Sentenza n. 20 del 2013

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SENTENZA N. 20

ANNO 2013

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco                     GALLO                                                         Presidente

- Luigi                       MAZZELLA                                                   Giudice

- Gaetano                  SILVESTRI                                                          ”

- Sabino                     CASSESE                                                             ”

- Giuseppe                 TESAURO                                                            ”

- Paolo Maria             NAPOLITANO                                                    ”

- Giuseppe                 FRIGO                                                                  ”

- Alessandro              CRISCUOLO                                                       ”

- Paolo                       GROSSI                                                                ”

- Giorgio                    LATTANZI                                                           ”

- Aldo                        CAROSI                                                                ”

- Marta                      CARTABIA                                                          ”

- Sergio                      MATTARELLA                                                    ”

- Mario Rosario         MORELLI                                                             ”

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 35 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici) convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, promosso dalla Regione Veneto con ricorso notificato il 21 febbraio 2012, depositato in cancelleria il 23 febbraio 2012 ed iscritto al n. 29 del registro ricorsi 2012.

Visto l’atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 7 novembre 2012 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo;

uditi gli avvocati Luca Antonini, Bruno Barel, Andrea Manzi e Daniela Palumbo per la Regione Veneto.

Ritenuto in fatto

1.— Con ricorso notificato il 21 febbraio 2012 e depositato il successivo 23 febbraio (r.r. n. 29 del 2012), la Regione Veneto ha promosso questione di legittimità costituzionale in via principale, tra l’altro, dell’articolo 35 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214.

La ricorrente deduce la violazione degli articoli 3, 97, primo comma, 113, primo comma, 117, sesto comma e 118, primo e secondo comma, della Costituzione, nonché della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione) e del principio di leale collaborazione.

La Regione rileva che il citato art. 35 conferisce all’Autorità garante della concorrenza e del mercato il potere di intervenire con un parere motivato, entro sessanta giorni, su tutti gli atti amministrativi generali, i regolamenti e i provvedimenti di qualsiasi amministrazione pubblica, statale, regionale o locale, che ritenga emanati in violazione delle norme a tutela della concorrenza e del mercato. La disposizione impugnata, prevede, poi, che, se la pubblica amministrazione non si conforma entro i sessanta giorni successivi, l’Autorità può presentare, per il tramite dell’Avvocatura dello Stato, ricorso giurisdizionale entro i successivi trenta giorni.

In questo modo – sostiene la ricorrente – si finirebbe col sottoporre gli atti regolamentari ed amministrativi regionali ad un nuovo e generalizzato controllo di legittimità, su iniziativa di un’autorità statale, per certi aspetti analogo al controllo che era previsto dal previgente art. 125, primo comma, Cost., norma poi abrogata con la legge costituzionale n. 3 del 2001.

Per tale ragione la disposizione denunciata eccederebbe i limiti ricavabili dalla sentenza di questa Corte n. 64 del 2005, secondo cui «È vero che, con il nuovo titolo V della Costituzione, i controlli di legittimità sugli atti amministrativi degli enti locali debbono ritenersi espunti dal nostro ordinamento, a seguito dell’abrogazione del primo comma dell’art. 125 e dell’art. 130 della Costituzione, ma questo non esclude la persistente legittimità, da un lato, dei cosiddetti controlli interni (cfr. art. 147 del d.lgs. n. 267 del 18 agosto 2000) e, dall’altro, dell’attività di controllo esercitata dalla Corte dei conti, legittimità già riconosciuta da una molteplicità di decisioni di codesta Corte sulla base di norme costituzionali diverse da quelle abrogate (cfr. sentenze n. 470 del 1997; 335 e 29 del 1995)».

2.— Sotto altro profilo, con l’attribuzione all’Autorità di una generale legittimazione processuale attiva ad impugnare gli atti amministrativi generali, i regolamenti e i provvedimenti di qualsiasi pubblica amministrazione che, a suo parere, violino le norme a tutela della concorrenza e del mercato, la disposizione, modificando la legge 10 ottobre 1990, n. 287 (Norme per la tutela della concorrenza e del mercato), verrebbe a configurare, come è già stato affermato da una parte della dottrina, una surrettizia introduzione della figura del pubblico ministero nel processo amministrativo, contrastante con la sua natura strutturale di giurisdizione soggettiva.

Sotto questo profilo, il citato art. 35 violerebbe l’art. 113, primo comma, Cost., in base al quale la condizione per agire davanti al giudice amministrativo è data dalla titolarità di una posizione giuridica sostanziale e dalla lesione della stessa ad opera del potere amministrativo.

La ricorrente esclude, al riguardo, che l’Autorità garante della concorrenza e del mercato possa godere di una legittimazione straordinaria a tutela dell’interesse collettivo degli imprenditori o dei consumatori.

3.— Non mancherebbero, poi, nella disposizione «vari elementi sintomatici di irragionevolezza e di lesione del principio di certezza del diritto». In particolare, non sarebbe prevista una disciplina del termine di decorrenza dei sessanta giorni entro i quali l’Autorità può formulare il proprio parere motivato, prodromico alla eventuale proposizione del ricorso giurisdizionale entro i successivi trenta giorni. Tale incertezza in ordine all’indicato dies a quo si rifletterebbe sulla stabilità degli atti regolamentari e provvedimentali della Regione, menomando la potestà regolamentare e amministrativa costituzionalmente garantita a detto ente, con ulteriore lesione – per difetto di ragionevolezza, censurabile anche ai sensi dell’art. 3 Cost. e ai sensi dell’art. 97 Cost., che prevede il principio di buon andamento della pubblica amministrazione – della sfera di autonomia regionale costituzionalmente garantita.

Inoltre, la ricorrente pone in evidenza come la legittimazione ad agire dell’Autorità non risulti coordinata con la legittimazione propria delle parti private, sicché il ricorso della prima potrebbe risolversi in un intervento di supplenza o surrogazione in favore di parti private decadute dal termine per proporre l’impugnativa ordinaria.

Infine, sarebbe palese l’incongruenza che si determinerebbe quando l’Autorità, tenuta ad avvalersi del patrocinio dell’Avvocatura generale dello Stato, impugni atti di un’amministrazione statale tenuta anch’essa ad avvalersi della medesima Avvocatura generale.

4.— Con memoria depositata in data 8 maggio 2012 si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni di legittimità costituzionale proposte con il suddetto ricorso siano dichiarate non fondate.

In particolare, la difesa erariale contesta le argomentazioni della ricorrente rilevando come la norma impugnata abbia la finalità di assicurare il rispetto delle regole della “concorrenza”, materia rientrante nella competenza legislativa esclusiva statale.

Pertanto, ad avviso del Presidente del Consiglio dei ministri, il legislatore statale può legittimamente prevedere che l’Autorità garante della concorrenza e del mercato censuri gli atti della pubblica amministrazione emessi in violazione delle regole a tutela della concorrenza, concedendo anche alla stessa Autorità la legittimazione ad agire in giudizio. Sotto questo profilo, la norma impugnata rientrerebbe nella materia dell’ordinamento civile. Inoltre, la difesa erariale sottolinea come non si comprenda in qual modo la norma censurata rappresenti una violazione delle prerogative regionali.

5.— In data 16 ottobre 2012 la Regione Veneto ha depositato una memoria illustrativa, con la quale, in riferimento all’impugnato art. 35, si riporta alle argomentazioni esposte nel ricorso, insistendo per l’accoglimento della questione.

Considerato in diritto

1.— La Regione Veneto, con il ricorso indicato in epigrafe, ha promosso, tra l’altro, questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 35 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, per contrasto con gli articoli 3, 97, primo comma, 113, primo comma, 117, sesto comma, e 118, primo e secondo comma, della Costituzione, nonché con la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione) e con il principio di leale collaborazione.

Riservata a separate pronunce la decisione delle restanti questioni di legittimità costituzionale sollevate con il menzionato ricorso, vengono qui all’esame della Corte le censure mosse al citato art. 35.

2.— Le questioni sono inammissibili.

2.1.— La norma censurata – aggiungendo alla legge 10 ottobre 1990, n. 287 (Norme per la tutela della concorrenza e del mercato), l’articolo 21-bis ( la cui rubrica è «Poteri dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato sugli atti amministrativi che determinano distorsioni della concorrenza») – così dispone: «1. L’Autorità garante della concorrenza e del mercato è legittimata ad agire in giudizio contro gli atti amministrativi generali, i regolamenti ed i provvedimenti di qualsiasi amministrazione pubblica che violino le norme a tutela della concorrenza e del mercato. 2. L’Autorità garante, se ritiene che una pubblica amministrazione abbia emanato un atto in violazione delle norme a tutela della concorrenza e del mercato, emette, entro sessanta giorni, un parere motivato, nel quale indica gli specifici profili delle violazioni riscontrate. Se la pubblica amministrazione non si conforma nei sessanta giorni successivi alla comunicazione del parere, l’Autorità può presentare, tramite l’Avvocatura dello Stato, il ricorso, entro i successivi trenta giorni. 3. Ai giudizi instaurati ai sensi del comma 1 si applica la disciplina di cui al Libro IV, Titolo V, del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104».

Va ancora premesso che, per costante giurisprudenza di questa Corte, alle Regioni è preclusa la possibilità di impugnare le leggi statali adducendo la violazione di un qualsiasi parametro costituzionale, in quanto ad esse è riconosciuta soltanto la possibilità di far valere eventuali violazioni di competenze alle Regioni medesime costituzionalmente attribuite.

Tali enti possono evocare parametri di legittimità diversi da quelli che sovraintendono al riparto di attribuzioni solo quando «la violazione denunciata sia potenzialmente idonea a determinare un vulnus alle attribuzioni costituzionali delle regioni e queste abbiano sufficientemente motivato in ordine ai profili di una “possibile ridondanza” della predetta violazione sul riparto di competenze» (ex plurimis: sentenze n. 199, n. 151 e n. 80 del 2012; n. 128 e n. 33 del 2011; n. 325 e n. 278 del 2010).

3.— Orbene, quanto alla prima censura, secondo cui la disposizione denunziata finirebbe «col sottoporre gli atti regolamentari ed amministrativi regionali ad un nuovo e generalizzato controllo di legittimità, su iniziativa di un’autorità statale», così travalicando i limiti desumibili dalla sentenza di questa Corte n. 64 del 2005 e violando gli artt. 117, sesto comma, e 118, primo e secondo comma, Cost., si deve osservare che è inesatto parlare di «nuovo e generalizzato controllo di legittimità», là dove la norma – integrando i poteri conoscitivi e consultivi già attribuiti all’Autorità garante dagli artt. 21 e seguenti della legge n. 287 del 1990 – prevede un potere di iniziativa finalizzato a contribuire ad una più completa tutela della concorrenza e del corretto funzionamento del mercato (art. 21, comma 1, della legge citata) e, comunque, certamente non generalizzato, perché operante soltanto in ordine agli atti amministrativi «che violino le norme a tutela della concorrenza e del mercato» (norma censurata, comma 1). Esso si esterna in una prima fase a carattere consultivo (parere motivato nel quale sono indicati gli specifici profili delle violazioni riscontrate), e in una seconda (eventuale) fase di impugnativa in sede giurisdizionale, qualora la pubblica amministrazione non si conformi al parere stesso.

La detta disposizione, dunque, ha un perimetro ben individuato (quello, per l’appunto, della concorrenza), compreso in una materia appartenente alla competenza legislativa esclusiva dello Stato (art. 117, secondo comma, lettera e, Cost.), concernente anche la potestà regolamentare, ai sensi dell’art. 117, sesto comma, primo periodo, Cost.

La ricorrente non tiene conto di tali aspetti, non indica gli atti amministrativi regionali sottoposti al (preteso) «nuovo e generalizzato controllo di legittimità», non chiarisce quale sarebbe la materia di competenza concorrente o residuale, cui dovrebbe essere correlata la potestà regolamentare e legislativa regionale che si assume lesa dalla norma censurata. Inoltre adduce una asserita violazione della legge costituzionale n. 3 del 2001, senza alcuna ulteriore specificazione.

Tali carenze, da un lato, rendono la censura stessa generica (ex plurimis: sentenze n. 199, n. 115 e n. 99 del 2012; n. 185 e n. 129 del 2011; n. 325 del 2010) e, dall’altro, quanto ai parametri estranei al Titolo V della Parte seconda della Costituzione, si risolvono in un difetto di motivazione sulla «possibile ridondanza» delle denunciate violazioni sul riparto di competenze legislative, sicché le violazioni stesse non risultano potenzialmente idonee a determinare una lesione delle attribuzioni costituzionali della Regione (ex plurimis: sentenze n. 80 del 2012, n. 128 del 2011).

Alla stregua di tali rilievi la doglianza ora esaminata deve essere dichiarata inammissibile.

4.— Quanto alla censura mossa in riferimento all’art. 113, primo comma, Cost., si deve ribadire la consolidata giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale la questione di legittimità costituzionale è inammissibile allorché sia omesso qualsiasi accenno alla stessa nella delibera di impugnazione dell’organo politico, dovendo, in questo caso, «escludersi la volontà del ricorrente di promuoverla» (ex pluribus: sentenze n. 227 del 2011, n. 365 e n. 275 del 2007). Nel caso di specie, l’esame della delibera della Giunta regionale n. 150 del 31 gennaio 2012 (che autorizzò l’impugnazione) consente di rilevare che, nella medesima, non si trova alcun riferimento al parametro costituzionale dettato dall’art. 113, primo comma, Cost.

Peraltro, sotto diverso profilo, la questione promossa con riferimento al citato art. 113, primo comma, Cost. è, comunque, inammissibile, perché – a parte il non pertinente richiamo alla figura del pubblico ministero, che sarebbe stato introdotto in modo surrettizio nel processo amministrativo – si tratta di questione non attinente al riparto delle competenze legislative tra Stato e Regione e non incidente sulle attribuzioni costituzionali di questa (nessun argomento al riguardo risulta addotto nel ricorso), sicché la ricorrente non è legittimata a proporla.

5.— Ad avviso della ricorrente, «non mancano, poi, nella disposizione, vari elementi sintomatici di irragionevolezza e di lesione del principio di certezza del diritto». In particolare, farebbe difetto una disciplina in ordine alla decorrenza del termine di sessanta giorni entro i quali l’Autorità può formulare il proprio parere motivato, prodromico all’eventuale proposizione del ricorso giurisdizionale entro i successivi trenta giorni. Tale incertezza sul menzionato dies a quo si rifletterebbe sulla stabilità degli atti regolamentari e provvedimentali regionali, «con ulteriore lesione – per difetto di ragionevolezza, censurabile anche ai sensi dell’art. 3 della Costituzione e ai sensi dell’art. 97 sul buon andamento della pubblica amministrazione – della sfera di autonomia regionale costituzionalmente garantita».

Inoltre, la legittimazione ad agire dell’Autorità non risulterebbe coordinata con la legittimazione propria delle parti private, sicché il ricorso della prima potrebbe risolversi in un intervento di supplenza o surrogazione in favore di parti private decadute dal termine per proporre l’impugnativa ordinaria. Palese, poi, sarebbe l’incongruenza che si determinerebbe quando l’Autorità, tenuta ad avvalersi del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato, impugni atti di un’amministrazione statale tenuta a sua volta ad avvalersi della detta Avvocatura.

Anche tali censure sono inammissibili.

Esse riguardano, per la maggior parte, questioni di diritto processuale, che non hanno alcuna attinenza col riparto delle competenze legislative tra Stato e Regioni e sono, invece, demandate alla cognizione dei giudici comuni che le decideranno secondo le norme dei rispettivi ordinamenti. L’unico aspetto, che potrebbe assumere qui rilievo, concerne il presunto riflesso sulla stabilità degli atti regionali, conseguente alla (asserita) incertezza della decorrenza dei termini disciplinati dalla norma de qua. Tuttavia, si tratta di doglianza avente carattere meramente eventuale, che non può trovare ingresso in questa sede. Peraltro, i parametri evocati esulano dalle norme comprese nel Titolo V della Parte seconda della Costituzione e non si rivelano potenzialmente idonei a determinare una lesione delle attribuzioni costituzionali della Regione.

6.— Infine, quanto alla dedotta violazione del principio di leale collaborazione, va rilevato che esso non può trovare applicazione con riferimento all’attività legislativa; del resto nessuna adeguata motivazione risulta addotta sul punto.

7.— In definitiva, il ricorso deve essere dichiarato, nel suo complesso, inammissibile.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riservata a separate pronunce la decisione sull’impugnazione delle altre disposizioni contenute nel decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici) convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214;

dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 35 del d.l. n. 201 del 2011 convertito, con modificazioni, dalla legge n. 214 del 2011, promosse in via principale dalla Regione Veneto, in riferimento agli articoli 3, 97, primo comma, 113, primo comma, 117, sesto comma e 118, primo e secondo comma della Costituzione, alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), nonché al principio di leale collaborazione, con il ricorso indicato in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 febbraio 2013.

F.to:

Franco GALLO, Presidente

Alessandro CRISCUOLO, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 14 febbraio 2013.