato rispetto ai lavoratori a tempo indeterminato comparabili rende direttamente inapplicabile anche la disposizione sottoposta al vaglio di costituzionalità, a prescindere dallo slittamento o meno al 31 dicembre 2011 e della sua concreta applicabilità anche ai contratti a tempo determinato della entrata in vigore del doppio termine decadenziale di impugnativa».

Orbene, la tesi della parte privata C.G., qui riassunta, non può essere condivisa.

In primo luogo, essa introduce un tema estraneo all’ordinanza di rimessione, ponendosi, quindi, in contrasto con la costante giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale sono inammissibili le deduzioni delle parti private volte ad estendere il thema decidendum fissato negli atti di promovimento (ex plurimis: sentenze n. 275 del 2013, n. 271 del 2011, n. 236 del 2009, n. 86 del 2008, n. 244 del 2005). Peraltro, pur volendo prescindere da tale profilo, si deve considerare che la norma qui censurata è l’art. 32, comma 4, lettera b), della legge n. 183 del 2010, nella parte in cui prevede l’applicazione del termine di decadenza, di cui al riformato art. 6, primo comma, della legge n. 604 del 1966 anche ai contratti di lavoro a tempo determinato già conclusi alla data di entrata in vigore della citata legge e con decorrenza dalla data medesima. La menzionata sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea non ha adottato alcuna pronuncia, neppure indiretta o implicita, in ordine alla norma ora indicata. Infatti, le sue statuizioni sono le seguenti: 1) La clausola 4, punto 1, dell’accordo-quadro sul lavoro a tempo determinato, inserito in allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, deve essere interpretata nel senso che può essere fatta valere direttamente nei confronti di un ente pubblico, quale Poste Italiane spa; 2) la clausola 4, punto 1, del medesimo accordo-quadro sul lavoro a tempo determinato deve essere interpretata nel senso che la nozione di "condizioni di lavoro” include l’indennità che un datore di lavoro è tenuto a versare ad un lavoratore, a causa dell’illecita apposizione di un termine al contratto di lavoro; 3) sebbene il menzionato accordo-quadro non osti a che gli Stati membri introducano un trattamento più favorevole rispetto a quello previsto dall’accordo stesso per i lavoratori a tempo determinato, la clausola 4, punto 1, di detto accordo-quadro deve essere interpretata nel senso che non impone di trattare in maniera identica l’indennità corrisposta in caso di illecita apposizione di un termine ad un contratto di lavoro e quella versata in caso di illecita interruzione di un contratto di lavoro a tempo indeterminato.

Come si vede, si tratta di pronunzie non incidenti sul tema qui in discussione, sicché non potrebbero essere invocate a sostegno di una presunta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale.

Quanto all’eccezione sollevata dalla difesa dello Stato, si deve osservare che il rimettente ha tenuto conto del comma 1-bis del citato art. 32, ne ha esaminato l’ambito applicativo dando atto delle diverse opinioni giurisprudenziali e dottrinali formatesi al riguardo, ha ritenuto che il differimento dell’efficacia del termine di decadenza, differimento da tale disposizione previsto, fosse stato introdotto quando ormai il termine stesso, decorrente dal 24 novembre 2010 e avente la durata di sessanta giorni, era scaduto, con conseguente intangibilità di ogni fattispecie di decadenza medio tempore verificatasi, stante il principio generale di non prorogabilità dei termini dopo la loro scadenza, ed è pervenuto alla conclusione che le parti ricorrenti fossero incorse nella decadenza stabilita dalla norma in esame, che, quindi, avrebbe dovuto trovare applicazione nella fattispecie.

Pertanto, si deve ritenere che il giudice a quo abbia motivato in modo non implausibile sulla rilevanza della questione.

Detta valutazione deve, infatti, tenere conto anche della non uniformità di indirizzi giurisprudenziali formatisi in ordine all’ambito di operatività del comma 1-bis dell’art. 32 della legge n. 183 del 2010 (ex plurimis: sentenze n. 275 del 2013, n. 280 del 2012, n. 115 del 2011, n. 140 del 2009).

In definitiva, entrambe le eccezioni di inammissibilità devono essere respinte.

7.– Nel merito, la questione di legittimità costituzionale non è fondata.

Il comma 4 dell’art. 32 della legge n.183 del 2010 così stabilisce (per la parte che qui interessa): «Le disposizioni di cui all’articolo 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, come modificato dal comma 1 del presente articolo, si applicano anche: a) […]; b) ai contratti di lavoro a termine, stipulati anche in applicazione di disposizioni di legge previgenti al decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, e già conclusi alla data di entrata in vigore della presente legge, con decorrenza dalla medesima data di entrata in vigore della presente legge; c) […]; d) […]».

A sua volta, l’art. 32, comma 1, della legge n. 183 del 2010, così dispone: «1. Il primo e il secondo comma dell’articolo 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, sono sostituiti dai seguenti:

«Il licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta, ovvero dalla comunicazione, anch’essa in forma scritta, dei motivi, ove non contestuale, con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore anche attraverso l’intervento dell’organizzazione sindacale diretto ad impugnare il licenziamento stesso.

L’impugnazione è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di duecentosettanta giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato, ferma restando la possibilità di produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del ricorso. Qualora la conciliazione o l’arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l’accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo».

In questo quadro normativo, il thema decidendum, alla luce delle censure svolte, concerne in via esclusiva le modalità con le quali il legislatore ha disciplinato la previsione del termine di decadenza, di cui all’art. 6 della legge n. 604 del 1966, non anche la stessa previsione di detto termine o la congruità del medesimo. Infatti, il rimettente ritiene che la scelta del legislatore, compiuta attraverso la norma impugnata, consistente nell’avere previsto il termine di decadenza di sessanta giorni per contestare la legittimità del termine apposto al contratto di lavoro, anche quando si tratti di contratti già conclusi (essendo ormai maturato il termine finale), sarebbe irragionevole perché non stabilita anche per altre forme contrattuali o atti datoriali, come: 1) il recesso del committente nei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, anche nelle modalità a progetto di cui all’art. 409, numero 3), del codice di procedura civile; 2) il trasferimento del lavoratore, ai sensi dell’art. 2103 del codice civile, con termine decorrente dalla data di ricezione della comunicazione di trasferimento; 3) la cessione del contratto di lavoro ai sensi dell’art. 2112 cod. civ., cioè in caso di trasferimento d’azienda; 4) ogni altro caso in cui, compresa l’ipotesi prevista dall’art. 27 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 (Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla legge 14 febbraio 2003, n. 30), cioè l’ipotesi di somministrazione di lavoro irregolare, si chieda la costituzione o l’accertamento di un rapporto di lavoro in capo a un soggetto diverso dal titolare del contratto.

Il rimettente non dubita «che il legislatore ben possa, nell’esercizio della discrezionalità che gli è propria, disciplinare in maniera diversa fattispecie diverse», quali sono quelle ora indicate rispetto alla norma censurata. Tuttavia, del pari non si potrebbe porre in dubbio che, «nel caso sia però lo stesso legislatore a disciplinare in maniera identica fattispecie diverse in relazione ad un determinato aspetto (quale è quello che in questa sede interessa del termine di impugnazione), debba necessariamente farlo in maniera intrinsecamente coerente e, per l’appunto, ragionevole ed uguale per tutte».

Ad avviso del giudicante il legislatore, per non incorrere in violazione del principio di ragionevolezza, avrebbe potuto prevedere o che per tutte le ipotesi dettate dall’art. 32, commi 3 e 4, il termine di decadenza di 60 giorni si applicasse anche ai rapporti "già conclusi” o agli atti già compiuti alla data di entrata in vigore della legge, oppure che, sempre per tutte le ipotesi enunciate, il predetto termine si applicasse soltanto ai rapporti "non ancora conclusi”, oppure agli atti non ancora compiuti a quella stessa data.

Questa tesi non può essere condivisa.

Si deve premettere che questa Corte, con giurisprudenza costante, ha affermato il principio secondo cui, in tema di disciplina del processo e di conformazione degli istituti processuali, il legislatore dispone di ampia discrezionalità, con il solo limite della manifesta irragionevolezza (ex plurimis: sentenze n. 10 del 2013, n. 17 del 2011, n. 82 e 50 del 2010, n. 221 del 2008). L’indagine da compiere, dunque, postula necessariamente tale verifica, che in realtà il rimettente non ha compiuto.

Orbene, il nuovo regime introdotto dall’art. 32 della legge n. 183 del 2010 si applica, nel suo complesso, a tutti i contratti a termine, cioè a quelli già scaduti alla data di entrata in vigore della legge, a quelli in corso di esecuzione e a quelli instaurati successivamente. La ratio di tale disciplina si rinviene in una pluralità di esigenze: quella di garantire la speditezza dei processi mediante l’introduzione di termini di decadenza in precedenza non previsti; quella di contrastare la prassi di azioni giudiziarie proposte anche a distanza di tempo assai rilevante dalla scadenza del termine apposto al contratto (va notato, al riguardo, che la controversia circa il carattere – legittimo o illegittimo – dell’apposizione del termine si risolve in una azione di accertamento della nullità parziale di una clausola del contratto, come tale imprescrittibile: art. 1422 cod. civ.); quella di pervenire ad una riduzione del contenzioso giudiziario nella materia in questione.

Sussistono, dunque, profili concreti che impongono di ritenere non irragionevoli le scelte compiute dal legislatore.

L’applicazione retroattiva del più rigoroso e gravoso regime della decadenza alla sola categoria dei contratti a termine già conclusi prima della entrata in vigore della legge n. 183 del 2010, lasciando immutato per il passato il più favorevole regime previsto per le altre ipotesi disciplinate dalla norma, non si pone in contrasto con il principio di ragionevolezza.

Essa, del resto, trova conforto anche nella natura peculiare della fattispecie regolata dalla norma oggetto di censura, certamente diversa, per ammissione dello stesso rimettente, dalle altre ipotesi menzionate nell’ordinanza di rimessione ed assistita dal carattere imprescrittibile che consente di procrastinare sine die la definizione del rapporto.

7.1.– Considerazioni almeno in parte analoghe possono valere anche per superare le censure concernenti l’asserita disparità di trattamento derivante dalla normativa impugnata.

Al riguardo, si deve ricordare l’orientamento della giurisprudenza di questa Corte, secondo cui la violazione del principio di uguaglianza sussiste qualora situazioni sostanzialmente identiche siano disciplinate in modo ingiustificatamente diverso e non quando alla diversità di disciplina corrispondano situazioni non assimilabili (ex plurimis: sentenza n. 108 del 2006, n. 340 e n. 136 del 2004). Le fattispecie poste a confronto, come affermato dallo stesso giudice rimettente, sono diverse, né possono essere rese omogenee dalla previsione di un identico termine di decadenza, il quale ha come precipua finalità l’accelerazione dei tempi del processo.

Sul punto questa Corte si è già pronunciata, osservando: «Quanto alle ulteriori disparità di trattamento […], esse risentono dell’obiettiva eterogeneità delle situazioni. Ed infatti, il contratto di lavoro subordinato con una clausola viziata (quella, appunto, appositiva del termine) non può essere assimilato ad altre figure illecite come quella, obiettivamente più grave, dell’utilizzazione fraudolenta della collaborazione continuativa e coordinata. Difforme è, altresì, la situazione cui dà luogo la cessione illegittima del rapporto di lavoro, laddove, nelle more del giudizio volto ad accertarla, il rapporto corre con il cessionario e la garanzia retributiva rimane assicurata. Altro ancora, infine, è la somministrazione irregolare di manodopera, quando un imprenditore fornisce personale ad un altro al di fuori delle ipotesi consentite dalla legge» (sentenza n. 303 del 2011, punto 3.3.3 del Considerato in diritto).

Conclusivamente, le differenti conseguenze, censurate dal rimettente e derivanti dalla applicazione della norma censurata con riferimento alla posizione dei lavoratori e dei datori di lavoro, secondo le previsioni dell’art. 32 della legge n. 183 del 2010, non integrano il denunciato contrasto con l’art. 3 Cost.

Pertanto, la questione di legittimità costituzionale, sollevata dalle ordinanze di rimessione indicate in epigrafe, deve essere dichiarata non fondata.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 32, comma 4, lettera b), della legge 4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro), sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro, con le ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 maggio 2014.

F.to:

Gaetano SILVESTRI, Presidente

Alessandro CRISCUOLO, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 4 giugno 2014.