Sentenza n. 45 del 2014

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SENTENZA N. 45

ANNO 2014

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-           Gaetano                       SILVESTRI                                     Presidente

-           Luigi                            MAZZELLA                                      Giudice

-           Sabino                         CASSESE                                                ”

-           Giuseppe                     TESAURO                                               ”

-           Paolo Maria                 NAPOLITANO                                       ”

-           Giuseppe                     FRIGO                                                     ”

-           Alessandro                  CRISCUOLO                                          ”

-           Paolo                           GROSSI                                                   ”

-           Giorgio                        LATTANZI                                              ”

-           Aldo                            CAROSI                                                   ”

-           Marta                           CARTABIA                                             ”

-           Sergio                          MATTARELLA                                       ”

-           Mario Rosario              MORELLI                                                ”

-           Giancarlo                     CORAGGIO                                            ”

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 89, comma 4, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), promosso dal Tribunale di Catanzaro, sezione del riesame, nel procedimento penale a carico di D.L.A. con ordinanza del 6 novembre 2012, iscritta al n. 40 del registro ordinanze 2013 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 11, prima serie speciale, dell’anno 2013.

Udito nella camera di consiglio del 15 gennaio 2014 il Giudice relatore Giuseppe Frigo.

Ritenuto in fatto

Con ordinanza depositata il 6 novembre 2012, il Tribunale di Catanzaro ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 13, primo comma, 27, secondo comma, e 32 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 89, comma 4, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), nella parte in cui prevede che le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 dello stesso articolo non si applicano quando si procede per il delitto di cui all’art. 74 del medesimo decreto (associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope).

Il giudice a quo riferisce, in punto di fatto, che con ordinanza del 14 dicembre 2009 il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Catanzaro aveva sottoposto a custodia cautelare in carcere una persona gravemente indiziata, tra l’altro, del delitto previsto dal citato art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990.

Dichiarato colpevole di tale reato dal Giudice dell’udienza preliminare del medesimo Tribunale, l’imputato aveva chiesto a quest’ultimo che la misura cautelare in corso fosse sostituita, ai sensi dell’art. 89, comma 2, del d.P.R. n. 309 del 1990, con quella degli arresti domiciliari presso una comunità terapeutica per tossicodipendenti.

Pronunciando sull’appello proposto dall’interessato contro il provvedimento di rigetto dell’istanza, il Tribunale di Catanzaro, sezione per il riesame, l’aveva dichiarato inammissibile con ordinanza del 1° settembre 2011, rilevando che, in forza del comma 4 dell’art. 89 del d.P.R. n. 309 del 1990, le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 del medesimo articolo non si applicano quando si procede per uno dei delitti previsti dall’art. 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), tra i quali è compreso quello di associazione finalizzata al traffico di stupefacenti: con la conseguenza che, nel caso di specie, l’operatività della disciplina invocata dall’appellante rimaneva «preclusa a priori».

A seguito di ricorso dell’interessato, la Corte di cassazione aveva annullato con rinvio la decisione, disponendo la trasmissione degli atti al Tribunale di Catanzaro per un nuovo esame dell’appello alla luce dell’intervenuta sentenza della Corte costituzionale n. 231 del 2011.

Tutto ciò premesso, il Tribunale rimettente – reinvestito del procedimento quale giudice del rinvio – ritiene di dover sollevare d’ufficio questione di legittimità costituzionale dell’art. 89, comma 4, del d.P.R. n. 309 del 1990, nella parte in cui rende inapplicabile la speciale disciplina dettata dai commi 1 e 2 dello stesso articolo, in tema di «provvedimenti restrittivi nei confronti delle persone tossicodipendenti o alcooldipendenti che abbiano in corso programmi terapeutici», allorché si proceda per il delitto dianzi indicato.

Quanto alla rilevanza della questione, il giudice a quo osserva che il ricorrente ha documentato la sussistenza dei presupposti richiesti dal comma 2 del citato art. 89 per la concessione degli arresti domiciliari presso una comunità terapeutica per tossicodipendenti. Non ricorrendo esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, la relativa istanza andrebbe dunque accolta, se a ciò non ostasse la preclusione censurata.

La decisione che il Tribunale rimettente è chiamato ad adottare, concernendo un appello de libertate, rimarrebbe, d’altro canto, soggetta al principio «tantum devolutum quantum appellatum». Tale circostanza impedirebbe al giudice a quo di sostituire la misura carceraria con gli arresti domiciliari ai sensi dell’art. 299, comma 2, cod. proc. pen., sulla base della valutazione di una eventuale attenuazione delle esigenze cautelari, trattandosi di profilo non investito dai motivi di impugnazione.

Quanto, poi, alla non manifesta infondatezza della questione, il giudice a quo rileva come nel sistema delle misure cautelari personali siano rinvenibili plurimi «correttivi» alla disciplina generale circa la scelta della misura da applicare, allorché la persona interessata versi in particolari condizioni. A norma dei commi 4 e seguenti dell’art. 275 cod. proc. pen., sarebbero infatti richieste esigenze cautelari di «eccezionale rilevanza» per disporre la custodia in carcere nei confronti di una donna incinta o che allatta la propria prole, di un soggetto ultrasettantenne o di una persona che versa in condizioni di salute particolarmente gravi, le quali non consentano le cure necessarie in stato di detenzione (il rimettente evoca, peraltro, con ciò, una versione non più vigente dell’art. 275, comma 4, cod. proc. pen. e, in particolare, quella anteriore alla sostituzione disposta dalla legge 8 agosto 1995, n. 332, recante «Modifiche al codice di procedura penale in tema di semplificazione di procedimenti, di misure cautelari e di diritto di difesa»). L’art. 286 del medesimo codice prevede, inoltre, la custodia in un luogo di cura, anziché in carcere, nell’ipotesi di infermità totale o parziale di mente; mentre il successivo art. 299, comma 4-ter, «“chiude” questo assetto sul piano delle indagini medico-legali finalizzate alla verifica della compatibilità tra le condizioni della persona e la detenzione carceraria».

La comune ragion d’essere di siffatte previsioni risiederebbe nella tutela del diritto alla salute dell’imputato rispetto a pregiudizi – potenziali o in atto – derivanti dalla custodia carceraria, la cui finalità cautelare risulta pertanto cedevole di fronte a situazioni soggettive peculiari, reputate dal legislatore prevalenti, a prescindere dal titolo del reato per cui si procede.

Raffrontata con tale disciplina, la norma censurata si rivelerebbe lesiva dell’art. 32 Cost., in quanto accorderebbe al diritto alla salute dei tossicodipendenti (e degli alcooldipendenti) una protezione irragionevolmente più ridotta rispetto a quella prefigurata per i casi dianzi ricordati.

Essa violerebbe, altresì, l’art. 3 Cost., sotto il profilo della ingiustificata discriminazione tra i tossicodipendenti imputati del delitto di cui all’art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990 e i tossicodipendenti imputati di reati diversi, per i quali trova piena applicazione il regime delineato dai commi 1 e 2 del citato art. 89 ed è, dunque, privilegiata la misura cautelare non carceraria, salvo che ricorrano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza.

Un ulteriore profilo di illegittimità costituzionale della norma denunciata, in riferimento agli artt. 3 e 27, secondo comma, Cost., emergerebbe dal raffronto con le disposizioni che, regolando gli aspetti esecutivi della pena inflitta al tossicodipendente, accordano al medesimo più ampie possibilità di accesso a programmi di recupero, prevedendo in particolare, a tal fine, la sospensione dell’esecuzione e l’affidamento in prova al servizio sociale (artt. 90 e 94 del d.P.R. n. 309 del 1990): possibilità delle quali non fruisce, per converso, il tossicodipendente sottoposto a misura cautelare per il delitto di associazione finalizzata al traffico di stupefacenti.

Il rimettente rileva, per altro verso, come il delitto in parola rappresenti una figura speciale del reato di associazione per delinquere, dal quale si differenzia solo per la specificità del programma criminoso, costituito dalla commissione di più delitti tra quelli previsti dall’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990. Si tratta, perciò, di una «fattispecie aperta», idonea ad abbracciare fenomeni criminali fortemente eterogenei tra loro, che spaziano dal grande sodalizio internazionale con struttura imprenditoriale fino al piccolo gruppo attivo in ambito puramente locale e con organizzazione del tutto rudimentale.

Risulterebbero, di conseguenza, evidenti le differenze strutturali tra il delitto in esame e i «reati di mafia», in rapporto ai quali – secondo il giudice a quo – la Corte costituzionale avrebbe dichiarato manifestamente infondata, con ordinanza n. 339 del 1995, una precedente questione di legittimità costituzionale dello stesso art. 89, comma 4, del d.P.R. n. 309 del 1990.

Il delitto di associazione finalizzata al traffico illecito di stupefacenti, infatti, non è necessariamente connotato da un forte radicamento nel territorio dell’associazione, da fitti collegamenti personali e da una particolare forza intimidatrice: caratteristiche, queste, che rendono possibile enucleare, in rapporto ai reati di mafia, una regola di esperienza in base alla quale soltanto la custodia carceraria è idonea a preservare le condizioni di base della convivenza e della sicurezza collettiva, messe a rischio da simili reati.

La norma censurata non potrebbe trovare giustificazione, con riferimento al delitto che interessa, neanche nella natura dei reati-scopo dell’associazione e nella tutela particolarmente rigorosa accordata dal legislatore al bene della salute pubblica nei confronti del fenomeno del traffico illecito di stupefacenti. Come già rimarcato, infatti, da plurime pronunce della Corte costituzionale – tra cui le sentenze n. 231 del 2011 e n. 265 del 2010 – la gravità astratta del reato, desunta dalla misura della pena o dalla natura dell’interesse tutelato, non può legittimare una preclusione alla verifica giudiziale del grado delle esigenze cautelari e all’individuazione della misura più idonea a fronteggiarle, rilevando solo ai fini della commisurazione della pena.

Alla luce di tali rilievi, la norma denunciata violerebbe quindi l’art. 3 Cost., oltre che per le ragioni in precedenza indicate, anche perché sottoporrebbe ad un eguale trattamento le differenti ipotesi riconducibili al paradigma criminoso considerato, senza che sussistano ragionevoli motivi «per impedire la piena individualizzazione della coercizione cautelare». In un numero tutt’altro che marginale di casi, infatti, le esigenze cautelari prospettabili in rapporto ai soggetti indiziati del delitto di cui all’art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990 potrebbero trovare idonea risposta anche in misure diverse da quella carceraria, e segnatamente nel collocamento presso una comunità terapeutica, che valga a neutralizzare il «fattore scatenante» l’attività criminosa o ad impedirne la riproposizione.

La disposizione sottoposta a scrutinio si porrebbe, altresì, in contrasto con il principio di inviolabilità della libertà personale, sancito dall’art. 13, primo comma, Cost., imponendo «il massimo sacrificio di tale bene primario all’esito di un giudizio di bilanciamento non corretto, in quanto non rispettoso del principio di ragionevolezza».

Essa violerebbe, infine, la presunzione di non colpevolezza, prevista dall’art. 27, secondo comma, Cost. affidando al regime cautelare funzioni proprie della pena, la cui applicazione presuppone un giudizio definitivo di responsabilità.

Considerato in diritto

1.– Il Tribunale di Catanzaro dubita della legittimità costituzionale dell’art. 89, comma 4, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), nella parte in cui prevede che le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 dello stesso articolo non si applicano quando si procede per il delitto di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope, di cui all’art. 74 del medesimo decreto.

Ad avviso del giudice a quo, la norma censurata si porrebbe in contrasto con l’art. 32 della Costituzione, accordando al diritto alla salute del tossicodipendente una tutela ingiustificatamente più ridotta di quella prefigurata dagli artt. 275, commi 4 e seguenti, e 286 del codice di procedura penale in rapporto ad altre situazioni, nelle quali verrebbe parimenti in rilievo l’esigenza di proteggere il diritto alla salute dell’imputato da pregiudizi, potenziali o in atto, derivanti dalla custodia cautelare in carcere.

Sarebbe violato, inoltre, l’art. 3 Cost., sotto il profilo della ingiustificata discriminazione tra i tossicodipendenti imputati del delitto di cui all’art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990 e i tossicodipendenti imputati di altri reati, rispetto ai quali trova piena applicazione il sistema delineato dai commi 1 e 2 del citato art. 89 ed è, dunque, privilegiata l’applicazione della misura degli arresti domiciliari finalizzata alla sottoposizione a un programma terapeutico di recupero, salvo che ricorrano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza.

La disposizione denunciata violerebbe, ancora, gli artt. 3 e 27, secondo comma, Cost., tenuto conto delle più ampie possibilità di accesso a programmi di recupero accordate ai tossicodipendenti dagli artt. 90 e 94 del d.P.R. n. 309 del 1990 in sede di esecuzione della pena: possibilità delle quali non fruisce, per converso, il tossicodipendente sottoposto a misura cautelare per il reato in questione.

L’art. 3 Cost. risulterebbe violato anche sotto il profilo della irragionevole equiparazione delle diverse fattispecie concrete integrative del delitto di associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, le quali, in un numero non trascurabile di casi, proporrebbero esigenze cautelari fronteggiabili anche con misure diverse da quella carceraria, e segnatamente con quella degli arresti domiciliari presso una struttura di recupero per i tossicodipendenti.

La norma sottoposta a scrutinio contrasterebbe, altresì, con l’art. 13, primo comma, Cost., imponendo senza sufficiente giustificazione il «massimo sacrificio» del bene primario della libertà personale, e, da ultimo, con l’art. 27, secondo comma, Cost., attribuendo al regime cautelare funzioni proprie della pena, la cui applicazione presuppone un giudizio definitivo di responsabilità.

2.– La questione non è fondata.

L’art. 89 del d.P.R. n. 309 del 1990 reca una speciale disciplina di favore per le persone tossicodipendenti e alcooldipendenti gravemente indiziate di reato, derogatoria rispetto ai criteri generali di scelta delle misure cautelari personali delineati dal codice di procedura penale. Si tratta di una disciplina più volte modificata dal legislatore, nel corso degli anni, in una prospettiva di ricerca del miglior contemperamento tra le due esigenze, potenzialmente in conflitto, che nel frangente vengono in rilievo: da un lato, quella di difesa sociale, sottesa in via generale alle misure cautelari e acuita dagli elevati rischi di recidiva; dall’altro, quella di disintossicazione e riabilitazione dei soggetti in questione attraverso opportuni programmi terapeutici, che richiedono, di regola, un trattamento “extramurario”.

Il dato costante alle varie versioni della norma, sul quale fa perno la protezione “privilegiata” del secondo polo, è rappresentato dall’innalzamento ai livelli più elevati («esigenze cautelari di eccezionale rilevanza») del grado di periculum libertatis necessario affinché possa essere disposta o mantenuta la custodia in carcere nei confronti del tossicodipendente o dell’alcooldipendente che abbia in corso, o intenda intraprendere, un programma terapeutico di recupero presso idonee strutture.

La disposizione vigente prevede, in particolare, che ove ricorrano tutti i presupposti “ordinari” della custodia cautelare in carcere, il giudice debba disporre, in sua vece – salvo l’evidenziato limite delle esigenze cautelari di eccezionale rilevanza – la misura extracarceraria immediatamente meno gravosa (ossia gli arresti domiciliari), quando l’indiziato si identifichi in una persona tossicodipendente o alcooldipendente che abbia in corso un programma terapeutico di recupero presso i servizi pubblici o una struttura privata autorizzata e l’interruzione del programma possa pregiudicare il recupero dell’interessato (comma 1 dell’art. 89). Parallelamente, è stabilito che, ove il tossicodipendente o l’alcooldipendente si trovi sottoposto a custodia in carcere e intenda avviare un programma di recupero, la misura in atto deve essere sostituita, su sua istanza, con gli arresti domiciliari, salvo sempre che ricorrano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza (comma 2).

Altra costante della disciplina in questione – almeno a partire dalla versione introdotta dall’art. 5 del decreto-legge 14 maggio 1993, n. 139 (Disposizioni urgenti relative al trattamento di persone detenute affette da HIV e di tossicodipendenti), convertito, con modificazioni, dalla legge 14 luglio 1993, n. 222 – è quella che dà adito all’odierno incidente di legittimità costituzionale: vale a dire, la previsione di una condizione negativa di operatività legata al titolo di reato per cui si procede. Nella evidenziata prospettiva del contemperamento tra i valori in potenziale conflitto, il legislatore ha ritenuto, infatti, di dover escludere l’applicabilità del regime cautelare di favore allorché si proceda per determinati delitti, di particolare gravità e allarme sociale: delitti che il censurato comma 4 dell’art. 89 del d.P.R. n. 309 del 1990 identifica attualmente (salva una limitata eccezione) in quelli elencati dall’art. 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà).

Rientra, in tal modo, tra le figure criminose ostative – così come vi rientrava in base alle precedenti versioni della norma – il delitto di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope, di cui all’art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990, contestato nel giudizio a quo e al quale è specificamente riferita l’odierna questione.

3.– Nell’assetto anteriore alla novella legislativa del 2009 di cui poco oltre si dirà, la soluzione normativa ora ricordata non implicava, peraltro, alcun tipo di “automatismo cautelare carcerario”. Il tossicodipendente gravemente indiziato di associazione finalizzata al narcotraffico non si vedeva, in particolare, affatto preclusa in assoluto la possibilità di fruire degli arresti domiciliari o di altra misura ancora meno gravosa, che gli consentisse di sottoporsi a un programma di recupero o di proseguirlo, se già in corso. Come reiteratamente affermato dalla Corte di cassazione, infatti, l’inapplicabilità del regime “di favore” comportava semplicemente che il giudice dovesse individuare la misura cautelare adeguata al caso concreto sulla base degli ordinari criteri stabiliti dal codice di rito (criteri ispirati pur sempre al principio del “minor sacrificio necessario” e nella cui applicazione il giudice non può evidentemente trascurare le condizioni di salute dell’interessato), senza incorrere nel limite preclusivo della custodia carceraria legato all’assenza di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza.

La situazione è mutata a seguito dell’entrata in vigore del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, il cui art. 2 – modificando l’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. – ha notevolmente ampliato il catalogo dei delitti ai quali è collegata, in via generale, una presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere (catalogo in precedenza circoscritto ai delitti di tipo mafioso), includendovi anche il reato associativo che qui interessa.

Per effetto di tale intervento normativo, il tossicodipendente gravemente indiziato del delitto di associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, escluso dal regime di favore previsto dall’art. 89, commi 1 e 2, del d.P.R. n. 309 del 1990, veniva automaticamente a ricadere nell’opposto regime “di rigore” prefigurato dal novellato art. 275, comma 3, cod. proc. pen.: regime che, in presenza delle ordinarie esigenze cautelari (oggetto peraltro di presunzione relativa, in base alla disposizione da ultimo citata), lo rendeva assoggettabile a custodia in carcere senza alcuna possibile alternativa.

4.– Il vulnus ai principi costituzionali insito in tale assetto normativo è stato, tuttavia, rimosso dalla sentenza n. 231 del 2011 di questa Corte.

Con detta sentenza, infatti, si è dichiarato costituzionalmente illegittimo, per contrasto con gli artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, Cost., il novellato art. 275, comma 3, cod. proc. pen., nella parte in cui non consentiva di applicare misure cautelari diverse da quella carceraria alla persona gravemente indiziata del delitto di associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, in presenza di elementi concreti per ritenere che le esigenze cautelari possano essere soddisfatte con misure meno afflittive.

In conseguenza di ciò – come riconosciuto anche dalla giurisprudenza di legittimità – il tossicodipendente imputato del delitto in questione è tornato a poter fruire, alla condizione dianzi indicata e, dunque, sulla base di una valutazione “individualizzata” della singola vicenda, (anche) degli arresti domiciliari finalizzati allo svolgimento di un programma di recupero.

5.– Nel formulare buona parte delle sue censure, il rimettente trascura, peraltro, il particolare ora evidenziato: circostanza che rende le censure stesse infondate per erronea ricostruzione del quadro normativo.

La notazione vale, anzitutto, per la denuncia di violazione dell’art. 3 Cost., sotto il profilo dell’asserita irragionevole equiparazione delle diverse fattispecie concrete integrative del delitto di associazione finalizzata al traffico di stupefacenti: fattispecie che – osserva il rimettente, sulla scorta della stessa sentenza n. 231 del 2011 – stante il carattere “aperto” della predetta figura delittuosa, suscettibile di abbracciare fenomeni criminosi notevolmente eterogenei fra loro, potrebbero proporre, in una significativa percentuale di casi, esigenze cautelari adeguatamente fronteggiabili con misure diverse da quella carceraria, e particolarmente con quella degli arresti domiciliari presso una comunità per il recupero dei tossicodipendenti.

La supposta omologazione, sul livello di maggior rigore, del trattamento cautelare delle fattispecie considerate non è, in realtà, affatto riscontrabile. A seguito della ricordata declaratoria di illegittimità costituzionale, infatti, il giudice può di nuovo valorizzare le caratteristiche del singolo episodio criminoso al fine di diversificare la risposta cautelare. Non vi sarà una sorta di “semi-automatismo in favor” nella concessione degli arresti domiciliari, quale quello delineato dai primi due commi dell’art. 89 del d.P.R. n. 309 del 1990, ma il giudice potrà comunque disporre, sulla base degli ordinari criteri di selezione, misure meno gravose della custodia in carcere e che agevolino la riabilitazione dell’interessato, compresa anche, e prima di tutto, quella avuta di mira dal giudice a quo.

6.– Nel medesimo vizio di prospettiva il rimettente incorre allorché denuncia la violazione del principio di inviolabilità della libertà personale (art. 13, primo comma, Cost.) e della presunzione di non colpevolezza (art. 27, secondo comma, Cost.), sempre sulla base del presupposto che, per effetto della norma censurata, il tossicodipendente gravemente indiziato del delitto in questione si trovi indefettibilmente esposto al «massimo sacrificio» del bene primario della libertà personale (ossia alla custodia carceraria): presupposto, per quanto detto, erroneo.

7.– Per il resto, il giudice a quo ripropone censure già disattese da questa Corte con l’ordinanza n. 339 del 1995: pronuncia che – contrariamente a quanto asserito dal rimettente – non si riferisce ai soli «reati di mafia», ma alla generalità delle esclusioni oggettive dal regime di favore di cui si discute, anche all’epoca comprensive del delitto di associazione finalizzata al traffico di stupefacenti.

Le considerazioni svolte nella citata ordinanza n. 339 del 1995 – alle quali il giudice a quo non offre, peraltro, alcuna replica – restano, nella sostanza, valide anche nell’attuale panorama normativo, con le precisazioni che seguono.

Insussistente si palesa, così, la denunciata violazione dell’art. 32 Cost., conseguente, in assunto, al fatto che la norma censurata accorderebbe al diritto alla salute del tossicodipendente (e dell’alcooldipendente) una tutela ingiustificatamente meno energica di quella apprestata dal codice di rito – sempre in deroga all’ordinario regime delle misure cautelari – a favore di altre categorie di soggetti, quali la donna incinta o madre di prole in tenera età, l’ultrasettantenne, la persona affetta da malattia particolarmente grave, l’infermo e il seminfermo di mente (artt. 275, commi 4 e seguenti, e 286 cod. proc. pen.): ipotesi, queste ultime, nelle quali la disciplina derogatoria opera indipendentemente dal titolo del reato per cui si procede.

Tralasciando la circostanza che, nel formulare la doglianza, il rimettente fa riferimento ad un testo dell’art. 275, comma 4, cod. proc. pen. non più in vigore, e prescindendo, altresì, dall’opinabilità dell’assunto per cui alla base delle evocate discipline speciali vi sarebbero sempre e soltanto esigenze di tutela della salute, è dirimente la considerazione che il giudice a quo pone a raffronto situazioni palesemente eterogenee e tali, quindi, da rendere del tutto legittimo un trattamento differenziato (i singoli regimi derogatori richiamati sono, del resto, anche significativamente diversi tra loro).

Il nucleo incomprimibile del diritto alla salute del tossicodipendente resta in ogni caso salvaguardato dalla stessa regola di cui all’art. 275, comma 4-bis, cod. proc. pen. – inclusa dal rimettente fra i tertia comparationis, ma certamente applicabile anche al soggetto in questione – in forza della quale la custodia in carcere non può essere disposta o mantenuta quando le condizioni di salute dell’interessato, per la loro gravità, risultino incompatibili con lo stato di detenzione e comunque tali da non consentire adeguate cure in ambito carcerario.

8.– Parimenti non ravvisabile è l’ipotizzata violazione dell’art. 3 Cost., sotto il profilo della ingiustificata discriminazione tra i tossicodipendenti gravemente indiziati del delitto di cui all’art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990 e quelli indiziati di altro delitto, che possono invece fruire della speciale disciplina di cui discute.

Anche in questo caso, infatti, il rimettente pone a confronto fattispecie disomogenee.

Come affermato da questa Corte nelle molteplici decisioni rese sul nuovo testo dell’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. – a cominciare dalla sentenza n. 265 del 2010 e per comprendere anche la sentenza n. 231 del 2011, con specifico riferimento alla figura criminosa che qui interessa – il legislatore non può, senza violare gli artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, Cost., collegare al titolo di reato per cui si procede, facendo leva semplicemente sulla sua gravità astratta e sull’allarme sociale da esso destato, una presunzione assoluta di adeguatezza esclusiva della custodia cautelare in carcere. Può legittimamente collegarvi, invece, una presunzione relativa – basata sull’apprezzamento dell’ordinaria configurabilità di esigenze cautelari particolarmente intense, ma comunque superabile da elementi probatori di segno contrario – la quale lascia sufficiente spazio all’apprezzamento giudiziale delle singole fattispecie e all’applicazione del principio del “minor sacrificio necessario”.

Allo stesso modo, e a maggior ragione, il legislatore può dunque, nella sua discrezionalità e salvo il limite della ragionevolezza, escludere da un regime cautelare di favore, quale quello in esame, i soggetti indagati o imputati per determinati reati, avuto riguardo alla loro gravità e alla pericolosità soggettiva da essi solitamente desumibile, a condizione che ciò non comporti l’assoggettamento dell’interessato ad un indiscriminato “automatismo sfavorevole”, che precluda ogni apprezzamento delle singole vicende concrete. Situazione, questa, non più riscontrabile, per quanto detto, nell’ipotesi in esame, dopo la sentenza n. 231 del 2011 di questa Corte.

9.– Priva di fondamento si rivela, da ultimo, anche la censura di violazione degli artt. 3 e 27 Cost., avuto riguardo alle ampie possibilità di accesso accordate, in sede di esecuzione della pena detentiva, ai tossicodipendenti condannati in via definitiva, tramite gli istituti della sospensione dell’esecuzione e dell’affidamento in prova al servizio sociale (artt. 90 e 94 del d.P.R. n. 309 del 1990).

A prescindere da ogni altra possibile obiezione – e, in particolare, dal rilievo che i suddetti istituti sono, a loro volta, soggetti ad un distinto insieme di condizioni e limiti di operatività, privo di corrispondenza in rapporto alle misure cautelari – è assorbente la considerazione che il rimettente prospetta, di nuovo, un raffronto tra situazioni eterogenee e, come tali, non utilmente comparabili, «essendo manifestamente diversa la condizione personale implicata (di imputato in un caso, di condannato nell’altro) e la funzione (cautelare, ovvero emendativa e retributiva, rispettivamente) dei corrispondenti istituti evocati» (ordinanza n. 339 del 1995).

Tutto il sistema dei benefici penitenziari e delle misure alternative alla detenzione si applica, del resto, al solo condannato in via definitiva, e non anche all’imputato.

10.– La questione deve essere dichiarata, pertanto, non fondata in rapporto a tutti i parametri invocati.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 89, comma 4, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 13, primo comma, 27, secondo comma, e 32 della Costituzione, dal Tribunale di Catanzaro con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 marzo 2014.

F.to:

Gaetano SILVESTRI, Presidente

Giuseppe FRIGO, Redattore

Massimiliano BONI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 13 marzo 2014.